Cosa fa vivere gli uomini

di Leone Tolstòj (1828 - 1910)
(1881) traduzione di Igor Sibaldi

Noi non sappiamo di essere passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli; chi non ama il fratello rimane nella morte. (Prima Lettera di Giovanni III, 14)

E chi ha i mezzi per vivere nel mondo, ma vedendo un suo fratello nel bisogno gli chiude il proprio cuore: in qual modo l’amore di Dio rimane in lui? (III, 17)

Figlioli miei! Amiamo non con la parola o con la lingua, ma con le opere e con la verità. (III, 18)

L’amore è da Dio e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio. (IV, 7)

Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. (IV, 8)

Dio non l’ha mai veduto nessuno. Se noi ci amiamo l’un l’altro, Dio dimora in noi. (IV,12)

Dio è amore e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui. (IV, 16)

Chi dice: io amo Dio, ma odia il proprio fratello, è un bugiardo; giacché chi non ama il proprio fratello, che egli vede, come può amare Dio che egli non vede?
(IV, 20)

I

Viveva un calzolaio con la moglie e i figli nella casa di un mužěk. Non aveva né una casa sua, né terra sua e per campare, lui con la sua famiglia, aveva soltanto il suo lavoro di calzolaio.

Il pane costava caro, il lavoro invece costava poco e così tutto quello che guadagnava lo spendeva per mangiare.

Aveva, quel calzolaio, una sola pelliccia, che serviva tanto a lui che a sua moglie, e anche questa pelliccia era tutta a brandelli, tanto l’avevano portata; e da più di un anno oramai il calzolaio metteva da parte i soldi per comprarsi qualche pelle di pecora e farcisi una pelliccia nuova.

Verso l’autunno il calzolaio pensò di averne di soldi, quanti ne bastavano: perché tre rubli di carta ce li aveva la baba nel baule e altri cinque rubli e venti kopejki glieli dovevano i mužikě, al paese.

E al mattino presto il calzolaio si preparò ad andare al paese per la pelliccia.

Si infilò sopra la camicia la giubbetta di nanchino imbottita della sua baba e poi sopra il caffettano di panno; si mise in tasca il biglietto da tre rubli, si fece un bastone e dopo mangiato partì.

Pensava: "cinque rubli me li daranno i mužikě, ci aggiungo i miei tre e mi compro le pelli di pecora per la pelliccia".


Il calzolaio arrivò al villaggio; passò da uno dei mužikì, e il mužìk non era in casa, la sua baba promise che gli avrebbe mandato il marito a portargli i soldi in settimana, ma lei soldi non gliene dette; lui passò da un altro mužìk, ed era andato in miseria, quest’altro mužìk, tanto che non ne aveva proprio più, di soldi, e gli dette soltanto 20 kopejki per uno stivale che gli aveva riparato.

Il calzolaio allora pensò di prendersi le pelli di pecora a credito, ma il pellaio non glielo fece, il credito.

"Prima portami i soldini - disse - e poi ti potrai pigliare quelle che vuoi, che lo sappiamo noialtri cosa vuol dire farsi pagare i debiti".

Sicché il calzolaio non combinò proprio nessun affare, e se ne tornò soltanto con le 20 kopejki di quello stivale, e con un paio di vecchi vàlenki (stivaloni di feltro) che gli aveva dato un mužěk, da rivestirglieli di cuoio.
Gli venne una grande tristezza, al calzolaio, … quelle 20 kopejki se le bevette tutte all’osteria, e poi si incamminň
verso casa senza la pelliccia.

Quel mattino gli era sembrato, al calzolaio, che ci fosse gelo, ma adesso che aveva bevuto, aveva caldo anche senza pelliccia.

E così cammina cammina il calzolaio per la sua strada, con una mano picchia col suo bastoncino i cespugli gelati e con l’altra fa dondolare gli stivali di feltro, e intanto parla con se stesso.

"Io - dice - sto caldo anche senza pelliccia. Mi sono bevuto un quartino e me lo sento in tutte le vene, adesso. Anche senza tulup (l’ampia pelliccia senza cinta, tradizionale in Russia) posso stare, io. Cammino e non ci penso ai miei guai. Ecco che uomo sono, io! Che m’importa a me? Tirerò avanti anche senza pelliccia. Io, per me, ne faccio a meno anche per tutta la vita, io.

Solo che la baba ci resterà male. E poi dispiace, anche; tu lavori per lui, e lui ti prende in giro. Ma aspetta, aspetta; che se non mi porti i soldi, ti butto giù il cappello, io, veriddio … altroché se te lo butto giù, io. Sennò cos’è sta roba! Due grìvenniki (il grìvenniki era la moneta da 10 kopejki) mi da! E che ci faccio io con due grivenniki? Ci posso bere, e basta.

Dice che è povero. Tu sei povero, e io non sono povero? Tu almeno ci hai la casa, le bestie e tutto quanto, e io invece son qua come mi vedi; tu hai il grano tuo, e io invece me lo devo comperare, il pane, e girala come ti pare, ma tre rubli alla settimana devi cacciarli fuori, soltanto per il pane. Adesso arrivo a casa, e la farina è già bell’e finita; e giù, caccia un altro rublo e mezzo. E allora tu dammi quello che mi spetta, no?".

 

E così arriva, il calzolaio, alla cappella che c’è alla curva, e guarda … proprio dietro la cappella c’è qualcosa di bianco. Stava già facendo buio. Ci guarda meglio, il calzolaio, ma non riesce lo stesso a distinguere cos’è.


"Una pietra così non c’era, là dietro - pensa - Sarà una bestia? Ma non somiglia mica a una bestia. Di testa assomiglia a una persona, ma come mai è bianco. E che ci fa una persona qua?".

Si avvicinò, e lo vide bene.

Che cosa strana: era proprio una persona, non si capiva se viva o morta, era uno che se ne stava lì tutto nudo, appoggiato alla cappella, e non si muoveva.

Ebbe paura il calzolaio e pensò: "Qua qualcuno ha ammazzato una persona, l’ha spogliata e l’ha buttata lì. Se mi avvicino, poi va a finire che non me ne tiro più fuori".

E passò oltre, il calzolaio. Si lasciò alle spalle la cappella, e non la vide più quella persona.

Passò oltre, ma poi si voltò e vide che l’uomo si era scostato dalla cappella, si muoveva, pareva quasi che lo guardasse. Si spaventò ancora di più, il calzolaio; e pensa: "Vado lì o proseguo? Se ci vado, magari va a finire male: chi lo sa chi è quello lì? Non è mica per qualche cosa di buono che è andato a finire lì, no? Io mi avvicino, e lui magari salta su e mi strozza, e non gli scappi più.

