Proposti gli ultrasuoni nello screening prenatale

L'ecografia intuisce i cromosomi

di Flavio Airoldi


Sarà l'ecografia fetale il nuovo test di screening per la diagnosi prenatale delle anomalie cromosomiche? La proposta, avanzata da un gruppo di ricercatori finlandesi, ha prodotto una vivace reazione nel mondo scientifico, suscitando allo stesso tempo consensi e obiezioni.
La ricerca di un nuovo metodo per individuare, nel corso del primo trimestre di gravidanza, i feti più a rischio di aneuploidia (cioè di essere portatori di anomalie del numero dei cromosomi, per lo più trisomie del cromosoma 21) è stata dettata dalla necessità di superare i limiti dello screening tradizionale, basato sulla misurazione di alcuni parametri sierologici nel sangue materno. Tra questi il criterio più accurato per individuare i casi sospetti, da sottoporre poi a indagini più invasive per fare diagnosi, è ritenuto la presenza contemporanea di bassi livelli di alfa-fetoproteina ed estriolo e di alte concentrazioni di gonadotropina corionica (è il noto tritest). Tuttavia la sensibilità dell'esame non supera il 60 per cento e in aggiunta risulta falsamente positivo nel 5 per cento dei casi. Con queste caratteristiche, se non si limitasse l'indicazione dello screening alle gravidanze ritenute a rischio, per esempio alle donne sopra i 35 anni, si sottoporrebbe un ampio numero di pazienti, falsamente positive al test, a un pesante stress psichico e a un esame invasivo come l'amniocentesi o il prelievo dei villi coriali.


L'ecografia di un feto Down di 14 settimane mostra un'area ipoecogena nucale (frecce) di 6 millimetri di spessore.

"Gli ecografisti da alcuni anni si sono occupati dell'argomento con grande interesse" afferma Pekka Taipale, responsabile del Dipartimento di ostetricia e ginecologia dell'Università di Helsinki "tuttavia le alterazioni strutturali riscontrate nei feti con anomalie cromosomiche sembravano troppo poco specifiche. Di recente è stato proposto di utilizzare per la diagnosi una caratteristica alterazione dell'immagine ecografica nella regione nucale. Secondo questo criterio l'ecografia viene ritenuta positiva se nella regione occipitale si osserva un'area ipoecogena, che si ritiene possa derivare da un accumulo di liquidi per un drenaggio linfatico alterato". Nonostante i primi risultati fossero incoraggianti, provenivano da piccoli campioni di soggetti e avevano quindi bisogno di una conferma più ampia su una popolazione non selezionata.
A questo scopo i ginecologi finlandesi hanno sottoposto a un esame ecografico transvaginale oltre diecimila donne nel corso del primo trimestre di gravidanza. La diagnosi ecografica è stata poi confrontata con le informazioni ottenute dal Registro nazionale delle malformazioni, compilato in base alle visite mediche e, nei casi dubbi, al cariotipo.
I risultati sono apparsi soddisfacenti: l'ecografia del feto, pur offrendo sensibilità e specificità paragonabili a quelli del sistema tradizionale (rispettivamente del 69 e del 99 per cento), ha fornito un risultato positivo in una percentuale di gestanti inferiore all'uno per cento. "Se i dati venissero confermati" afferma Taipale "l'utilizzo dell'ecografia permetterebbe di ridurre il numero di pazienti da sottoporre alle manovre più invasive per la determinazione del cariotipo. Un aspetto non secondario, se si considera che tali procedure sono gravate da un rischio di interruzione della gravidanza dell'uno per cento". Per ipotizzare il suo impiego nella pratica clinica sono però necessarie ulteriori informazioni. E a questo proposito gli stessi ricercatori consigliano la cautela: "Sebbene il sistema da noi impiegato sia efficace, riteniamo che la scelta del test di screening ideale, in grado di fornire il miglior rapporto tra costi e benefici, debba essere effettuata confrontando i metodi oggi disponibili".
Dello stesso parere è John Seed, ginecologo dell'Università della Virginia, chiamato a commentare, sulle pagine del New England Journal of Medicine, i risultati dei colleghi finlandesi: "La presenza dell'area ipoecogena occipitale" spiega Seed "aumenta senz'altro la probabilità che il feto sia aneuploide, ma non c'è al momento un'esperienza sufficiente per ritenere che questo sia il criterio ottimale, in particolare nelle gravidanze a basso rischio".
Il messaggio di prudenza lanciato da Seed appare oltremodo opportuno alla luce di quanto riportato in un recente numero di Lancet, dove i resoconti delle esperienze ottenute da ricercatori di diversi Paesi appaiono eterogenei se non addirittura in contraddizione tra loro. Le ragioni che giustificano le ampie differenze nei risultati sono probabilmente di carattere metodologico e riguardano sia il tipo di apparecchiatura utilizzato sia l'esperienza degli ecografisti in questo tipo di analisi.
Al dibattito non è mancato il contributo di un gruppo di ricercatori italiani, rappresentati da Giovanni Moia, del Dipartimento di ostetricia e ginecologia dell'Ospedale regionale per le microcitemie di Cagliari. Secondo i medici sardi, che hanno condotto l'indagine ecografica in oltre mille donne tra la decima e la quattordicesima settimana di gravidanza, l'esame è in grado di identificare la presenza di anomalie cromosomiche nel 76 per cento dei casi. Tale risultato può essere ottenuto solo dopo un adeguato periodo di addestramento: "Lo stesso tipo di indagine" spiega Moia "condotta un anno fa, prima di aver acquisito la necessaria esperienza, aveva fornito una diagnosi corretta solo in un terzo dei casi. Un buon addestramento e un corretto utilizzo della tecnica" conclude il ginecologo italiano "potranno far sì che l'esame diventi un valido strumento per la diagnosi prenatale delle aneuploidie".