PAUL,
MICK E GLI ALTRI
(The Navigators)
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REGIA:
Ken LOACHPRODUZIONE:
GB/Ger/Spa - 2001 -
Drammatico
DURATA: 92'
INTERPRETI:
Joe Duttine, Steve Huison, Tom Craig,
Dean
Andrews, Venn Tracey, Sean Glenn
SCENEGGIATURA:
Rob Dawber
FOTOGRAFIA: Barry Ackroyd - Mike Eley
SCENOGRAFIA: Martin Johnson
MONTAGGIO: Jonathan Morris
COSTUMI: Theresa Hugues
MUSICHE: George Fenton
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Trama
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La privatizzazione delle Ferrovie britanniche muta bruscamente, non certo in meglio, le condizioni di lavoro (e di vita) di un gruppo di operai. |
Recensioni
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Il nocciolo della questione
Come descrivere, nel modo più
efficace possibile, il repentino frantumarsi di decenni di conquiste
sindacali, causato dalla diffusione delle nuove politiche economiche
basate sulla cosiddetta flessibilità? Ken Loach, che si occupa di temi
simili non dalla settimana scorsa, rinuncia alla tentazione (del resto
comprensibilissima) dell’affresco e punta tutto su concisione ed ironia.
E vince.
Tracce di un’ironia lieve ma desolata sono riscontrabili nel titolo
originale dell’opera: i “navigatori”, cioè gli addetti alla
manutenzione della rete ferroviaria, il cui compito è garantire la
sicurezza ed il comfort dei passeggeri, procedono senza bussola, incerti
sul da farsi, perché sono mutate all’improvviso (meglio, sono state
completamente cancellate) le regole che rendevano ragionevolmente sicuro
il mare dei trasporti e dei rapporti di lavoro. (A proposito, un grazie a
chi ha permesso che la versione italiana del film fosse contrassegnata da
un titolo da fiction: senza questi piccoli “regali”, forse
apprezzeremmo di meno la visione dei film in lingua originale.)
Il film segue, con passo piano, non fiacco, piccole storie di uomini
assolutamente ordinari, le ultime ruote del carro lavorativo, che un
giorno, all’improvviso, devono fare i conti con quel neoliberismo
selvaggio che ultimamente è tanto “in” un po’ in tutti i
continenti. Lo sguardo del regista è complice, ma estremamente lucido:
annota scrupolosamente le reazioni, dapprima ilari e man mano sempre più
tetre, suscitate dalle innovazioni imposte dallo smembramento e dalla
privatizzazione dell’azienda, ed i cambiamenti subiti dalla routine,
tanto professionale quanto personale, dei protagonisti.
Simili temi, ad ovvio rischio retorica, sono trattati in modo concreto,
esclusivamente in relazione al microcosmo nel quale si muovono i
personaggi: le dispute sindacali ai tempi della non – negoziabilità
sono riassunte da una querelle sulla collocazione di un orologio, i
bruschi tagli ai salari si fanno sentire nelle (ulteriori) riduzioni del
tempo che i genitori possono dedicare ai figli, una banale discussione può
causare la rovina di un assiduo cliente delle agenzie di lavoro
interinale.
La caratterizzazione comica che accompagna le prime apparizioni del
“nuovo ordine” lavorativo (una vera perla il filmato didattico
mostrato ai dipendenti) non si attenua, ma assume una tinta sempre più
sinistra (l’atteggiamento glaciale dei nuovi dirigenti) fino a sfociare,
con perfetta coerenza e senza soluzione di continuità, nella tragedia
finale, implacabile compimento delle premesse esposte nell’arco del
film. Per i pesci piccoli non c’è salvezza, come teorizza, disilluso,
uno dei personaggi. “Scacco matto: qualunque mossa fai, sei morto”.
La sceneggiatura di Rob Dawber si impantana lievemente negli stereotipi
quando si occupa della parte “privata” della storia (i soliti amori
impacciati, le abusate crisi coniugali), ma ha una limpidezza ed una forza
rarissime nello slavato orizzonte contemporaneo. Quanto a Loach, l’aria
di casa decisamente gli giova: dopo il passo falso di “Bread & Roses”,
il regista ritrova sobrietà, solidità, coraggio artistico e morale. Cast
di eccelsi carneadi (o quasi).
(da
Venezia) Stefano Selleri
Ken
Loach torna a colpire
Dopo
il poco riuscito e schematico "Bread and roses", Ken Loach torna
in Inghilterra e continua il suo importante cinema di denuncia
affrontando, questa volta, il mondo delle Ferrovie Britanniche.
Il progetto nasce grazie alla collaborazione di un operaio della British
Rail, Rob Dawber, che scrive una lettera al regista per raccontargli la
sua esperienza di diciassette anni di lavoro e di come ha perso il posto a
causa della privatizzazione. Ken Loach si interessa subito al caso e
commissiona una sceneggiatura che Rob Dawber scrive durante una
convalescenza. Nel frattempo, però, gli viene diagnosticato un tumore a
causa del prolungato contatto con l'amianto sul posto di lavoro. Il film
viene terminato giusto in tempo per consentire a Dawber di vederlo, prima
di morire a 44 anni.
