SPECIALE

 
   
 

 

CONVEGNO: LA CULTURA E LO SPORT NELL'UNIVERSITÀ.
CAGLIARI 17 MAGGIO 2001.

MENS SANA IN CORPORE SANO

Dott. Antonio Postiglione
Presidente E.DI.S.U. Piemonte
Dirigente Amministrativo S.U.I.S.M.
Università di Torino

 

 

La frase è contenuta nel verso 355 delle Satire di Giovenale, noto poeta romano contemporaneo di Tacito. Con poche parole l'autore dimostra che la felicità nella vita si fonda su valori essenziali. Chi possiede un corpo e una mente sani, ha ancora ben poco da desiderare. La felicità, come il successo, dipende in massima parte dall'efficienza di questi beni. Chi non ha una mente saggia, capace di guidare, difficilmente prenderà la via giusta e chi ha un corpo debole non sarà mai capace di procedere e resistere a lungo sulla via, perché accade nel corpo quello che accade nella mente.
Qual è il limite fra la qualità funzionale dei sensi o degli arti rispetto alla mente?
Fino a che punto la mente di un atleta condiziona il risultato della competizione?
Perché le fibre muscolari delle gambe di alcuni atleti sono in grado di generare, nella breve durata della corsa, più sprint rispetto agli avversari?
In una gara di velocità, che dipende soprattutto dalla potenza pura, si sa che uno dei principali fattori determinanti il successo è lo stato fisiologico complessivo. La fisiologia, la psichiatria, la medicina sportiva dal XIX secolo a oggi hanno promosso e potenziato la ricerca, ma la sperimentazione è in continuo divenire.
Quanto in passato la mancanza di queste conoscenze, gli errori o l'aver fatto di necessità virtù, hanno pesato sulla fabbricazione dei corpi olimpionici?
Friedrich Nietzsche, il noto filosofo, capace di connettersi sia all'evoluzionismo che all'irrazionalismo, come alla filosofia della vita, ma sempre in una decisa inversione di tendenza rispetto ai valori tradizionali, in "Così parlò Zaratustra", tra tante cose più o meno giuste, più o meno provocatorie o esagerate, nel famoso capitolo "Dei Dispregiatori dei corpi" scrive - Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami spirito, un piccolo strumento e giocattolo della tua ragione[…]. Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo. È il tuo corpo. Vi è più ragione nel tuo corpo che nelle tua migliore saggezza -.
Nell'arco della vita l'uomo impara a usare il proprio cervello (che è corpo), con finezza e capacità. Questi apprendimenti emergono nella musica, nell'arte, nell'espressione corporea e sono momenti a cui tutti spiriamo, perché rappresentano la base del nostro carattere e della personalità. Il nostro "io" ha imparato come colloquiare con qualsiasi parte selezionata dalla mente.
Ian H. Robertson riporta un'esperienza interessante:
L'ostacolista è curvo sui blocchi di partenza, la mente fissa soltanto sui muscoli tesi del suo corpo inarcato. Allo sparo del via scatta sulla pista come sospinto da una molla, coprendo ad alte falcate il rettilineo verso il primo ostacolo. Le sue braccia fendono l'aria con un movimento meccanico. Salta e supera l'ostacolo, immediatamente riprendendo contatto con il terreno. Corre i primi 200 metri come in volo. Ma ecco, improvvisamente, le riserve di energia cominciano ad abbandonarlo;


