EDITORIALE

                                                                                     Multietnia

                                             VERSO UNA SOCIETA’ MULTIETNICA

                                                 testo e foto di m.t. pasqualini

                                                                        

                                               Il nostro paese è sempre stato cosmopolita per le sue caratteristiche storiche e geografiche, ma questo non basta per farlo divenire multietnico.Attualmente si contano, solo nella nostra città, 250.000 presenze di non comunitari. Ma la domanda che ci poniamo è questa: “E’ possibile prevedere davvero una società multiculturale, pluralistica oltre che multietnica? Tra quanto tempo dovremmo aspettarci una società così radicalmente diversificata? E cosa fare per facilitare questo inevitabile percorso?”Siamo già di fatto in un contesto multietnico.  

                                                                      

Mi sono accorta realmente di vivere già in una società ‘diversa’, quando nella scuola materna di mia figlia, ho visto bambini rumeni, argentini, peruviani, russi e cinesi giocare e studiare insieme a lei.

E’ difficile, ma solo in apparenza, prevedere una società basata su culture diverse, dove l’immigrato non è costretto all’accettazione incondizionata di ciò che è ‘giusto’ per noi, ma gli si riconosca un vero e proprio diritto alla diversità.

La differenza sostanziale sta nell’interazione, la semplice convivenza non conflittuale che diventa scambio positivo, interagisce con le istituzioni e addirittura ne diventa parte. Non basta far usufruire agli stranieri dei servizi, offrire lavoro ed istruzione, per far sì che ci sia multietnicità. Questi nostri concittadini devono prendere parte alla nostra vita civile, perché saranno anche i loro figli a far parte della società del futuro.  

                                                      

Ma perché c’e’ ancora tanta diffidenza nei confronti del diverso?. Alex Langer offre una spiegazione di tipo antropologico, legata alla cultura contadina e alla propria coscienza territoriale, che include diffidenza e scetticismo nei confronti della novità, una sorta di resistenza all’elemento estraneo a colui che non si conosce. Se tale soggetto è poi culturalmente molto diverso da noi, sia per il colore della pelle che per la religione nonché per usi e costumi, la diffidenza può sfociare in razzismo.  

                                                    

Allora noi genitori possiamo insegnare ai nostri figli l’importanza della diversità che, come in  un ecosistema, permette variabilità  e maggiori possibilità di sopravvivenza. Ci sono dei valori aggiunti, di tipo ‘internazionale’, che tutti gli stranieri, comunitari e non, posso apportare al nostro sistema economico.

Da tempo abbiamo notato che il rilancio della produzione  di alcuni servizi come quelli alle persone e nel commercio nonché ad alcune produzioni, come nell’agricoltura e nell’edilizia, sono offerti da cittadini di altre  nazionalità.

Ma questo cambiamento della popolazione produttiva non si ferma alla sola  sostituzione, ma si traduce anche in nuove produzioni e professionalità come, ad esempio, il commercio etnico, la ristorazione, i mediatori culturali.  

                                                                        

L’Italia è ancora all’inizio, ma l’incontro tra culture, se in altre parti del mondo è stato (ed è ancora) difficile, per un paese etnicamente omogeneo come il nostro sarà ancora più doloroso. E’ necessario risolvere tutte o gran parte delle urgenze in materia di casa, lavoro, sanità, e soprattutto sanare le presenze irregolari.

Solo attraverso una diversa identificazione dell’immigrato come esclusiva forza-lavoro, vederlo, cioè, nella sue reale dimensione di soggetto umano e politico.

