FINAL FANTASY
(Final Fantasy: The Spirits Within)

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REGIA:    
Hironobu SAKAGUCHI

PRODUZIONE:   Jap/U.S.A.   -   2000   -   Fantasy

DURATA:  106'

PERSONAGGI:
Dr. Aki Ross, Grey Edwards, Ryan, Neal, Jane,
Dottor Sid, Generale Hein, Consigliere

SCENEGGIATURA:
Al Reinart - Jeff Vintar - Hironobu Sakaguchi

FOTOGRAFIA: 
Motonori Sakakibara

SCENOGRAFIA: 
Mauro Borelli

MONTAGGIO: 
Christopher S. Capp

EFFETTI VISIVI: Robin Akin - Remo Balcells - Ben Cheung

MUSICHE: 
Elliot Goldenthal

Trama

Pianeta Terra anno 2065: a seguito dell’impatto con un meteorite, la terra è stata invasa da legioni di spettrali creature (i “phantom”) che costringono i pochi umani sopravvissuti a vivere in città protette da enormi calotte di energia. Si cerca una soluzione al problema: Hein (comandante militare della confederazione planetaria delle città “schermate”) è convinto che la minaccia aliena può essere annientata con l’uso dell’enorme cannone laser “Zeus”, mentre il Dottor Sid e la Dottoressa Aki sono convinti che l’uso del cannone danneggerebbe irrimediabilmente la forza vitale della Terra stessa e propongono una “fantasyosa” alternativa…

Recensioni

 

 

 

Fine della fantasia o fantasioso inizio?

Final Fantasy: the spirits within è stato accolto come un film a suo modo storico, è infatti la prima volta che viene prodotta una pellicola con protagonisti “umani” ricorrendo esclusivamente alla computer grafica. L’idea di questo passo decisivo (che decisivo forse non è…) è venuta a Mr. Hironobu Sakaguchi, creatore della saga videoludica Final Fantasy (giunta ormai al decimo capitolo), il quale ha deciso di trasportare l’atmosfera e l’estetica delle sue produzioni interattive nel mondo della celluloide. Operazione ambiziosa, certo, costosa, non c’è dubbio, ma altrettanto fallimentare, più o meno da qualunque punto di vista la si voglia osservare e giudicare. Cominciamo dalla storia: malriuscita macedonia di science fiction vagamente new age, ambientata nel solito mondo post-qualcosa (qui il “qualcosa” è l’impatto con un meteorite alieno) dove i soliti pochi sopravvissuti tentano di salvare il salvabile. La delusione per tutti è assicurata: i fans del videogioco troveranno non solo debolissimi riferimenti alle complicate trame che sono soliti vivere (e amare) joypad alla mano, ma nondimeno si accorgeranno che un tipo di narrazione perfettamente funzionale alla progressione di un gioco del quale si è protagonisti diventa indigeribile, una volta tolto l’elemento interattività; i “generici” appassionati di fantascienza, dal canto loro, faranno bene a lamentarsi della assoluta mancanza di originalità del prodotto, dell’ormai stanca ripetizione iconografica-visiva delle arcinote atmosfere bladerunneriane, dell’incedere pachidermico di una narrazione per nulla fluida e lineare, di una poco nutrita schiera di personaggi da fiera dello stereotipo (lo scienziato saggio, il militare ottuso ecc ecc), di dialoghi al limite del fantaridicolo involontario. Davvero pessimo, infatti, è stato il lavoro svolto dagli sceneggiatori, che non sono riusciti né a dare un minimo di verve al debole e risaputo spunto iniziale, né a infondere una qualsivoglia forma di vita ad asettici personaggi col peccato tecnic-originale della freddezza digitalizzata. Già, perché è proprio la “tecnica” l’elemento fondante e caratterizzante di Final Fantasy, tecnica che merita di essere affrontata da due punti di vista distinti ma non distanti: uno squisitamente… ”tecnico”, l’altro probabilmente “etico”. Dal pdv tecnico-tecnico (mi si perdoni la ripetizione tautologica) non c’è da lamentarsi, ma neanche da gioire incondizionatamente; fondali, astronavi, elementi hi-tech e creature (i fantomatici “phantoms”) sono ottimi ma nulla aggiungono a quanto deja vu in anni di perfezionamento della computer grafica e della sua applicazione/contaminazione cinematografica. E’ invece la vera “novità”, l’elemento umano-non umano, a destare qualche dubbio… certo, l’utilizzo del motion capture conferisce (appena) sufficiente realismo e fluidità ai movimenti dei personaggi, ma l’impatto emozionale dei volti, la gamma di espressioni disponibili, la capacità di modulare e trasmettere stati d’animo da parte di Aki e soci, sembrano ancora ad uno stadio evolutivo piuttosto “primitivo”, se si considera il fotorealismo assoluto l’obiettivo da raggiungere e il drastico ridimensionamento di (f)attori umani il destino del “cinema del futuro”. Se. Perché se è davvero questa la (volontaria) direzione del primo passo di Sakaguchi, non solo il passo è incerto, ma l’etica stessa del passo è opinabile: non è riduttivo e mortificante utilizzare tecniche ultramoderne e costosissime per raggiungere un risultato (il realismo “umano” sullo schermo) che abbiamo già fin dalla nascita del cinema? Ha davvero senso (e se sì quale?) l’avvicinamento asintotico alla perfetta produzione (digitale) umanoide quando la ri-produzione (fotocinematografica) umana è già così semplice, convincente, consolidata, perfezionata? Se è vero come è vero che stiamo passando da “l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, per dirla col grande Benjamin, all’opera d’arte nell’epoca della sua producibilità tecnologica, beh, allora Final Fantasy rappresenta forse un paradossale passo indietro nella progressiva emancipazione creativa concessa dalla libera generazione digitale-computerizzata delle immagini. Se. Se e Forse. Perché forse conviene concedere a Sakaguchi il beneficio del dubbio, forse lui non voleva che i suoi personaggi virtuali apparissero come perfetti simulacri di personaggi reali ma li voleva così, orgogliosamente falsi, così lontani eppure così vicini alla carne, alle ossa e al sangue. Allora Aki, il Dr. Sid, Hein non sarebbero che gli antenati di un cinema “altro” che ancora non c’è, protoprotagonisti di un mondo filmico a venire parallelo, alternativo ma non sostitutivo di quello “tradizionale”… un primo balbettio verso il grande boh. Certo è che se il buon giorno si vede dal mattino, il mattino di Final Fantasy minaccia temporali…

