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La
frase è contenuta nel verso 355 delle Satire di Giovenale, noto
poeta romano contemporaneo di Tacito. Con poche parole l'autore dimostra
che la felicità nella vita si fonda su valori essenziali. Chi possiede
un corpo e una mente sani, ha ancora ben poco da desiderare. La felicità,
come il successo, dipende in massima parte dall'efficienza di questi beni.
Chi non ha una mente saggia, capace di guidare, difficilmente prenderà
la via giusta e chi ha un corpo debole non sarà mai capace di procedere
e resistere a lungo sulla via, perché accade nel corpo quello che
accade nella mente.
Qual è il limite fra la qualità funzionale dei sensi o degli
arti rispetto alla mente?
Fino a che punto la mente di un atleta condiziona il risultato della competizione?
Perché le fibre muscolari delle gambe di alcuni atleti sono in
grado di generare, nella breve durata della corsa, più sprint rispetto
agli avversari?
In una gara di velocità, che dipende soprattutto dalla potenza
pura, si sa che uno dei principali fattori determinanti il successo è
lo stato fisiologico complessivo. La fisiologia, la psichiatria, la medicina
sportiva dal XIX secolo a oggi hanno promosso e potenziato la ricerca,
ma la sperimentazione è in continuo divenire.
Quanto in passato la mancanza di queste conoscenze, gli errori o l'aver
fatto di necessità virtù, hanno pesato sulla fabbricazione
dei corpi olimpionici?
Friedrich Nietzsche, il noto filosofo, capace di connettersi sia all'evoluzionismo
che all'irrazionalismo, come alla filosofia della vita, ma sempre in una
decisa inversione di tendenza rispetto ai valori tradizionali, in "Così
parlò Zaratustra", tra tante cose più o meno giuste,
più o meno provocatorie o esagerate, nel famoso capitolo "Dei
Dispregiatori dei corpi" scrive - Strumento del tuo corpo è
anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami spirito, un piccolo
strumento e giocattolo della tua ragione[
]. Dietro i tuoi pensieri
e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto che
si chiama Sé. Abita nel tuo corpo. È il tuo corpo. Vi è
più ragione nel tuo corpo che nelle tua migliore saggezza -.
Nell'arco della vita l'uomo impara a usare il proprio cervello (che è
corpo), con finezza e capacità. Questi apprendimenti emergono nella
musica, nell'arte, nell'espressione corporea e sono momenti a cui tutti
spiriamo, perché rappresentano la base del nostro carattere e della
personalità. Il nostro "io" ha imparato come colloquiare
con qualsiasi parte selezionata dalla mente.
Ian H. Robertson riporta un'esperienza interessante:
L'ostacolista è curvo sui blocchi di partenza, la mente fissa soltanto
sui muscoli tesi del suo corpo inarcato. Allo sparo del via scatta sulla
pista come sospinto da una molla, coprendo ad alte falcate il rettilineo
verso il primo ostacolo. Le sue braccia fendono l'aria con un movimento
meccanico. Salta e supera l'ostacolo, immediatamente riprendendo contatto
con il terreno. Corre i primi 200 metri come in volo. Ma ecco, improvvisamente,
le riserve di energia cominciano ad abbandonarlo;
le gambe, alate pochi istanti prima, ora pesano come piombo ed egli si
trova in quel punto tremendo, vero e proprio calvario di chi corre i 400
metri ostacoli, in cui la velocità deve cedere il passo alla resistenza.
Richiama tutte le sue forze, ogni passo diventa un gigantesco sforzo di
volontà, ogni salto un teorema da dimostrare, l'aria è un
liquido viscoso sulle mani tese. Taglia il traguardo con un ultimo guizzo,
gli occhi spalancati a catturare il cronometro. (Maledizione ! due secondi
dal suo record). Il cuore riprende il suo battito regolare, i pugni stretti
in segno di frustrazione - due secondi sono come due anni quando si è
così vicini ad un appuntamento agonistico. Niente da fare, deve
correre di nuovo. Le gambe hanno smesso di tremare, le dita si rilassano,
rialza la testa. Ancora una volta. Si riporta ai blocchi di partenza e
lentamente si riposiziona, brucia lo sparo del via ed aggredisce i primi
ostacoli come un animale braccato. Duecento metri ed il suo stesso corpo
gli fa capire che sta facendo un buon tempo. Ma ecco che improvvisamente
- cosa succede? - sta rallentando. Le gambe si trasformano in gomma, le
braccia sventolano alte sopra la testa. Lascia di corsa la pista e cade
vomitando sull'erba. L'atleta riesce a malapena a tornare nello spogliatoio
dopo le due prove a cronometro. Nel sentirsi male ha immediatamente riconosciuto
l'errore commesso: due tentativi di seguito sui 400 metri sono praticamente
impossibili per il corpo; nessun atleta li affronterebbe senza una pausa
sufficientemente lunga prima della seconda corsa.