E anche se non mi strozza, come te la sbrighi con uno così. Che ci fai, tutto nudo com’è? Mica posso togliermi io i vestiti, e dargli le ultime cose che ho. Macché, mi scampi Iddio e via svelto!".

E il calzolaio affrettò il passo.

Stava già lasciandosi indietro la cappella che la coscienza gli rimordeva.

E si fermò, il calzolaio, in mezzo alla strada.

"Ma Semën, che stai facendo? - dice a se stesso - Lì c’è uno che muore nella disgrazia, e tu ti sei spaventato, e te ne vai per la tua strada. Cos’è, sei diventato troppo ricco? Hai paura che ti portino via tutte le tue ricchezze? Ah, Sëma (diminutivo di Semën) non va bene così".

Semën si voltò e andò da quella persona.

 

II

Semën si avvicina all’uomo, lo guarda bene e vede: è un uomo giovane, in forze, non ha segni di botte sul corpo, solo che si vede bene che è tutto intirizzito e spaventato; se ne sta lì appoggiato e non guarda verso Semën, come se fosse talmente debole da non riuscire nemmeno ad alzare gli occhi. Gli si fece vicino, Semën, e a un tratto, come se si fosse ripreso, l’uomo alzò la testa, aprì gli occhi, e guardò Semën.

E da quello sguardo quell’uomo piacque a Semën.

Allora gettò a terra i vàlenki, si tolse la sua cintura di stoffa, gettò la cintura sui vàlenki e si tolse il caffettano.

"Basta star qua a pensare - dice - Vestiti, no? Dai, forza!"

Prese l’uomo di sotto il gomito, provò a farlo alzare. E l’uomo si alzò. E vede, Semën, che il corpo ce l’ha fine, pulito, le mani e i piedi non sono graffiati, e il volto è bello. Semën gli gettò il caffettano sulle spalle, ma l’uomo non riusciva ad infilare le maniche. Allora Semën gli guidò le braccia, glielo infilò, abbottonò il caffettano e gli legò ben stretta la cintola.

Semën si tolse il suo berretto lacero, voleva metterlo in testa all’uomo nudo, ma sentì freddo alla testa, e pensa: "Io ce l’ho tutta calva la testa, e lui invece ha capelli ricci, lunghi". Se lo rimise. "Meglio che gli metta gli stivali".

Lo fece sedere e gli infilò gli stivaloni di feltro.

Lo calzò il calzolaio, e poi dice: "Ecco qua fratello. Dai, sgranchisciti un po’ e scaldati. Gli affari li sbrigheranno anche senza di noi, eh! A camminare ci riesci?".

Sta lì in piedi, l’uomo, e guarda con tenerezza Semën, ma a parlare non ci riesce.

"Ehi, ma perché non parli? Mica dobbiamo passare l’inverno qua. Bisogna andare a casa. Su, forza, ecco qua il mio bastone, appoggiatici se non riesci a star su. Dai, muovi le gambe!".

E l’uomo camminò. E camminava agile, non restava indietro.

Vanno lungo la strada, e dice Semën: "Tu insomma di chi sei?"

"Non sono di qua".

"Be’ quelli di qua li conosco, io. Ma com’è che sei finito qua alla cappella?".

"Non posso dirlo".

"Ti avrà fatto del male qualcuno, eh?".

" Nessuno mi ha fatto del male. E’ stato Dio che mi ha punito ".

"Ah, questo si sa, è sempre Dio che fa tutto. Però da qualche parte bisogna pur andare, no? E tu dov’è che devi andare?".

" Per me fa lo stesso ".

Si stupì Semën.

A vederlo, non sembrava uno di quelli che fanno a botte, e parlava dolce, però non diceva niente di chi fosse e da dove veniva.

E pensò Semën: "Ma ne capitano tante di cose!" e dice all’uomo "Allora andiamo a casa mia, così almeno te ne vieni via da lì, pian pianino, eh".

E cammina, Semën, e il pellegrino non gli rimane indietro, cammina accanto a lui.

Si levò il vento, fece venire i brividi a Semën sotto la camicia, e cominciò a passargli l’ubriacatura, e cominciava a sentir freddo.

E così cammina, tira su col naso, si tiene stretta sul petto la sua giubbetta da donna e pensa: "Eccola la pelliccia, sono andato a prendere la pelliccia, e torno a casa senza caffettano e per di più porto dietro un tizio nudo. Ah, non mi loderà certo, Matrëna!".

E non appena pensava a Matrëna, si sentiva triste. Ma poi, appena si volgeva verso il pellegrino, e si ricordava di come lui l’aveva guardato là vicino alla cappella, subito gli si ravvivava il cuore.

 

III

Aveva sbrigato presto le sue faccende, la moglie di Semën.

Aveva spaccato la legna, aveva portato l’acqua, aveva dato da mangiare ai bambini, aveva mangiato anche lei qualcosina e si era messa a pensare.

Si era messa a pensare a quando mettere in forno i pani: oggi o domani? Di pane ne era rimasto ancora un pezzo grande.

"Se - pensava - Semën ha pranzato là e stasera non mangerà tanto, per domani dovrà bastare, il pane".

Girava e rigirava, Matrëna, il suo pezzo di pane e pensava: "No, non li metto in forno oggi, i pani. Di farina ne è rimasta per un’infornata sola. Tireremo avanti fino a venerdì".

Matrëna ripose il pane e si sedette al tavolo a cucire una pezza sulla camicia del marito.

Cuce e intanto pensa, Matrëna, al marito, alle pelli di pecora che avrebbe portato a casa, per la pelliccia.

"Purché non l’imbrogli, il pellaio. Che è talmente un sempliciotto il mio uomo. Non imbroglia mai nessuno. E lui invece perfino un bambino piccolo lo mena per il naso. Otto rubli non sono mica pochi soldi. Ci si può comperare una buona pelliccia. L’inverno scorso quanto abbiamo penato, senza pelliccia! Non si poteva neanche andare al fiume, da nessuna parte proprio. E anche oggi, ecco, è uscito lui e si è messo addosso tutto quanto, e io non ho più niente da mettere. E non è mica da poco che è uscito, però. Sarebbe anche ora che tornasse. Sarà mica andato a spassarsela, il mio bel falco?"

Appena Matrëna l’ebbe pensato, cricchiarono i gradini del porticato e qualcuno entrò.

Matrëna puntò l’ago e uscì nell’andito.

Vede che sono entrati in due: Semën e con lui un mužěk senza cappello e con i vŕlenki.

