IL PIANETA DELLE SCIMMIE
 (The Planet of the Apes)

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REGIA:    
Tim BURTON

PRODUZIONE:   U.S.A.   -   2001   -   Fantascienza

DURATA:  119'

INTERPRETI:
Mark Whalberg, Estella Warren, Tim Roth, 
Helena Bonham-Carter, Paul Giamatti, David Warner,
Michael Clark Duncan, Cary-Hiroyuki Tagawa,
Kris Kristofferson, Luke Eberl

SCENEGGIATURA:
William Broyles Jr. - Lawrence Konner - Mark Rosenthal (dal romanzo omonimo di Pierre Boulle)

FOTOGRAFIA: 
Philippe Rousselot

SCENOGRAFIA: 
Rick Heinrichs

MONTAGGIO: 
Chris Lebenzon

COSTUMI: 
Collen Atwood

TRUCCO:
Rick Baker

MUSICHE: 
Danny Elfman

Trama

Anno 2029. Una stazione spaziale, sulla quale alcuni scimpanzé vengono addestrati a diventare piloti intergalattici, si imbatte in una tempesta magnetica. Uno dei primati viene mandato in avanscoperta a bordo di una piccola navicella, ma scompare nel nulla. Lo segue a ruota l’astronauta Leo Davidson che dopo un atterraggio di (s)fortuna si ritrova su un misterioso Pianeta. Delle Scimmie…

Recensioni

 

 

 

Planet of the Freaks

Re-make, anche nel make-up, dell’originale sessantottino o una sua “re-immaginazione”, come sembra sostenere lo stesso Tim Burton? Si potrebbe cominciare da qui a parlare di Planet of the Apes, ma sarebbe solo un inizio come un altro, arbitrario, casuale, forse logico forse no. Arbitrario, casuale, (il)logico come il telaio intorno al quale Burton costruisce ogni suo film. O il suo film, lo stesso che continua a girare over and over and over again; lo stesso, identico film sull’eterna lotta (di confine) tra normale e anormale, tra realtà e irrealtà, tra diversi e “uguali”… i ruoli si scambiano, i freaks si fanno norma, le differenze tra palesemente in e palesemente out rispetto a consuetudini che mutano in canoni, regole, assiomi si annullano. Questa apologia della diversità  si ripete in tutti i film di Tim Burton, con immancabili, apparenti eccezioni (doverosa conferma della regola: vedi Mars Attacks, in cui l’estremizzazione parodica della diversità per antonomasia [il “marzianesimo"] condanna comunque senza appello l’infinita, normale stupidità umana, per nulla preferibile alla spassosa ferocia aliena), e un passaggio-simbolo nel più burtoniano dei film di Burton: Orson Welles ed Ed Wood parlano di cinema e si scoprono uguali. Chiaro. Come uno stagno senza fango. Come un limpido cielo d’estate sempre blu. Ecco dunque un nuovo rovesciamento in Planet of the Apes: l’evoluzione involve e devolve il Primato ai primati. L’uomo? Normalmente dominerebbe la terra, ora è dominato dai suoi antenati divenuti pronipoti. Questo, c’è da scommetterci,  è ciò che interessava a Burton del film di Schaffer, poco importa se la sua nuova fiaba darkgoticheggiante (solita forma che in-forma la solita sostanza) stavolta è gonfiata a mo’ di kolossal. La forma, per l’appunto, non cambia. Così come non cambiano gli immancabili “difetti” del film di Tim Burton: i soliti vuoti di pressione narrativa, la solita inconsistenza drammatica, la solita (programmat[ic]a?) incoerenza della storia, il solito azzeramento di ogni plusvalore recitativo (qui ci si mette di mezzo anche il caucciù), la solita regia qualunque (che nella fattispecie “scimmiotta” l’action movie), i soliti dialoghi inutili con sporadiche frasi burtonianamente significative. I molti estimatori, ci mancherebbe, perdonano tutto e sono ovviamente pronti a esaltare le “ciliegine” (tre in particolare) che il loro eroe depone sulla (solita) torta: il look&feel sixties dato dagli effetti elaborati ma artigianali, dai costumi improbabili (si veda l’abitino postatomicamente sexy della Warren), dalle ingenuità StarTrek-ish (sarebbe bastato agli scimmioni dare una rassettata all’astronave per non chiamare “CA[ution]LI[ve][ani]MA[ls]” le rovine della città proibita); la simbolica comparsata di Charlton Heston che rivela a Tim Ro/Thade la Verità, in quanto ovviamente informatissimo sul passato (del) pianeta (delle scimmie); l'end per nulla happy di sicuro effetto benché difficile da giustificare dal punto di vista della coerenza narrativa (o "infinitamente giustificabile", tirando in ballo improbabili futuri paralleli, cortocircuiti nel continuum spaziotemporale e via e via e via…). Sarà. Ma non sarebbe più intellettualmente onesta un po' di spietatezza col simpatico Tim? E se non fosse altro che un regista "normale" (in senso buono) con un buon talento visivo e poche, condivisibili cose da dire? la sua maniacale apologia della diversità (ma Freaks di Browning è ormai uno splendido settantenne…), il suo gusto per la fiaba dark, le sue scenografie gotiche sempre azzeccate sono forse troppo poco, facendo le debite (s)proporzioni con la fama e il rispetto di cui gode e il gran ben (s)parlare che si ripete puntualmente ad ogni suo film sospinto. Conviene forse prendere il buono che le pellicole di Burton hanno da offrire ma innestare, ogni tanto, il modo dell'indifferenza…