Lo stesso vale per la mente nella sua palestra mentale. Perché
la corsa affrontata mentalmente ha in realtà le stesse caratteristiche
di quella fisica: una prova cronometrata al millesimo di secondo. La differenza
è ovvia soltanto all'osservatore esterno, che non può vedere
nulla della corsa mentale su cui è concentrato l'atleta immobile.
Ma, per chi corre, la situazione è esattamente la stessa, fino
al punto d'avere conati di vomito per l'eccessivo sforzo.
Il campione olimpico di lancio del giavellotto Steve Backley nel suo libro
"La mente vincente,"riporta l'esempio di un ostacolista il cui
addestramento mentale era così simile a quello fisico da produrre
questo drammatico effetto. E' molto comune per i campioni sportivi allenarsi
su piste e palestre mentali. In una particolare occasione, Backley stesso
si storse una caviglia a sole quattro settimane dall'inizio delle gare
e rimase immobile per due settimane - di solito un grave svantaggio per
un atleta a quel punto della stagione. Dalla sedia su cui era immobilizzato,
tuttavia, durante quelle due settimane lanciò mentalmente il giavellotto
migliaia di volte. All'inizio gli era difficile visualizzare i lanci mentali
senza che la sua caviglia lo costringesse a zoppicare! Tuttavia, egli
scoprì che concentrando la sua immaginazione sul lato indenne del
corpo, poteva visualizzare i dettagli di lanci fluidi, spesso tecnicamente
perfetti. Come risultato, al termine delle due settimane di convalescenza,
potè riprendere l'allenamento fisico dal punto in cui l'aveva lasciato
prima dell'incidente.
I neurofisiologi stanno studiando questo fenomeno, utilizzato intuitivamente
dagli atleti per decenni.
Le ricerche scientifiche per riprogrammare i corpi del terzo millennio
devono tenere in maggior considerazione lo stress, variabile sempre più
presente nella tensione virtuale. Il confronto ormai avviene per telemetria.
La vittoria è segnata da frazioni di secondo; intorno ai campioni
gravitano sponsor e budget che impongono le loro regole e i loro ritmi,
lo sport è business e per fare cassetta deve inventare spettacoli
sempre nuovi ed estremi, costruire campioni da bruciare in fretta. I campioni
devono rendere e si consumano velocemente, ma il vivaio delle promesse
scarseggia. Talenti sportivi si nasce e poi si diventa, non si pensa che
la situazione contingente aliena le menti. Tsugihiro Osaki, un maestro
d'arco che insegna kyudo alle guardie imperiali giapponesi, spiega come
allena gli uomini che garantiscono la prima sicurezza imperiale:
"Ci vuole tranquillità per richiamare la forza interiore che
fa la freccia".
Questa tradizione conservata nei secoli è ancora uno strumento
molto utile.
Il maestro d'arco esercita le guardie assistito dal maestro più
anziano, già in pensione, utile per osservare e dialogare. Gli
allievi si mettono in posizione e iniziano un elaborato rito preparatorio:
sono talmente concentrati che potrebbero sembrare in stato di trance.
Il sentiero delle frecce è ameno, si estende curatissimo davanti
agli arcieri e conduce a un muro al quale sono appesi tre bersagli. Quando
le guardie passano all'azione, Osaki le incita al tiro, ma lo fa con tono
pacato e garbato: "stai dritto", oppure "La spalla è
troppo bassa" o ancora "Non mirare, lascia che la freccia segua
il suo corso".
Quando le frecce colpiscono il bersaglio, si congratula. L'anomalia di
questa preparazione atletica è che nessuno ha mai visto portare
arco e frecce e tanto meno esercitare atleti di kyudo nel tiro con l'arco.
Il maestro giapponese fornisce questa spiegazione:
"Nel Kyudo non ci si sforza di colpire il bersaglio, si assume la
giusta posizione. Si eseguono i passi giusti. Poi la freccia arriva sul
bersaglio per conto suo".
Il maestro più anziano Kunio Matsui chiarisce meglio il concetto:
"L'apprendimento del tiro con l'arco insegna a concentrarsi, e genera
sicurezza, una sorta di consapevole stato di allerta mentale. Cerchiamo
di prevenire le situazioni pericolose. Chi ha imparato ad affinare le
proprie facoltà mentali previene i problemi con maggior facilità".
