Dance on evidence:

La Band Che Finalmente Salverà Il Mondo

intervista a Simon Shack

a cura di Alessandro Torrelli

Abbiamo intervistato Simon Shack, autore-compositore e produttore scandinavo, ma cittadino del mondo per adozione. Cresciuto in Sicilia, e poi trascinato da una famiglia nomade un po’ ovunque, in giro per l’Europa, l’Africa e l’Oriente. Padre norvegese, sociologo e globetrotter per conto dell’HCR, l’alto commissariato per i rifugiati. Madre svedese cantante lirica, pianista-organista, poi giornalista durante i frequenti spostamenti della famiglia. Prima di abbracciare la musica, anche i mestieri di Simon si susseguono in modo rocambolesco: fotografo, grafico, fumettista-ritrattista, traduttore (in 6 lingue), cacciatore di sponsor nel mondo delle gare auto e moto, vice-direttore sportivo di una squadra di Formula 1, progettista e costruttore di case in legno norvegesi. Per l’ultimo album del suo attuale progetto musicale, DANCE ON EVIDENCE, ha impiegato una buona dozzina di musicisti e, apparentemente, una buona dose di tutte le contaminazioni che ha attraversato.

Come inizia la tua storia con la musica?
Abitavo in Inghilterra e facevo il fumettista. Un bel giorno acquistai un vecchio pianoforte a Stratford-On-Avon e me lo portai a casa con un carrello agganciato alla macchina. Mi portai a casa anche l’ex proprietaria, una dolce biondina inglese. Feci subito l’amore con entrambi ma la bionda se ne andò presto mentre il pianoforte, che non aveva altra scelta, rimase con me.

Parlami della music factory.
Di ritorno in Italia, ormai ‘convertito’ alla musica, decisi di fare un piccolo studio di registrazione in un garage nei Castelli Romani. Ma nel 1990, persi mio padre che aveva appena dato le dimissioni dalle Nazioni Unite e si era comprato un bellissimo casale in mezzo ai vigneti di Frascati. Decisi di trasferire lo studio lì e di chiamarlo "The Base Music Factory": un ambiente ideale per realizzare un sogno nel cassetto, un’oasi capace di ospitare musicisti di ogni provenienza. Finora vi sono transitati suonatori di oltre 16 nazionalità diverse.

Musica come punto d’incontro e fusione con diverse culture?
Certamente. Basta pensare che Yampapaya, il primo gruppo che si costituì in The Base (e con il quale suonai dal vivo per 2 anni ) era composto da 9 elementi, tutti di paesi diversi. Nacque con l’arrivo di David Hoffman, americano nato in Giappone, che aveva fondato il gruppo originale in Cina. Successivamente, incisi il mio primo album con un cantante marocchino, Noureddine, che venne a registrare un giorno un demo nello studio. All’epoca ero immerso in una vena musicale araba e con lui trascorsi un periodo intenso, realizzando un album bellissimo, che chiamammo Radio Zaka (pubblicato in Francia da Night&Day).

Perché la scelta della World Music?
Ho traslocato una quindicina di volte, sono stato sballottato senza sosta da una cultura ad un'altra e, di conseguenza, da una musica ad un'altra. Il risultato è che le sonorità che inseguo sono difficilmente definibili ma, vista l’esigenza di catalogare ogni musica nel mondo discografico, mi ritrovo spesso nel pentolone chiamato World Music. La realtà è che molti, sentendo una sola nota di sitar o una percussione africana esclamano subito: "Ah, questa è World Music!". Ma io sono anche contaminato dal rock anglosassone, dalla musica sinfonica e quant’altro.

