VIAGGIO A KANDAHAR
(Safar e Ghandehar)

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REGIA:    
Mohsen MAKHMALBAF

PRODUZIONE:  Iran/Fra   -   2001   -   Drammatico

DURATA:  85'

INTERPRETI:
Niloufar Pazira, Hassan Tantaï, Sadou Teymouri, Hayatalah Hakimi

SCENEGGIATURA:
Mohsen Makhmalbaf

FOTOGRAFIA: 
Ebrahim Ghafori

MONTAGGIO: 
Mohsen Makhmalbaf

MUSICHE: 
Mohammad Reza Darvishi

Trama

Nafas, giornalista canadese, torna nella sua terra d'origine, l'Afghanistan, per aiutare la sorella.

Recensioni

 

 

 

Relative Light: il sole e l’a(l)tre stelle

Un disco nero su uno sfondo oro sbiadito: due puntini sovrapposti, quasi combacianti, per chi osserva il cielo dalle profondità di un pozzo. Il sole percorre, con passo lieve e letale, il suo eterno cammino, ma qualcuno tenta di precederlo: una giovane donna s’immerge volontariamente nelle tenebre della burqa per raggiungere la sorella ed impedirle di togliersi la vita, prima che si compia l’ultima eclissi del millennio.
“Viaggio a Kandahar”, inutile (forse) ribadirlo, è stato concepito e girato molto prima che la condizione della donna in Afghanistan divenisse argomento di cicaleccio per salottini televisivi (come profetizzato da Margherita Giacobino nel suo articolo per Smemoranda ‘99), e sarebbe riduttivo leggerlo in chiave d’instant movie, d’opera “di denuncia” come, per rimanere nell’ambito della cinematografia iraniana, il celebrato “Cerchio” di Panahi. Il regista non concentra la propria attenzione su un singolo tema, ma sceglie uno sguardo d’insieme sul mondo afgano, tentando d’intrecciare al tempo stesso un discorso che oltrepassi i confini del contesto sociale e culturale in questione senza però perderlo di vista.
La storia è quella di un viaggio di ritorno, e non sarebbe errato parlare di un’odissea contemporanea attraverso il deserto tra Iran e Afghanistan (che del mare aperto ha la piattezza, il nitido livore, la totale mancanza di punti di riferimento), compiuta da un’eroina solitaria, forzata a mascherare la propria identità e a difendersi da pericoli che possono emergere da ogni parte per salvare una persona a lei cara. Gli incontri, e più generale gli eventi che si svolgono nei luoghi da lei attraversati, sono tessere di un mosaico che rivela il volto mostruoso [anche, non principalmente, nell’accezione etimologica di fuori dal (nostro) consueto] del conservatorismo mediorientale, e più ancora la prigionia, fisica e spirituale, cui gli esseri umani, donne e uomini, sono condannati dalla tradizione, da ogni tipo di tradizione. Al giovane allievo che non riesce a leggere correttamente il Corano, il mullah impone di intonare la melodia trascurando il testo: i valori originali scompaiono, resta una parvenza di moralità che è solamente un misto di paura (la “benedizione” rivolta ai depredatori, il timore delle chiacchiere della “gente”) e trionfalismo (il citato mullah). Le facce delle persone sono mimetizzate da maschere di vario tipo (la burqa, la barba) che sono un palese, irrefutabile invito al conformismo, a non uscire dal “branco”, a seppellire il dissenso nel cerchio della propria prigione (lo smalto sulle unghie delle donne intabarrate).
Solo dalla sensibilità dei singoli può venire un cambiamento: la protagonista sostiene che “se tutti avessimo in mano una candela, potremmo fare a meno del sole”, quel sole che incombe, minaccioso e dolente, sulle dune la cui lucentezza è screziata qua e là da scheletri ingioiellati. L’astro, al pari delle donne prigioniere della burqa, sta per velarsi di nero, quasi non volesse più essere testimone delle sofferenze umane, ed è doppio simbolico dell’invisibile sorella di Nafas, che ha minacciato di suicidarsi per non dover più vivere quello che per lei è divenuto un estenuante morire. La speranza non si compie, almeno nell’immediato: l’opera non conclude, perché il divenire degli eventi è caratteristica dell’esistenza vera, non della vita apparente.
Nel film, modellato da un incantatorio gioco di luci e ombre nel quale si fondono il fulgore accecante del bianco e il livore mortuario del nero (le due madri), la sapienza visiva di
Makhmalbaf ha cento occasioni per esprimersi al meglio, e non di rado le coglie: alcune immagini (il corteo nuziale man mano sempre meno numeroso, i due gruppi di bambini, dentro e fuori il cortile della scuola coranica) hanno l’astratta bellezza di un quadro e l’acutezza critica di un saggio di sociologia, altre (le protesi paracadutate sul campo della Croce Rossa) sono irritanti nel loro calligrafismo.
Il problema è che, travolto dalla materia incandescente che ha scelto di affrontare, il regista non sempre riesce ad amalgamare le tante (troppe?) piste del racconto: si ha così l’impressione di assistere a molti film diversi (su Nafas, sul bambino maltrattato dal mullah, sul dottore etc.), alcuni (la maggior parte) riusciti, altri ingabbiati da tratti smancerosi e da un’ironia nelle intenzioni sarcastica, nei risultati spesso artificiosa. Autenticamente orrendo, invece, il doppiaggio italiano, bamboleggiante e privo di spessore. Ma siamo sicuri di avere (ancora) i migliori doppiatori del mondo?

Stefano Selleri

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