Recensioni
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Di tante pene
Il nuovo film di
Haneke ha una caratteristica che vale da sola il prezzo del biglietto:
un’avversione senza tentennamenti nei confronti della banalità. La
trama, sulla carta, non lascia dubbi: stremante passione fra signorina
senescente e ragazzetto vivace, con in più – che novità! – tocchi
sadomaso e lacrime a profusione.
Sullo schermo, le cose vanno decisamente in tutt’altra direzione:
assistiamo ad un kammerspiel di ghiacciata, implacabile violenza,
in cui azioni e sentimenti sono messi quasi del tutto al bando in nome di
una disperata, impietosa, allucinatoria sonda psicologica. In una manciata
di interni si sviluppa (s’avviluppa) la vicenda di una donna sola, che
considera il mondo una minaccia costante: dietro la maschera di freddezza
inappuntabile del personaggio (e del film) è il germe di un’angoscia
che si nutre dell’anima, senza distruggerla, anzi esacerbandone le
percezioni. Un fenomeno analogo interessa lo spettatore. I frequenti piani
– sequenza, struttura portante del racconto, non indulgono al
virtuosismo, sono immobili o prevedono pochi movimenti di macchina: in
questo modo l’attenzione si concentra su dettagli (volti, mani, voci) la
cui presenza si fa sempre più insistita, come lame nella carne, al punto
che è difficile scuotersi dalla trance ipnotica così indotta.
“La pianista” è una partitura per corpi, strumenti (musicali e non)
ed ambienti dalla struttura solo apparentemente disarticolata: scorrono,
come quadri di un’esposizione, frammenti delle giornate sempre uguali di
una persona frustrata in ambito sociale, professionale, personale. Erika
insegna pianoforte per il fatto che – da quanto è possibile intuire –
non le è mai riuscito di sfondare come concertista (infatti odia, neppure
tanto velatamente, i propri alunni e tenta in ogni modo di metterli in
ridicolo ed ostacolarli, con mezzi troppo orrendi per potere essere
descritti, in modo da non essere costretta a vederli riuscire laddove lei
ha fallito); detesta, ricambiata, i colleghi (la scena dell’audizione),
non ha amici ma conoscenze, esclusivamente nell’ambito delle serate
musicali (vedi sotto); vive ancora con la madre, decrepita e querula, che
la tratta come una bambina (le seleziona il guardaroba, controlla quanto
spende, le telefona di continuo, pretende spiegazioni per ogni ritardo);
le uniche occasioni mondane sono i concerti della buona società viennese,
dove ha modo di esibire il proprio talento e soprattutto di ascoltare
musica (l’unica attività nel corso della quale la vediamo, forse un
paio di volte in tutto in due ore e passa di film, accennare un debole
sorriso).
Erika è pazza: la sua mania nasce dall’esasperazione del
conflitto corpo/anima. Se l’essere umano è la tastiera di un
pianoforte, Erika ha scelto di toccare soltanto i tasti bianchi,
letteralmente cancellando quelli neri dal proprio campo visivo, o meglio,
esercitandosi su di essi solo quando è sicura di non essere vista da
nessuno. Avvolta nel suo cappotto grigio perla come in una cappa da
congiurato, frequenta le librerie per adulti, visiona video porno, spia le
coppiette nei drive – in: in quest’ossessione masturbatoria conferma
il proprio non sviluppo, l’essersi arrestata alle soglie della
vita che distingue tutta la sua esistenza. Erika vede il proprio corpo
come un estraneo, un intruso, e si comporta di conseguenza: ossessionata
dagli abiti che deve indossare, si ferisce volontariamente e riesce ad
esprimere quello che sente solo tramite la scrittura, come se anche la
parola, il “gesto” verbale, le fosse insopportabile.
La svolta, apparente, giunge quando incontra Walter, un ragazzo che
possiede tutto quello che lei non ha (mai avuto?): è giovane, ricco,
sicuro di sé e, quel che più conta, normale. Per lui è un vero coup
de foudre: attratto dall’algida “perfezione” di Erika, lo
studente riesce ad entrare nella ristretta cerchia degli allievi della
professoressa. Ma il rigore estremo di Erika – in definitiva la dote di
lei che lo aveva attratto – lo induce alla rottura, non prima di una
squallida cerimonia di degradazione che è, per Erika, il principio e la
fine della passione, per Walter, un’occasione di dimostrare la
“superiorità” della normalità su ciò che è “immorale”.