                                                                      

 

                                                               

                                                                 

                                                                    AMERIKANI

                                                                                       Beatrice Musso

 

E' innegabile, la caduta del regime iracheno ci
infonde un senso di sollievo e di liberazione: la
guerra è stata relativamente breve e una brutale
dittatura è stata finalmente cancellata dalla
storia. Tuttavia persiste in molti di noi un
profondo senso di tristezza, di malinconia, ed
anche di rabbia repressa. La cosa che più
ferisce, in questo momento, è infatti il senso di
assoluta impotenza ed inutilità che proviamo nel
sentirci semplicemente spettatori di un gioco
politico in cui non contiamo realmente quasi
nulla e dove è pienamente riemersa (come se la
storia fosse passata invano) la politica di
affermazione della "forza", ipocritamente
indicata come unica e necessaria risoluzione di
conflitti presenti nel nostro pianeta.
C'è qualcosa di veramente tragico nel vedere
una nazione come gli Stati Uniti d'America, già
nata dal sacrificio e dal sangue delle
popolazioni indigene e cresciuta anche grazie
allo sfruttamento di milioni di africani,
continuare presuntuosamente ad affermare la
propria forza ed egemonia militare a costo di
rompere alleanze con mezza Europa, Russia,
Cina e l'ONU stessa. E c'è un'ulteriore ipocrisia
di fondo dietro alle pressioni " guerra di
liberazione" o "lotta per la democrazia". E'
inutile ricordare infatti che la potenza e
ricchezza degli USA, come di tutto l'Occidente,
si basano sulla logica del capitale e che il
capitale, per sopravvivere, ha costantemente
bisogno di mercati in cui consumarsi e
riprodursi: non importa, a questo punto, se per
raggiungere tale scopo sia necessario
appoggiare la nascita o la formazione di questa
o quella dittatura (vedi Sudamerica, Africa e lo
stesso Medioriente ) che portano con sé la
negazione dei più fondamentali diritti umani; e
non importa se poi, per abbattere quegli stessi
regimi divenuti incontrollabili, sia necessario
investire nell'intervento armato, come in Iraq,
300 milioni di dollari al giorno (da "La
Repubblica"-10 Aprile) e sacrificare soprattutto
tante vite umane. Il fine (la ricostruzione), come
diceva un illustre italiano del Cinquecento,
giustifica sempre i mezzi, ancor più quando si
ammanta demagogicamente di nobili ideali:
democrazia, libertà, (già diffìcili da realizzare
pienamente a casa nostra e per ora difficilissimi
da esportare, in tempi brevi, nella coscienza dei
paesi islamici).
L'Europa, dalla sua stessa storia, sa bene che
la guerra intesa anche come "business", (che si
realizza cioè quando una potenza straniera
invade un territorio e vi impone i propri modelli
di sviluppo), porta raramente effetti positivi: al
contrario, essa non fa che inasprire i rapporti tra
i vari paesi e non risolvere mai i veri problemi
dei popoli conquistati.
E l'Europa, sa bene anche che, nello scorso
secolo, tale "volontà di potenza" l'ha portata
sull'orlo del baratro, da cui ci ha risollevato e
salvato proprio la democrazia americana, che
da quel momento, però, ci ha imposto di vivere
sotto il suo ombrello protettivo economico e
militare, con tutte le conseguenze positive e
negative che ciò comporta.
Proprio per questi motivi l'Europa di oggi, nella
sua condizione di pace, benessere e di
sicurezza permanenti, si può permettere di
guardare e giudicare, dall'alto della sua cultura
e della sua esperienza, gli errori politici e
strategici degli altri paesi ; proprio per questi
motivi l'Europa di oggi può e si sente il dovere
di manifestare per la pace.
Ma è altresì troppo facile e semplicistico
trascinare le masse in forme di protesta tout-
court che individuano solo nell'America o nel
processo di globalizzazione capitalistica il
nemico da abbattere: le posizioni troppo
manichee o le demonizzazioni radicali, si sa,
sono spesso sterili e spesso possono diventare
