Recensioni
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Il disgusto degli altri
Parafrasando
Bazin, potremmo chiederci “che cos’è il porno?” e meditare a lungo,
senza trovare una risposta definitiva, e forse neppure una soddisfacente.
Negli ultimi tempi diversi cineasti, francesi e non, si sono occupati di
questo argomento, quasi sempre senza andare oltre una superficiale patina
“scandalistica”, in realtà innocua. Bonello, invece, propone un punto
di vista interessante: l’hardcore potrebbe essere l’essenza del
cinema, il conforto e lo specchio della vita quotidiana.
Al centro del film troviamo un maestro in decadenza, un sacerdote delle
luci rosse, solo (la moglie è morta suicida, il figlio l’ha ripudiato,
con la nuova compagna le cose non vanno troppo bene) e dubbioso circa il
valore della propria “fede” (torna a lavorare, ma solo per soldi,
almeno all’inizio), animato da una tensione interiore che lo spinge ad
proseguire, nonostante le incertezze, a prezzo di qualsiasi umiliazione:
questa “spinta” è, semplicemente, l’amore per l’arte, che è un
amore contro. Contro i produttori che impongono inquadrature
ginecologiche, contro star piagnucolose ed inespressive, contro tutti
quelli che disprezzano il mondo del porno e al tempo stesso ne sono
morbosamente curiosi, contro la desolazione di una vita al capolinea.
Jacques non trascura la costruzione drammatica, dedica grande attenzione
alla messinscena e alla composizione dell’immagine, tenta di mantenere
un proprio stile (come infatti riconosce il giovane operatore, che afferma
di conoscere bene le “sue” inquadrature), sebbene le sue indicazioni
(la richiesta, rivolta agli attori, di emozioni verosimili ed espressioni
“trattenute”) vengano, com’è prevedibile, frustrate dai
finanziatori, che pretendono un videoclip brutalmente esplicito.
Attraverso il cinema, il protagonista si sforza di dimenticare i fantasmi
dal passato e le sofferenze presenti: il suo percorso è, in questo senso,
simile ed opposto a quello intrapreso dal figlio. Entrambi sono ribelli
(l’uno nei riguardi dell’industria filmica, l’altro della società)
che combattono con le armi del silenzio, ma il padre non ha (più) la
forza di andare fino in fondo: i suoi tentativi (le sfuriate sul set, il
progetto di edificare una nuova casa) si dissolvono lentamente, restano
sospesi, come il progetto sempre abortito – e alla fine solo in parte
realizzato – de “L’Animal”.
La battuta di caccia in cui la preda è costituita da una ragazza non è
solo trita fantasia erotica, ma offre una possibile chiave di lettura de
“Le Pornographe”: è Jacques la volpe braccata da ogni parte,
destinata a soccombere per mano ignota (la conclusione della sequenza è
davvero “oscena”, avvenendo lontano dai nostri occhi) in una foresta
dai tratti danteschi (la stessa in cui, per inciso, il personaggio ha
deciso di fissare la propria dimora). Se si considerano gli altri
frammenti hard presenti all’interno del film, è possibile cogliere
ulteriori punti di contatto fra i diversi segmenti del racconto: la
competizione fra genitori e figli (la giovane ninfomane e l’invadente
madre), il desiderio di certezze (la ragazza che pretende di “cessare
d’apprendere”), il bisogno di un luogo in cui riposare (la scena
western). Il porno non si limita a fare da contrappunto alla trama
“normale”, ma costituisce il doppio simbolico della vita, arrivando ad
anticiparla: il finale “familiare” immaginato da Jacques (e bocciato
dai produttori) diventerà vero attraverso la relazione amorosa
vissuta dal figlio (narrata attraverso ellissi pudiche e commoventi). In
ogni caso, l’arte funziona meglio della realtà. Se alla base
dell’hardcore, ad esempio, è l’idea di unione (dei corpi, degli
orgasmi), l’esistenza è solipsismo: i personaggi si trincerano dietro
il silenzio più per timore che per coraggio, i gesti rivolti all’altro
sono quasi invisibili, tanto da essere facilmente messi in dubbio (come
nell’ultimo incontro fra il regista e la moglie), la vita è una danza
più o meno vivace, comunque solitaria.
Marcata
da un rigore scarnificato, purtroppo afflitta da una colonna musicale
elegante e scontata (Vivaldi, Bach eccetera), l’opera di Bonello
presenta qualche tratto banale, in particolare nella descrizione dei
problemi coniugali del protagonista, e rischia la maniera nei lunghi,
silenti piani sequenza en plein air. Interpretazioni di tempestosa
pacatezza: il giovane Jérémie Rénier se la cava persino meglio di Léaud,
che da parte sua regala almeno una sequenza indimenticabile, quella
dell’intervista.
Stefano
Selleri
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