Poi, ogni cosa è pronta per cominciare da capo. O forse no. Come il
viandante della Winterreise, leitmotiv dell’opera, Erika non è
mai stata di casa nella rassicurante, ottusa società umana (le persone
riunite per il saggio scolastico), il suo girovagare senza meta può
concludersi soltanto con la morte, e la ferita che si è procurata
difficilmente basterà allo scopo. Il suo destino è sospeso, le viene
negata persino la trascendenza del suicidio “in scena”.
Gioco al massacro potenzialmente a ripetere, scandito da porte e
finestre aperte e chiuse velocemente ed in silenzio come in un film di
Lubitsch (o in un’operetta di Strauss jr., vista l’ambientazione),
immerso in un sonoro silenzio che ha dignità pari a quella delle altre
musiche, “La pianista” è – anche – un impagabile esercizio di
stile, se per stile intendiamo quel connubio di tecnica ed invenzione che
fa di un film qualcosa di superiore a una mera successione di sequenze. Ciò
che distingue il lavoro di Haneke dal ciarpame odierno è la perfetta
misura del suo sguardo, crudo, scevro di tratti estetizzanti,
compiacimenti e manicheismi, dotato di bella capacità di sintesi (il
“corteggiamento” fra tromba delle scale ed ascensore). Tutti i
personaggi sono al tempo stesso carnefici e vittime di se stessi, e non è
consentita una progressione “in positivo” degli eventi: la giovane
allieva di Erika ne bissa il percorso, nell’ossessiva presenza di una
madre che la considera solo in funzione del suo talento musicale (e
dell’apprezzamento sociale che può, anzi, dovrà derivarne) come
nelle ferite che le tarpano – è il caso di dirlo – le ali.
Bello
tutto il film, ma inarrivabile la protagonista: Isabelle Huppert, alle
prese con un ruolo anche più “fuori” dei suoi abituali, misura con
scrupolo millimetrico ogni gesto, ogni respiro, ogni alzata di
sopracciglio, chiaramente consapevole che basterebbe una sbavatura per
fare scadere la sua Erika nel grottesco, nel volgare, nell’hollywoodiano.
Davanti a lei tutti gli altri, compresi l’autoironica Girardot ed il
disinvolto Magimel, sembrano apprendisti, e l’insieme un po’ ne
risente. Ma è il prezzo della perfezione.
Stefano
Selleri
Viaggio nella natura umana
Cos'e' la normalita'? Che storie racchiudono i volti che incrociamo distrattamente in citta' ordinate gravate da un cielo plumbeo? Che radici hanno le pulsioni dell'uomo? Qual e' il limite da non oltrepassare?
Il film scritto e diretto da Michael Haneke racconta con rara efficacia il mondo interiore di una donna disturbata, in cui le costruzioni mentali diventano una gabbia dove l'unica via di fuga e' l'estremo. Il solo modo per sentirsi davvero vivi in un universo dove la frustrazione ha sostituito l'ambizione. La protagonista e' una talentuosa insegnante di piano che vive con la madre un rapporto morboso e conflittuale, dove le continue liti e riappacificazioni le permettono di riconoscersi in un ruolo, in fondo gratificante (anche perche' riconoscibile), di donna soffocata e repressa. Quello che piu' colpisce e' l'incolmabile distacco tra l'apparenza gelida della protagonista e il continuo fermento della sua mente, capace di arrivare a manipolare un aitante studente innamorato. E il torbido rapporto che si crea tra i due, risulta davvero potente nelle sue implicazioni psicologiche e nel percorso di lucida follia che ne deriva.
Difficile trasformare in immagini il buio di processi inconsci, ma Michael Haneke, grazie ad una messa in scena scarna ed essenziale, riesce nella difficile impresa. I lunghi piani sequenza in cui e' scandito il racconto diventano quindi necessari per esplicitare l'invisibile e permettono allo spettatore di focalizzarsi su importanti dettagli, capaci di chiarire e motivare la dinamica psicologica delle azioni.
Non mancano le sequenze forti e disturbanti, ma nulla e' gratuito, ogni pugno nello stomaco e' un ulteriore tassello in grado di districare la disturbata psicologia della protagonista.
Gran parte del merito e' ovviamente della bravissima Isabelle Huppert, che sceglie l'ennesima sfida prestando il suo enigmatico ed inquietante carisma a un ruolo difficile e rischioso.
Il film pone molte domande, ma non risponde espressamente a nessun interrogativo. Suggerisce piu' che spiegare e produce un effetto quasi catartico nel suo mettere a nudo, in modo estremo, pulsioni umane. Pulsioni che, in diversa misura, ognuno di noi ha, ma che la razionalita' consente di controllare, reprimere, oppure, nella maggior parte dei casi, riversare altrove.
Un film quindi spiazzante, crudele, necessario.
Luca Baroncini
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