Recensioni
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Fine della fantasia o fantasioso inizio?
Final
Fantasy: the spirits within è
stato accolto come un film a suo modo storico, è infatti la prima volta
che viene prodotta una pellicola con protagonisti “umani” ricorrendo
esclusivamente alla computer grafica. L’idea di questo passo decisivo
(che decisivo forse non è…) è venuta a Mr. Hironobu Sakaguchi,
creatore della saga videoludica Final Fantasy (giunta ormai al decimo
capitolo), il quale ha deciso di trasportare l’atmosfera e l’estetica
delle sue produzioni interattive nel mondo della celluloide. Operazione
ambiziosa, certo, costosa, non c’è dubbio, ma altrettanto fallimentare,
più o meno da qualunque punto di vista la si voglia osservare e
giudicare. Cominciamo dalla storia: malriuscita macedonia di science
fiction vagamente new age, ambientata nel solito mondo post-qualcosa (qui
il “qualcosa” è l’impatto con un meteorite alieno) dove i soliti
pochi sopravvissuti tentano di salvare il salvabile. La delusione per
tutti è assicurata: i fans del videogioco troveranno non solo debolissimi
riferimenti alle complicate trame che sono soliti vivere (e amare) joypad
alla mano, ma nondimeno si accorgeranno che un tipo di narrazione
perfettamente funzionale alla progressione di un gioco del quale si è
protagonisti diventa indigeribile, una volta tolto l’elemento
interattività; i “generici” appassionati di fantascienza, dal canto
loro, faranno bene a lamentarsi della assoluta mancanza di originalità
del prodotto, dell’ormai stanca ripetizione iconografica-visiva delle
arcinote atmosfere bladerunneriane, dell’incedere pachidermico di una
narrazione per nulla fluida e lineare, di una poco nutrita schiera di
personaggi da fiera dello stereotipo (lo scienziato saggio, il militare
ottuso ecc ecc), di dialoghi al limite del fantaridicolo involontario.
Davvero pessimo, infatti, è stato il lavoro svolto dagli sceneggiatori,
che non sono riusciti né a dare un minimo di verve al debole e risaputo
spunto iniziale, né a infondere una qualsivoglia forma di vita ad
asettici personaggi col peccato tecnic-originale della freddezza
digitalizzata. Già, perché è proprio la “tecnica” l’elemento
fondante e caratterizzante di Final Fantasy, tecnica che merita di essere affrontata da due punti
di vista distinti ma non distanti: uno squisitamente… ”tecnico”,
l’altro probabilmente “etico”. Dal pdv tecnico-tecnico (mi si
perdoni la ripetizione tautologica) non c’è da lamentarsi, ma neanche
da gioire incondizionatamente; fondali, astronavi, elementi hi-tech e
creature (i fantomatici “phantoms”) sono ottimi ma nulla aggiungono a
quanto deja vu in anni di
perfezionamento della computer grafica e della sua
applicazione/contaminazione cinematografica. E’ invece la vera “novità”,
l’elemento umano-non umano, a destare qualche dubbio… certo,
l’utilizzo del motion capture conferisce (appena) sufficiente realismo e
fluidità ai movimenti dei personaggi, ma l’impatto emozionale dei
volti, la gamma di espressioni disponibili, la capacità di modulare e
trasmettere stati d’animo da parte di Aki e soci, sembrano ancora ad uno
stadio evolutivo piuttosto “primitivo”, se si considera il
fotorealismo assoluto l’obiettivo da raggiungere e il drastico
ridimensionamento di (f)attori umani il destino del “cinema del
futuro”. Se. Perché se è davvero questa la (volontaria) direzione del
primo passo di Sakaguchi, non solo il passo è incerto, ma l’etica
stessa del passo è opinabile: non è riduttivo e mortificante utilizzare
tecniche ultramoderne e costosissime per raggiungere un risultato (il
realismo “umano” sullo schermo) che abbiamo già fin dalla nascita del
cinema? Ha davvero senso (e se sì quale?) l’avvicinamento asintotico
alla perfetta produzione (digitale) umanoide quando la ri-produzione (fotocinematografica)
umana è già così semplice, convincente, consolidata, perfezionata? Se
è vero come è vero che stiamo passando da “l’opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, per dirla col grande
Benjamin, all’opera d’arte nell’epoca della sua producibilità
tecnologica, beh, allora Final
