L'UOMO CHE NON C'ERA
(The Man who wasn't there)

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REGIA:    
Joel COEN

PRODUZIONE:  U.S.A.   -   2001   -   Noir

DURATA:  116'

INTERPRETI:
Billy Bob Thornton, Frances McDormand, James Gandolfini, Michael Badalucco, Richard Jenkins, Scarlett Johansson, Jon Polito, Tony Shaloub, Katherine Borowitz

SCENEGGIATURA:
Joel & Ethan Coen

FOTOGRAFIA:
Roger Deakins

SCENOGRAFIA: 
Dennis Gassner

MONTAGGIO: 
Ethan Coen - Joel Coen - Tricia Cook

COSTUMI: 
Mary Zophres

MUSICHE: 
Carter Burwell

Trama

1949. Ed Crane, barbiere taciturno, è tradito dalla consorte. Per buttarsi in un business (lavanderie a secco) che vede come l'occasione per riscattare la sua grigia esistenza, ricatta anonimamente l'amante della moglie minacciando di rivelarne la relazione. Ma le cose prendono una piega imprevista...

Recensioni

 

 

 

Fratelli dove siete? (ovvero: quando è troppo è troppo)

Con i Coen c'è il pericolo concreto di scrivere sempre la stessa recensione: colti, conoscitori del "giocattolo cinema" come pochi, con una padronanza suprema dei suoi complessi congegni, risultano scontatamente bravi nel maneggiare i generi, nel citarli e piegarli ad esigenze altre (cristo, stiamo davvero a ripetere sempre le stesse cose... cfr. "Il peccato della perfezione" su FRATELLO, DOVE SEI?), ma, dopo L'UOMO CHE NON C'ERA, alla gelida ammirazione subentra, prepotente, l'irritazione. Il loro cinema, fattosi definitivamente e esclusivamente paradigma, mostrando solo la sua inerme struttura, appare oggi di nudità scolastica imbarazzante. Il cerchio(ne) perfetto della ruota dell'auto che disegna la sua traiettoria nel vuoto, fasci di luce che si stendono in nitide diagonali, performance attoriali calcolate al millimetro, un bianco e nero che dice - come gli ambienti, i dialoghi, la voce fuori campo - di cinema classico, di anni 40, di noir, di una certa precisa letteratura. Enciclopedica come sempre, la premiata coppia sforna un'opera che suona sempre meno come un'impeccabile prova di abilità, sempre più come fredda operazione di matematica o dimostrazione di geometria elementare: un uomo senza qualità, nelle maglie di una storia che si fa kafkiana, cerca di affermare il suo esistere, il suo essere (personaggio...) apparendo semplice rotella del solito meccanismo coeniano - uno schema che non cambia, canbiando solo l'epoca e il genere (la prossima volta potrebbe essere musical, fantascientifico, bellico o western) -. Il sollazzarsi coi parametri narrativi, la manipolazione dei topoi, le citazioni sparse dappertutto (a cominciare dai nomi), il complesso sistema ad incastri di coincidenze, che agiscono in virtù di un Fato più acuto di un angolo, li abbiamo già visti (BLOOD SIMPLE, FARGO, BARTON FINK, FRATELLO), così come le ironiche e stranianti pieghe che assume una scrittura che sa di potersi permettere tutto (dischi volanti compresi). Per la prima volta, però, aleggia, pesante, la noia in questo ennesimo film\saggio e anche le consuete svolte tramiche divengono di prevedibile imprevedibilità in una sceneggiatura più divagante del solito. La masturbazione postmoderna dei due lascia insoddisfatti insomma, le fantasie che la animano cambiano solo in apparenza e dicono che è tempo per i Coen di sporcarsi le mani non soltanto con i loro umori cristallini, che sono inodori come lo è ogni teoria, ma anche con quelli sporchi e asprigni del mondo; quella del citazionismo, della miscellanea, della destrutturazione è diventata una maschera trasparente che lascia guardare il niente sul quale è poggiata, un niente insopportabile anche se dichiarato, anche se rivendicato come una poetica. Quello che era un timore va divenendo certezza: i Coen non sanno fare altro che questo cinema galera, una prigione dannatamente perfetta che comincia a farsi soffocante: nel loro film tutto è sotto controllo, qualunque cosa torna, i conti per primi, tutto è circoscritto nel quadrato di questa cella parautoriale, poco spazio, e calcolato, per discussioni e interpretazioni, anche quelle date in partenza. Sofisticati, intelligenti? Certo, come negarlo? I loro ammiratori saranno contenti, ma stufi noi, se ce lo si permette. C'è da sperare che i fratellini anziché giocare con il cinema si decidano, una buona volta, a farlo.