Subito Matrëna sentì venire odore di vodka dal marito.

"Eccolo lì - pensò - è proprio andato a spassarsela ".

E quando vide che era senza caffettano e aveva indosso soltanto la giubbetta, e che non aveva niente in mano, e stava zitto, e si era fatto piccino, allora le si spezzò proprio il cuore, a Matrëna.

"Si è bevuto tutti i soldi - pensò - E’ andato a spassarsela con qualche poco di buono, e perfino qua a casa se l’è portato".

Li fece entrare nell’isbà, Matrëna; entrò anche lei, e vede che l’uomo è un forestiero, giovane, magrolino, e che il caffettano che ha indosso è il loro. La camicia non gliela si vede sotto il caffettano, e il berretto non ce l’ha.

E appena è entrato, è rimasto lì, senza muoversi più, e non alzava nemmeno gli occhi.

E pensa, Matrëna: " Non è una brava persona, questo qua, ha paura".

Fece il broncio, Matrëna, andò alla stufa, e intanto stava a vedere quel che avrebbero fatto loro.

Semën si tolse il berretto e si sedette sulla panca, buono buono.

"Be’ - dice - Matrëna, prepara un po’ la cena, insomma!"

Matrëna borbottò qualcosa tra sé e sé, sotto il naso. E si era messa vicino alla stufa e se ne stava lì così, e non si muoveva: guardava ora l’uno ora l’altro e scuoteva la testa, e basta.

E lo vede bene, Semën, che la baba è proprio furiosa, ma che farci: fa finta di non essersene accorto, e prende per il braccio il pellegrino. "Siediti fratello - dice - adesso ceniamo".

Il pellegrino si sedette sulla panca.

"Ma cos’è, non hai preparato?"

Le venne rabbia, a Matrëna. "Non è per te che ho preparato, io. Perfino il cervello ti sei bevuto, me ne sono accorta, sai? Sei andato a comperare la pelliccia, e torni senza neanche il caffettano, e ti sei anche portato dietro questo vagabondo nudo. Non ce l’ho io la cena per voi, ubriaconi".

"Basta, Matrëna, cosa fai andare la lingua così per niente! Prima chiedi chi è questo qua …".

"E tu prima, dimmi dov’è che li hai messi, i soldi?"

Semën frugò nel caffettano, tirò fuori il biglietto, lo spiegò sul tavolo.

"Eccoli qua, i soldi, è che Trifonov non me li ha mica dati, ha promesso che me li manda domani".

Si arrabbiò ancora di più, Matrëna: la pelliccia non l’aveva comperata, e l’ultimo caffettano che gli era rimasto l’aveva infilato a quel tizio nudo che si era portato a casa.

Prese il biglietto dal tavolo, andò a nasconderlo, e intanto dice: "Non ce l’ho la cena. Mica si può dar da mangiare a tutti i vagabondi nudi che ci sono in giro".

"Eh, Matrëna, tienla ferma la lingua. Ascolta, prima, che cosa ci ho da dire io …"

"Ah, c’è niente da ascoltare da un ubriaco scemo. Mica per niente non volevo sposarti, a te, ubriacone che non sei altro. La mamma mi aveva dato i lini, mi aveva dato, e tu te li sei bevuti; sei andato a comperare la pelliccia, e te la sei bevuta anche quella".

Provò a spiegarle, Semën, che si era bevuto soltanto quelle 20 kopejki; voleva raccontarle dove l’aveva trovato, quell’uomo lì, ma Matrëna neanche una parola gli lasciò dire: subito lo rimbeccava, e gliene diceva di tutti i colori e talmente in fretta parlava che pareva dicesse due parole alla volta. E tutto gli ritirava fuori, anche certe cose che eran successe magari dieci anni prima.

Parlava, parlava Matrëna, poi d’un balzo andò da Semën, lo prese per la manica.
"Dammela qua la mia giubba. Questa sola m’è rimasta, e anche questa m’hai tolta e te la sei tenuta tu. Dammela, cane lentigginoso, ti venga un colpo, ti venga!".

Cominciò a togliersi la giubbetta, Semën, gli si impigliò una manica, la baba gliela strappò di mano e la giubbetta si strappò lungo la cucitura. Matrëna la afferrò, e se la buttò sulla testa e prese la porta. Voleva andare via, ma si fermò: un po’ perché ci aveva la rabbia nel cuore, e voleva fargli un’altra scenata, e un po’, però, anche perché voleva sapere chi fosse, quell’uomo lì.


IV

Si fermò, Matrëna, e dice: "Fosse una brava persona, non starebbe lì tutto nudo, e invece non ha nemmeno la camicia, non ha. Se fossi andato a fare cose buone, me l’avresti detto da dove me l’hai portato, un elegantone come quello lì".

"Ma te lo dico sì: stavo andando, e vedo che vicino alla cappella c’è seduto questo qua, spogliato, tutto intirizzito. Non è mica estate da andare in giro nudi. Be’, è stato proprio Dio che me lo ha fatto incontrare, ‘sto qua, che sennò era perduto. E insomma, che potevo fare? Eh, ne capitano di cose, vallo a sapere! L’ho preso, l’ho vestito e l’ho portato qua. Calmati il cuore ora. E’ peccato, Matrëna. Tutti si deve morire".

Matrëna volle ancora imprecare, ma guardò il pellegrino e tacque.

Se ne sta lì seduto, il pellegrino, e non s’è nemmeno mai mosso da quando si è seduto sull’orlo della panca. Le mani le tiene sulle ginocchia, la testa l’ha china sul petto, gli occhi non li apre e la faccia l’ha tutta corrugata, come se qualcosa lo stesse soffocando.

Tacque, Matrëna.

E Semën dice: " Matrëna, ma Dio non è in te?".

Udì queste parole, Matrëna, guardò ancora il pellegrino, e a un tratto il cuore le si sciolse.

Si scostò dalla porta, andò all’angolo della stufa, prese la cena.

Mise una scodella sul tavolo, ci versò lo kvas, mise lì l’ultimo pane.

Portò il coltello e i cucchiai. "Be’, mangiate, no?" dice.

Semën fece avvicinare il pellegrino. "Forza, da bravo" dice.

Semën tagliò il pane, lo spezzettò, e cominciarono a mangiare.

E Matrëna sedeva all’angolo del tavolo, si era appoggiata a un gomito e guardava il pellegrino.

Ed ebbe compassione, Matrëna, del pellegrino, e le piacque. E a un tratto il pellegrino si rallegrò, smise di corrugarsi il viso, alzò gli occhi verso Matrëna e sorrise.

