IL PATTO DEI LUPI
(Le Pacte des Loups)

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REGIA:    
Christophe GANS

PRODUZIONE:  Francia   -   2001   -   Azione

DURATA:  142'

INTERPRETI:
Samuel Le Bihan, Vincent Cassel, Monica Bellucci, Emilie Dequenne, Jeremie Renier, Mark Dacascos, Jean Yanne, Jean-Francois Stevenin

SCENEGGIATURA:
Stephane Cabel - Christophe Gans

FOTOGRAFIA:
Dan Laustsen

SCENOGRAFIA: 
Guy Claude François

MONTAGGIO: 
David Wu -
Xavier Loutreuil - Sébastien Prangère

COSTUMI: 
Dominique Borg

MUSICHE: 
Jospeh Lo Duca

Trama

1764. Nella regione francese del Gévaudan un numero abnorme di donne e bambini sarebbe stato sbranato da un'orripilante bestia sovrannaturale…

Recensioni

 

 

 

WHY must the show go on?

Sarebbe ipocrita andare a vedere un blockbuster dichiarato come “Il Patto dei Lupi” per poi lamentarsi della totale mancanza di rigore filologico e profondità intellettuale che marca ogni inquadratura del suddetto: il vero problema è che questa sottospecie di film non costituisce neppure un intrattenimento passabile, se non come generoso dispensatore di umorismo involontario.
La trama, inverosimile al punto da far sperare in un valido mélange di horror gotico e avventura di cappa e spada, sulla carta funzionava; poi, inspiegabilmente, a qualcuno è venuta l’idea di scrivere sulla suddetta carta anche una (per così dire) sceneggiatura, e sono iniziati i guai. Non è la banalità ad infastidire, piuttosto la piattezza: i caratteri siano pure stereotipati, sono le regole del gioco e le accettiamo di buon grado, ma non c’è giustificazione per l’assoluta mancanza di verve, passione, umori magari brutali e facili, ma pieni di vita.
Complice la malsana abitudine di appiattire, col pretesto di “modernizzarli”, costumi e conflitti settecenteschi, si assiste al trionfo del tiepidamente televisivo: il nobiluomo botanico è un ridicolo dongiovanni che va con le prostitute ma, siccome ha un cuore grande così, sogna l’amore virginale di una fanciulla che desidera i pantaloni e infatti cavalca “da uomo” (evitate le battute, prego, c’è poco da ridere), contrastata nelle sue smanie d’indipendenza da un fratello torvo e livido come è ovvio che sia un marcio rappresentante dell’Ancien Régime (ma aspettate di vedere l’ecclesiastico untuoso e smielato). A questo triangolo, reso con la vivacità tipica di una soap di quart’ordine, si aggiungono personaggi secondari di rara idiozia (l’indiano irochese che si fa strada a colpi di kung fu è semplicemente trash e per questo risulta quasi sopportabile) e un intrigo spionistico alla Bond che fa acqua da ogni parte. Il messaggio “filosofico” (“il sonno della Ragione genera mostri”) non solo è ovvio, ma stride violentemente con l’anima reazionaria, imbevuta di luoghi comuni e demagogiche facilonerie (la doppia “resurrezione” che impesta il finale), del filmetto. La vita imita la cattiva televisione, ma perché anche la Storia deve finire così in basso? Nessuno chiede di ricostruire al millimetro il secolo dei lumi: basterebbe ritrovare almeno una parte di quello spirito geometrico, affilato, crudo e insieme affascinante che emerge così chiaramente dalle pagine d’epoca. Un Settecento fantascientifico è scherzo, od è follia (disorganizzata).
Questo il contenuto: e la forma? Il regista s’inchina alla grande tradizione americana che pretende di soppiantare e infatti gira il trailer lungo di “Tomb Raider”: movimenti di macchina da Playstation, tanto che si sente la mancanza del joystick, dissolvenze incrociate ed al nero immotivate, ripetitive e perciò doppiamente tedianti, musiche rimbombanti, fotografia da rivista di moda, direzione degli attori – almeno – latitante. Già, gli attori: parliamone. Il cinema d’avventura, in costume o meno, richiede agli interpreti, sopra ogni altra dote, quella di abbandonarsi ad un’irrefrenabile autoironia, che sola può catturare la simpatia – nel senso letterale del termine – dello spettatore: il fatto che l’eroe, oltre che immortale, sia pure musone, è cosa che non si può proprio tollerare. Sotto questo (ed ogni altro) punto di vista la prova del cast è sconfortante: Samuel LeBihan, patatone dal fascino (?) irresistibile, bamboleggia peggio di Emilie Dequenne, che da parte sua passa l’intera durata del film a sfoggiare un impermeabile broncio da bimba cattiva, mentre Cassel, pur con momenti intensi, sbraca spesso nel comico involontario e Monica Bellucci si conferma all’altezza delle divine del muto (in altre parole, deve tacere). In tutto questo, come si spiega la presenza di Jérémie Renier e Jacques Perrin? Money Money Money
In conclusione, si rimpiange non soltanto il Settecento rapinoso e crudele di Kubrick, Losey e Frears (tanto per non fare nomi), ma quello nero, buffo e incantato di Burton ed il fascino ornato di ragnatele dei classici di genere.