Luca Pacilio

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Il noir nell’epoca del relativismo

Perplesso e malinconico, Billy Bob Torthon è alla ricerca della morte. La ricerca inconsciamente ma neppure tanto visto che con una ingenuità che non può essere un carattere del suo personaggio (che invece, umbratile ed incline alla speculazione filosofica, seppur da barbiere, è riflessivo e guardingo) accetta di essere beffato da un truffatore omosessuale che non fa nulla per nascondere il proprio doppiogiochismo. Va alla ricerca dell’annullamento che anche nell’epoca del principio d’indeterminazione, del caos e del relativismo gnoseologico viene garantito all’essere cosciente del proprio fallimento, per quanto in maniera imprevista, per atti non compiuti, per fatti non denunciati. Finisce sulla sedia elettrica, nella bianca ed asettica stanza della fine.  Mentre la “Patetica” beethoveniana  lo libera dall’orrore facendolo sprofondare nella purezza di un’Arte che non conosce, mentre nel piacere estatico e nella giovinezza candida ma subdolamente viziosa assapora le ultime, o uniche, dolcezze della vita, osserva la gente camminare per strada, ignara di tutto, ignara di se stessa.  Tra  macchie di sangue e capelli recisi, contempla il triste spettacolo della propria fine e della fine del mondo che lo circonda.
I fratelli Coen lavorano all’interno del genere noir e con tutti i suoi stereotipi (voce del morente che si confessa, atmosfera notturna , voglia di riscatto, amore malsano) facendone venire alla luce gli aspetti più negativi, cupi, pessimistici, iniettandovi dosi massicce di modernismo (Heisenberg). Sbaglia chi lo considera un puro esercizio di stile.  Anzi, in questo caso i fratelli ci propinano meno virtuosismi di regia del solito. Sono più controllati, rispettosi dell’immensità del dolore del protagonista (meno, giustamente, della mediocrità degli altri personaggi, tutti osservati con condivisibile disprezzo). Solo negli ultimi minuti riemerge il loro spirito ludico. Ma il più, e il meglio, è ormai già fatto.
Un film grigio come dopo il tramonto del sole e del mondo.

Manuel Billi

Spazio lettori

 

 

Commedia umana screziata di rosso

I fratelli Cohen cambiano decisamente genere, dopo l'omerico "Fratello, dove sei?"; qui miscelano citazionismo ed eleganza registica, per creare una miscela semplicemente da applausi. La sigaretta è il prolungamento facciale di Billy Bob Thorton per tutto il film, in un clima fitto di rimandi bogartiani; l'interpretazione del protagonista, alterato da un incredibile parrucchino, è semplicemente eccellente. Raramente capita di vedere un attore americano così affermato dimenticare totalmente l'invitante tanfo del danaro, per offrire un'autentico corso di recitazione su pellicola; perle di saggezza per ogni emergente, che dal viso monolitico di Thorton riesce a dedurre il postulato della settima arte. Il bianco e nero optato dai registi non è un occhiolino a Fellini nello stile di David Lynch ("Elephant Man"), bensì una citazione ai quei furenti anni Quaranta, capaci di rielaborare il concetto di cinema. La telecamera danza con signorilità, padrona di uno stile smisurato: elencare tutti i virtuosismi sarebbe un'impresa fluviale. Vi basti la scena in cui il protagonista al rallentatore si muove tra la folla, anima mimetizzata fra la massa, mentre i passanti al contrario vengono paradossalmente velocizzati; oppure i segmenti onirici che annunciano il finale, spezzati dal grottesco movimento del cerchione di un'automobile. Il duo Cohen possiede una maturità espressiva davvero notevole, unita alla capacità di raccontare storie avvincenti, dipanando la matassa soltanto gradualmente; un altro pregio enorme è quello di presentare non un nucleo narrativo centrale, ma un formicaio brulicante di personaggi spesso volutamente stereotipati, vite, sensazioni, differenti circuiti emozionali. Con pochi tratti -a volte un solo scambio di battute!- una figura viene delineata in maniera asciutta ed inequivocabile; l'esempio lampante è la moglie di Big Dave che, sotto il risibile sguardo sbarrato, nasconde in realtà una storia di devastante umanità. Incapace di rassegnarsi ai tradimenti del marito, la sua psiche preferisce adottare un'improbabile verità extraterrestre... o forse non troppo improbabile, visto che poco dopo, all'interno di un qualsiasi quotidiano, capeggia l'inquietante mistero dell'UFO-crash di Roswell. Questo film è un alveare di divagazioni, sfumato e coinvolgente, capace di fissare una verità, salvo poi metterla in gioco nella scena successiva. "L'uomo che non c'era" è l'anello di congiunzione mancante fra lo spettacolo passato ed il cinema presente; adottando il solo filtro di una regia illuminata di stile, raccoglie, elabora e ripropone le suggestioni di un tempo. Di conseguenza, non è un noir soltanto di nome, ma anche di fatto: una commedia umana screziata di rosso, come la platea non ammirava da parecchio. Il ritorno agli origini esplicita un elemento di distacco: se nel 1940 il cinema era sostanzialmente povero e per consacrare un film le interpretazioni per forza di cose dovevano realmente essere "grandi", adesso nel 2001 gli sfarzi computerizzati sembrano rincorrersi in una gara all'involucro, alla confezione priva di contenuto. I fratelli Cohen si elevano dal letame qualitativo americano, affidandosi esclusivamente al loro genio fantasioso ed alle qualità degli interpreti: fortunatamente fanno pesca grossa, selezionando soltanto attori in stato di grazia. Oltre al già citato protagonista, il secondo squalo è James Gandolfini: narciso, ammiccante, logorroico, abilmente in bilico tra il "noir" e il "grotesque".
Da vedere per imparare qualcosa sul cinema. Se all'uscita della sala non siete soddisfatti, beh... allora compratevi una bambola gonfiabile!

Emanuele Di Nicola


Luca
Pacilio
6

Daniele
Bellucci

Luigi
Garella
5

Simone
Ciaruffoli
8
Manuel
Billi
9
 
           
 

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