Nell'album dei ricordi olimpici del novecento, rimane un oro romano: quello
di Livio Berruti.
Il professore di educazione fisica, Bracco, diceva che Livio era un "talento
naturale". Livio frequentava il Liceo Cavour di Torino, che rappresentava,
negli anni cinquanta, una specie di sancta santorum del sapere. A Berruti
l'insegnante chiedeva: "Fra cultura e sport, che scegli?" Lo
studente rispondeva "l'uno è l'altro e l'uno non è
senza l'altro," (almeno così lui riferisce).
Fu allora che il professore di filosofia, rompendo il ghiaccio, si mise
a giocare a basket con gli allievi; poi Livio dal basket passò
all'atletica, per caso.
Successe che un giorno il più bullo della scuola lo sfidò
a una corsa sull'acciottolato antistante il Liceo Cavour. Il rischio era
coprirsi di vergogna (o di gloria) di fronte ai compagni e ancor peggio
alle compagne. Livio vinse e quel successo fu così importante
da determinare nella sua memoria un punto fermo di sicurezza e fiducia
in sé a cui ritornare con la mente in altre situazioni.
E finalmente venne il 1960, l'anno delle olimpiadi romane. L'azzurro Livio
Berruti il 3 settembre era schierato in semifinale. Principali antagonisti
i tre leaders mondiali, l'inglese Radford e i due americani Jonhnson e
Norton. Dalla semifinale arriva un segnale importante. Livio, correndo
con facilità, eguaglia con 20" 5' il primato mondiale.
L'ex liceale torinese era sereno, sapeva che doveva ancora gareggiare
in finale. Tutti lo cercavano, ma Livio non c'era. La sua mente dominava
l'ansia e la paura dell'insuccesso. Livio si era appartato. Studiava.
Aveva trovato un luogo tranquillo per ripassare un testo universitario,
era concentratissimo e nessuno osò disturbarlo. A Torino lo attendeva
un'altra difficile prova, un esame alla Facoltà di Scienze, essendo
iscritto a Chimica. Intanto l'Olimpiade prosegue. Arriva il momento della
finale e Berruti è in quinta corsia. Lo scatto di Livio ha già
la felicità della vittoria.
Dopo 40 metri Norton, che correva davanti a lui, è superato, dopo
70 m anche Careney. Livio esce dalla curva ed è primo, la sua spinta
è agile e fortissima, ai 170 metri deve cambiare falcata. Seye
e Careney cercano di farsi avanti, ma Livio è più veloce.
Vince!
Per la seconda volta in meno di due ore il record del mondo è uguagliato.
Mentre nel 1960 un talento naturale come Berruti poteva vincere con un
allenamento "relativo", da allora c'è stata una sempre
maggiore attenzione delle scienze umane come fisiologia, cinesiologia,
biomeccanica, medicina dello sport e, purtroppo, chimica per il miglioramento
fisico degli atleti. Oltre a un incredibile miglioramento dei risultati
ciò ha avuto un pesante risvolto negativo con il fenomeno del "doping",
ovviamente condannabile e spiegabile con il sempre crescente impegno richiesto
agli atleti il cui fisico non sempre è in grado di recuperare da
solo. Da qui l'esigenza di ricorrere ad integratori energetici.
Campioni si nasce o si diventa?
Il talento è un bene che si possiede dalla nascita, poi sta a ciascuno
di noi scoprirlo, non disperderlo in altre occasioni, è una qualità
che va allenata con forza e dedizione, spirito di sacrificio, coraggio
e intelligenza. Lo sport non è imposizione, ma piacere che può
portare alla felicità solo attraverso un uso mentale sapiente.
La componente psicologica fa amare un determinato sport, ma è la
componente biomeccanica che ne determina la scelta. Il talento sportivo
non è un bene universale, ma specifico. Un campione di salto non
sarà mai un campione nel calcio. Campioni si nasce e poi si diventa,
se
Lo sport della letteratura è un momento bello in cui il lavoro
e lo studio sono alti valori.
Lo sport business è uno strumento di sistemazione di vita, non
edonistico, ma pragmatico e utilitaristico.
Lo sport del piacere fine a se stesso di tipo narcisistico è una
gratificazione momentanea non duratura. Il protagonismo paga lo squilibrio
provocato dai media e dall'invadenza dei mezzi audiovisivi nella vita
d'oggi.
Mens sana in corpore sano, oggi più di ieri significa combattere
con grande forza di volontà e spirito di sacrificio gli squilibri
edonistici, pragmatici, utilitaristici, narcisistici della pubblicità
e del business, per amore del piacere sportivo che è ricerca della
vera felicità, quella duratura.
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