Gianluca Pelleschi


Tim, mani di scimmia.

Qualcuno si era chiesto, dopo la visione del "Mistero di Sleepy Hollow" dove fosse finito Tim Burton-Autore, e a questo punto vorrei sapere cosa si domanderanno i suoi fans e i semplici amanti del cinema dopo aver visto "Il pianeta delle scimmie". Lungi da me affermare che questo sia un brutto film, ma ero lecito aspettarsi una produzione degna di tale regista. Non uso la parola grande per descrivere Burton, perché il dubbio che mi ha sempre pervaso mentre assistevo alle sue opere, era quello di un regista un po' troppo adolescenziale in alcune soluzioni, ma comunque in grado di emozionare grazie al suo romanticismo dal sapore antico; ed è proprio questo il punto. "Il pianeta delle scimmie" è un film di fantascienza sufficiente, ma non c'è niente del suo regista; non c'è una sequenza degna del nome di Burton, e il tutto si risolve in un continuo inseguimento delle scimmie-cattive nei confronti degli uomini-buoni, senza sussulti, senza un qualcosa che emozioni veramente. 
Ci si chiede, visti gli ottimi attori (a parte Whalberg, che povero lui e affetto da una sindrome facciale che non gli consente di cambiare espressione) e visti gli strepitosi effetti di make-up, perché il nostro caro regista non abbia portato nel suo lavoro una riflessione più profonda sul rapporto tra gli uomini e le altre specie, e più in generale tra la specie dominante e le specie subordinate; ci sono delle tracce, degli spunti narrativi che sono stati troncati sul nascere, e che riducono il film ad uno dei tanti prodotti già esistenti sul mercato. Il piccolo colpo di scena finale, non basta a risollevare le sorti di un'opera, in cui la mancanza di una benché minima regia, intendendo con questo termine un lavoro che non si risolva esclusivamente nel piazzare la cinepresa in un punto piuttosto che un altro, che resta appena sufficiente nella sua globalità. Qui non si tratta di pretendere un film d'autore, ma una partecipazione attiva del regista era perlomeno auspicabile. Peccato.

Matteo Catoni


Il Pianeta del nonsense

Che senso ha il remake di un film? 
Eppure ogni stagione i produttori puntano su una formula che si e' gia' rivelata vincente per sfruttarne il traino, abbinando nomi prestigiosi in regia e qualche volto noto tra gli attori per spruzzare di glamour il tutto. Di solito, quindi, il fine e' prettamente commerciale: battere cassa raschiando il fondo della fantasia! 
E qualcosa di simile deve essere accaduto pensando a un rifacimento del grande successo del 1968 di Franklin J. Schaffner. Difficile dare nuovo smalto a un film mitico per l'epoca, ma ormai datato e privo della sorpresa di un capovolgimento dei punti di vista. Il folle tocco di Tim Burton, sempre in bilico tra kitsch e grottesco, non si e' rivelato miracoloso come molti speravano. Il film, infatti, delude sotto tutti i punti di vista. Non convincono ne' la storia, completamente stravolta rispetto all'originale ma con molti piu' buchi logici, ne' le interpretazioni degli attori. Se i servizievoli Tim Roth e Helena-Bonham Carter mantengono intensita' sotto l'efficace trucco di Rick Baker, il protagonista Mark Whalberg e' in perenne distanza dal suo personaggio e Estella Warren ha un ruolo puramente coreografico. Sono proprio i personaggi umani la parte piu' carente del film, a causa di una sceneggiatura colabrodo e banale incapace di renderli vivi. In qualche momento il tocco dell'autore si sente, come nella cena a casa del senatore o quando la piccola scimmietta deve scegliere il suo cucciolo, ma e' ben poca cosa rispetto alla grossolanita' dell'insieme. Anche il colpo di scena finale sembra avere come unico scopo quello di far parlare gli spettatori mentre escono dalla sala. Potrebbe essere una geniale trovata pubblicitaria, visto che il marketing pare l'unico vero mentore di un progetto nato per fare il pienone nei cinema nel primo week-end di programmazione, prima degli effetti devastanti del passaparola.

