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L'arco, la prima macchina inventata dall'uomo, è stata, come tutte le invenzioni umane, insieme strumento di morte ed elemento di progresso.


   La prima volta che sibillò una freccia, inconsapevolmente l'uomo tracciò il proprio desti-no, anticipando in questo gesto semplice tutta una serie di sviluppi di un lontano futuro che lo avrebbe portato a scagliare nel cielo "frecce" ben più poderose.
Nella sua semplicità simbolica, il gesto di scoccare dardi coinvolgeva però una complica-tissima evoluzione psicomotoria e mentale che ne costituiva la base e la preparazione.
   Inventare e costruire una freccia e ideare di scagliare con una molla - quale appunto è
l'arco - significa compiere una rivoluzione, una rivoluzione tecnica.
   L'arco da guerra è infatti la prima vera macchina usata dall'uomo e inventata - senza
dubbio - in un lungo periodo di tempo in cui tentativi e prove, fatti fortuiti e intuizioni, pre-visioni ed assimilazioni di esperienze hanno operato con stimolo per una evoluzione psichica e culturale.
   Le prime fasi di questa storia sono lunghi periodi di lotte, di offese e di difese; L'UOMO ERA ANCORA UNA MINORANZA NELL'ENORME MASSA DEGLI ESSERI VIVENTI PRIMITIVI.
   Ad armi pari la lotta si sarebbe certo risolta in una sconfitta dell'uomo, ma que-sti possedeva un'arma ben più potente degli artigli e delle zanne: un cervello capace di pensare e di inventare.
   I "documenti" più antichi di quel lontano e lungo periodo dicono chiaramente che le ar-mi debbono venir considerate gli elementi culturali più diffusi delle prime fasi dell'avven-tura umana; e si tratta di armi in prevalenza di offesa.
   Prima della grande macchina-arma (rappresentata dall'arco) l'uomo imparò nel Paleoli-tico inferiore (ca. 600.000 anni fa) ad usare pietre e bastoni così come li trovava. Da que-sto primo stadio, osservazione ed esperienza, stimolate dalla paura e dal bisogno hanno portato ad un primo passo verso l'ominazione: la lavorazione dei materiali, base essenziale per ogni ulteriore sviluppo. Apparvero così le prime pietre scheggiate.
   L'evoluzione successiva si ebbe quando, scoperte le "leggi" di quella che gli esperti chiamano "percussione lanciata" (aumento della potenza mediante la prolunga con manici), l'uomo legò una pietra ad un legno e fabbricò così la prima accetta: appariva nel giovane arsenale degli strumenti umani l'antenata della scure e del martello.
   Contemporaneamente, un'altra invenzione tecnica si stava realizzando in molte parti della Terra. La lavorazione della pietra scheggiata si era tanto evoluta verso la fine del Paleolitico da permettere all'uomo di preparare anche piccole punte di pietra (micro-liti) o di osso per aumentare il potere di penetrazione dei giavellotti e delle lance.





      
        PUNTA DI FRECCIA IN OSSIDIANA.
 
   Quando il nostro antenato volle dare al giavellotto una forza di penetrazione ancor mag-giore e desiderò lanciarlo più lontano, inventò L'ARCO.
   Si era alla fine del Paleolitico, cioè circa 8-10 mila anni fa, come testimoniano alcune pitture scoperte in caverne nei Pirenei orientali. L'invenzione però si sviluppo nel Mesoli-tico (fra 10 mila e 5 mila anni fa), quando l'uomo, dopo la grande glaciazione che inondò di acque la Terra, dovette adattarsi a vivere prevalentemente lungo le rive dei fiumi, dei laghi e delle paludi.







