Un saggio di Karim Alassane
sulla musica africana contemporanea
e sulle sue influenze
Mama
vorace e multipla, l’Africa ha fatto soffiare per tutto il Ventesimo secolo
un vento di libertà nel mondo, incrociando la sua potenza ritmica
e melodica ad altre culture, una eredità che non cessa di crescere
e di moltiplicarsi.
Jazz, funk, disco,
rap,
rock,
raggae,
samba,
rumba,
zouk,
per citare solo questi generi musicali, hanno tutti le radici a diversi
gradi nel suolo nutriente del continente nero e si ispirano alle esperienze
della tradizione africana. Mentre quest’ultimo, raggiunto dall’industria
del disco e degli strumenti occidentali, ha creato le proprie musiche urbane
come il mbalax, il mbaqanga e la rumba congo-zairese,
promuovendo un dialogo musicale che dura da un secolo ed è in continua
crescita.
L’Africa crea il jazz…
Randy Weston, pianista ispirato da
Duke Ellington e Theolonious Monk, il bluesman texano Johnny Coperland,
erede di Art Tatum, e Hank Jones, pianista di Ella Fitzgerald e di Charlie
Parker, hanno realizzato sotto l’etichetta Polygram tre album ispirati
ai colori africani.
Introspezioni dei riti iniziatici
gnawa
introdotti nel Marocco dagli schiavi soudanis per Randy, musiche
zairesi e ivoriane per Johnny e il patrimonio madingo per Hank: questo
miscuglio di passioni illustra il fascino che continua a esercitare l’Africa
sui musicisti jazz; dal gospel con i suoi aleatori richiami biblici
ai sogni di emancipazione che introducono i ritmi e i suoni locali dell’Africa
occidentale nei cori delle chiese cristiane, fino al rap che rinnova
la tradizione della parlata griotica passando dal funk e
dal soul (questi ultimi derivati dal jazz), l’Africa non ha mai
rinunciato a costituire il punto di riferimento fondamentale dei musicisti
contemporanei in genere, e dei jazzmen in particolare.
L’interesse
per il continente africano risale negli Stati Uniti alla fine degli anni
Cinquanta, quando sbarcano nel Nuovo Mondo alcuni artisti sudafricani (Myriam
Makeba [vedi foto a sinistra], Hugh Masekela, Dollar Band) che fuggivano
l’apartheid, mentre si affermava in Usa il movimento della Coscienza
Nera. Una pleiade di artisti iniziarono allora ad operare con i percussionisti
africani. Max Roach, conosciuto per i suoi assolo di batteria, studiò
ad Haiti le tecniche neo-africane. Capofila dello stile hard-hop,
Art Blakey soggiornò in Africa e si ispirò alle diversità
dei poliritmi continentali. John Coltrane registra “Africa” e Duke Ellington
“Liberian suite”. Sono ancora da considerare l’influenza di Myriam Makeba,
che introduce il kwela, la musica di strada suonata con le sue pipeaux,
e il marabi a base di voce e piano; poi quella di Hugh Masekela,
promotore di un jazz progressivo sudafricano. Entrambi rinforzano alla
metà degli anni Sessanta l’impatto della musica africana sulla scena
americana.
Myriam Makeba sarà acclamata
da tutti; al Madison Square Garden canterà davanti al presidente
John Kennedy, e al Ghotha di cui facevano parte Marlon Brando, Lauren Bacall,
Elisabeth Taylor, Duke Ellington, Nina Simone ecc.
Il successo dei sudafricani e il
lancio di alcuni festival del jazz in Africa, attraggono negli anni Settanta
artisti come Dizzy Gillespie, Dexter Gordon, Stan Getz e Kenny Clarke,
e ciò contribuisce all’apertura di un dialogo artistico fra i due
continenti.
Sostenuto da Duke Ellington, che
nel 1962 lanciò nel mercato un album intitolato “Duke presents the
Dollar Band Trio”, Abdullah Ibrahim ha lasciato sullo scenario mondiale
l’impronta del suo jazz ispirato dal marabi.
Hugh Masekela firma “Tomorrow” con
Don Freeman e il camerunense Manu Dibango [che fece i suoi studi negli
anni Sessanta in Belgio con gli americani di Bruxelles (Bib Monville, Bobby
Jaspar)] e lancia più tardi il suo sax nelle creazioni di “Take
Time” con Gwen Guthrie, “Electric Africa” con Herbie Hancock e Bill Laswell.
ll suo “Soul Makossa” gli valse un premio Oscar a Hollywood nel 1974.
Gazie a questi pionieri, gli artisti
africani che appariranno sulla scene internazionali negli anni Ottanta-Novanta,
realizzeranno le collaborazioni ancora più ricche e impegnate.