Quanto la tua tradizione influisce sui tuoi brani?
Cos’è la tradizione per un apolide sradicato? La mia curiosità è assai più forte della mia tradizione. Quando fu lanciato l’album Radio Zaka, ebbi la fortuna di farmi intervistare con Khaled alla Radio France Inter a Parigi. Gli chiesi mestamente se gli dava fastidio che il sottoscritto, uno scandinavo che non ha mai messo piede nel Sahara, avesse fatto un disco nordafricano. Con il suo splendido sorriso mi rispose : "Ma neanch’io l’ho mai visto il deserto! L’avrò giusto sorvolato per andare a suonare qualche concerto in Norvegia! Mi sento onorato quando stranieri attingono nelle mie tradizioni musicali." Ciò che disse Khaled, era musica per le mie orecchie!

Perché è difficile ascoltare la musica etnica nei canali ufficiali della radio (a meno che non sia inserita in un palinsesto specifico)?
Per provincialismo e avidità. Il provincialismo, ovunque esso si trovi, frena qualsiasi novità musicale finché questa non acquisisce un ampio consenso. L’ampio consenso è a sua volta ostacolato dall’avidità di chi, come le radio e le discografiche, smercia e diffonde la musica. Finché qualche chimica di mercato non spinge una certa novità ad ingrossare i portafogli dei mercanti di musica, le cose non cambiano. In Francia, per esempio, dove un Khaled può spodestare Michael Jackson alla testa delle classifiche, questa chimica è nata in parte al gran numero di immigrati africani, in parte alla minore adulazione (rispetto per esempio all’ Italia) di tutto ciò che proviene dall’America o dall’Inghilterra,. Ma ci salveranno le donne: sono loro le più sensibili alla sensualità e alle sonorità etniche!

Dopo i tragici fatti di New York e ancora in corso in Afghanistan, c’è pericolo che la musica araba possa avere una "ricacciata" dal mondo mediatico occidentale?
Al contrario ! Molta gente è improvvisamente assetata di conoscere il medioriente, si divorano libri e ci si documenta in ogni modo. Ma questo è un discorso socio-culturale di rilievo marginale. Ciò che dovrebbe essere ricacciato, è il colonialismo economico occidentale, utopia ma anche condizione essenziale per smorzare anche il fondamentalismo arabo. Quest’ultimo rappresenta, checché se ne dica, l’anima incazzata del rigetto di un’improponibile dittatura economica, ossessivamente difesa (anche a suon di bombe) dall’occidente.

Nel tuo video tratto dall’ultimo disco di DANCE ON EVIDENCE (titolo: "Weatherchange"), critichi apertamente Bush e la politica americana. Pensi che la musica etnica possa essere la bandiera "sonora" dei popoli oppressi e in via di sviluppo, comunque contro la globalizzazione?
Un momento: i testi (inglesi, ndr) di questo album li ho scritti tutti prima dell’11 settembre 2001. Trattano, spesso in modo ironico (la musica può essere satira ma mal si presta alla retorica), del degrado dell’ambiente sul nostro bel pianeta, tutt’ora l’unico abitabile nell’universo. Non per nulla, DANCE ON EVIDENCE si spaccia scherzosamente come "la band che salverà il mondo"!
Il termine globalizzazione è ormai terribilmente vago e ambiguo, e per questa ragione, non credo che nessuno possa schierarsi nettamente pro o contro. Si può essere preoccupati del terrorismo perché sono morte 2950 persone nelle Torri Gemelle (secondo l’ultimo conteggio del New York Times). Ma per me, e spero per molti altri, l’Emergenza riguarda l’equilibrio dell’ecosistema. Sono convinto che i prossimi, annunciati megadisastri ambientali mieteranno più vittime di qualsiasi immaginabile attacco terroristico. Questa semplice considerazione, mi permette di individuare in Bush (l’uomo che ha sgozzato l’accordo di Kyoto) il maggior terrorista del pianeta. Sono l’unico a pensarlo?

 

Discografia di Simon Shack
Radio Zaka - Salam Salam
Dance On Evidence - What On Earth

in co-produzione con altri artisti
Senza Techo - Senzatecho
Mawatoo - Champagne

Visita il sito:

www.basestudio.com

 

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