Cenarono: poi la baba sparecchiò e cominciò a chiedergli, al pellegrino: "Ma tu di chi saresti?"

"Non sono di qua".

"E com’è che sei finito sulla strada?"

"Non posso dirlo".

"Chi è che ti ha rubato tutto quanto?"

"E’ Dio che mi ha punito"

"E stavi lì tutto nudo?"

"Così stavo, nudo, a congelare. Mi ha visto Semën, ha avuto compassione, si è tolto il caffettano, me l’ha infilato e mi ha comandato di venire qua. E qua tu mi hai dato da mangiare, da bere, hai avuto compassione di me. Vi salvi il Signore!".

Si alzò, Matrëna, prese dalla finestra una camicia vecchia di Semën, quella stessa che stava rattoppando, la dette al pellegrino; trovò anche un paio di calzoni, glieli dette.

"To’ tieni, vedo che non hai nemmeno la camicia. Vestiti e stenditi un po’ dove ti piace, sulla panca o sulla stufa".

Il pellegrino si tolse il caffettano, si infilò la camicia e i calzoni e si distese sulla panca.

Matrëna spense la luce, prese il caffettano e si distese vicino al marito. Si coprì, Matrëna, con un lembo del caffettano, e stava lì distesa, ma non dormiva: quel pellegrino non le usciva dai pensieri.

Quando si ricordava che lui s’era mangiato l’ultimo pezzo di pane e che per domani non ce n’era rimasto più, di pane, e quando si ricordava che gli aveva dato la camicia e i calzoni, Matrëna si sentiva dentro una grande malinconia; ma quando si ricordava di come aveva sorriso, le si ravvivava subito il cuore.

A lungo non riuscì a dormire, Matrëna, e sentiva che anche Semën non stava dormendo, e si tirava addosso il caffettano.

"Semën!"

"Eh!"
"L’abbiamo finito tutto, il pane, e io per domani non ne ho mica messo in forno. Per domani non so come si farà. Mi sa che dovrò chiederlo alla comare Malan’ja."

"Vivremo e mangeremo" disse sottovoce Semën.

Se ne rimase lì per un po’ in silenzio, la baba.

"E quello lì, sai, lo si vede che è una brava persona, solo chissà come mai non dice niente di chi è, da dove viene …"

"Si vede che non può"

"Sëm!"

"Eh!"
"Noi diamo agli altri, e allora perché nessuno ci dà niente a noi?"

Non sapeva cosa dire, Semën. E allora le dice: "Be’, basta adesso far chiacchiere".

E si voltò, e si addormentò.

 

V

Al mattino Semën si svegliò.

I bambini dormono, la moglie è andata dai vicini a chiedere in prestito il pane.

C’era lì soltanto il pellegrino di ieri, con indosso i vecchi calzoni e la camicia, seduto sulla panca, e guardava in alto. E il viso l’ha più luminoso di ieri. E dice Semën: "Be’, caro mio: la pancia vuole il pane, e il corpo nudo vuole i vestiti. Campare bisogna. Tu che lavoro sai fare?"

"Io non so fare niente"

Si stupì Semën e dice: "Be’, purché ci sia la buona volontà. Gli uomini imparano a fare tutto".

"Gli uomini lavorano e anch’io lavorerò".

"Com’è che ti chiami?"

"Michaìl"
"Be’, Michajla, se non vuoi dire niente di te, sono fatti tuoi, ma campare bisogna. Farai il lavoro che ti dirò io, e io ti darò da mangiare"

"Ti salvi il Signore, imparerò. Mostrami cosa devo fare".

Semën prese un filo, se lo avvolse su un dito e cominciò a fargli un capo.

"Non è mica difficile, sta’ a vedere …"

Lo guardò, Michajla, si avvolse anche lui un filo sulle dita, e imparò subito, e fece anche lui il capo al suo filo.

Gli mostrò, Semën, come si faceva a scaldare il cuoio.

Anche stavolta Michajla capì subito.

Il padrone gli mostrò anche come si torce la setola, e anche questo Michajla lo capì subito.

Ogni lavoro che Semën gli mostrava, lui lo capiva subito, e il terzo giorno cominciò a lavorare come se avesse cucito stivali per tutta la vita. Lavorava senza smettere mai un momento, e mangiava poco; quando lasciava il lavoro, taceva e guardava sempre in alto.

Non usciva mai, non diceva mai una parola di troppo, non scherzava, non rideva.

L’avevano visto sorridere soltanto una volta, quella prima sera, quando la baba gli aveva dato da cenare.

 

VI

Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, chiuse il suo ciclo un anno intero.

E Michajla viveva sempre lì da Semën, e lavorava.

E si sparse la voce che nessuno sapesse far stivali tanto belli e tanto forti, come quelli che faceva Michajla, il lavorante di Semën, e da tutto il circondario cominciò a venir gente da Semën a farsi fare gli stivali, e anche da lontano ne vennero, e Semën cominciava a metter da parte un po’ di soldi.

Una volta, d’inverno, Semën era seduto a lavorare, insieme a Michajla, quand’ecco che si avvicina all’isbà una slitta coperta, con le portiere, e con un tiro a tre, coi sonagli.

Guardarono dalla finestra: la slitta si fermò davanti all’isbà, dalla serpa balzò giù un giovanotto, aprì la portiera. E scende un barin, in pelliccia.

Uscì dalla slitta, andò alla casa di Semën, salì sul porticato.

Matrëna corse subito a spalancargli la porta. Il barin si chinò, entrò nell’isbà, si raddrizzò, e ci mancava poco che arrivasse al soffitto con la testa, e riempiva lui da solo tutto un angolo.

Semën si alzò, si inchinò e guardò stupito il barin.

Lui di persone così non ne aveva mai nemmeno viste.

Semën era tutto secco secco e Michajla era magrolino, e Matrëna era tutta asciutta di corpo come neanche un cucciolino di cane; quello là invece pareva un uomo di un altro mondo: il muso tutto rosso, irrorato di sangue, il collo come un toro, pareva fatto di bronzo, pareva.

Sbuffò il barin, si tolse la pelliccia, si sedette sulla panca e dice: "Chi è il padrone di casa, il calzolaio, qua?"

Si fece avanti Semën, e dice: "Io, signoria"

Gridò il barin al suo giovanotto: "Ehi, Fed’ka, portami qua la merce".

Arrivò di corsa il giovanotto, e portò un involto. Il barin lo prese, quell’involto, lo mise sul tavolo.

"Aprilo" dice e il giovanotto lo aprì.

