La convivenza possibile nel nome della diversità
LUIGI MANCONI
La
convivenza è difficile e faticosa. Una tale affermazione introduce, generalmente, nel
senso comune, una conclusione secca; dunque la convivenza è impossibile.
E, invece, quel riferimento alla difficoltà ed alla fatica della convivenza tra culture,
etnie e religioni diverse può condurre ad una conclusione tutt'affatto diversa; a una
dichiarazione di fiducia, ostinata e testarda, nella possibilità di realizzare una
comunità dove le contraddizioni tra opzioni morali e religiose differenti (anche
radicalmente differenti) non deflagrino in maniera dirompente. E allora, nonostante tutto,
la convivenza è possibile e può risultare utile e intelligente.
È il senso, questo, di un Manifesto firmato a Torino, nel centro Teologico, in occasione
di un dibattito organizzato dalle riviste «Confronti», «Riforma» e «Ha Keillah».
Il Manifesto è stato sottoscritto dai massimi esponenti delle diverse fedi religiose
presenti in Italia: la Tavola valdese, la comunità ebraica, l'unione buddista e quella
induista, oltre a rappresentanti assai significativi del mondo cattolico (da monsignor
Ablondi a monsignor Ventorino a Enzo Bianchi) e di quello islamico (da Mahmoud Salem
Elsheikh a Ali Schultz).
Il testo non ha e non deve avere una finalità politica diretta; ma certo e,
doverosamente, risente dei conflitti che attraversano la sfera pubblica e la vita sociale.
Sullo sfondo ci sono gli echi della mobilitazione contro la realizzazione di luoghi di
culto per i musulmani, ma anche le tensioni e le resistenze che accompagnano il cammino,
assai accidentato, delle intese tra stato italiano e unione buddista e congregazione
cristiana dei testimoni di Geova. A conferma del fatto che evocare la minaccia
dell'immigrazione (e della criminalità) straniera per motivare il deficit di libertà
religiosa nella nostra società, è decisamente strumentale: buddisti e testimoni di Geova
sono, com'è ovvio, cittadini italiani a pieno titolo, ancorchè appartenenti a minoranze
religiose. E nel nostro paese, abituato a pensarsi come monoreligioso e monoculturale, è
irresistibile la tendenza a considerare tutte le minoranze come (almeno un po')
«straniere».
Da qui il rischio che la diffidenza verso pratiche religiose e stili di vita estranei alla
tradizione dominante si sommi all'ostilità verso chi viene da altri paesi e all'allarme
sociale per la criminalità: e che quest'ultima riassuma e schiacci il resto. Si perde,
così, la capacità di distinguere: e tutto ciò che è diverso (lingua, fede,
comportamento) appare come nemico.
E, invece, come afferma il Manifesto, «uno stato democratico efficiente è in grado di
accogliere le diverse forme di vita delle minoranze quando non pongono dilemmi
eticogiuridici»: perché lo «stato deve proporsi come casa comune in grado di offrire a
quanti risiedano nel suo territorio pari opportunità per coltivare i propri valori e
affermare i propri diritti; tra cui quello di rango costituzionale, di poter professare la
propria fede religiosa, nel rispetto dell'ordinamento giuridico italiano».
http://www.repubblica.it/quotidiano/repubblica/20010207/torino/01becca.html
Areopago > Psicologia
e Società