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MINISTRI SUPERSTAR / UMBERTO VERONESI SI CONFESSA
Il Gran laico d'Italia
È popolare. Dice le cose giuste che tutti pensano. Dalla pillola del giorno dopo alle terapie geniche. E piace tanto anche a Berlusconi
di Stefania Rossini

In pochi mesi ha scardinato la più inossidabile convinzione del mondo politico. Quella che lega il consenso di massa all'elettorato cattolico. Umberto Veronesi, grande medico e dall'aprile scorso ministro della Sanità, ha ridicolizzato le mezze conversioni tanto di moda nella sinistra, dicendo cose che tutti pensano ma che, qui da noi, non si dicono in pubblico. Ha dichiarato che il dolore della malattia va sedato con la morfina, che l'eutanasia è moralmente accettabile, che i preservativi devono essere distribuiti nelle scuole, che le droghe leggere non portano alla tossicodipendenza e quelle pesanti andrebbero liberalizzate, che la lotta alle manipolazioni genetiche è una sciocchezza retriva, che la clonazione sugli embrioni può salvare molte vite. Ha anche imposto e serenamente difeso la famigerata pillola del giorno dopo. Si è infine collocato sulla scia di Blair e Clinton, istituendo un comitato di saggi che desse il via alle terapie geniche.

Una mitragliata laica che ha tramortito i colleghi di governo (e ha fatto inorridire l'opposizione), ma che lo ha portato in testa a tutte le classifiche di gradimento. Lo stesso governo mantiene una buona media di consensi grazie soprattutto alla sua presenza. Così, quando l'irritazione supera la soglia della real politik, il peggio che gli viene detto è: "Veronesi parla da tecnico, non da politico". Ma di questi tempi è un ridimensionamento che somiglia a un complimento.



È questo il segreto del suo successo? L'estraneità all'arte di governare?

«Il clamore che mi accorgo di suscitare è incomprensibile anche per me. Qualcuno dice che voglio mettermi in luce con argomenti urto, ma io mi sento come un elefante in una cristalleria. Dico le cose ovvie che ho sempre detto e succede un finimondo. Capisco solo che sono un impolitico in un mondo che si nutre di politica. Certo, se sono convinto di una idea, la porto fino in fondo. E forse la gente avverte questa determinazione».

Avrà pure delle convinzioni politiche.

«Essenziali e relativamente semplici. Sono un antifascista che ha sposato una donna uscita dai campi di concentramento. Sono un socialista che non è mai stato iscritto a un partito. Soprattutto sono una persona severamente laica».

Non un fondamentalista agnostico, come dice Rosy Bindi?

«È un ossimoro che può solo divertire. La contraddizione tra i due termini è insanabile: il fondamentalista è colui che impone con tutti i mezzi la propria visione del mondo, l'agnostico è colui che rinuncia a dare risposte definitive sull'universo. Io mi sento un laico, ma di tipo liberal. Si può essere laici in modi molto diversi».

Il suo qual è?

«È quello più moderno, diciamo anglosassone, che si oppone a ogni assolutismo, sia di tipo confessionale, sia di tipo statuale totalitario. L'altro è stato soprattutto un movimento di resistenza all'invadenza clericale ed è entrato in crisi quando il comunismo l'ha fatto suo. Quel povero laicismo si è trovato schiacciato da una ideologia che gli era alleata nella concezione antireligiosa, ma nemica in quella liberale».

Ma, anche lei, non sarà nato laico e liberal. Qual è stato il suo percorso?

«Ho detto molti rosari da bambino, con mia madre, vicino al focolare. E da ragazzo ho servito messa un'infinità di volte. Poi mi sono appassionato alle scritture sacre e le ho studiate furiosamente. Mi ha salvato Paolo di Tarso».

L'ha salvata?

«Se dovessi indicare una sola lettura per approfondire questi temi, raccomanderei la "Lettera ai Romani" di Paolo. È bellissima e fa comprendere tutta l'evoluzione del cristianesimo. Perché dai Vangeli non si riesce a capire bene come da quel piccolo gruppo di ignoranti, da quei poveri apostoli umili e semplici, sia poi nato questo enorme movimento che ha segnato due millenni di storia. Ci voleva un intermediario intellettuale, un grande promotore come è stato Paolo».

Il suo però non sembra l'ateismo degli spretati. Incattivito e oppositivo.

«Ma io continuo a leggere le scritture con passione. Già "Il Libro di Giobbe" e "l'Ecclesiaste" sono testi di grande contestazione della divinità. Studiandoli non si può che diventare almeno agnostici. E capire come ogni popolo ha creato la sua religione e il suo dio secondo i propri bisogni».

Il suo amico Giuliano Amato, che l'ha voluta al governo e che si definisce laico, ha detto che la fede è «un sovrappiù d'amore». È d'accordo?

«La penso diversamente. In genere l'amore per un dio ha sempre ridotto l'amore per gli uomini. La fede cieca per la divinità ha portato solo stragi e carneficine. Anche come medico, sono interessato a capire cosa spinge le persone a confidare nel soprannaturale e nel magico, negando la ragione».

Nel mondo moderno circolano forme più soft di pensiero assoluto. Lei si è scontrato duramente anche con gli ambientalisti.