Puntò il dito, il barin, su quella merce di calzoleria e dice a Semën: "Be’, allora stammi a sentire, calzolaio.

La vedi questa merce qua?

"La vedo, signoria"

"Ma lo capisci tu che merce è questa qua?"

Semën tastò la merce, e dice: "E’ merce buona"

"Altroché se è buona! Su, scemo, non l’hai mai nemmeno vista una roba così. E’ roba tedesca, venti rubli l’ho pagata"

Si intimidì Semën, dice: "E dove potremmo vederne noi di roba così"

"Ecco, appunto. Sei capace tu, con questa merce qua, di farmi degli stivali per il piede mio?"

"Si che si può, vostra signoria"

Si mise a gridargli contro, il barin: "Altro che si può, … si può! Tu devi capirlo bene per chi è che li devi fare, e che merce è questa qua. Degli stivali devi farmi, che li possa portare un anno intero, e non si stortino e non si scuciano. Se sei capace, mettitici, taglia la merce che ti do, ma se non sei capace, non mettertici nemmeno e non tagliar niente. Ti avverto fin d’ora, sentimi bene: che se mi si dovessero scucire o stortare prima che sia passato un anno, io ti farò mettere in galera, a te; e se invece non si storteranno e non si scuciranno prima che sia passato un anno, ti darò dieci rubli per il lavoro".

Si intimidì Semën, e non sapeva cosa dire.

Si voltò a guardare Michajla. Gli dette di gomito e bisbigliò: "Be’, fratello, e allora?"

Annuì, Michajla: "Prendilo, il lavoro" voleva dire.

Semën gli dette retta, a Michajla, e disse che avrebbe fatto degli stivali che per un anno intero non si sarebbero storti e non si sarebbero scuciti.

Il barin chiamò il suo giovanotto, gli comandò di togliergli lo stivale dal piede sinistro, allungò il piede.

"Pigliami la misura!"

Semën cucì una carta di 10 verškì (un verškì equivaleva a cm 4,4), la piegò, si mise in ginocchio, si nettò ben bene la mano sul grembiule, per non sporcare la calza del barin, e cominciò a pigliargli la misura.
Misurò la suola, poi misurò il calcagno; cominciò a misurare il polpaccio, ma i lembi della carta non arrivavano a congiungersi. Quel gambone al polpaccio era grosso come un tronco.

"Bada, eh, che non mi stringa il gambale"

Semën si mise a cucire altra carta. E intanto se ne sta lì seduto, il barin, fruga con le dita dentro la calza, e guarda le persone che sono nell’isbà.

Vide Michajla. "E quello - dice - chi è quello che hai lì?"

"Lui è il mio mastro, è lui che li farà, gli stivali"

"Bada, allora - dice il barin a Michajla - ricordati, cucili che li si possa portare un anno"

Anche Semën si voltò a guardare Michajla; e vide che Michajla non lo guarda nemmeno, il barin, ma si è messo a fissare nell’angolo dietro al barin, come se stesse osservando attentamente qualcuno lì. Guardò, guardò Michajla e poi a un tratto sorrise e si illuminò tutto.

"Be’, scemo, cos’hai da far vedere i denti? Faresti meglio a guardare che sia pronto per tempo, il lavoro"

E dice Michajla: "Sarà pronto per quando bisogna"

"Ecco, appunto".

Si infilò lo stivale, il barin, poi la pelliccia; se la chiuse e andò alla porta.

Ma si dimenticò di chinarsi, batté la testa contro l’architrave.

Imprecò il barin, si fregò la testa con la mano, si sedette nella slitta e partì.

Partì il barin, e Semën disse: "E’ duro come la pietra quello lì. Neanche col mazzapicchio lo butti giù, uno così. Ha scassato la trave con la testa, e non s’è fatto niente".

E Matrëna dice: "Con la vita che fa, per forza che è così grande e grosso. Un bullone come quello lì neanche la morte se lo piglia più".

 

VII

E dice Semën a Michajla: "Per prenderlo, il lavoro, il lavoro l’abbiamo preso, ma speriamo che non ce ne venga un guaio, adesso. La roba è cara, e quel barin è uno che si arrabbia. Speriamo di non fare sbagli. Mettitici tu, tu hai gli occhi più acuti, e adesso ci hai la mano più di me, eccoti la misura. Taglia e io cucirò le tomaie".

Non disubbidì Michajla, prese la merce del barin, la stese sul tavolo, la piegò in due, prese il trincetto e cominciò a tagliare.

Matrëna gli venne vicino, guardò come Michajla tagliava, e si stupì di quel che Michajla stava facendo.

Si era abituata ormai, Matrëna, al mestiere del calzolaio, e vede che Michajla non la sta tagliando da calzolaio, la merce del barin, ma la taglia in tondo.

Voleva dirglielo, Matrëna, ma pensa tra sé: "Mah, si vede che non ho capito come si cuciono gli stivali a un barin; si vede che Michajla ne sa più di me, non mi ci devo impicciare".

Tagliò, Michajla, poi prese il filo e cominciò a cucire, ma non da calzolaio, a punto doppio, ma a un punto solo, come si cuciono le ciabatte.

Si stupì anche di questo, Matrëna, ma anche stavolta non volle impicciarsi.

E intanto Michajla continuava a cucire.

Venne mezzogiorno, Semën si alzò, guarda e vede che Michajla con la merce del barin ha fatto un paio di ciabatte. Rimase a bocca aperta, Semën.

"Come - pensa - Michajla è già un anno che vive qua, e non si è mai sbagliato in niente, e adesso mi ha combinato questo guaio? Il barin aveva ordinato degli stivali lunghi, tutti d’un pezzo e con la tramezza, e lui ha fatto un paio di ciabatte senza suola, e ha rovinato la merce. Come facciamo adesso con il barin? Una merce così non la trovi mica".

E dice a Michajla: "Ma cosa mi hai fatto, testone mio che sei? Mi hai rovinato! Il barin aveva ordinato degli stivali, e tu cosa gli hai cucito?"

Aveva appena cominciato a rimproverare Michajla, che si sentì picchiare l’anello della porta, qualcuno bussava. Guardarono dalla finestra: era arrivato qualcuno a cavallo, stava legando il cavallo. Aprirono: entra quello stesso giovanotto che era col barin.

"Salve!"
"Salve, che ti serve?"

"E’ la bàrynja che mi ha mandato a dirvi degli stivali"

"A dir cosa, degli stivali?"

"Eh, a dir cosa! Di stivali, il barin non ne ha più bisogno"

"Ma che dici?"

