Recensioni
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Opera seri(os)a
Occorre una buona
dose d’improntitudine per sostenere che in questo film “qualsiasi
riferimento a persone o fatti reali deve considerarsi puramente casuale”:
se soltanto il pubblico avesse la pazienza di attendere la fine dei titoli
di coda, la sovrimpressione suddetta scatenerebbe molte risate. Più di
quelle causate dal film nel suo complesso, in questo caso.
Il titolo si riferisce alla situazione dei protagonisti, uomini e artisti
sfasati in ambito professionale e personale, ma può essere agevolmente
esteso al film, che, dotato delle migliori intenzioni (quelle più
perfide) e armato di elementi pregevoli (almeno sulla carta), non riesce
mai a decollare. Perché?
Una ragione potrebbe risiedere nell’incapacità, da parte di regista e
sceneggiatore, di scegliere il tipo di film da girare. Il soggetto (ansie,
bizze e fobie nel gran mondo) si presterebbe alla farsaccia frenetica come
alla commedia sofisticata, due generi agli antipodi, anche se, ad
un’analisi superficiale, potrebbero sembrare equivalenti o quasi (si
tratta sempre di “cose da ridere”). La farsa è un meccanismo a
orologeria in cui, più degli ingredienti, conta la preparazione.
Stereotipi e macchiette sono i benvenuti purché la successione di entrate
uscite azioni reazioni sia perfetta al millimetro; non è richiesta
originalità, ma tempismo, velocità, crudeltà in dosi rigorose. La
commedia – per di più quella accessoriata di ambizioni di tipo elevato
– offre uno spazio molto maggiore all’approfondimento dei caratteri ed
all’inserimento di elementi estranei, dolorosi e anche tragici: il ritmo
è comunque, nel complesso, spumeggiante, ma sono ammesse (e richieste)
zone sospensive, oltre a una brillantezza meno convenzionale di caratteri
e costumi.
Il film di Manuel Gomez Pereira flirta, esitante, con i lazzi da commedia
dell’arte ed i fasti luccicanti del teatro serio: il risultato è
che i primi sono smorti o ripetitivi (a lungo andare le due condizioni si
identificano, cioè, se può essere divertente vedere un tenore con le
braghe calate assalito da una muta di cani da caccia, vedere lo stesso
personaggio in tale situazione per due volte a meno di un’ora di
distanza risulta un po’ noioso) e i secondi suonano presuntuosi nella
loro goffaggine (i conflitti genitori – figli sono i più irritantemente
vacui che si siano visti su grande schermo da un bel pezzo a questa
parte). Il ritmo si sfilaccia senza pietà, e gli attori (specie i
giovani) ne risentono.
“Off Key” sarebbe stata una magnifica occasione per riflettere
sull’ultimo baluardo esistente e persistente del grande divismo
internazionale, quello dei cantanti lirici (o ex tali, e non parliamo solo
di “quei tre”) che adunano a sé le folle coniugando “arte” e
canzonette popolari: primedonne isteriche, televisione – dipendenti, ma
dal carisma intramontabile ed inspiegabile. Il mistero racchiuso in queste
voci un tempo immense ed agguerrite, ridotte all’ombra di se stesse ma
ancora decise a vincere, sarebbe stato un bel soggetto tragico e insieme
buffonesco, il canovaccio ideale per un Falstaff del pentagramma:
le scene concertistiche (la prima e l’ultima, oltre ad un breve assaggio
nel corso del party) illustrano bene queste, quasi del tutto sprecate,
potenzialità.
Abbandonati
a se stessi, gli attori hanno la possibilità di sbandare o rivelarsi
superiori alla situazione contingente. Fra i dispersi segnaliamo Aiello,
incolore oltre ogni dire, e Mantegna, tronfio nella sua mancanza d’autoironia
(al punto da fare di Ricardo il “santo” della storia): se la cavano
con onore Galiena (“splendida e lucente”, tanto per restare in ambito
operistico) e Gerini (spiritosissima nella parte dell’accompagnatrice di
lusso, che si chiama, ovvio, Violeta).
Stefano
Selleri
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