pericolose nel loro estremismo.
E' ovvio, l'America deve fermarsi al più presto
nella sua sete di vendetta contro i paesi islamici
deve impedire con ogni mezzo che il suo attuale
presidente la trascini nel baratro di una guerra
senza fine solo per colmare la ferita dell'11
settembre o per ridare fiato ad una economia in
crisi, ignorando del tutto l'opinione pubblica e gli
accordi intemazionali.
E' anche ovvio che il processo di
globalizzazione, così, come è impostato oggi,
porta con sé orribili realtà di sfruttamento e di
violazione dei diritti umani, con i paesi poveri
sempre più costretti ad assecondare con tempi
e modi assolutamente disumani (si pensi
soltanto al lavoro minorile) i ritmi di produzione
industriale. O si pensi ai disastri ambientali
all'ordine del giorno.
Ma nonostante tutto ciò, non si può non
riconoscere che nel popolo americano vi siano
tante e generose energie intellettuali, morali,
civili e politiche nonché tante coscienze critiche
che possono e devono continuare ad
esprimersi. Allo stesso modo non si può negare
che il processo di globalizzazione sia
assolutamente inevitabile e che possa con sé,
per la sua stessa essenza, grandiose
conseguenze.
Non serve, è sterile e spesso opportunistico
combattere indiscriminatamente contro il
"capitale" e tantomeno personificarlo soltanto
nella politica di questa o quella nazione, così
non basta marciare con una bandiera
arcobaleno per sentirsi pacifisti : basta
combattere sempre, incessantemente, in ogni
giorno della nostra vita, contro ogni violazione
dei fondamentali diritti umani: il diritto alla
salute, all'istruzione, ad un lavoro e ad una
qualità della vita minimamente dignitosa.
E' per questo che essere pacifisti, per me, vuoi
dire chiedere ai propri governi,
concretamente,l'imposizione di regole più rigide
al mercato che ne impediscano la
manipolazione indebita da parte di chiunque e
ne controllino la crescita senza che questa si
realizzi sfruttando e violando la dignità umana e
sociale di alcuno.
Essere pacifisti vuoi dire anche scendere in
piazza per la risoluzione di tutti gli altri conflitti
attualmente in corso e per denunciare tutte le
orribili violazioni dei diritti umani (dittature, pena
di morte, la presenza di zone di povertà ancora
troppo numerose in Asia o in Africa), spingendo
i propri governi a sensibilizzare la comunità
internazionale ad aprire politiche "globali" di
dialogo, aiuto e scambio economico e culturale
coi paesi in questione. Essere pacifisti vuoi dire
indignarsi ogni giorno nel costatare l'apparente
impossibilità che nascano, possano
riconoscersi e convivere in pace due legittimi
Stati come Israele e Palestina. Essere pacifisti
significa non rinunciare al benessere ma
rifiutare l'agiatezza eccessiva e condividere un
po' di più le sofferenze e i problemi degli altri
(bastano poche ore di volontariato...), vuoi dire
difendere il diritto al lavoro, vuole anche dire
indignarsi contro il democratico Clinton quando
bombarda, senza chiedere il permesso,
Belgrado o il Sudan o quando finge di ignorare
il protocollo di Kioto.
E vuoi dire, infine, combattere affinchè la
produzione ed il commercio degli armamenti, in
ogni singolo stato.siano ridotti se non vietati del
tutto e sostituiti dalla produzione di armi ben più
potenti: il dialogo e la profonda persuasione che
tutti possiamo condividere la pace, la ricchezza
e il benessere se solo i governi, quelli dei paesi
più ricchi soprattutto, si impegnano
concretamente ad affermarle, (nell'interresse
loro e di tutti) nel rispetto delle tradizioni
religiose culturali di ciascun popolo. La vecchia
e saggia Europa, a questo punto, con il suo
bagaglio storico di errori e dolori, ha più di ogni
altra regione al mondo l'esperienza e gli
strumenti culturali, economici e politici per porsi
come leader di questo processo, nel
superamento di ogni deleterio spirito
nazionalistico e proponendosi ai" figli"
americani non più soltanto in termini di
"sottomessa gratitudine" ma con la forza e
l'autorevolezza che sa di possedere.
Beatrice Musso
Operatrice culturale della
Libreria Silvio D'Amico
di Marino Aranci Roma