"Quando siamo andati via di qua non è arrivato nemmeno a casa, è morto dentro la slitta. A casa, appena ho fermato sono corsi subito per farlo scendere, e lui è scivolato fuori per metà, come un sacco, era già bell’e stecchito, e stava lì morto, che han fatto fin fatica a tirarlo fuori dalla slitta.

E la bàrynja mi ha mandato qua, e dice - Digli, al calzolaio, che è venuto da voi un barin, ha ordinato degli stivali e ha lasciato la merce; digli che degli stivali non c’è più bisogno, adesso, e che da quella merce lì gli cuciano il più presto possibile un paio di ciabatte da morto. E fermati lì e aspetta che le abbiano finite, e poi portale qua, le ciabatte - Ed eccomi qua".

Michajla prese dalla sedia i ritagli della merce, li arrotolò a tubo, prese anche le ciabatte, che erano già pronte, le batté una contro l’altra, le lucidò con il grembiule e le dette al giovanotto.

Il giovanotto prese quelle ciabatte.

"Addio, padroni! Un’ora buona!".

 

VIII

Passò un altro anno, e poi altri due, ed era già il sesto anno che Michajla viveva da Semën.

Viveva come prima.

Non andava da nessuna parte, non diceva mai niente di troppo e in tutto quel tempo aveva sorriso soltanto due volte: una volta, quando la baba gli aveva dato da cenare, e l’altra volta, al barin.

E Semën non si saziava mai della gioia di star lì a guardare il suo lavorante. E non gli domandava più di dove fosse; di una cosa soltanto aveva paura, che Michajla lo potesse lasciare.

Una volta erano seduti in casa.

La padrona stava mettendo le pentole nella stufa, e i ragazzi correvano sulle panche, e guardavano dalle finestre. Semën sta cucendo davanti a una finestra, e Michajla è accanto all’altra finestra, che sta martellando un tacco.

Uno dei bambini corse sulla panca da Michajla, gli si appoggiò alla spalla e guarda dalla finestra. "Zio Michajla, guarda un po’, una mercantessa con le figlie, vuoi vedere che è da noi che viene. E una delle figlie è zoppa".
Appena il bambino ebbe detto così, Michajla lasciò il lavoro, si volse verso la finestra, e guarda fuori.

E si stupì, Semën. Di solito Michajla non guardava mai fuori, adesso invece restava lì incollato alla finestra e guardava fisso qualcosa.

Dette un’occhiata anche Semën, dalla finestra; e vede che sulla destra c’è una donna che viene verso casa sua, ed è vestita elegante, e tiene per mano due bambine che hanno indosso le loro belle pelliccette, e in testa degli scialli di lana grossa, rabescati. Le bambine sono proprio due gocce d’acqua, non si riesce a distinguerle. Solo che una aveva la gambina sinistra rovinata, e zoppicava.

La donna salì sul porticato, entrò nell’andito, tastò la porta, trovò la maniglia e aprì.

Fece passare per prime le due bambine ed entrò nell’isbà.

"Salve, padroni!"

"Ma prego, benvenute. Che vi occorre?"

La donna si sedette al tavolo.

Le sue bambine le si strinsero alle ginocchia, a sbirciare stupite le persone che c’erano lì.

"Eh, son qua a far fare le scarpine di cuio alle mie bambine, per la primavera"

"Come no, si può. Non ne abbiamo mai fatte di così piccine, ma tutto si può fare. Le si può fare con la tramezza, o magari di pelle rovesciata, con la tela. Eccolo qua il mio mastro, Michajla".

E si volta Semën verso Michajla, e vede: Michajla ha lasciato il lavoro, e se ne sta lì fermo, e non stacca lo sguardo dalle bambine. E si stupì Semën, di Michajla.

Si, le bambine sono proprio belle, pensa Semën: con gli occhietti neri, paffute, coi guancini rosei, e anche le pelliccette e gli scialli sono belli, eppure non riesce a capire, Semën, perché mai Michajla s’è messo a fissarle a quel modo, pareva quasi che le conoscesse.

Si stupì Semën, e intanto cominciò a ragionare con la donna, ad accordarsi sul prezzo.

Si accorarono, lui tirò fuori la carta per la misura.

La donna prese sulle ginocchia la zoppina e dice:

"Ecco, a questa prendile due misure, per il piedino zoppo fa’ una scarpa, e per quello giusto fanne tre. Loro due hanno i piedini uguali identici. Sono gemelle".

Semën prese la misura e dice, accennando alla zoppina:

"Ma com’è successo? E’ una bambina tanto bella. Cos’è, è nata così?"

"No, la mamma gliel’ha schiacciata".

S’intromise Matrëna, che voleva sapere di chi fosse quella donna e di chi le bambine, e dice:

"Ma com’è, non sei mica tu la madre?"

"Non gli son madre e neanche parente, cara la mia padrona, niente siamo io e loro, sono adottive"

"Non sono figlie tue, e gli vuoi tanto bene!"

"E come si fa a non volergli bene, gliel’ho dato io il latte a tutte e due, dal petto mio. L’avevo un bambino, ma se l’è ripreso Iddio, e perfino a lui non gli volevo tanto bene come ne voglio a queste"

"Ma di chi è che sono?"

 

IX

Si mise a chiacchierare la donna e cominciò a raccontare:

"Sarà stato un sei anni fa, - dice - in capo a una settimana padre e madre gli morirono, a queste due orfanelle: il padre glielo avevano seppellito di martedì, e di venerdì gli morì la madre. Da tre giorni avevano perso il padre, pure la madre non ci rimase con loro neanche un giorno di più.

Io, a quel tempo, facevo la contadina, col marito mio.

Eravamo vicini di casa con loro, proprio cortile a cortile.

Il loro padre era un mužěk di quelli soli, era nel bosco a lavorare. E un albero, che stavano abbattendo, gli era cascato addosso, e l’aveva preso proprio in mezzo e tutti gli intestini gli aveva schiacciato. Fecero appena in tempo a portarlo a casa, che rese l’anima a Dio, e la sua baba quella stessa settimana partorì due gemelle, queste due bambine qui.

Poveri com’erano, e poi soli, non ci aveva nessuno la baba, né una vecchia, né una ragazza, nessuno proprio.

Partorì da sola e da sola morì.

Io ero andata a far visita alla mia vicina al mattino, entro nell’isbà e lei poveretta era già gelida. Quando era morta era caduta sulla bambina. Questa qua, appunto, e gli ha storpiato la gamba.

Venne gente, la lavarono, la misero tutta in ordine, le fecero la bara, e la seppellirono.