Fantasy rappresenta forse un paradossale passo indietro nella
progressiva emancipazione creativa concessa dalla libera generazione
digitale-computerizzata delle immagini. Se. Se e Forse. Perché forse
conviene concedere a Sakaguchi il beneficio del dubbio, forse lui non
voleva che i suoi personaggi virtuali apparissero come perfetti simulacri
di personaggi reali ma li voleva così, orgogliosamente falsi, così
lontani eppure così vicini alla carne, alle ossa e al sangue. Allora Aki,
il Dr. Sid, Hein non sarebbero che gli antenati di un cinema “altro”
che ancora non c’è, protoprotagonisti di un mondo filmico a venire
parallelo, alternativo ma non sostitutivo di quello “tradizionale”…
un primo balbettio verso il grande boh. Certo è che se il buon giorno si
vede dal mattino, il mattino di Final
Fantasy minaccia temporali…
Gianluca
Pelleschi
Hironobu Sakaguchi regista di Final
Fantasy afferma: «se rappresentare gli oggetti inanimati è relativamente
facile, è difficilissimo simulare il movimento, i capelli ed il vestiario
degli esseri umani, anche perché siamo particolarmente critici nei
confronti di ciò che osserviamo tutti i giorni». Ma caro Sakaguchi, non
si deve compiere un particolare sforzo cognitivo o essere particolarmente
critici per affermare che sia naturalmente sia fisicamente il nostro
occhio si andrà a soffermare più sugli scarti naturale-artificiale,
sulle incongruenze antropomorfiche, sulla sfasata motricità dei
personaggi che sugli “enormi” pregi dell’animazione d’inizio
secolo. E per questo motivo credo che non solo istintivamente ma anche
professionalmente ci si debba concentrare sui difetti piuottosto che sui
pregiucoli consolatori - ma da millionari - di un film per nulla film.
Dunque, perché non soffermarci sui capelli della protagonista Aki, una
parrucca che sfida le naturali ingerenze gravitazionali e ad ogni cipiglio
si esprime in una ondivaga risacca? Perché non rammentare le robotiche e
maldestre movenze dei “sedicenti” attori? Come fare a smemorizzare le
immagini dei loro sguardi persi nel vuoto di una cecità involontaria?
Perché non delineare l’intera gamma espressiva degli interpreti (?)
riassumendola nella neutralità della kulesoviana foto
di Ivan Mozzuchin? E il buffo-nesco protagonista reduce da un
sinistro tra l’attore Ben Afflek ed il cantante Adriano Pappalardo? Che
dire? Insomma, una miniera di imperfezioni. Sono proprio quest’ultime a
saltare all’occhio al giovane e post-smaliziato spettatore del terzo
millennio. Non certo, o non solamente la dignitosa rappresentazione del
Dr. Sid o qualche belvedere apocalittico. Sono le imperfezioni che fanno
la differenza e rendono Final Fantasy una sorta di parodia
dell’est-etica umanoide. Quando poi l’intero progetto è suffragato da
una sceneggiatura di demenza inaudita e da secondi-terzi e quarti fini
poco nobili, la co(i)nfezione non può che crollare sotto la sua febbrile
carcassa. E’ certamente legittimo e costruttivo polarizzare la nostra
attenzione su quelli che sono i cacumi e paradossalmente i limiti del
digitale e del motion capture.
Danaro, tempo e set costruito appositamente per raggiungere cosa? La
precisione antropomorfica (anche se fosse a chi/cosa servirebbe?) o la
perfetta tempesta promozionale? Tuttalpiù un progetto del genere, sempre
accompagnato però da una scrittura dignitosa, avrebbe diritto
d’esistere se la sua fattura acquistasse concretezza e perdesse, per così
dire, quell’angosciante e artificiosa aura di digito umanifero.
Solamente se un giorno, il Ben Afflek di turno, si ritirasse alla sola
mondanità e affrancasse il set a favore del suo per(ef)fetto
alter ego digitale. Perché non contemplare un cinema del genere se
si eviterebbero le leziosaggini da starina hollywoodiana e i lauti
compensi che ne derivano? Si accettano scommesse: è un attore in carne ed
ossa o in sintesi numerica? Ma (s)fortunatamente siamo ancora lontani dal
“superomismo digitale” e altrettanto lontani da una sua conveniente
attuazione. Il regista Hironobu Sakaguchi insegna e il sindacato degli
attori respira.
Simone Ciaruffoli
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