LE PORNOGRAPHE
(Le Pornographe)

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REGIA:    
Bertrand BONELLO

PRODUZIONE:  Can/Fra   -   2001   -   Drammatico

DURATA:  108'

INTERPRETI:
Jean-Pierre Léaud, Jeremie Renier, Dominique Blanc, Thibault de Montalembert, Andrè Marcon, Catherine Mouchet, Ovidie, Laurent Lucas

SCENEGGIATURA: Bertrand Bonello

FOTOGRAFIA: Joseé Deshaies

SCENOGRAFIA: Romain Denis

MONTAGGIO: Fabrice Rouaud

COSTUMI: Romane Bohringer

MUSICHE: Laurie Markovitch

Trama

Jacques Laurent, regista di film pornografici da molto tempo inattivo, torna sul set per motivi economici.

Recensioni

 

 

 

Il disgusto degli altri

Parafrasando Bazin, potremmo chiederci “che cos’è il porno?” e meditare a lungo, senza trovare una risposta definitiva, e forse neppure una soddisfacente. Negli ultimi tempi diversi cineasti, francesi e non, si sono occupati di questo argomento, quasi sempre senza andare oltre una superficiale patina “scandalistica”, in realtà innocua. Bonello, invece, propone un punto di vista interessante: l’hardcore potrebbe essere l’essenza del cinema, il conforto e lo specchio della vita quotidiana.
Al centro del film troviamo un maestro in decadenza, un sacerdote delle luci rosse, solo (la moglie è morta suicida, il figlio l’ha ripudiato, con la nuova compagna le cose non vanno troppo bene) e dubbioso circa il valore della propria “fede” (torna a lavorare, ma solo per soldi, almeno all’inizio), animato da una tensione interiore che lo spinge ad proseguire, nonostante le incertezze, a prezzo di qualsiasi umiliazione: questa “spinta” è, semplicemente, l’amore per l’arte, che è un amore contro. Contro i produttori che impongono inquadrature ginecologiche, contro star piagnucolose ed inespressive, contro tutti quelli che disprezzano il mondo del porno e al tempo stesso ne sono morbosamente curiosi, contro la desolazione di una vita al capolinea. Jacques non trascura la costruzione drammatica, dedica grande attenzione alla messinscena e alla composizione dell’immagine, tenta di mantenere un proprio stile (come infatti riconosce il giovane operatore, che afferma di conoscere bene le “sue” inquadrature), sebbene le sue indicazioni (la richiesta, rivolta agli attori, di emozioni verosimili ed espressioni “trattenute”) vengano, com’è prevedibile, frustrate dai finanziatori, che pretendono un videoclip brutalmente esplicito.
Attraverso il cinema, il protagonista si sforza di dimenticare i fantasmi dal passato e le sofferenze presenti: il suo percorso è, in questo senso, simile ed opposto a quello intrapreso dal figlio. Entrambi sono ribelli (l’uno nei riguardi dell’industria filmica, l’altro della società) che combattono con le armi del silenzio, ma il padre non ha (più) la forza di andare fino in fondo: i suoi tentativi (le sfuriate sul set, il progetto di edificare una nuova casa) si dissolvono lentamente, restano sospesi, come il progetto sempre abortito – e alla fine solo in parte realizzato – de “L’Animal”.
La battuta di caccia in cui la preda è costituita da una ragazza non è solo trita fantasia erotica, ma offre una possibile chiave di lettura de “Le Pornographe”: è Jacques la volpe braccata da ogni parte, destinata a soccombere per mano ignota (la conclusione della sequenza è davvero “oscena”, avvenendo lontano dai nostri occhi) in una foresta dai tratti danteschi (la stessa in cui, per inciso, il personaggio ha deciso di fissare la propria dimora). Se si considerano gli altri frammenti hard presenti all’interno del film, è possibile cogliere ulteriori punti di contatto fra i diversi segmenti del racconto: la competizione fra genitori e figli (la giovane ninfomane e l’invadente madre), il desiderio di certezze (la ragazza che pretende di “cessare d’apprendere”), il bisogno di un luogo in cui riposare (la scena western). Il porno non si limita a fare da contrappunto alla trama “normale”, ma costituisce il doppio simbolico della vita, arrivando ad anticiparla: il finale “familiare” immaginato da Jacques (e bocciato dai produttori) diventerà vero attraverso la relazione amorosa vissuta dal figlio (narrata attraverso ellissi pudiche e commoventi). In ogni caso, l’arte funziona meglio della realtà. Se alla base dell’hardcore, ad esempio, è l’idea di unione (dei corpi, degli orgasmi), l’esistenza è solipsismo: i personaggi si trincerano dietro il silenzio più per timore che per coraggio, i gesti rivolti all’altro sono quasi invisibili, tanto da essere facilmente messi in dubbio (come nell’ultimo incontro fra il regista e la moglie), la vita è una danza più o meno vivace, comunque solitaria.
Marcata da un rigore scarnificato, purtroppo afflitta da una colonna musicale elegante e scontata (Vivaldi, Bach eccetera), l’opera di Bonello presenta qualche tratto banale, in particolare nella descrizione dei problemi coniugali del protagonista, e rischia la maniera nei lunghi, silenti piani sequenza en plein air. Interpretazioni di tempestosa pacatezza: il giovane Jérémie Rénier se la cava persino meglio di Léaud, che da parte sua regala almeno una sequenza indimenticabile, quella dell’intervista.

Stefano Selleri

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