«Sono contro ogni dogma. Gli ambientalisti dicono di essere contro le modificazioni genetiche. È una frase che non vuol dire niente. La modificazione genetica è uno strumento di lavoro, non un obiettivo. È come dire: siamo contro il microscopio. Il microscopio può salvarti la vita o portarti alla rovina, dipende da come è usato. Bisognerebbe saper dire: sono contrario alla modificazione genetica di questo vegetale per queste ragioni. Non gridare slogan generici e sciocchi contro i cosiddetti transgenici».

Ahi, professore, i verdi le fanno perdere l'aplomb anglosassone.

«Ammetto che sentire parole vuote mi sbilancia e mi irrita. Un organismo modificato è semplicemente quello in cui abbiamo introdotto sapientemente una mutazione dei geni, senza aspettare, come è avvenuto per milioni di anni, una mutazione naturale che magari produce mostruosità, fa venire tumori, fa nascere gemelli siamesi, e così via. La natura, ricordiamocelo, non ha in sé una normativa etica. La sua evoluzione è casuale e disordinata».

Non è un'illusione ottocentesca quella che vede la scienza vincere sul disordine della natura?

«Basta non farne un'altra religione. Il positivismo è crollato proprio per un eccesso di fede nel progresso scientifico. La scienza porta a traguardi tecnologici. Spetta all'uomo gestirli con sapienza. È questa la grande sfida dei nostri tempi».

Ma lei getta il sasso su temi in cui la scienza è molto più avanti dell'etica. Anche di quella laica, che non trova ancora una sua bussola.

«È vero, ma non sono pessimista per il futuro prossimo. Un'etica veramente laica può muoversi solo su due direttive. La prima è il buon senso. Deve misurare le novità scientifiche in termini di costi e benefici e indicare se possono essere ragionevolmente accettate o rifiutate. È quello che ho chiesto, semplicemente, alla commissione sulla clonazione delle cellule staminali, le cui risposte hanno suscitando tanto scalpore».

E la seconda?

«L'altra direttiva è il rispetto e la difesa dei valori individuali. In una società composita, è necessario trovare una lingua franca per l'etica che non sia rigidamente collettiva. Penso a una formulazione di compromesso in cui ognuno sia lasciato libero di sviluppare la propria etica nell'ambito della propria coscienza individuale e di gruppo. Per fare un esempio facile, i testimoni di Geova, con la loro cultura morale che deriva da una convinzione religiosa, hanno il diritto di veder rispettati i loro principî. Come medico, se uno di loro mi chiede di non subire trasfusioni anche a rischio della morte, devo accettare».

La sua passione per le idee è evidente. Con chi parla di queste cose?

«Con i teologi soprattutto. In particolare trovo ogni volta illuminante discutere con monsignor Gianfranco Ravasi».

Qualche interlocutore laico?

«Alcuni filosofi di cui mi piace il modo di pensare, come Massimo Cacciari, Salvatore Veca, Giacomo Marramao. Poi ci sono gli amici: Giorgio Forattini, Sandra Mondaini, Raimondo Vianello che è di una simpatia trascinante. E Francesco Saverio Borrelli perché adoro la coerenza di pensiero».

A proposito di Borrelli e di Mani pulite, c'è chi l'accusa di aver gettato alle ortiche la sua amicizia con Craxi.

«Ma quale amicizia! L'avrò visto poche volte, e sempre in situazioni ufficiali. Non sembri un giudizio sull'uomo, che ha avuto aspetti anche positivi. Ultimamente con- tinuano a scrivere che sarei stato addirittura presidente dell'assemblea socialista. Ma se ci ho messo piede una sola volta, invitato non ricordo più da chi, e sono rimasto in disparte con Marisa Bellisario, perplesso come lei».

Comunque adesso tutti la vogliono. Come sindaco di Milano, per il centro-sinistra. Come ministro della Sanità per il prossimo governo, quale che sia.

«La storia del sindaco è un'invenzione che si è autoalimentata nel tempo. Me lo chiedono da vent'anni. Ho sempre detto di no, senza tentennamenti. In quanto al ministero della Sanità, ho impiantato dei progetti e dovrebbero bastarmi i mesi restanti della legislatura».

E se non bastassero?

«Certo, si tratta di progetti importanti che in cinque anni dovrebbero trasformare la Sanità, rendendola forse la migliore d'Europa. Sono in sintesi: l'acculturazione obbligatoria e continua dei medici; l'aggiornamento delle strutture ospedaliere con la separazione della diagnostica dalla terapia; il superamento della divisione tra ricerca di base, oggi confinata all'università, e ricerca applicata, portata avanti dalla Sanità».

Non le piacerebbe portarli a termine?

«Certo, mentirei dicendo il contrario. Ma posso tornare a fare soltanto il medico. Io ho le mie idee. Non so se mi adatterei a certe presenze».

Dica la verità, professor Veronesi, lei mira ancora più in alto. Ultimamente ha composto un decalogo per la salute che sembra un programma di governo. Nessuno lo ha fatto notare. Forse per prudenza.

«A riguardare il decalogo, ho avuto anch'io qualche perplessità. È vero, ci ho messo la lotta al fumo, ma anche la formazione dei giovani, l'aiuto agli anziani, la lotta al mobbing nei posti di lavoro... Ma come si fa? Parlare della salute fisica e psichica significa parlare di ciò che è essenziale nella vita degli individui e della società. E questo diventa, anche a non volerlo, il terreno della politica. Ma non si tema: non voglio fare il capo di governo».

(11.01.2001)

 

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