Esempi di archi preistorici,
da pitture rupestri delle
Cuevas Saltadora e
di Alpera (Spagna).
                       Ricostruzione di arco preistorico in legno di Tasso.
   Questo cambiamento di habitat non doveva rimanere senza conseguenze: nel nuovo ambiente, l'uomo doveva procacciarsi il cibo uccidendo pesci ed uccelli, cioè animali più veloci dei mammiferi terrestri. Ciò induceva ad un perfezionamento delle armi e l'arco rispondeva perfettamente alle nuove esigenze di caccia.
   Nel complesso sviluppo della "civiltà dell'arco" alcuni antropologi vedono anche la prova che l'uomo "maddaleniano" e "mesolitico" aveva già sviluppato una menatlità "algebrica"; non è possibile diventare un buon arciere senza molta pratica e i nostri antenati mesolitici dovettero lavorare a lungo senza un compenso immediato, gui-dati solo da un progetto, da una idea preformata, "calcolata" della possibilità di sfruttare la forza di una corda tesa. Si pensi solo alla necessità di scoprire praticamente le "leggi" balistiche alle quali deve sottostare la tecnica di preparazione delle frecce.
   L'invenzione dell'arco è stata inizialmente un fatto individuale, trasmesso poi per imita-zione al gruppo. Ci è possibile osservare anche oggi lo sviluppo di quest'arma, studiando il modo di vivere di alcune tribù dell'Amazzonia che hanno da poco sviluppato una cultura mesolitica. Essi si cibano soprattutto di pesce, ma non conoscendo le reti per la pesca, hanno sviluppato al massimo la precisione nel "pescare" con arco e frecce. Passano quasi tutta la giornata a tirare d'arco. Non c'è calcolo nè ricerca di una tecnica in questi "giochi", soltanto uno spontaneo interesse che sveglia tutte le possibilità meccaniche ed istintive del corpo.
   E' stato anche notato che i popoli indigeni che si trovano in questo stadio culturale hanno inventato archi rozzi e primitivi, con cui riescono a tirare frecce a grandi distanze, mentre i popoli culturalmente più progrediti, che hanno inventato archi tecnicamente su-periori, dimostrano meno abilità nel tiro, perchè si sono adattati ad avere più fiducia nello strumento.
   L'arco implica quindi anche uno sviluppo in senso collettivo della personalità umana, porta cioè ad una prospetiva "sociale" della convivenza e del lavoro. L'arco ha posto la necessità di un primo lavoro di gruppo, sia nel senso di una comunicazione di una "tradi-zione" di esperienze complesse, sia nel senso di una collaborazione produttiva.
   Con l'arco si ha la prima "produzione commerciale" che la storia ha realizzato. A con-ferma di ciò viene citata la scoperta, per esempio, di una specie di fabbrica mesolitica per la produzione "in serie" di microliti e di punte di osso per frecce, avvenuta nel 1949 in Inghilterra, a Starr Carr (Yorkshire), presso i depositi fossiliferi di un lago mesolitico ora scomparso. Tutto fa supporre che quelle genti producessero "per conto terzi".
   DOVE E' NATO L'ARCO? Probabilmente si sviluppò per la prima volta nell'Africa equatoriale, dove l'uomo diede l'avvio alla propria evoluzione e alla conseguente conquista della natura. Ma questa invenzione dovette ripetersi più volte e in altre parti della Terra, ogni volta che un gruppo di "neo-uomini" riuscì a superare le espressioni della cultura paleolitica.
   Fu l'etnologo americano Lewis Henry Morgan a definire, nel 1877, la civiltà dell'arco, iniziata nell'ultimo periodo "selvaggio" della società umana, prima di evolversi nello stadio dominato dall'invenzione della ceramica, al quale seguirono gli stadi dell'addomesticazio-ne degli animali e della metallurgia.
   Fu però Adolph Bastian, direttore del Museo Etnologico di Berlino, che attirò l'atten-zione degli studiosi sull'evoluzione e la diffusione dell'arco, sia nella dimensione storica, sia in quella geografica. Il Bastian, volendo disporre in modo logico nel suo museo (1886) numerosi manufatti raccolti in tutte le parti della Tera, si accorse che alcuni presentava-no le stesse caratteristiche nonostante fossero stati fabbricati in continenti ed in epoche diversi. Notò anche che i vari reperti conservavano l'impronta di uno stesso stadio cultura-le; in particolare, l'arco era presente in alcuni stadi e mancava in stadi successivi, per poi riapparire in momenti di maggiore evoluzione.
   Questi cambiamenti non riguardavano solo i miglioramenti tecnici ma anche applica-zioni e usi diversi da quelli originari. Per gli stadi primitivi, l'arco è il principale mezzo di sopravvivenza; per stadi più evoluti è l'arma del cacciatore e del guerriero; per stadi più evoluti ancora è uno sport.
                               Distribuzione dell'arco semplice!
   Nel passare attraverso questa evoluzione, l'uomo tocca anche momenti in cui l'arco scompare, forse perchè la mentalità dell'uomo si è fatta più pratica e la necessità dell'or-ganizzazione sociale non consentono più quella indipendenza e libertà che è propria dell'arciere.
   Il Bastian riprendeno le teorie etnologiche del Tylor sulla diffusione orizzontale della cultura, indusse il geografo e antropologo Ratzel a fare ricerche sulla diffusione dell'arco in Africa e in Asia (1887). Questo tipo di ricerca venne poi continuato dal Frobenius e la teoria diffusionista venne illustrata e criticata da Robert Fritz Graebner.
   Più tardi Padre Guglielmo Schmidt ampliò il significato dell'area e del ciclo culturale, presentando un nuovo aspetto storico-culturale del fenomeno; ciò indebolì l'importanza della teoria evoluzionistica della cultura. Infine G. Montandon presentò un quadro defini-tivo dei dodici cicli culturali, tra i quali figura anche un ben definito "ciclo dell'arco".
   Questa classificazione è però oggi molto discussa perchè si basa su elementi mate-riali delle varie culture, su particolari aspetti che vengono assunti dallo studioso come determinanti per una definizione, senza tener conto che l'importanza di un dato elemento viene stabilita dalla considerazione che ne possiamo fare noi uomini evoluti.
   Che questa classificazione lasci dei punti oscuri è senza dubbio vero, dal momento che, proprio a proposito dell'arco, porterebbe a dover ammettere che le culture austra-liane comprendano l'arco, mentre non lo hanno mai conosciuto.
   Tra le numerose forme di arco, una ha avuto particolare successo: il tipo asiatico; da questo si sono infatti evolute forme tecnicamente superiori (usate dai Greci, Romani, Arabi e da vari popoli europei del Medioevo), anche vari tipi di balestre, il cui uso è tuttora vivo presso i Tibetani, Nepalesi, Lo-Lo e Moi dello Yunnan e della Thailandia.
   Nella sua diffusione l'arco, manca solo in Australia, Tasmania e Nuova Zelanda. Ormai peò è un elemento superato e dimenticato già da parecchi "primitivi" attuali, perchè evo-luti verso culture superiori.








