Recensioni
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Viaggio
verso il razzismo Non
lasciatevi ingannare dal titolo: "Viaggio verso il sole" è il
provocatorio ossimoro che la regista Yesim Ustaoglu sbatte in faccia al suo paese ma
anche al nostro "beato" menefreghismo occidentale nei riguardi
della
questione curda. In realtà il film non è una denuncia manifesta e
retorica sul trattamento della popolazione curda da parte del regime
turco, è un campo minato di ellissi, un
susseguirsi di sequenze sistematicamente senza raccordo, dove la fluidità
narrativa è continuamente spezzata, i buchi della sceneggiatura talmente
evidenti da far pensare che Yesim Ustaoglu abbia volontariamente messo da
parte l'omogeneità della scrittura per affidarsi esclusivamente alle
immagini, ai documentaristici primi piani che riprendono i protagonisti
intenti in brevi e ordinari
dialoghi, in gesti di vita quotidiana in una Istanbul mai così ambigua, o
immersi nella più cupa disperazione; ai campi lunghi su paesaggi
straniati avvolti in un silenzio angosciante; a scatti di azione
improvvisa che spezzano il clima di calma apparente, come tentativi di
strappare un cappio che ci si ritrova attorno al collo senza motivo; insomma una scelta
stilistica talmente estrema da
inserire il film a pieno titolo nell'ambito di una radicale neo-Nouvelle-Vague, ponendosi nella cinematografia medio-orientale così
come Wong-Kar-Wai (con le dovute differenze) si è inserito in quella estremo-orientale.
Si è detto delle ellissi: uno spettatore attento non potrà non aver
notato come la parola "curdo" non venga mai pronunciata, eppure
verrà iniziato ad una progressiva rivelazione del messaggio attraverso nascosti ma
inequivocabili segnali, come quando Berzan, che vediamo braccato
dall'esercito, rivelerà all'amico di essere nativo di un paese al confine
con l'Iraq; o come quando il colore della pelle di Mahmet scatena la
domanda (sempre la stessa, come un incubo, durante tutto il film) sulla
sua origine e l'incredulità alla sua risposta: Tire (?), vicino Smirne
sull'Egeo; l'ostilità della popolazione nei confronti di Mahmet, non
viene dichiarata a a parole, è palpabile ma silenziosa, si avverte
nell'aria e nelle facce ma non si vede finché non arriva il marchio della
condanna: una grossa X rossa su tutti gli usci delle case
nelle quali Mahmet cerca una via di scampo, una fuga da una situazione
irrazionale, nella quale si trova improvvisamente come in un incubo, un
segno che rimanda inequivocabilmente agli appestati di qualche secolo
fa o agli ebrei
all'inizio della persecuzione nazista.
Il messaggio a questo punto non può essere più frainteso: il
risentimento dei turchi nei confronti dei curdi non è dettato né da
motivi politici né economici (il petrolio del Kurdistan): è RAZZISMO
allo stato puro, e la provocazione della regista è proprio quella di
rappresentare il bersaglio della popolazione non attraverso un curdo ma da un
turco con la pelle scura, smascherando in tal modo tutte le ipocrisie con
cui la gente cerca di giustificare la propria radicata ostilità nei
confronti degli scomodi vicini (anzi, nella stessa casa, ma di chi è
veramente la casa?...). Mentre, di contro, l'ordinaria ma sana
cultura dei ragazzi non provocherà alcun tipo si stupore nei due quando
si riveleranno i luoghi di nascita: la risposta produrrà lo stesso
effetto che il sapere da quanto tempo l'altro vive ad Istanbul: un
colloquio emblematico nella sua banalità e che si sublima in
"morale" solo in quanto rapportato ad una innaturale
generalizzata mentalità retrograda e razzista.
Nonostante la
seconda parte del film - il viaggio visionario-metaforico che intraprende
Mahmet con la bara dell'amico morto verso il suo luogo di nascita per
seppellirlo - produca qualche momento di stanca rispetto alla prima (anche
se il linguaggio è ancor più esclusivamente affidato alle immagini a discapito delle parole), "Viaggio verso il sole" spicca
definitivamente il volo nell'epilogo, con due sequenze memorabili
dai connotati simbolici amarissimi: la bara di Berzan spinta
dall'amico alla deriva lungo un lago che ricopre una città (uno stato...)
che non esiste
più, una terra di nessuno, una moderna Atlantide sommersa da un mare di
integralismi e pregiudizi; e un sole che illumina una caserma (più
probabilmente un carcere dove, forse, è rinchiuso Mahmet) immerso in un
silenzio desolato e surreale, un sole che tramonta, forse il tramonto di
un'illusione... Daniele
Bellucci
Storia di Amicizia e Sofferenza
Scritto e diretto da una giovane regista turca, ovviamente non ha trovato distribuzione nel suo paese , mentre è stato premiato a Berlino con un importante premio per la pace. Questo è un film di denuncia, che secondo me, non puo' non fare apprezzare le cosiddette, impropriamente, cinematografie minori.
In una Istambul con contrasti interni, divisioni sociali e razziali, si muovono i protagonisti alla ricerca continua di un lavoro onesto e di una vita dignitosa, scontrandosi quotidianamente con uno stato persecutorio solo perche' sia ha la pelle scura come i curdi o perche' ci si occupa di politica, e quindi, regolarmente emarginati, fino ad arrivare alla persecuzione vera e propria, essere arrestati senza motivi validi ed avere la porta di casa contassegnata da una X rosso sangue, ad identificare l'etnia curda e quindi la conseguente condanna. Si presenta agli occhi dello spettatore un'immagine della Turchia profondamente diversa dalle descrizioni turistiche, dove fragilissima è la giustizia e feroce la realta'.Immagini forti e realistiche ci fanno vedere orori ed ingiustizie, ma anche sequenze poetiche come alcune di quelle del viaggio intrapreso da Mehmet per riportare il suo amico morto nel Kurdistan. Suggestive e dense di significato le ultime scene che inquadrano la bara di Berzan che scivola nell'acqua, per poi galleggiare fra le rovine di un paese distrutto, emblematico ricongiungimento di un figlio alla sua terra, almeno nella morte.
Mara Taloni |