Gianluca Pelleschi


Hironobu Sakaguchi regista di Final Fantasy afferma: «se rappresentare gli oggetti inanimati è relativamente facile, è difficilissimo simulare il movimento, i capelli ed il vestiario degli esseri umani, anche perché siamo particolarmente critici nei confronti di ciò che osserviamo tutti i giorni». Ma caro Sakaguchi, non si deve compiere un particolare sforzo cognitivo o essere particolarmente critici per affermare che sia naturalmente sia fisicamente il nostro occhio si andrà a soffermare più sugli scarti naturale-artificiale, sulle incongruenze antropomorfiche, sulla sfasata motricità dei personaggi che sugli “enormi” pregi dell’animazione d’inizio secolo. E per questo motivo credo che non solo istintivamente ma anche professionalmente ci si debba concentrare sui difetti piuottosto che sui pregiucoli consolatori - ma da millionari - di un film per nulla film. Dunque, perché non soffermarci sui capelli della protagonista Aki, una parrucca che sfida le naturali ingerenze gravitazionali e ad ogni cipiglio si esprime in una ondivaga risacca? Perché non rammentare le robotiche e maldestre movenze dei “sedicenti” attori? Come fare a smemorizzare le immagini dei loro sguardi persi nel vuoto di una cecità involontaria? Perché non delineare l’intera gamma espressiva degli interpreti (?) riassumendola nella neutralità della kulesoviana foto  di Ivan Mozzuchin? E il buffo-nesco protagonista reduce da un sinistro tra l’attore Ben Afflek ed il cantante Adriano Pappalardo? Che dire? Insomma, una miniera di imperfezioni. Sono proprio quest’ultime a saltare all’occhio al giovane e post-smaliziato spettatore del terzo millennio. Non certo, o non solamente la dignitosa rappresentazione del Dr. Sid o qualche belvedere apocalittico. Sono le imperfezioni che fanno la differenza e rendono Final Fantasy una sorta di parodia dell’est-etica umanoide. Quando poi l’intero progetto è suffragato da una sceneggiatura di demenza inaudita e da secondi-terzi e quarti fini poco nobili, la co(i)nfezione non può che crollare sotto la sua febbrile carcassa. E’ certamente legittimo e costruttivo polarizzare la nostra attenzione su quelli che sono i cacumi e paradossalmente i limiti del digitale e del motion capture. Danaro, tempo e set costruito appositamente per raggiungere cosa? La precisione antropomorfica (anche se fosse a chi/cosa servirebbe?) o la perfetta tempesta promozionale? Tuttalpiù un progetto del genere, sempre accompagnato però da una scrittura dignitosa, avrebbe diritto d’esistere se la sua fattura acquistasse concretezza e perdesse, per così dire, quell’angosciante e artificiosa aura di digito umanifero. Solamente se un giorno, il Ben Afflek di turno, si ritirasse alla sola mondanità e affrancasse il set a favore del suo per(ef)fetto  alter ego digitale. Perché non contemplare un cinema del genere se si eviterebbero le leziosaggini da starina hollywoodiana e i lauti compensi che ne derivano? Si accettano scommesse: è un attore in carne ed ossa o in sintesi numerica? Ma (s)fortunatamente siamo ancora lontani dal “superomismo digitale” e altrettanto lontani da una sua conveniente attuazione. Il regista Hironobu Sakaguchi insegna e il sindacato degli attori respira.

Simone Ciaruffoli

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