Stefano Selleri


Il sonno della ragione genera mostri

Confezione di lusso per l'ennesimo tentativo francese (e' di quest'anno anche il pessimo "Belfagor") di imitare i blockbuster d'oltreoceano. Peccato che oltre ad una grande produzione, a sostenere il progetto non ci sia nulla. La storia avrebbe anche un fascino oscuro, ma il regista Christophe Gans sembra preoccuparsi unicamente di mettere la macchina da presa nelle posizioni piu' estreme. All'inizio la cura visiva colpisce, ma l'eccesso di virtuosismo diventa presto gratuito: non solo non aggiunge nulla, ma rovina disastrosamente l'atmosfera. Ecco quindi i soliti combattimenti (nella Francia del 1764 erano di gran moda le arti marziali?) coreografati come balletti, attraverso la successione di dettagli che non permettono allo spettatore di capire granche' di cio' che sta succedendo. La sceneggiatura, poi, fa acqua da tutte le parti e alla storia principale, collega in malo modo tutta una serie di episodi inutili e ridondanti, che anziche' infittire il mistero, lo sviliscono. Appiccica pure al protagonista una storia d'amore senza nerbo, tanto improbabile quanto priva di passione. La tanto attesa belva, che per buona parte del film viene soltanto nominata, quando compare non regala alcun brivido: sono ancora evidenti i movimenti a scatti dovuti a una computer grafica non aggiornata ai tempi ("Jurassic Park" docet). Anche gli attori, abbinati a personaggi senza spessore, non convincono. Il protagonista Samuel LeBihan ha "le phisique", ma sempre pettinato e sbarbato e, soprattutto, senza un briciolo di ironia, non ha credibilita' ne' mordente. Il marmoreo Mark Dacascos, invece, con una filosofia zen d'accatto ad ispirarlo, regala piu' di un momento di umorismo involontario. Vincent Cassel, con la faccia che si ritrova, e' ormai abbonato al ruolo di cortigiano malsano, ma il suo personaggio e' forse il piu' ridicolo del film. Irriconoscibile Emilie Duquenne, dalla dura "Rosetta" all'insipida bambolina Marianne. Quanto a Monica Bellucci, si conferma bella senz'anima. Evocativa e inaccessibile nei flash patinati delle riviste di moda, perde gran parte del suo fascino davanti alla macchina da presa. Tra l'altro insiste a non farsi doppiare, mangiandosi spesso le parole e "stonando" quasi tutte le battute. 
Eppure il pubblico sembra gradire e accorre numeroso: in Francia soprattutto (si parla di cinque milioni di spettatori), ma anche nel resto d'Europa. Che dire, speriamo che la "grandeur" francese trovi modo di equilibrare il talento visivo con il senso del racconto, cercando una strada personale che non saccheggi dal peggio delle produzioni hollywoodiane.
Un'ultima nota: e' possibile che, ancora una volta, un uomo da solo davanti a cento nemici, si trovi a fronteggiarli uno alla volta? Intanto gli altri che fanno, giocano a carte?

Luca Baroncini

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Spazio lettori

 

 

Il punto di partenza storico del film si riallaccia al regno di Luigi XV, debole successore del Re Sole.
Nella regione del Gévaudan una serie di efferati delitti lasciava scie di sangue tra la popolazione atterrita. Il colpevole non fu mai individuato, finché la credenza popolare ebbe la meglio e la colpa dei delitti venne affibbiata ad un presunto mostro, detto “La Bestia” in omaggio ad antiche superstizioni demoniache.
Il Cavaliere Grégoire De Fronsac (Samuel Le Bihan) viene incaricato di smascherare il presunto assassino e inviato nel Gévaudan in compagnia dell’aiutante irochese Mani (Mark Dacascos). Il prode cavaliere si ritrova così letteralmente catapultato dalla cosiddetta “Età Dei Lumi” all’oscurantismo più profondo di quel piccolo paese, che pare fermo alle superstizioni e alle crudeltà della Controriforma.
A  Gévaudan infatti tutti temono il Demonio e gli indemoniati davvero non mancano.
L’atmosfera che domina l’intera pellicola è rigorosamente dark, come del resto tutti i personaggi che vi sono impressi.
Il film si apre con audaci movimenti di carrello, che paiono trasportare lo spettatore attraverso bui percorsi infernali, mentre le riprese en ralenti, tecnicamente perfette, sottolinenano i momenti salienti della storia.
Impeccabile il cast, a cominciare da Vincent Cassel nei panni del perverso François De Morangias, ambiguo e crudele quanto basta, passando attraverso l’inquietante presenza di Monica Bellucci che interpreta la prostituta italiana Sylvia, per concludere con l’innocente Marianne (Emile Dequenne).
Tecnicamente perfetto, il film fa concorrenza alla produzione americana, se non fosse per l’inserimento della “bestia”, realizzata via computer e inserita posticcia. Per quanto, se ripensiamo alla Mummia 2, in particolare a The Rock/Il Re Scorpione, troviamo anche qui un’animazione da videogioco più che da grande cinema.
La suspense è alle stelle in ogni sequenza de “Il Patto Dei Lupi”, i costumi sono splendidamente curati nel dettaglio e a tratti ci si sente come “rapiti” da quest’opera di Cristophe Gans, la quale, se non è proprio un capolavoro, ne sfiora la nomination.

Annalisa Ghigo


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