Un Papua della Nuova Guinea
con arco semplice.
Nella foto sono accostati simboli
di due civiltà del tutto opposte.
   Hanno abbandonato l'arco i Polinesiani, gli Amerindi  delle Ande (questi non conosce-vano più l'arco già al tempo dell'arrivo dei primi conquistatori europei), gli Etiopici, i Sud-anesi orientali, i Cafri.
   Nell'epoca che ha conosciuto la bomba atomica, vivono però ancora molti popoli che sono fermi alla tremenda arma mesolitica e se ne servono come mezzo di sostentamen- to. Presso i Fuegini si trova un tipo di arco che ricorda perfettamente quello del Mesoli-tico. Unico mezzo di sussistenza è ancora per gli Ona (recentemente estinti), per gli Yamana, gli Alacaluf, gli Yagan che vivono lungo i fiumi e i fiordi della Terra del Fuoco; tutte queste genti usano l'arco semplice e lo sanno costruire con cura, come fabbricano con abilità le frecce, ottenendole dai duri legni del michai e del calaate fissando sulle aste piccole punte triangolari di ossidiana (che ricordano i microliti preistorici).
   Il grande arco dei Samatari, che vivono tra il Venezuela e il Brasile, costruito con il legno durissimo e fibroso del coropo (elastico e potente come una molla d'acciaio), ri-corda gli imponenti e terribili archi neolitici della Mesopotamia, dai quali discesero l'arco dei Persiani e quello celebre dei Turchi. Le frecce usate dai Samatari sono lunghe anche due metri e sono armate con tre tipi diversi di punte adatte a vari usi; una di queste è av-velenata e resa fragile con intagli a forma di anello, in modo che si spezzi quando colpi-sce e le schegge rimangono nel corpo diffondendo più a lungo il veleno.
                           