Luca Baroncini

Commenti

 

 

Il pianeta dark

Quando si prendono le mosse da un mostro sacro del cinema, troppe volte il tentativo di rifarlo si rivela fastidioso e sgraziato. C'era da sperare che Burton non facesse come Gus Van Sant nella sua rivisitazione di "Psycho", dove il grottesco vestiario d'epoca applicato ad attori moderni faceva quantomeno sorridere. In questo caso non credo che Franklin J. Schaffner, creatore dell'originale risalente al 1968, abbia di che rivoltarsi nella tomba; quello di Tim Burton è piuttosto uno spunto, da cui si dipana un'opera indipendente ed estremamente interessante. La scelta dell'unico regista veramente "gotico" di Hollywood per questo tipo di film non può essere casuale; ecco dunque una pellicola violenta, veloce ed esasperata, che trasforma il pianeta delle scimmie in un calderone dark molto simile ad un girone infernale. A quei tempi Schaffner per questioni di budget non aveva potuto lavorare sulla credibilità dei particolari, dalle ambientazioni fino alle movenze degli attori; per quest'ultima necessità, qui Helena Bonham Carter raccoglie coraggiosamente il guanto di sfida. Per interpretare il personaggio della scimmia "umanista" Ari, rivisita ogni singola minuzia della sua recitazione, dall'andatura animalesca e caracollante fino agli istintivi movimenti delle mani; un'altra prova notevole a breve distanza dall'esibizione in "Fight Club" di David Fincher. Al suo fianco c'è uno stralunato Tim Roth nelle vesti del cattivissimo generale Thade, una scimmia il cui unico sogno è vedere gli umani cadere come mosche. Purtroppo per lo spettatore, a livello espressivo gli attori-scimmie rifilano una pista ai visi umani; l'indegno sostituto di Charlton Heston è Mark Wahlberg, che timbra il cartellino ma sembra guardarsi bene dal rivelarsi anche solo vagamente espressivo. Decisamente poco, soprattutto per il protagonista principale; in questo senso Tim Burton capita male, abituato ad interpretazioni maiuscole come quella di Johnny Deep ne "Il mistero di Sleepy Hollow" o - ancora prima - di Jack Nicholson nella disturbata figura del Joker, offerta in "Batman". "Il pianeta delle scimmie" è un film americano, ammirando (si fa per dire) il cowboy spaziale Wahlberg ed il volto assurdamente pulito, con tanto di unghie e labbra impeccabili, di Estella Warren si insinua una vera e propria certezza; ma le doti del regista non tendono a barcollare, anzi l'impressione è che Burton, proprio perché sa di essere vincolato dalle regole di Hollywood, tenda a relegare addirittura l'ipotetico protagonista in un ruolo di secondo piano. Esteticamente il regista pone i presupposti dell'americanata, ma secondo me nel profondo della sua produzione si diverte immensanmente a sgretolarli: questo spiega il perché la bellona di turno viene ridotta ad una marionetta senza fili, lungi dall'incisività iconica di altre figure femminili, dalla cui bocca usciranno qualcosa come cinque battute in quasi due ore, se vogliamo arrotondare in eccesso.
Ed ecco che allora si fa spazio un argomento decisamente più intrigante: la satira feroce della società delle scimmie, un formicaio pullulante di grotteschi primati impegnati nell'imitazione della razza umana, con tanto di sentimenti d'odio e d'amore compresi nella confezione. In questo senso, sarebbe stata una prova di coraggio di un signor regista una piccola imposizione nel finale; il capitano Davidson poteva limitarsi a sfiorare le labbra della scimmia Ari, invece di far storcere il naso alla platea con una rude slinguazzata consumata con la biondona. Ovviamente Burton non poteva ricreare il clima di Schaffner, che nella sua pellicola sottindendeva addirittura un riferimento alla Guerra Fredda in pieno svolgimento; proprio per questo il regista decide di puntare in un'altra direzione, confezionando l'ennesima scelta azzeccata della sua carriera. Il finale si distacca nettamente dall'originale, ma piace perché non scade nella banalità di un happy end, né nella smania della sorpresa a tutti costi; è semplicemente una conseguenza della narrazione, che non manca di colpire la sensibilità della platea. Aggiungiamo poi le scenografie, che nelle opere burtoniane sono storicamente molto curate; basti pensare alla cupezza di Gotham City notturna oppure alle lande nebbiose ed enigmatiche di Sleepy Hollow.
In chiusura, definirei questo remake un film visionario ed elegante; due qualità che nella marmaglia americana non mancano puntualmente di distinguersi, ergendosi come simbolo del buon cinema. Nonostante tradisca vagamente la sua appartenenza americana, la bandiera di Tim Burton continua a sventolare.

Emanuele Di Nicola


Gianluca
Pelleschi
5

Matteo
Catoni
6

Claudio
Dezi
7

Luca
Baroncini
Daniele
Bellucci
6
Manuel
Billi
7
Simone
Ciaruffoli
         
 

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