le gambe, alate pochi istanti prima, ora pesano come piombo ed egli si trova in quel punto tremendo, vero e proprio calvario di chi corre i 400 metri ostacoli, in cui la velocità deve cedere il passo alla resistenza. Richiama tutte le sue forze, ogni passo diventa un gigantesco sforzo di volontà, ogni salto un teorema da dimostrare, l'aria è un liquido viscoso sulle mani tese. Taglia il traguardo con un ultimo guizzo, gli occhi spalancati a catturare il cronometro. (Maledizione ! due secondi dal suo record). Il cuore riprende il suo battito regolare, i pugni stretti in segno di frustrazione - due secondi sono come due anni quando si è così vicini ad un appuntamento agonistico. Niente da fare, deve correre di nuovo. Le gambe hanno smesso di tremare, le dita si rilassano, rialza la testa. Ancora una volta. Si riporta ai blocchi di partenza e lentamente si riposiziona, brucia lo sparo del via ed aggredisce i primi ostacoli come un animale braccato. Duecento metri ed il suo stesso corpo gli fa capire che sta facendo un buon tempo. Ma ecco che improvvisamente - cosa succede? - sta rallentando. Le gambe si trasformano in gomma, le braccia sventolano alte sopra la testa. Lascia di corsa la pista e cade vomitando sull'erba. L'atleta riesce a malapena a tornare nello spogliatoio dopo le due prove a cronometro. Nel sentirsi male ha immediatamente riconosciuto l'errore commesso: due tentativi di seguito sui 400 metri sono praticamente impossibili per il corpo; nessun atleta li affronterebbe senza una pausa sufficientemente lunga prima della seconda corsa.
Lo stesso vale per la mente nella sua palestra mentale. Perché la corsa affrontata mentalmente ha in realtà le stesse caratteristiche di quella fisica: una prova cronometrata al millesimo di secondo. La differenza è ovvia soltanto all'osservatore esterno, che non può vedere nulla della corsa mentale su cui è concentrato l'atleta immobile. Ma, per chi corre, la situazione è esattamente la stessa, fino al punto d'avere conati di vomito per l'eccessivo sforzo.
Il campione olimpico di lancio del giavellotto Steve Backley nel suo libro "La mente vincente,"riporta l'esempio di un ostacolista il cui addestramento mentale era così simile a quello fisico da produrre questo drammatico effetto. E' molto comune per i campioni sportivi allenarsi su piste e palestre mentali. In una particolare occasione, Backley stesso si storse una caviglia a sole quattro settimane dall'inizio delle gare e rimase immobile per due settimane - di solito un grave svantaggio per un atleta a quel punto della stagione. Dalla sedia su cui era immobilizzato, tuttavia, durante quelle due settimane lanciò mentalmente il giavellotto migliaia di volte. All'inizio gli era difficile visualizzare i lanci mentali senza che la sua caviglia lo costringesse a zoppicare! Tuttavia, egli scoprì che concentrando la sua immaginazione sul lato indenne del corpo, poteva visualizzare i dettagli di lanci fluidi, spesso tecnicamente perfetti. Come risultato, al termine delle due settimane di convalescenza, potè riprendere l'allenamento fisico dal punto in cui l'aveva lasciato prima dell'incidente.
I neurofisiologi stanno studiando questo fenomeno, utilizzato intuitivamente dagli atleti per decenni.

Le ricerche scientifiche per riprogrammare i corpi del terzo millennio devono tenere in maggior considerazione lo stress, variabile sempre più presente nella tensione virtuale. Il confronto ormai avviene per telemetria. La vittoria è segnata da frazioni di secondo; intorno ai campioni gravitano sponsor e budget che impongono le loro regole e i loro ritmi, lo sport è business e per fare cassetta deve inventare spettacoli sempre nuovi ed estremi, costruire campioni da bruciare in fretta. I campioni devono rendere e si consumano velocemente, ma il vivaio delle promesse scarseggia. Talenti sportivi si nasce e poi si diventa, non si pensa che la situazione contingente aliena le menti. Tsugihiro Osaki, un maestro d'arco che insegna kyudo alle guardie imperiali giapponesi, spiega come allena gli uomini che garantiscono la prima sicurezza imperiale:
"Ci vuole tranquillità per richiamare la forza interiore che fa la freccia".
Questa tradizione conservata nei secoli è ancora uno strumento molto utile.
Il maestro d'arco esercita le guardie assistito dal maestro più anziano, già in pensione, utile per osservare e dialogare. Gli allievi si mettono in posizione e iniziano un elaborato rito preparatorio: sono talmente concentrati che potrebbero sembrare in stato di trance. Il sentiero delle frecce è ameno, si estende curatissimo davanti agli arcieri e conduce a un muro al quale sono appesi tre bersagli. Quando le guardie passano all'azione, Osaki le incita al tiro, ma lo fa con tono pacato e garbato: "stai dritto", oppure "La spalla è troppo bassa" o ancora "Non mirare, lascia che la freccia segua il suo corso".
Quando le frecce colpiscono il bersaglio, si congratula. L'anomalia di questa preparazione atletica è che nessuno ha mai visto portare arco e frecce e tanto meno esercitare atleti di kyudo nel tiro con l'arco. Il maestro giapponese fornisce questa spiegazione:
"Nel Kyudo non ci si sforza di colpire il bersaglio, si assume la giusta posizione. Si eseguono i passi giusti. Poi la freccia arriva sul bersaglio per conto suo".
Il maestro più anziano Kunio Matsui chiarisce meglio il concetto:
"L'apprendimento del tiro con l'arco insegna a concentrarsi, e genera sicurezza, una sorta di consapevole stato di allerta mentale. Cerchiamo di prevenire le situazioni pericolose. Chi ha imparato ad affinare le proprie facoltà mentali previene i problemi con maggior facilità".
Nell'album dei ricordi olimpici del novecento, rimane un oro romano: quello di Livio Berruti.
Il professore di educazione fisica, Bracco, diceva che Livio era un "talento naturale". Livio frequentava il Liceo Cavour di Torino, che rappresentava, negli anni cinquanta, una specie di sancta santorum del sapere. A Berruti l'insegnante chiedeva: "Fra cultura e sport, che scegli?" Lo studente rispondeva "l'uno è l'altro e l'uno non è senza l'altro," (almeno così lui riferisce).
Fu allora che il professore di filosofia, rompendo il ghiaccio, si mise a giocare a basket con gli allievi; poi Livio dal basket passò all'atletica, per caso.
Successe che un giorno il più bullo della scuola lo sfidò a una corsa sull'acciottolato antistante il Liceo Cavour. Il rischio era coprirsi di vergogna (o di gloria) di fronte ai compagni e ancor peggio