                                                      Marcos aveva ragione

                                                                   fonte internet

 

IL MESSAGGIO DI MARCOS
Fratelli e sorelle dell'italia ribelle:
Ricevete un saluto dagli uomini, donne, bambini, e
anziani dell' esercito zapatista di liberazione
nazionale.
La nostra parola si fa nuvola per attraversare
l'oceano e arrivare ai mondi che ci sono nei vostri
cuori.
Sappiamo che oggi ci saranno mobilitazioni in tutto il
mondo per dire no alla guerra di bush contro il popolo
dell'Irak!
E questo bisogna dirlo proprio cosi', perche' non e'
una guerra del popolo nordamericano, ne' e' una guerra
contro Saddam Hussein.
E' una guerra del denaro, che è rappresentato dal
signor bush (forse per enfatizzare che manca di ogni
intelligenza).
Ed e' contro l'umanita', il cui destino e' oggi in
gioco in terra irakena.
Questa e' la guerra della paura.
Il suo obiettivo non e' abbattere Hussein in Irak.
La sua meta non e' farla finita con al queda.
Ne' liberare il popolo irakeno.
Non e' la giustizia ne' la democrazia ne' la liberta'
cio' che anima questo terrore.
E' la paura.
La paura che l'umanita' intera si rifiuti di accettare
che un poliziotto le dica quello che deve fare, come
deve farlo e quando deve farlo.
La paura che l'umanita' si riufiuti di essere trattata
come un bottino.
La paura di questa essenza dell'essere umano che si
chiama ribellione.
La paura che i milioni di essere umani che oggi si
mobilitano in tutto il mondo trionfino nell'innalzare
la causa della pace.
Perche' le bombe che saranno lanciate sul territorio
irakeno, non avranno come vittime solo i civili
irakeni, bambini, donne, uomini e anziani, la cui
morte sara' solo un incidente nel precipitoso e
arbitrario passaggio di chi chiama, dalla sua parte,
dio come alibi per la distruzione e la morte.
Chi dirige questa stupidita' (che e' appoggiata da
berlusconi in italia, blair in inghilterra, e aznar in
spagna), il signor bush, con i soldi compro' la
potenza che pretende scaricare sul popolo irakeno.
Perche' non bisogna dimenticare che il signor bush sta
a capo della autoprocalamata polizia mondiale, grazie
ad una frode cosi' grande che ha potuto essere
occultata solo dai detriti delle torri gemelle a new
york e dal sangue delle vittime degli attentati
terroristici dell'11 settembre 2001.
Ne' Hussein ne' il popolo irakeno interessano al
governo nordamericano.
Quello che gli importa e' dimostrare che puo'
commettere i propri crimini in qualunque parte del
mondo, in qualunque momento e che lo puo' fare
impunemente.
Le bombe che cadranno in irak cercano anche di cadere
in tutte le nazioni della terra.
Vogliono cadere anche sopra ai nostri cuori e cosi'
universalizzare la paura che portano dentro.
Questa guerra e' contro tutta l'umanita' contro tutti
gli uomini e le donne oneste.
Questa guerra vuole che abbiamo paura, che crediamo
che chi ha il denaro e la forza militare, abbia anche
la ragione.
Questa guerra vuole che scrolliamo le spalle, che
facciamo del cinismo una nuova religione, che
rimaniamo in silenzio, che ci conformiamo, che ci
rassegnamo, che ci arrendiamo, che dimentichiamo.
Che ci dimentichiamo di Carlo Giuliani, il ribelle di
Genova.
Per noi zapatisti, uomini siamo quelli che sognano i
nostri morti.
E oggi i nostri morti sognano un no ribelle!
Per noi c'e' solo una parola degna e una azione
conseguente di fronte a questa guerra.
La parola no e l'azione ribelle.