Eh, era tutta brava gente. E le bambine però erano rimaste sole. Che farne? E io tra le babe ero l’unica che aveva un bambino. Il mio primogenito, era l’ottava settimana che gli davo il latte.

Così le presi io, per il momento.

I mužikě si riunirono, e pensarono, pensarono cosa farne delle bambine, e mi dicono - Tu, Mar’ja, per il momento tienle da te le bambine, e dacci il tempo, che troveremo cosa fare - e io gli detti il petto a quella sana, e quest’altra, invece, storpiata com’era, non stavo nemmeno lì a darle da mangiare: non pensavo che sarebbe rimasta viva.

Poi però penso, ma perché farla morir di fame quest’anima d’angelo?

Così ho avuto compassione anche di questa qua.

Ho cominciato a darle il latte, e così il mio e queste altre due, tre ne ho nutriti, col petto mio!

Ero giovane, avevo la forza, e poi anche il mangiare era buono. E di latte ne avevo nel petto che Dio ne mandava … si inondavano tutti e tre, proprio.

Così ne allattavo due insieme, e intanto la terza è lì che aspetta. Appena se ne staccava una, prendevo su la terza.

Così ha voluto Dio, che queste due le ho svezzate, il mio invece al secondo anno l’ho seppellito.

E poi Dio non me ne ha dati più, di bambini.

Di soldi invece ne abbiamo fatti. E così adesso viviamo qua al mulino, dal mercante.

Lo stipendio è grosso, si vive bene. Ma bambini non ne vengono.

E come farei a vivere così da sola, se non ci fossero queste due bambine!

Come faccio a non volergli bene!

Loro due per me sono come la cera per la candela, proprio".

E con un braccio la donna strinse a sé la bambina zoppa, e intanto con l’altra mano si terse le lacrime dalle guance.

E Matrëna sospirò, e dice:

"Si vede proprio che mica lo dicono per niente il proverbio: senza padre e madre ce la si fa a campare, ma senza Dio non si campa".

Parlarono così ancora un poco tra loro, e poi la donna si alzò per andar via; la accompagnarono alla porta i padroni di casa, e si volsero verso Michajla.

Lui se ne stava lì, con le mani sulle ginocchia, e guardava in alto, sorrideva.

 

X

Gli si avvicinò Semën: "Eh, ma cos’è che hai, Michajla?"

Machajla si alzò dalla panca, mise in un canto il suo lavoro, si tolse il grembiule, si inchinò al padrone e alla padrona e dice:

"Perdonatemi, padroni. Dio mi ha perdonato. Perdonatemi anche voi"

E il padrone vede che da Michajla viene una luce.

Si alzò, Semën, si inchinò a Michajla e gli disse:

"Lo vedo, Michajla, che tu non sei un uomo come tutti gli altri, e non ti posso trattenere, e non posso farti domande. Dimmi soltanto una cosa: perché quando ti ho trovato e ti ho portato qui in casa, tu avevi la faccia cupa, e quando la baba ti ha dato la cena, tu le hai sorriso e da allora sei diventato più luminoso?

E poi, quando quel barin ci stava ordinando gli stivali, tu hai sorriso un’altra volta e da allora sei diventato ancora più luminoso?

E adesso, quando la donna ha portato qua le bambine, tu hai sorriso per la terza volta e ti sei illuminato tutto.

Dimmi, Michajla, perché da te viene questa luce e perché hai sorriso tre volte?"

E disse Michajla:

"Da me viene questa luce, perché io ero punito, e adesso Dio mi ha perdonato.

E ho sorriso tre volte perché dovevo conoscere tre parole di Dio.

E le ho conosciute, adesso, le parole di Dio; una parola l’ho saputa quando tua moglie ha avuto pietà di me, e perciò ho sorriso la prima volta. Un’altra parola l’ho saputa quando il riccone ci stava ordinando gli stivali, e ho sorriso per la seconda volta; e adesso, quando ho visto le bambine, ho conosciuto l’ultima, la terza parola, e ho sorriso per la terza volta".

Disse Semën:

"Dimmi, Michajla, per cosa ti ha punito Dio e quali sono quelle parole, perché io sappia?"

E disse Michajla:

"Dio mi ha punito perché gli avevo disobbedito. Io ero un angelo in cielo e ho disubbidito a Dio.

Ero un angelo in cielo, e il Signore mi aveva mandato a togliere l’anima a una donna.

Io volai sulla terra, e vedo che la donna è distesa lì da sola, è malata, ha partorito due gemelle.

Le bambine si muovevano lì vicino alla madre, e la madre non riusciva a prendersele al petto.

Mi vide la donna, capì che Dio mi aveva mandato a toglierle l’anima, e si mise a piangere e dice:

- Angelo di Dio! Hanno appena sepolto mio marito, è rimasto schiacciato da un albero nel bosco. Non ho né sorelle, né zia, né nonna, nessuno che possa crescere le mie due orfane. Non prendere la mia anima poveretta, lascia che sia io a dar da bere e da mangiare ai miei figli, a metterli in piedi! Senza madre e padre non possono vivere, i bambini! –

E detti ascolto alla madre, le misi una bambina sul petto, le misi l’altra su un braccio e salii dal Signore in cielo. Arrivai volando dal Signore e dico: - Non ho potuto toglierle l’anima, a quella donna che ha appena partorito. Il marito è morto schiacciato da un albero, la madre ha partorito due gemelle e prega che non le sia tolta l’anima, dice: - Lascia che sia io a dar da bere e da mangiare ai miei figli, a metterli in piedi. Senza padre e madre i bambini non possono vivere - ".

E disse il Signore: - Va’ a togliere l’anima a quella donna, e conoscerai tre parole: conoscerai quel che c’è negli uomini, e quel che agli uomini non è dato, e cosa fa vivere gli uomini. Quando l’avrai saputo, tornerai in cielo – .

Io tornai in volo sulla terra e tolsi l’anima alla donna. Le caddero le bambine dalle mammelle. Cadde sul letto il corpo morto, schiacciò una bambina e le storpiò una gambina.

Io mi alzai in volo sopra il villaggio, volevo portare l’anima a Dio, ma il vento mi prese, le ali mi si abbassarono, mi caddero, e l’anima andò da Dio da sola, e io caddi per terra vicino alla strada".


XI

E compresero Semën e Matrëna a chi avevano dato da vestire e da mangiare, e chi aveva abitato con loro, e si misero a piangere di spavento e di gioia.

E disse l’Angelo:
"Rimasi solo e nudo in quel campo. Non avevo conosciuto prima d’allora le miserie degli uomini, non avevo conosciuto né il freddo, né la fame, e divenni un uomo.