Ray
Lema, ricercatore zairese, compone per Claude Nougaro; Ali FarKa Toure
[vedi foto a destra] sposa il suo blues saheliano a quello di Ry
Cooder nell’album “Talking Timbuktu”. La voce d’oro del madingo Salif Keita
riunisce in “Amen”, uno dei suoi album più riusciti, molti grandi
nomi come Carlos Santana, Wayne Shorter e Joe Zawinul (ex Weather Report).
Doudou Ndiaye Rose batte il tam-tam per Kenny Clarke e incrocia i suoi
strumenti con i suonatori coreani e giapponesi (i Kodò). Youssou
N’dour lavora con il jazzman giapponese Ryuichi Sakamoto mentre Angélique
Kidjo fa uscire “Logozo”, un album funky beninense, arricchendo
l’elasticità jazzistica di Brandford Marsalis.
… e i rockers accettano l’influenza
Questo interesse è condiviso
dai rockers che riconoscono l’influenza diretta che ha assunto la musica
africana nell’incontro tra il rhythm’n blues dei Neri e della country
dei Bianchi: parole scanzonate, facoltà di improvvisazione, pulsazioni
nel rhythm e canti corali spezzati (frammentati). Molti di loro
hanno scelto di richiamarsi direttamente a questa eredità. Mick
Jagger, figura emblematica dei Rolling Stones, ha studiato la musica gnaoui
del
Marocco, e ha invitato per il suo album “Undercover of the Night” i senegalesi
Xalam, pionieri del mbalax moderno.
Peter Gabriel, che lancia Youssou
N’dour [vedi foto a sinistra] e altri artisti della scena musicale
africana (Remmy Ongala, star della rumba tanzaniana, l’ugandese Geoffrey
Qryema, lo zairese Papa Wemba e i mozambicani Eyupuro), è così
affascinato dall’Africa e dalle sue creazioni contemporanee (in particolare,
le chitarre congo-zairesi, che accompagnano i canti dell’Africa occidentale)
che si lancia nella produzione all’interno della sua etichetta, Real World,
e porta al successo il festivai Womad, esportandolo in numerosi Paesi,
tra cui il Giappone e l’Australia. Higelin fa un pellegrinaggio sul continento
nero nel 1984 e invita, nel suo supershow a Bercy, Mory Kanté -
il rocker mandingo -, Yussou N’dour e i belgi-zairesi Zap Mama, che arricchiscono
il suo repertorio delle loro polifonie vocali.
Paul Simon, il rocker inglese, farà
altrettanto: offrirà durante la sua tournée “Graceland”,
realizzata con i sudafricani Myriam Makeba, Hugh Masekela, Ladysmith Black
Mambazo e i camerunensi Armand e Felix Sabal Lecco - oggi produttori negli
Stati Uniti -, un rock con i choeurs zulu e il beat makossa
(la musica urbana di Douala).
Il beninense Wally Baradou fu scelto
come direttore musicale durante la sfilata per il Bicentenario della Rivoluzione
francese orchestrato da Jean-Paul Goude nel 1989; Baradou ha lavorato per
molti anni a Nassau nelle Bahamas nello studio del produttore Chris Blackwell
e ha firmato gli arrangiamenti di molte popstar: Mick Jagger, Grace Jones,
Alain Chamfort, Marianne Faithful ecc.
America latina e Caraibi: un interscambio
infinito
In nessuna parte del mondo come in
America Latina e nei Caraibi l’influenza dell’Africa in campo musicale
e non solo si è fatta sentire ed è ancora oggi presente.
Sbarcando dal XVI secolo migliaia di schiavi sulle coste sudamericane e
caraibiche, i portoghesi seguiti da altri europei non avrebbero mai immaginato
che avrebbero incoraggiato inconsciamente la formazione di uno dei più
incredibili serbatoi musicali del mondo:
-
il tango, matrimonio dei ritmi
bantu e dell’espressionismo argentino;
-
la cumbia della Colombia costruita
nella sua forma originale (ancora in uso) su una orchestrazione puramente
africana (tamburi, gourdes, piano a pouce);
-
il samba brasiliano, direttamente
originario del semba angolano, ritmo kibundu di Luanda introdotto
dagli lrmandades (gruppi di angolani cristianizzati);
-
la rumba e il mambo cubani,
che traggono le loro radici dai ritmi della Nigeria, del Camerun, del Benin
e del Congo e, mescolati ai culti afro-cubani, la salsa, musica
globale che estende la propria influenza su tutta la zona ed è legata
ai riti sincretici afro-cattolici;
-
lo zouk delle Antille, tratto
dalla coladeira di Capo-Verde;
-
il compas di Haiti inspirato
dal vaudou del Benin;
-
e soprattutto il grande reggae,
fusione delle musiche afro-cristiane, di carnaval, dello ska
e del rock steady, hanno da tempo immemorabile dimostrato la loro
dimensione planetaria.
