TUTTO SU MIA MADRE
(Todo sobre mi madre)

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REGIA:    
Pedro ALMODOVAR

PRODUZIONE:  Fra/Spa   -   1999   -   Dramm.

DURATA:  105'

INTERPRETI:
Cecilia Roth, Marisa Paredes, Antonia San Juan,
Candela Pena, Penelope Cruz, Rosa Maria Sarda,
Eloy Azorin, Toni Cantò, Fernando Fernan Gomez

SCENEGGIATURA: Pedro Almodovar

FOTOGRAFIA: Affonso Beato

SCENOGRAFIA: Antxon Gomez

MONTAGGIO: José Salcedo

COSTUMI: J. Maria De Cossio - Sabine Daigeler

MUSICHE: Alberto Iglesias

Trama

Manuela lavora in un ospedale di Madrid come coordinatrice dell'organizzazione per i trapianti e vive col figlio Esteban, appassionato di letteratura, il quale muore il giorno del suo diciassettesimo compleanno investito da un'auto. Manuela decide allora di tornare nella sua città natale, Barcellona, per cercare il padre di Esteban e fargli leggere le ultime parole scritte dal ragazzo dedicate a lui…

Recensioni

 

 

 

Drammatico, divertente, tragico, comico, disperato, speranzoso; perennemente "trans" da uno stato d'animo all'altro, a cavallo tra gli umori, sballottato da una lacrima a un sorriso, da un pianto a una risata per ricordarci, se mai ce ne fosse bisogno, che la vita è una commedia e che siamo niente se non "l'idea" che abbiamo di noi, irraggiungibile nella sua compiutezza ma avvicinabile per quanto ce lo permettono le nostre maggiori o minori doti di "attori". Stilisticamente ineccepibile, più ricercato e raffinato del solito ma asciutto, senza un movimento di macchina o un formalismo di troppo, e col marchio di fabbrica dei "colori di Almodovar", accesi e caldi come i personaggi che popolano il suo cinema...eh sì, ha trovato la propria formula magica, Pedro, e ora sa dosare quegli eccessi grottesco-surreali (spesso fastidiosi) che lo caratterizzavano per presentarceli come assolutamente veri, vivi, reali e credibili. Insieme a "il fiore del mio segreto", il miglior Almodovar di sempre, che potrà piacere anche a chi (come il sottoscritto) non è mai stato un suo fan. 

Gianluca Pelleschi


Il tredicesimo film dell’autore spagnolo è la sua prova più matura, nella sintesi estremamente felice di due generi (melodramma e commedia) all’apparenza senza punti di contatto, nella regia minuziosa e "invisibile", nei dialoghi ironici e commoventi, nell’attenzione puntigliosa e affettuosa ad ogni aspetto dello spettacolo, dai colori (mai così carichi e luminosi) alle scenografie magicamente sospese tra la vita e il teatro.
Il tema dominante del film è la maschera, il teatro, la finzione che sia sul palcoscenico sia nella vita di tutti i giorni è l’unico strumento che ci rende accettabile l’esistenza, gravata da problemi che il sogno riesce a dissolvere attraverso la creazione di un mondo migliore di quello in cui si è costretti a vivere. Tutti recitano, secondo Almodóvar, ed in particolare le donne, maestre nella narrazione e rappresentazione delle passioni, consapevoli dell’importanza della simulazione a scopo terapeutico. La finzione è, paradossalmente, vita, ed è assurdo volerla eliminare in nome di una verità fredda e sterile come una morgue.
Con un’ironia quasi rasserenata, sempre irriverente ma meno acida di quella esibita nelle opere precedenti, il regista esplora i suoi territori prediletti, quelli dei legami familiari e delle difficoltà del comunicare, ed comunica al pubblico l’amore per le sue donne, in particolare le madri. Ridotti i ruoli maschili a fantasmi (il figlio diciassettenne di Manuela, il vecchio e rimbambito padre di Rosa, un neonato) o a macchiette (l’attore che interpreta il testo di Williams al fianco di Huma e Nina, preoccupato solo del proprio… piccolo), il regista mette a loro agio le figure femminili, le segue nelle loro chiacchiere, nei loro dolori, nelle loro confidenze, le gratifica con primi piani intensi ed indelebili, le moltiplica con un uso insistito degli specchi, le colloca in ambienti spogli, scanditi da luci oniriche, esaltandone la forza e la sorprendente "normalità".
Sospeso tra la grande tradizione melodrammatica (teatrale e cinematografica, da Williams a Sirk e Minnelli) e la commedia di carattere, lieto di abbandonarsi alla propria ricchissima vena citazionista, Almodóvar trova il punto di equilibrio tra l’irruenza da enfant terrible del cinema iberico e la maestria da professionista di talento, fa i conti con il proprio passato, le proprie attrici preferite (Roth e Paredes in testa) e la propria concezione di cinema, probabilmente chiudendo una fase del proprio percorso esistenziale e creativo, certamente firmando la sua opera più armoniosa, cui si perdona tutto, la trama inverosimile, le scene madri, persino un sospetto di maniera.

Stefano Selleri

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