Avevo fame, ero intirizzito e non sapevo cosa fare. Vidi che nel campo era stata fatta una cappella per Dio, mi avvicinai alla cappella di Dio, volevo ripararmi lì dentro. Ma la cappella era chiusa a chiave e non ci si poteva entrare. E mi sedetti dietro alla cappella, per ripararmi dal vento.

Venne la sera, avevo tanta fame e freddo e mi doleva tutto.
A un tratto sento che viene un uomo lungo la strada, ha un paio di stivali in mano, e parla da solo.

E per la prima volta, da quando ero diventato uomo, vidi il volto mortale di un uomo, e mi fece paura il suo volto, mi volsi via.

E sento che quest’uomo sta parlando da solo, di come fare a riparare dal gelo il suo corpo nell’inverno, e a dar da mangiare alla moglie e ai figli.

E pensai: - Io sto morendo di freddo e di fame, ed ecco che viene un uomo che sta pensando soltanto a come proteggere se stesso e la moglie, e ad aver da mangiare. Lui non può aiutarmi - .

Mi vide, l’uomo, si accigliò, divenne ancor più spaventoso e passò oltre. E io mi sentii disperato.

A un tratto sento che l’uomo sta tornando indietro.

Gli gettai un occhiata e non riconobbi l’uomo di prima: prima sul suo volto c’era la morte, e adesso tutt’a un tratto era diventato vivo, e nel suo volto riconobbi Dio.

Mi si avvicinò, mi vestì, mi prese con sé e mi condusse a casa sua. Arrivai a casa sua, ci uscì incontro una donna e cominciò a parlare.

Questa donna era ancora più spaventosa dell’uomo: un odore di morte veniva dalla sua bocca, e io non riuscivo più a respirare, tanto forte era quel fetore di morte.

Voleva cacciarmi fuori al gelo, e io sapevo che sarebbe morta, se mi avesse scacciato.

E a un tratto suo marito le disse di Dio, e la donna tutt’a un tratto cambiò.

E quando ci dette la cena, e mi guardò anche lei, io la guardai e vidi che in lei non c’era più la morte, era viva, e riconobbi Dio anche in lei.

E mi ricordai della prima parola di Dio: - Conoscerai cosa vi è negli uomini - .

E conobbi che negli uomini c’è l’Amore. E mi rallegrai che Dio avesse già cominciato a rivelarmi quello che aveva promesso, e sorrisi per la prima volta.

Ma non potei ancora sapere tutto. Non potei capire che cosa non fosse dato agli uomini e cosa facesse vivere gli uomini.

Cominciai a vivere da voi e ci vissi un anno. E venne un uomo a ordinare degli stivali che si potessero portare per un anno intero senza che si scucissero e si stortassero.

Io gli gettai un’occhiata e a un tratto, dietro le sue spalle, vidi un mio compagno, un angelo della morte.

Nessuno oltre a me vedeva quell’angelo, ma io lo conoscevo e sapevo che prima del tramonto al riccone sarebbe stata tolta l’anima.

E pensai: l’uomo si prepara cose che gli durino un anno intero, e non sa che non vivrà fino a stasera.

E mi ricordai dell’altra parola di Dio: - Saprai cosa non è dato agli uomini -.

Cosa c’è negli uomini io lo sapevo già.

Adesso seppi che cosa agli uomini non è dato. Non è dato agli uomini di sapere che cosa occorra loro per il loro corpo. E sorrisi per la seconda volta.

Ero tanto contento di aver visto un angelo mio compagno, e che Dio mi avesse rivelato un’altra parola. Ma non riuscivo ancora a capire tutto.

Non riuscivo ancora a capire cosa facesse vivere gli uomini.

E continuavo a vivere e ad aspettare che Dio mi rivelasse l’ultima parola.

E il sesto anno vennero le due bambine gemelle e la donna, e io riconobbi le bambine, e seppi com’erano sopravvissute quelle bambine.

Lo seppi e pensai:

E quando si commosse la donna per quelle figlie non sue e si mise a piangere, io vidi in lei il Dio vivente e capii che cosa fa vivere gli uomini.

E seppi che Dio mi aveva rivelato l’ultima parola e mi aveva perdonato, e sorrisi per la terza volta".

 

XII

E si denudò il corpo dell’Angelo, ed egli tutto di luce si rivestì, così che l’occhio non poteva più guardarlo; e prese a parlare più forte, come se la sua voce non venisse da lui, ma dal cielo.

E disse l’Angelo:

"Ho conosciuto che ogni uomo è vivo non per la cura che egli può avere di sé, ma perché è l’amore che lo fa vivere.

Non era dato alla madre di sapere che cosa occorresse alle sue figlie, per poter vivere.

Non era dato al ricco di sapere di che cosa avesse bisogno.

E non è dato a nessun uomo di sapere se prima di sera gli occorreranno degli stivali fatti per un vivo o delle ciabatte da morto.

Ero rimasto vivo, quando ero uomo, non perché avessi pensato a me stesso, ma perché vi era amore nell’uomo che m’era passato accanto e nella moglie di lui, e perché loro ebbero compassione di me e mi vollero bene.

Erano rimaste vive le orfane non perché qualcuno avesse pensato a loro, ma perché vi era amore nel cuore di una donna a loro estranea e lei ebbe compassione, e volle bene a loro.

E sono vivi tutti gli uomini non perché sappiano pensare a se stessi, ma perché vi è amore negli uomini.

Io prima sapevo che Dio ha dato la vita agli uomini e vuole che vivano; adesso ho capito anche un’altra cosa.

Ho capito che Dio non ha voluto che gli uomini vivessero ciascuno per conto proprio, e perciò non ha insegnato loro a capire ciò di cui ognuno ha bisogno, ma ha voluto che vivano tutti insieme, in concordia, e perciò ha rivelato loro di cosa abbiano bisogno tutti quanti, loro stessi come anche tutti gli altri.

Ho capito adesso che agli uomini sembra di poter vivere per tutte le cure che hanno di sé, ma in realtà sono vivi soltanto perché è l’amore che li fa vivere.

Chi è nell’amore, è in Dio e Dio è con lui, perché Dio è amore".

E prese a cantare l’Angelo in lode a Dio, e al suono della sua voce tutta l’isbà tremò. E si aprì il soffitto, si levò una colonna di fuoco dalla terra fino al cielo. E Semën e sua moglie e i figli caddero a terra. E all’Angelo spuntarono le ali dietro la schiena, ed egli salì al cielo.

Quando Semën si ridestò, l’isbà era come prima, e nell’isbà non vi era già più nessuno, eccetto i suoi famigliari.

 



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