   Il grande arco piatto da guerra di molte tribù Bantu del Congo ricorda quello degli arcie-ri leggendari di Robin Hood dell'Inghilterra medioevale. Questi Bantu vivono per la guerra e per le imprese avventurose di caccia in onore della loro dea lunare e delle donne che governano la loro società patriarcale.
   Quando i popoli delle civiltà mediterranee abbandonarono l'arco per la spada, come fe-cero gli Arabi, esso rimase ancora un mezzo per sfidare il cielo e conoscere l'avvenire. Con l'arco venivano tirate frecce verso il cielo e secondo come esse cadevano, e se si ritrovavano o no, si traevano divinazioni e auspici. Questa forma di divinazione, che deriva dalla "belomanzia" degli antichi Caldei, è praticata tuttora dagli sciamani Tungusi della Siberia e da molte tribù Amerinde sparse nell'Amazonia.
   Presso i greci, il dio degli arcieri era Febo Apollo di Delo, detto "il più greco di tutti gli dei", dio della luce e della verità. Con il suo celebre arco d'argento insegnò per primo agli uomini a conquistare la sapienza divina e l'arte del guarire. Ma l'arco è anche un antico simbolo della verilità, che risale al dio Adad degli Assiri, dio del vento, della tempesta, del fulmine e della forza procreatrice.
   Per la stessa simbologia, anche il dio Amore era armato di arco e di frecce, come Diana e Adone, come Sviatovid, l'antico dio dei popoli slavi di Akron.
   L'arco aveva un preciso significato fallico e magico anche nella mitologia indiana: nel culto Sakti dell'induismo, la moglie del dio Siva, nei suoi due aspetti di Durga e di Kalì, porta un arco in una delle sue dieci mani. Il dio dell'amore Kama era pure armato di arco.
   Dalla sua funzione di arma al significato di simbolo erotico, l'arco chiude così un ciclo suggestivo di significati che nella storia dell'uomo riportano all'eterno binomio "amore e morte".
                    
   L'arco, già in periodo protostorico, diviene arma tattica degli eserciti; in epoca storica, diviene insostituibile quando occorre movimento, rapidità, sorpresa.
   L'area d'impiego dell'arco come arma bellica è quella del Mediterraneo orientale, del Medio ed Estremo Oriente e questa limitazione ha una ragione geografica. Dove si es-tendono, infatti, steppe, immense pianure e deserti, il cavallo è l'elemento indispensabile per lo spostamento e da cavallo l'arma più efficace è appunto l'arco.
   Presso gli Assiri (circa dal secolo XIV al VII secolo a.C.) troviamo la coppia fissa arci-ere - lanciere, i quali dispongono di due cavalli e di un solo scudo: l'arciere scocca le frecce da terra, mentre il compagno tiene i cavalli e protegge il "partner" con lo scudo. Sono i famosi catafratti a rendere indipendente l'arciere, che scocca frecce non solo da cavallo ma addirittura al galoppo sfrenato. E' una cavalleria composta soprattutto da no-madi (quasi sempre si tratta di truppe mercenarie), che riuniscono doti di espertissimi cavalieri e di eccezionali arcieri.
                  
   Nell'Egitto faraonico (dalla metà del III millennio al IV secolo a.C.) la cavalleria ha un impiego limitatissimo ed è sostituito dal carro leggero, sul quale trova posto l'arciere ac-canto al conducente.
   In genere l'arcie-contadino, vale a dire l'esperto cacciatore con l'arco ma non cavaliere, combatte nel bosco o viene impiegato negli agguati, dagli elefanti, dalle macchine da guerra, dai carri, come cecchino durante gli assedi.
   Celebri quelli della Muraglia cinese (III secolo a.C.), dislocati su postazioni distanti fra loro fino a 300 metri, cioè il doppio esatto della gittata di un arco.
   E' Dario (VI sec. a.C.) comunque ad appiedare l'arciere, ma anche a renderlo nobile, al punto da effigiarlo dui "darici" d'oro, le monete dell'impero persiano. I suoi diecimila "im-mortali" sono esperti sia nell'uso dell'arco che in quello della lancia e della spada. Si sa che questi soldati imparavano l'arte del tiro all'arco dopo un lungo corso di istruzione.
   Non è la prima volta che si istruiscono militari nel tiro all'arco: gli Ateniesi fanno dello arco un'arma indispensabile nella formazione di un soldato, anche se poi in guerra l'arco è lasciato ai thetes, una fanteria leggera con compiti di disturbo, composta dalle classi meno abbienti; in Grecia, vengono anche reclutate dalle città, in territori lontani, bande ausiliarie di arcieri eccezionali.
   Nella falange macedone, sviluppata e potenziata specie al tempo di Filippo II (ca 382-336 a.C.) gli arcieri, detti psilisti, assolvono solo i compiti secondari della scaramuccia e sono reclutati tra il ceto più povero. L'arco però rimane importante come disciplina di for-mazione sportivo-militare anche dopo la morte di Alessandro (323 a.C.), fino al periodo della decadenza, cioè fino alla conquista romana.
   Sono i romani ad interrompere bruscamente l'era eroica dell'arco nel Mediterraneo. Secondo alcuni storici, con la espansione romana termina la "civiltà dell'arco".
Roma non dà eccessiva importanza ai "sagittari" nella strategia bellica e non considera l'arco arma nobile; anzi, facendo propria una convinzione dei Dori, lo giudica un mezzo vile di offesa e declassa il tiro all'arco ad una spettacolare attrazione esotica.
       
