Recensioni
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Racconto del Terrore (ma non solo)
Irreprensibile.
Non c’è aggettivo che possa meglio descrivere l’ultimo lavoro di Eric
Rohmer, nel quale ogni elemento, dal testo alla recitazione, dalla scelta
di scenografie e musiche a quella delle inquadrature, ricrea con scrupolo
documentario il crepuscolo dell’Ancien Régime. Ma se lo script proviene
da un libro di memorie di lady Elliott, Diario della mia vita durante
la Rivoluzione (da poco pubblicato anche in Italia con
l’anacronistico titolo “La nobildonna e il duca”), la messinscena si
basa, con scrupolo filologico, sui quadri dei maggiori pittori del
periodo, particolarmente su quelli di J. L. David, ed è intessuta delle
arie all’epoca più note (tra cui la proverbiale “ça
ira!”).
L’influenza pittorica non è limitata alla parte scenografico –
luministica: i campi lunghi sono veri e propri quadri che, a volte, si
animano, quelli americani (i prediletti per le scene di dialogo, cioè per
la maggior parte del film) si rifanno direttamente alle scene di
conversazione realizzate dai grandi artisti settecenteschi. Il digitale è
piegato a risultati eccellenti: la definizione un po’ grezza delle
immagini, mentre conferisce agli esterni un tono autentico, ammorbidendone
le prospettive, infonde agli interni un respiro caldo, avvolgente, capace
di immergere lo spettatore nel clima della vicenda e negli avvenimenti che
interessano i singoli personaggi.
Se l’arte generalmente considerata permette di ricostruire una realtà
ormai scomparsa (o almeno così pare), è il teatro che riesce ad
inquadrarla. I dialoghi, concettualmente densi ed estremamente minuziosi,
ci guidano al centro di un dramma di passioni ed idee sorto in un
particolare contesto storico e personale, ma significativo anche al di là
della situazione che lo ha generato. I temi (l’amore e l’amicizia, la
fedeltà ed il tradimento) sono quelli da sempre cari al cineasta dei Racconti
Morali, che analizza con l’abituale acume caratteri e situazioni,
ricavando dalle sue squisite miniature sorprendenti effetti di tensione
drammatica (la fuga verso Meudon, la perquisizione notturna). Lo sdegnoso
rifiuto opposto al film dall’intellighenzia francese, e non solo, non ha
ragione di esistere: prima di tutto perché Eric Rohmer non è
“reazionario” né rivoluzionario, ma segue semplicemente il punto di
vista di lady Elliott, cioè quello espresso nel testo letterario che ha
fornito al film intreccio e battute (costante fedeltà alle fonti!), in
secondo luogo perché, anche se Rohmer fosse il più bieco reazionario di
questo mondo, il suo film è perfetto, come la prova dei
nemici/amici/(ex)amanti Lucy Russell e Jean – Claude Dreyfus.
(da
Venezia) Stefano Selleri
Storia cinematografica delle teorie
rivoluzionarie
Se il nostro impegno, in questa sede, fosse quello di
cimentarci in una "piccola ermeneutica" sull'ultima pellicola
del francese Rohmer, un solo titolo, seppur multiplanare, reclamerebbe la
paternità dell'analisi: Storia cinematografica delle teorie
rivoluzionarie. Rivoluzionarie in senso tecnico cinematografico
naturalmente e, non meno importante, rivoluzionario distintamente alla
Rivoluzione Francese. La Nobildonna e il Duca, infatti, si presenta come
uno dei film più teorici e sperimentali
dell'intera cinematografia rohmeriana. Tratto da "Journey of my life
during the French Revolution", il diario ritrovato della britannica
Grace Elliott, vissuta in Francia negli anni della Rivoluzione, il film si
concentra narrativamente su cinque avvenimenti didascalicamente
sottolineati: il primo anniversario della Rivoluzione, l'assalto alle
Tuileries e caduta di Luigi XVI, le stragi di settembre, l'esecuzione di
Luigi XVI, ed infine, il tradimento del generale Dumouriez. Mentre,
spazialmente, il film si divide su due fronti. L'interno: vero e
metaforico cervello-contenitore di decisioni, sentimenti, ire e
incomprensioni borghesi. L'esterno: l'ulteriore spazio aperto, deputato
alla plebaglia, alla sua fisicità ma emblematicamente costretta dentro un
digitale trompe-l'oeil. La Nobildonna e il Duca è un film spudoratamente
e intelligentemente claustrofobico. Un film sugli spazi racchiusi. Un film
di scatole cinesi, di quadro nel quadro. E' proprio Jean-Marie Maurice Schérer,
meglio conosciuto con lo pseudonimo di Eric Rohmer, il complice assieme a
Truffaut, Rivet, Godard, Chabrol di fare la rivoluzione del cinema ma, a
differenza dei suoi colleghi, di distinguersi e specializzarsi
sull'organizzazione dello spazio, sul linguaggio della pittura e
dell'architettura. E' proprio Rohmer infatti, che per il suo
"dottorato di terzo ciclo" scrive quell'illuminante tesi
intitolata L'organizzazione dello spazio nel Faust di Murnau. "Ancor
più della pittura -
scrive Rohmer - il cinema ci
aiuta a scoprire il legame profondo che esiste tra una forma visibile e il
sentimento che la sua visione comunica. E nessun cineasta, prima o dopo
Murnau, è mai riuscito a dipingere in maniera così diretta e intensa,
l'emozione, attraverso il puro gioco delle forme nello spazio".
Usando una sorta di tableaux vivants, Rohmer sembra volutamente
distaccarsi dal genio pittorico di Murnau, non potendo, come quest'ultimo,
fare dello spazio filmico un vero e proprio capolavoro pittorico, si
rimette all'artificio tecnologico per sondare attraverso l'irrealismo
naif, la veridicità dei suoi personaggi. E' oltremodo interessante notare
come la plasticità, la drammaticità ed il realismo tradotti attraverso
le inquadrature a mezzo busto e alle intense luci adottate negli interni,
alternate agli inserti digitali degli esterni, producano quello squilibrio
estetico che sta alla base teorica ed etica di questo film. L'onirica
sensazione che restituisce è quella di una visione al microscopio o al
cannocchiale. Attraverso la superficie falsa (?) del digitale Rohmer ci
immerge nel reale (?) interno ove le decisioni vengono contemplate. Come
se gli arcani storici possano essere contenuti dentro la pittura,
"giacché -
scrive Rohmer - è attraverso la pittura che la verità e la
bellezza del mondo visibile ci sono state rivelate nel corso degli
anni". E' attraverso l'istanza scopica Grace Elliott che il regista
esplora visivamente le contraddizioni della Rivoluzione Francese e del
Terrore che ne seguì. Splendida è infatti la scena ritraente la
Nobildonna Grace che da una terrazza dà le spalle alla decapitazione del
re vista attraverso un monocolo. Negandosi la visione si nega la
partecipazione e conseguentemente la responsabilità dell'uccisione.
Uscire dal cinema e riflettere sul fatto che ciò a cui abbiamo assistito
è stata la messa in scena filmica di un evento storico attraverso
l'intimo di una "composizione pittorica", ci restituisce
immediatamente quell'emozione della quale, causa l'impianto teorico,
eravamo stati privati durante la proiezione.
Simone
Ciaruffoli
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