Recensioni
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Visioni già viste
Difficile
stabilire a priori fino a che punto un’opera cinematografica debba
rispettare il testo teatrale su cui si basa. Ciononostante, le pellicole
tratte dalle opere di Shakespeare possono essere ripartite in tre
categorie: fedeli nella forma e nello spirito, vale a dire le
trasposizioni (nel senso migliore del termine); fedeli nello spirito ma
non nella forma, ovvero i film veri e propri, invenzioni su un tema del
Bardo; fedeli nella forma ma non nello spirito, cioè le illustrazioni,
lussuose, anche dotate di una certa grazia, ma irrimediabilmente
superficiali e superflue.
A quest’ultima classe appartiene l’opera di Hoffman, anche
sceneggiatore. L’azione è trasportata – senza troppa originalità,
dopo “Molto rumore per nulla” di Branagh – nella campagna toscana di
fine Ottocento, ma ogni altro dettaglio resta uguale: il borgo si chiama
Monte Atena (in questo modo non si perdono i riferimenti all’Atene di
sogno dell’originale) e i personaggi, vestiti come comparse dei film
Lumière, declamano interminabili monologhi di versi a rima baciata,
mentre nel bosco che circonda le abitazioni dei mortali si aggirano le
fate, abbigliate dei magnifici costumi ideati da Gabriella Pescucci.
Il dialogo presenta qualche taglio, ma l’intreccio è rispettato: quello
che manca è l’essenza, il senso sotterraneo del testo. L’opera di
Shakespeare è una riflessione sull’amore e sul teatro, illusioni rese
reali, prepotentemente “vere”, dallo sguardo, sempre velato da un
filtro (volontario o meno) che distorce l’obiettività delle cose: gli
affetti mutano ad uno sbattere di palpebre, gli occhi riscrivono la realtà
momento dopo momento, e chi si lascia ingannare è più saggio di chi
resiste alla malia del racconto scenico e, perché no, cinematografico.
Questo aspetto della commedia emerge solo nella scena della recita degli
artigiani, pure viziata da noiosi lazzi e trovate vecchie come il mondo:
quando Tisbe (interpretata, secondo le convenzioni elisabettiane, da un
uomo) cessa di parlare con voce contraffatta e si libera della parrucca,
conferendo finalmente autentica disperazione alle proprie parole,
assistiamo alla negazione assoluta, liberatoria, del naturalismo,
attraverso la quale è possibile giungere al profondo, puro realismo delle
passioni.
Si tratta di uno dei pochi momenti di vera magia nel corso dell’intero
film, dato che elfi e fate si dedicano a
scherzi grossolani e monotoni, mentre nella colonna sonora
impazzano i grandi successi dell’opera italiana del XIX secolo, da Verdi
a Bellini. La suggestione preraffaelita di scene (Luciana Arrighi) e
costumi sarebbe stata esaltata da qualche pagina di Debussy, ma la
produzione – americana – ha preferito puntare sul “sicuro”, e
questi sono i risultati. Gli attori sembrano molto presi dal gioco, ed
alcuni (Everett e Pfeiffer in testa) dispongono di una notevole presenza
scenica, ma tranne che in un paio di casi – Kline e il giovane Sam
Rockwell – è eccessivo parlare di interpretazione.
Hoffman
dirige meglio di come scrive, e coglie con discreta abilità lo spirito
della foresta incantata, nella quale è il paesaggio a mutare, mentre i
personaggi rimangono immobili (si veda l’epifania della reggia di
Titania, esaltata dalla cristallina fotografia di Oliver Stapleton): ma le
scenografie ricostruite in studio sono troppo inamidate per catturare fino
in fondo, le trovate comiche sono stupide e fintamente trasgressive come
in uno show del sabato sera, le contaminazioni antico/moderno (la fate col
giradischi, i folletti in bicicletta) si esauriscono in cinque minuti. Per
essere un po’ più vicini al Bardo, meglio rivolgersi a Bergman o Allen.
Stefano
Selleri
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