   D'altra parte, dal tempo delle guerre puniche in poi, il soldato romano adotta un grande scudo: era nato l'anti-arco. Se Roma mette in crisi l'arco il Europa, i Mongoli in Asia stanno diventando invincibili proprio grazie all'uso di quest'arma.
   Cavalieri infaticabili, guerrieri accaniti per le permanenti lotte tribali, eccezionali cac-ciatori su terreni scoperti ed immensi, che costringono ad usare cavallo ed arco, non hanno rivali in quella che è stata definita "guerra corsara terrestre".
   Sono armati di due archi: uno corto da cavallo e uno lunghissimo da usare quando sono appiedati, composto-riflesso e capace di lanci efficaci fino a 400 metri. Hanno in dotazione tre turcassi di frecce (50 frecce circa) sempre molto lunghe, con punte diverse, adatte ai vari bersagli, e alcune con un dispositivo per lanciare stoppa infiammate.
   Sul ponte di Mohi (11 aprile 1242) duemila cavalieri mongoli, con le loro salve di frecce, decidono in un quato d'ora le sorti della battaglia, annientando la retroguardia ungherese di Bela IV.
   Anche gli arabi, nell'era aurea dell'Islam, hanno in gran conto gli arcieri. Una delle tattiche preferite dalla strategia islamica è la razzia beduina, che sfrutta la sorpresa e adotta la tattica dell'estrema mobilità, si serve degli arcieri per scompaginare le difese avversarie. E quando il grosso delle truppe è a contatto di combattimento si fa intervenire la fanteria etiope, la cui arma base è l'arco.
   Il medioevo riporta in auge l'arco in Europa, sia come arma da caccia, che da guerra e da gara, soprattutto per merito di Carlo Magno, che impone per legge la coltivazione del-la pianta di tasso in tutto il reame carolingio, essendo il legno più adatto per la fabbri-cazione deglia archi.
               
  Gli inglesi si rendono conto dell'importanza dell'arco quando, nella battaglia di Hastings (1066), si trovano davanti gli arcieri normanni di Guglielmo il Conquistatore. Le loro pe-santissime frecce, scoccato con tiro molto parabolico, distruggono la cavalleria di re Aroldo. E' una lezione esemplare per gli inglesi che decidono di adottare il "long bow", in legno di tasso, adattato alla corporatura dell'arciere, come arma della fanteria. 
   Per legge, ogni maschio dai 6 ai 60 anni deve praticare assiduamente il tiro ed il prezzo dell'arma viene fissato d'autorità, così che nessuno possa dire di non potersela comprare. E' il periodo in cui fiorisce la leggenda di Robin Hood.
   I frutti di questa preparazione sono raccolti nella Guerra dei Cent'anni, specialmente a Grecy (1436), dove 12 mila arcieri di Edoardo III sbaragliano l'armata di Filippo di Valois forte di circa 40 mila uomini, tra cui 7000 balestrieri genovesi.
E' questo il più importante scontro della storia tra arco e balestra, ma come in quasi tut-te le occasioni in cui si fronteggiarono, il confronto si risolse a favore dell'arco.
   La balestra è più potente come violenza d'urto e più precisa a breve distanza, ma è più lenta (2 dardi al minuto contro 7 frecce); inoltre richiede maggiore concentrazione nella mira e una posizione più stabile per l'imbracciatura. Offre però il grande vantaggio che concede al tiratore un riparo molto più grande dell'arco, ed è per questo che venne usata sulle mura delle fortificazioni, appostata fra i merli.
   Nel Medioevo più avanzato, fino a tutto il secolo XVI, si vedranno in Europa archi, bale-stre ed armi da fuoco accostati in uno strano miscuglio. Ma ormai i giorni dell'arco saran-no contati: un altro balzo della cultura umana porterà verso tecniche e strumenti ben più potenti dell'arco e così si chiude la gloriosa storia della più potente arma preistorica.