Per questo dobbiamo dire no alla guerra!
Un no senza condizioni ne' pero'.
Un no senza mezze tinte.
Un no senza grigi che lo macchiano.
Un no con tutti i colori che dipingono il mondo.
Un no chiaro, tondo, contundente, definitivo,
mondiale.
Quello che e' in gioco in questa guerra e' la
relazione tra il potente e il debole.
Il potente e' tale perche' ci fa deboli.
Si alimenta del nostro lavoro, del nostro sangue.
Cosi' lui ingrassa e noi deperiamo.
In questa guerra il potente ha invocato dio dalla sua
parte perche' accettassimo la sua potenza e la nostra
debolezza come qualcosa stabilito da un disegno
divino.
Pero' dietro questa guerra non c'e' altro dio che il
dio del denaro, ne' altra ragione che il desiderio di
morte e distruzione.
L'unica forza del debole e' la sua dignita'.
Essa lo anima a lottare per resistere al potente, per
ribellarsi.
Oggi c'e' un no che debilita il potente e fortifica il
debole: il no alla guerra.
Qualcuno si domandera' se la parola che convoca tanti
in tutto il mondo sara' capace di evitare la guerra o,
se gia' iniziata, a fermarla.
Pero' la domanda non e' se potremo cambiare la strada
assassina del potente.
No. La domanda che ci dobbiamo fare e': potremo vivere
con la vergogna di non aver fatto tutto il possibile
per evitare e fermare questa guerra?
Nessun uomo e donna onesti possono rimanere in
silenzio e indifferenti in questo momento.
Tutti e tutte, ognuno con il proprio tono, col proprio
modo, con la propria lingua, con la propria azione,
dobbiamo dire no!
E se il potente vuole universalizzare la paura con la
morte e la distruzione, noi dobbiamo universalizzare
il no!
Perche' il no a questa guerra e' anche un no alla
paura, un no alla rassegnazione, un no all'oblio, un
no a rinunciare ad essere umani.
E' un no per l'umanita' e contro il neoliberismo.
Desideriamo che questo no valichi le frontiere, che si
faccia beffe delle dogane, che superi le differenze di
lingua e cultura, e che unisca la parte onesta e
nobile dell'umanita', che sempre, non bisogna
dimenticarlo, sara' la maggioranza.
Perche' ci sono negazioni che uniscono e portano
dignita'.
Perche' ci sono negazioni che affermano uomini e donne
nella parte migliore di se stessi, cioe' nella loro
dignita'.
Oggi il cielo del mondo si annuvola di aerei da
guerra, di missili che si autodefiniscono intelligenti
solo per nascondere la stupidita' di chi li comanda e
di chi come berlusconi, blair e aznar li giustificano,
di satelliti che indicano dove c'e' vita e ci sara'
morte.
Il suolo del mondo si macchia di macchine di guerra
che dovranno dipingere di sangue e vergogna la terra.
Arriva la tormenta.
Pero', albeggera' solo se le parole fatte nuvola per
attraversare le frontiere, si trasformano in un no
fatto pietra, e aprono una fessura nell'oscurita', una
crepa dalla quale possa passare il domani.
Fratelli e sorelle dell'italia ribelle e degna:
accettate questo no che, dal messico, vi mandiamo noi
zapatisti, i piu' piccoli.
Permettete che il nostro no fraternizzi col vostro e
con tutti i no che oggi fioriscono in tutta la terra.
Viva la ribellione che dice no!
Muoia la morte!
Dalle montagne del sudest messicano
Per il Comitato clandestino rivoluzionario indigeno -
Comando generale dell'Esercito zapatista di
liberazione Nazionale.
Subcomandante insorgente Marcos.
Messico, febbraio 2003.
http://sfgarbatella.dyndns.org/modules.php?name=News&file=article&sid=373

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