FRancesco massinelli
:Mi chiamo Francesco Massinelli, ho 33 anni e vivo a Perugia pur essendo nato a Castiglione del Lago, una ridente cittadina sulle rive del lago Trasimeno. Da tre anni sono sposato con Mita che è la protagonista principale della mia vita. Professionalmente mi occupo di relazioni d'aiuto. Sono infatti un Assistente Sociale e lavoro in una grande cooperativa. Vado al domicilio di persone seguite dal CIM o dai distretti socio-sanitari. Visto l'attuale orientamento umbro a strutturare tanti contratti part-time per distribuire meglio la disoccupazione non guadagno molto. Ho iniziato a scrivere durante il periodo di studio scolastico privilegiando l'attenzione verso quella demenzialità capace di sdrammatizzare e di far sorridere gli altri. Con il passare del tempo ho preferito sempre più adottare uno stile più criptico per nascondermi meglio dietro le parole e dar rilievo alle storie e ai personaggi, in una forma caricaturale. Grazie al computer, alla possibilità di archiviare e far fotocopie dello stesso scritto, ho potuto far leggere le mie opere a tante persone. I lettori rimangono colpiti dagli aspetti linguistici, più dalla forma che dal contenuto dei temi che sviluppo, dalla musicalità che riesce ad uscire anche da un racconto. Se non rimangono divertiti dalla mia genialità puerile sta di fatto che discettano sul mio modo di descrivere, che divide |
Assuero
un' identità da recuperare
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Assuero, un'identità da recuperare
1
Il mio nome è Assuero. Al fiume andavo con la motozappa trainante un
carretto a caricare la rena, passata la piena. Immaginavo un ritorno a casa
in eleganza da vestaglia da camera abbinata con ciabatte e pigiama. La carcassa
delle mie proteste, i consigli di tutti i miei zii spirituali putativi, stavano
lassù, sulla sommità della mia nuca. Non avevo più una
chioma, avevo già le tempie empie e immaginavo una società pronta
a indolorarmi per poi fregarmi. Ai miei tempi ero stato l'ultimo a prendere
il latte dalla madre di un altro bambino poiché mia madre ne aveva poco.
Questo mi bastava per non opprimermi. Ero partito senza molti traumi da troppa
confidenza con i miei perché il Ministero della Difesa mi voleva. Durante
la mia assenza c'era stato un mondo vacuo, cambiatore di bioritmi, che, grazie
all'inquinamento giustificabile con lo sviluppo industriale, aveva fatto apologia
del senso comune. Tutto era stato abbruttito nell'ottica del merito. Casa mia,
da lido in riva al fiume, balneabile e pescabile, divenne come un loculo distinto
sotto un arcosolio, una vetusta memoria di passatempo e vanagloria; riva di
cartacce, proprietà organolettiche sempre più rarefatte. Da bravo
ragazzo qual'ero se con le amicizie tiravo fuori la misurazione di reciprocità
per motivare la chiusura di un rapporto, nei rapporti in famiglia non ripensavo
altro che alle discese a patti con i parenti, tutti identificatisi coi loro
avi. E così ero contento, non litigavo con nessuno, anche se l'educazione
che mi veniva data non sempre mi sembrava adeguata. Tanti incontri decisivi
avevo sentito, visto che per ben divenire attendevo alle fonti della vita vicine,
vicine a casa mia, che non mi facevano senso. Sapevo del non dover scherzare
col dire che la disoccupazione dei paesi industrializzati non fa crescere i
vermi nella pancia dei bambini italiani. Lo sapevo ed in certi discorsi nemmeno
provavo ad entrare. Come illuminato da monofore a strombo, aperte sulle absidi
rivolte a levante, proprio nel momento in cui la società riconosce la
maturità, scovai un mio declino diventato un inchino verso un idolatrico
rapporto con me stesso e il mondo vicino. Lo scovai il giorno del mio diciottesimo
compleanno, quando mi accorsi che l'età anagrafica non coincideva con
quella che mi sentivo.
2
Quel giorno
ero tornato a casa dopo un lungo periodo di assenza. Pensando di essere grande
ero scappato da casa giovanissimo, interrompendo gli studi, sbrigandomi a fare
il servizio civile per poi lavorare. In realtà questo non era stato.
Dopo l'aver pensato di esser partito di casa ogni rapporto che avevo costruito
con la gente mi avrebbe portato a sentire la sconfinata dilatazione della coscienza
di un perdente. Le inclinazioni mistiche in me preesistenti non mi avrebbero
mai potuto pienare che certi vuoti di memoria incipienti. Quando non ero vigile,
l'energia che mi scorreva dentro, come ad un meridiano canale, emissaria od
immissaria a seconda degli imperativi dell'esserci più fastidiosi, si
sarebbe potuta polarizzare solo sul mio rinchiudermi. Verso uno spaccio di riti
secchi, molte relazioni che prima erano buone, sarebbero diventate per me nient'altro
che cose altamente fastidiose. Fastidiose al punto da farmi ricevere, con gli
schiaffi sul mio orgoglio, la giunta degli effetti di panico. Una giunta a cui
erano sottintese una quantità di altre botte da non credere. Dall'allontanarmi
da casa alla mia solitudine, una impalpabile riflessione incorporea, mezza trasparente,
si era troppo mollemente calata su me, purtroppo, anestetizzandomi principalmente
le più belle emozioni. Ed io non potevo che subirla. Non potevo che mostrarmi
al mondo con il mio sguardo pacato dietro un occhio velato. Prima di attrezzarmi
una riequilibrata, tra i pieni e i vuoti energetici, fui messo felicemente a
regime come gli alvei del fiume, che rigonfia e tracima, da alcuni fatti episodici
della mia vita, dalla presenza di una persona capace che iniziai a frequentare.
