Recensioni
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WHY
must the show go on?
Sarebbe
ipocrita andare a vedere un blockbuster dichiarato come “Il Patto
dei Lupi” per poi lamentarsi della totale mancanza di rigore filologico
e profondità intellettuale che marca ogni inquadratura del suddetto: il
vero problema è che questa sottospecie di film non costituisce neppure un
intrattenimento passabile, se non come generoso dispensatore di umorismo
involontario.
La trama, inverosimile al punto da far sperare in un valido mélange
di horror gotico e avventura di cappa e spada, sulla carta funzionava;
poi, inspiegabilmente, a qualcuno è venuta l’idea di scrivere sulla
suddetta carta anche una (per così dire) sceneggiatura, e sono iniziati i
guai. Non è la banalità ad infastidire, piuttosto la piattezza: i
caratteri siano pure stereotipati, sono le regole del gioco e le
accettiamo di buon grado, ma non c’è giustificazione per l’assoluta
mancanza di verve, passione, umori magari brutali e facili, ma
pieni di vita.
Complice la malsana
abitudine di appiattire, col pretesto di “modernizzarli”, costumi e
conflitti settecenteschi, si assiste al trionfo del tiepidamente
televisivo: il nobiluomo botanico è un ridicolo dongiovanni che va con le
prostitute ma, siccome ha un cuore grande così, sogna l’amore virginale
di una fanciulla che desidera i pantaloni e infatti cavalca “da uomo”
(evitate le battute, prego, c’è poco da ridere), contrastata nelle sue
smanie d’indipendenza da un fratello torvo e livido come è ovvio che
sia un marcio rappresentante dell’Ancien Régime (ma aspettate di vedere
l’ecclesiastico untuoso e smielato). A questo triangolo, reso con la
vivacità tipica di una soap di quart’ordine, si aggiungono personaggi
secondari di rara idiozia (l’indiano irochese che si fa strada a colpi
di kung fu è semplicemente trash e per questo risulta quasi sopportabile)
e un intrigo spionistico alla Bond che fa acqua da ogni parte. Il
messaggio “filosofico” (“il sonno della Ragione genera mostri”)
non solo è ovvio, ma stride violentemente con l’anima reazionaria,
imbevuta di luoghi comuni e demagogiche facilonerie (la doppia
“resurrezione” che impesta il finale), del filmetto. La vita imita la
cattiva televisione, ma perché anche la Storia deve finire così in
basso? Nessuno chiede di ricostruire al millimetro il secolo dei lumi:
basterebbe ritrovare almeno una parte di quello spirito geometrico,
affilato, crudo e insieme affascinante che emerge così chiaramente dalle
pagine d’epoca. Un Settecento fantascientifico è scherzo, od è follia
(disorganizzata).
Questo
il contenuto: e la forma? Il regista s’inchina alla grande tradizione
americana che pretende di soppiantare e infatti gira il trailer lungo
di “Tomb Raider”: movimenti di macchina da Playstation, tanto che si
sente la mancanza del joystick, dissolvenze incrociate ed al nero
immotivate, ripetitive e perciò doppiamente tedianti, musiche
rimbombanti, fotografia da rivista di moda, direzione degli attori –
almeno – latitante. Già, gli attori: parliamone. Il cinema
d’avventura, in costume o meno, richiede agli interpreti, sopra ogni
altra dote, quella di abbandonarsi ad un’irrefrenabile autoironia, che
sola può catturare la simpatia – nel senso letterale del termine –
dello spettatore: il fatto che l’eroe, oltre che immortale, sia pure
musone, è cosa che non si può proprio tollerare. Sotto questo (ed ogni
altro) punto di vista la prova del cast è sconfortante: Samuel LeBihan,
patatone dal fascino (?) irresistibile, bamboleggia peggio di Emilie
Dequenne, che da parte sua passa l’intera durata del film a sfoggiare un
impermeabile broncio da bimba cattiva, mentre Cassel, pur con momenti
intensi, sbraca spesso nel comico involontario e Monica Bellucci si
conferma all’altezza delle divine del muto (in altre parole, deve
tacere). In tutto questo, come si spiega la presenza di Jérémie Renier e
Jacques Perrin? Money Money Money…
In
conclusione, si rimpiange non soltanto il Settecento rapinoso e crudele di
Kubrick, Losey e Frears (tanto per non fare nomi), ma quello nero, buffo e
incantato di Burton ed il fascino ornato di ragnatele dei classici di
genere.
Stefano
Selleri
Il sonno della ragione genera
mostri
Confezione di lusso per l'ennesimo tentativo francese (e' di quest'anno anche il pessimo "Belfagor") di imitare i blockbuster d'oltreoceano. Peccato che oltre ad una grande produzione, a sostenere il progetto non ci sia nulla. La storia avrebbe anche un fascino oscuro, ma il regista Christophe Gans sembra preoccuparsi unicamente di mettere la macchina da presa nelle posizioni piu' estreme. All'inizio la cura visiva colpisce, ma l'eccesso di virtuosismo diventa presto gratuito: non solo non aggiunge nulla, ma rovina disastrosamente l'atmosfera. Ecco quindi i soliti combattimenti (nella Francia del 1764 erano di gran moda le arti marziali?) coreografati come balletti, attraverso la successione di dettagli che non permettono allo spettatore di capire granche' di cio' che sta succedendo. La sceneggiatura, poi, fa acqua da tutte le parti e alla storia principale, collega in malo modo tutta una serie di episodi inutili e ridondanti, che anziche' infittire il mistero, lo sviliscono. Appiccica pure al protagonista una storia d'amore senza nerbo, tanto improbabile quanto priva di passione. La tanto attesa belva, che per buona parte del film viene soltanto nominata, quando compare non regala alcun brivido: sono ancora evidenti i movimenti a scatti dovuti a una computer grafica non aggiornata ai tempi ("Jurassic Park" docet). Anche gli attori, abbinati a personaggi senza spessore, non convincono. Il protagonista Samuel LeBihan ha "le phisique", ma sempre pettinato e sbarbato e, soprattutto, senza un briciolo di ironia, non ha credibilita' ne' mordente. Il marmoreo Mark Dacascos, invece, con una filosofia zen d'accatto ad ispirarlo, regala piu' di un momento di umorismo involontario. Vincent Cassel, con la faccia che si ritrova, e' ormai abbonato al ruolo di cortigiano malsano, ma il suo personaggio e' forse il piu' ridicolo del film. Irriconoscibile Emilie Duquenne, dalla dura "Rosetta" all'insipida bambolina Marianne. Quanto a Monica Bellucci, si conferma bella senz'anima. Evocativa e inaccessibile nei flash patinati delle riviste di moda, perde gran parte del suo fascino davanti alla macchina da presa. Tra l'altro insiste a non farsi doppiare, mangiandosi spesso le parole e "stonando" quasi tutte le battute.
Eppure il pubblico sembra gradire e accorre numeroso: in Francia soprattutto (si parla di cinque milioni di spettatori), ma anche nel resto d'Europa. Che dire, speriamo che la "grandeur" francese trovi modo di equilibrare il talento visivo con il senso del racconto, cercando una strada personale che non saccheggi dal peggio delle produzioni hollywoodiane.
Un'ultima nota: e' possibile che, ancora una volta, un uomo da solo davanti a cento nemici, si trovi a fronteggiarli uno alla volta? Intanto gli altri che fanno, giocano a carte?
Luca Baroncini
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