Recensioni
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Relative Light: il sole e l’a(l)tre stelle
Un
disco nero su uno sfondo oro sbiadito: due puntini sovrapposti, quasi
combacianti, per chi osserva il cielo dalle profondità di un pozzo. Il
sole percorre, con passo lieve e letale, il suo eterno cammino, ma
qualcuno tenta di precederlo: una giovane donna s’immerge
volontariamente nelle tenebre della burqa per raggiungere la
sorella ed impedirle di togliersi la vita, prima che si compia l’ultima
eclissi del millennio.
“Viaggio a Kandahar”, inutile (forse) ribadirlo, è stato concepito e
girato molto prima che la condizione della donna in Afghanistan divenisse
argomento di cicaleccio per salottini televisivi (come profetizzato da
Margherita Giacobino nel suo articolo per Smemoranda ‘99), e
sarebbe riduttivo leggerlo in chiave d’instant movie,
d’opera “di denuncia” come, per rimanere nell’ambito della
cinematografia iraniana, il celebrato “Cerchio” di Panahi. Il regista
non concentra la propria attenzione su un singolo tema, ma sceglie uno
sguardo d’insieme sul mondo afgano, tentando d’intrecciare al tempo
stesso un discorso che oltrepassi i confini del contesto sociale e
culturale in questione senza però perderlo di vista.
La storia è quella di un viaggio di ritorno, e non sarebbe errato parlare
di un’odissea contemporanea attraverso il deserto tra Iran e Afghanistan
(che del mare aperto ha la piattezza, il nitido livore, la totale mancanza
di punti di riferimento), compiuta da un’eroina solitaria, forzata a
mascherare la propria identità e a difendersi da pericoli che possono
emergere da ogni parte per salvare una persona a lei cara. Gli incontri, e
più generale gli eventi che si svolgono nei luoghi da lei attraversati,
sono tessere di un mosaico che rivela il volto mostruoso [anche, non
principalmente, nell’accezione etimologica di fuori dal (nostro)
consueto] del conservatorismo mediorientale, e più ancora la
prigionia, fisica e spirituale, cui gli esseri umani, donne e uomini, sono
condannati dalla tradizione, da ogni tipo di tradizione. Al giovane
allievo che non riesce a leggere correttamente il Corano, il mullah impone
di intonare la melodia trascurando il testo: i valori originali
scompaiono, resta una parvenza di moralità che è solamente un misto di
paura (la “benedizione” rivolta ai depredatori, il timore delle
chiacchiere della “gente”) e trionfalismo (il citato mullah). Le facce
delle persone sono mimetizzate da maschere di vario tipo (la burqa,
la barba) che sono un palese, irrefutabile invito al conformismo, a non
uscire dal “branco”, a seppellire il dissenso nel cerchio della
propria prigione (lo smalto sulle unghie delle donne intabarrate).
Solo dalla sensibilità dei singoli può venire un cambiamento: la
protagonista sostiene che “se tutti avessimo in mano una candela,
potremmo fare a meno del sole”, quel sole che incombe, minaccioso e
dolente, sulle dune la cui lucentezza è screziata qua e là da scheletri
ingioiellati. L’astro, al pari delle donne prigioniere della burqa,
sta per velarsi di nero, quasi non volesse più essere testimone delle
sofferenze umane, ed è doppio simbolico dell’invisibile sorella di
Nafas, che ha minacciato di suicidarsi per non dover più vivere quello
che per lei è divenuto un estenuante morire. La speranza non si compie,
almeno nell’immediato: l’opera non conclude, perché il
divenire degli eventi è caratteristica dell’esistenza vera, non della
vita apparente.
Nel film, modellato da un incantatorio gioco di luci e ombre nel quale si
fondono il fulgore accecante del bianco e il livore mortuario del nero (le
due madri), la sapienza visiva di Makhmalbaf
ha cento occasioni per
esprimersi al meglio, e non di rado le coglie: alcune immagini (il corteo
nuziale man mano sempre meno numeroso, i due gruppi di bambini, dentro e
fuori il cortile della scuola coranica) hanno l’astratta bellezza di un
quadro e l’acutezza critica di un saggio di sociologia, altre (le
protesi paracadutate sul campo della Croce Rossa) sono irritanti nel loro
calligrafismo.
Il
problema è che, travolto dalla materia incandescente che ha scelto di
affrontare, il regista non sempre riesce ad amalgamare le tante (troppe?)
piste del racconto: si ha così l’impressione di assistere a molti film
diversi (su Nafas, sul bambino maltrattato dal mullah, sul dottore etc.),
alcuni (la maggior parte) riusciti, altri ingabbiati da tratti smancerosi
e da un’ironia nelle intenzioni sarcastica, nei risultati spesso
artificiosa. Autenticamente orrendo, invece, il doppiaggio italiano,
bamboleggiante e privo di spessore. Ma siamo sicuri di avere (ancora) i
migliori doppiatori del mondo?
Stefano
Selleri
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