Sembra la meta-trama di un lungometraggio, in realtà è il contesto che
ha portato alla nascita del bel film di Ken Loach sui problemi insiti
nella globalizzazione. Come al solito il regista ha le idee chiare, ma in
modo secco e non didascalico riesce a trasmettere i possibili problemi
delle privatizzazioni, facendo vivere le conseguenze di un discorso
teorico direttamente sulla pelle dei suoi protagonisti.
Il taglio è da commedia sociale, si ride molto, si entra nelle vite di un
gruppo di operai e si diventa complici dei loro problemi, anche personali.
Poi la tragedia accade, ma senza tragicità. Proprio per questo risulta
ancora più incisiva e può essere interpretato come un invito a non
accettare le regole senza averle prima ponderate e capite, un invito a
informarsi, a rendersi conto che il mondo, e non solo del lavoro, sta
mutando. Il rischio è infatti quello di trovarsi a vivere le estreme
conseguenze di cambiamenti avvallati con la propria indifferenza.
(da
Venezia) Luca Baroncini
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Commenti
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Lo scacco matto di Ken Loach
Sul fatto che Ken Loach fosse un grande cineasta non avevo mai avuto dubbi; anche una pellicola tutto sommato sottotono come il suo precedente "Bread & Roses" non aveva mancato di riservarmi emozioni e riflessioni. Con questo film, poco pubblicizzato come succede sempre con un determinato tipo di lavoro, torna il realismo cattivo e la critica graffiante che rappresentano ormai per il suo creatore un vero e proprio marchio di fabbrica. La forza di questi 91 minuti è il modo in cui ci vengono raccontati: elementi ingombranti come il predicozzo moralista o il plateale sbandieramento di ideali politici vengono giustamente messi da parte. Di conseguenza, si va per esclusione e rimane soltanto una cosa: la realtà. Loach è un ottimo burattinaio, abilissimo nel raccontare storie a metà strada fra la commedia e il dramma; in questo senso, pare ormai che abbia raggiunto una sua convincente stabilità. "The Navigators" (preferisco chiamarlo così, distaccandomi dall'oltraggioso titolo italiano) è come un gomitolo; lentamente si dipana, mostrando gli strascichi quotidiani di una serie di esistenze desolate. I protagonisti di questo balletto, infatti, non sono realmente vivi: si limitano a tirare avanti, travolti inspiegabilmente da un cambiamento più grande di loro. Basta l'ambientazione (Sheffield, 1995) per dedurre che nel mirino che nel mirino di Loach ci sia implicitamente lei, "The Iron Lady" Margareth Thatcher; gli effetti devastanti delle sue privatizzazioni, nel miraggio di un miglioramento, finirono per penalizzare i lavoratori, fino allo storico sciopero dei minatori di "Grazie signora Thatcher". La pellicola è abilmente dosata: ad alcuni momenti duri come un macigno (vedi l'azzeccata conclusione) si alternano, soprattutto nella prima parte, una serie di battute folgoranti, che donano un certo lustro alla sceneggiatura. Alcune macchiette umane che annaspano confuse (tra tutti, l'addetto alle pulizie obeso) sono semplicemente irresistibili; qui il miscuglio lascia un sapore ammaliante sulle labbra della platea, a metà strada tra lo sfondo sociale e la commedia tinta di "grotesque" di cui Loach dovrebbe venir eletto presidente. Un ulteriore punto a suo favore, come se ce ne fosse bisogno, viene assegnato per la scelta degli attori, una congrega di illustri sconosciuti che tengono un vero e proprio corso di recitazione; molti pluridecorati colossi americani farebbero bene a parteciparvi, seguendo un antico adagio: "per imparare non è mai troppo tardi". Ovviamente, mentre si assiste alla proiezione di questo film, conviene spazzare via dalla mente il miraggio di un ipocrita lieto fine; la conclusione non potrebbe essere diversa, tanto è abilmente costruita per il suo scopo: farci uscire dalla sala con una sfumatura amara nella mente. Calandomi nel difficile esercizio di ricerca del classico ago nel pagliaio, faccio notare che probabilmente nell'assidua concentrazione delle riprese Loach non si è accorto di indugiare eccessivamente sulle fasi lavorative (bulloni, traversine, martelli etc.), che alla lunga possono stancare un certo tipo di spettatore; in ogni caso, tutte le singole sequenze sono assolutamente funzionali a plasmare il clima di realismo che permea tutta l'opera.
La filmografia del movimento operaio si arricchisce di un altro mattone, ma non uno qualsiasi; questo è meticolosamente lavorato, dalle mani insuperabili di un signor regista. Forse il migliore nel suo genere.
Emanuele Di Nicola
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Stefano
Selleri
8 |
Luca
Baroncini
8
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Daniele
Bellucci
6½
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Manuel
Billi
6 |
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