alle compagne. Livio vinse e quel successo fu così importante da determinare nella sua memoria un punto fermo di sicurezza e fiducia in sé a cui ritornare con la mente in altre situazioni.
E finalmente venne il 1960, l'anno delle olimpiadi romane. L'azzurro Livio Berruti il 3 settembre era schierato in semifinale. Principali antagonisti i tre leaders mondiali, l'inglese Radford e i due americani Jonhnson e Norton. Dalla semifinale arriva un segnale importante. Livio, correndo con facilità, eguaglia con 20" 5' il primato mondiale.
L'ex liceale torinese era sereno, sapeva che doveva ancora gareggiare in finale. Tutti lo cercavano, ma Livio non c'era. La sua mente dominava l'ansia e la paura dell'insuccesso. Livio si era appartato. Studiava. Aveva trovato un luogo tranquillo per ripassare un testo universitario, era concentratissimo e nessuno osò disturbarlo. A Torino lo attendeva un'altra difficile prova, un esame alla Facoltà di Scienze, essendo iscritto a Chimica. Intanto l'Olimpiade prosegue. Arriva il momento della finale e Berruti è in quinta corsia. Lo scatto di Livio ha già la felicità della vittoria.
Dopo 40 metri Norton, che correva davanti a lui, è superato, dopo 70 m anche Careney. Livio esce dalla curva ed è primo, la sua spinta è agile e fortissima, ai 170 metri deve cambiare falcata. Seye e Careney cercano di farsi avanti, ma Livio è più veloce. Vince!
Per la seconda volta in meno di due ore il record del mondo è uguagliato.
Mentre nel 1960 un talento naturale come Berruti poteva vincere con un allenamento "relativo", da allora c'è stata una sempre maggiore attenzione delle scienze umane come fisiologia, cinesiologia, biomeccanica, medicina dello sport e, purtroppo, chimica per il miglioramento fisico degli atleti. Oltre a un incredibile miglioramento dei risultati ciò ha avuto un pesante risvolto negativo con il fenomeno del "doping", ovviamente condannabile e spiegabile con il sempre crescente impegno richiesto agli atleti il cui fisico non sempre è in grado di recuperare da solo. Da qui l'esigenza di ricorrere ad integratori energetici.
Campioni si nasce o si diventa?
Il talento è un bene che si possiede dalla nascita, poi sta a ciascuno di noi scoprirlo, non disperderlo in altre occasioni, è una qualità che va allenata con forza e dedizione, spirito di sacrificio, coraggio e intelligenza. Lo sport non è imposizione, ma piacere che può portare alla felicità solo attraverso un uso mentale sapiente.
La componente psicologica fa amare un determinato sport, ma è la componente biomeccanica che ne determina la scelta. Il talento sportivo non è un bene universale, ma specifico. Un campione di salto non sarà mai un campione nel calcio. Campioni si nasce e poi si diventa, se…
Lo sport della letteratura è un momento bello in cui il lavoro e lo studio sono alti valori.
Lo sport business è uno strumento di sistemazione di vita, non edonistico, ma pragmatico e utilitaristico.


Lo sport del piacere fine a se stesso di tipo narcisistico è una gratificazione momentanea non duratura. Il protagonismo paga lo squilibrio provocato dai media e dall'invadenza dei mezzi audiovisivi nella vita d'oggi.
Mens sana in corpore sano, oggi più di ieri significa combattere con grande forza di volontà e spirito di sacrificio gli squilibri edonistici, pragmatici, utilitaristici, narcisistici della pubblicità e del business, per amore del piacere sportivo che è ricerca della vera felicità, quella duratura.