Negli
anni Cinquanta, tramite il canale del disco, la salsa provoca una
scossa in Africa e i salseros, appassionati delle star caraibiche,
divengono leggendari nel mondo. Dagli anni Ottanta la salsa invade
l’Europa e verso gli anni Novanta l’Asia e in particolare il Giappone.
La rumba e i suoi forti agganci africani mantenuti e valorizzati
dalla rivoluzione castrista opera un ritorno nel continente africano dagli
anni Trenta. Presente in Sudan, in Tanzania, in Senegal e nel Congo-Zaire,
la sua caratteristica principale è che, a contatto con le musiche
tradizionali di ogni Paese, prende “colorazioni” particolari. L’arrivo
in Africa delle star cubane, come Johnny Pacheco, e la partenza verso Cuba
di artisti africani, come il maliano Boncana Maiga, renderà permanente
il dialogo musicale fra l’isola caraibica e la Terra Madre. L’omaggio reso
alcuni anni fa a L’Avana a Joseph Kasabele, fondatore del primo gruppo
di rumba congo-zairese, illustra in modo toccante l’appoggio a uno dei
maggiori musicisti africani contemporanei.
La musica africana da alcuni anni
conosce un successo senza precedenti in Asia: Papa Wemba è stato
più volte invitato in Giappone e Abeti Masikini, che ha fatto una
tournée in Cina nel 1989, ha visto il suo repertorio ripeso da Scu
Mi In, una delle star della scena pechinese soprannominato l’“Abeti cinese”.
Recentemente, lo zouk e il
reggae
sono “tornati” in Africa per un rilancio. Creato da Jacob Desvarieux, l’anima
dei Kassav, che ha vissuto per molto tempo nel Senegal ed era vicino alla
comunità capoverdiana di Dakar, lo zouk ha la sua sorgente
nella coladeira originario delle Isole di Saõ Vicente nel
Capo Verde, da cui proviene la parola “cola” - nome di un ballo popolare
nell’arcipelago dagli anni Cinquanta e che significa “incollato / stretto”.
Nutrito della collaborazione di Nibida
Douglas, un musicista camerunese, felice compagno di Jacob Desvarieux fin
dall’adolescenza, lo zouk di Kassav ha fatto scuola nelle Antille
e conosce un successo strordinario: si tratta dell’incrocio fra musiche
lusofone, ritmi d’Africa centrale e beguine. Forme ibride come lo
zoukouzouk,
fusione di soukous congo-zairese e di zouk, hanno fatto recentemente
la loro apparizione in Africa, lanciate dalla cantante zairese Mpongo Love.
Reso
popolare dal successo planetario di Bob Marley negli anni Settanta, il
reggae
fa oggi parte integrante del patrimonio musicale mondiale. Il gruppo inglese
dei Police e il suo cantante Sting l’hanno largamente adottato, Serge Gainsbourg
ne ha fatto una componente della musica francese, il jazzman turco Okay
Temiz gli ha dato colori mediterranei e Khaled lo ha integrato nel
suo rai, la musica popolare del Maghreb. E in Italia la formazione
Africa Unite lo ha utilizzato massicciamente.
In Africa il reggae si diffonde
oggi come "il fuoco nella savana"; sono milioni gli album venduti dall’ivoriano
Alpha Blondy che gli ha dato i “colori” madingo e dal sudafricano Lucky
Dube, fortamente marcato dallo mbaqanga; sono una specie di simbolo
della strada percorsa dal continente nero in pochi decenni.
L’influenza della musica e delle
lingue dell’Africa sulla creazione musicale in America
Numerosi
studiosi africani, che appartengono al monde delle lettere e delle scienze
sociali, esplorano da molto tempo il significato dei differenti aspetti
della musica africana nel settore più specifico dell’etnomusicologia.
I loro lavori si orientano oggi verso una interazione tra i diversi elementi
della creatività musicale; l’obiettivo è di ricercare il
senso della pratica musicale tramite l’analisi del modo in cui la creatività
riflette il tessuto culturale di una data comunità.
Numerosi studi sono dedicato allo
studio della musica africana; il suo significato e i suoi principi fondamentali
continuano a suscitare la curiosità di ricercatori più occasionali
che preferiscono semplificarli affrontandoli fuori dal contesto culturale,
e che rifiutano di ammettere che il processo creativo della musica africana
è diretto dagli stessi principi applicati in Europa.
Vi sono due elementi peculiari della
musica africana:
-
il processo creativo della musica vocale
che è espresso a diversi livelli dai suoi patrimoni linguistici;
-
la scomparsa delle lingue africane nel
Nuovo Mondo che ha provocato modifiche degli elementi musicali di base
(differenti principi di organizzazione).
In altri termini, il processo creativo
è determinato dalla cultura e ispirato da una serie di pratiche
specifiche di un gruppo etnico particolare. |