Io trasbordavo una stranezza tale che al vedermi nel successo mi stupivo sempre
più di me stesso. Dopo l'aver pensato di essere andato via di casa, dopo
l'aver pensato il servizio civile, dopo l'aver pensato di lavorare vicino al
mare prima di decidermi finalmente a farmi curare, arrivò la festa del
mio compleanno. La scissione del mio corpo, dalle zone di casa alle zone dove
svolsi il servizio civile ed il lavoro, non la portai più di tanto in
processione. La vivevo così, li per lì.
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Cinque presunti anni fa, il mio fare rabdomante nell'obiezione di coscienza,
fare che trovava l'acqua che faceva da tutte le parti, contrastava con un grande
bruciore interiore, non dante pace alle smanie ansiose che mi alzavano i battiti
del cuore. Anche se ero un adulatore della perizia tecnica, affascinato dagli
scoppi, dalle accelerazioni dei velivoli, ero uno che più del volo spaziale
umano gradiva per un po' nascondersi nella sicurezza del lavoro mal retribuito
o del volontariato mal organizzato. Alla giusta distanza da ogni fureria, con
lo sguardo fisso sulle carte del cielo, sapevo di non essere capibile né
con premi né con punizioni. Pertanto le sollecitazioni di pace che dovevo
far subire al mio organismo non dovevano peggiorare il mio stato di identità
violenta. Pur alloggiato all'alloggio degli obiettori sapevo infatti di saper
mantenere la mia identità di servo civile vero e proprio. Pensavo di
comportarmi come un piantone in caserma. Le figure da cui scappavo, talvolta
facendo anche il passo del leopardo, erano maggiormente operatori societari,
deleteri per l'ansia che avevano di tranquillizzare il prossimo. Ogni volta
che mi rialzavo da quel passo per camminare da uomo mi sembrava un azzardo essere
lì, l'incompreso, il solo. Tutte le altre persone sembravano sperdute,
prive di coscienza relativa al susseguirsi degli eventi. Erano l'incuranza nel
favorire i pericoli di un servizio civico mal pagato fatta figura. Ed io ero
peggio di loro. Anche al top del mio non pavido impegno pacifista sapevo che
il combattimento, come segno d'elezione, s'incontrava con il mio livello di
opposizione asservito al solidificarsi per imparare a combattere. Ero bravissimo
a fare gli sbalzi per mettermi velocemente a terra, per assaltare gli attivisti
che mandavano comunicati ai parlamentari. Ero un convinto assertore della necessità
dei contrappelli serali, perché la mattina erano tutti passivi e la notte
tutti attivi. Calcolavo i rischi di un servizio civile involontario europeo
svolto da obiettori di coscienza con lo status dei volontari in ferma prolungata.
Avevo energia sufficiente a togliere il disturbo in tempo dato.
4
Per bisogno di concretezza, visto che non avevo agognato il congedo facendo
i conti con la stecca, pensai di accettare, dal responsabile dei servizi sociali
del Comune che con convenzione ottenne le mie prestazioni, un compito che nessuno
voleva. Mi ritrovai messo al servizio d'un ruvido e vernacolare attore ligneo,
dalle membra articolabili, col busto cavo, in un mondo fantastico. Viveva in
un magazzino tutto particolare ma entrando come nella sua casa, la cosa che
catturava l'attenzione, era un tetto con tutta una serie di feltri, appesi ad
asciugare, con sottili strati di cellulosa aderita a coloratissimi fiori secchi,
da tirare giù, staccare e stirare, al fine di fargli prendere una piega
data, dopo un compiuto salto tempestivo/temporale, che li avrebbe portati a
diventare fogli. Ogni mattina andavo nel magazzino in cui era stato ritrovato,
lo aiutavo ad alzarsi, a vestirsi e a lavarsi. Disbrigavo per lui alcune pratiche
dopo avergli preparato la colazione. Poi pensavo di andargli a fargli la spesa,
tornavo per cucinargli il pranzo e per svolgere quei lavori domestici, pesanti
o leggeri, che lui non poteva fare. Il controllo per l'assunzione dei farmaci
non lo facevo io, se istruito glieli somministravo all'ora di cena. Da macchina
scenica semovente qual era non aveva rapporti né con i familiari né
con il mondo esterno in cui io potessi sostenerlo in alcun modo. Quando lo piantai
in mezzo ad un campo simile a quello vicino a casa mia e al fiume, a rassicurare
passeri, erano forse passati così tanti assessori che nessuno si accorse
di nulla. I tempi di vita delle organizzazioni sono diversi da chi vive il tempo
degli incarichi, dei ruoli. Pur dubbiosa ma non disillusa, la mente mia si rendeva
conto, che l'accoglienza dell'amore permette il suo accadimento, pur laconico
e arido.
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Non ero più diretto da uno con il berretto da poveretto, che più
di tanto non capiva, quando mi considerai congedato con un amico piantato, libero
di starsene dove desideravo, quattro anni prima della festa per il mio diciottesimo
compleanno. Un passone di vigna con bassorilievo in marmo lo riparava da intemperie
nordiche e proteggeva me da commenti indiscreti. Quel campo da cui però
spaventava i passeri era unico, si distingueva da orti e giardini dei vicini
perché non era visibile che da un ponte vicinissimo a quella che sembrava
casa mia, ma posto più in basso di tutti i tremolii d'aria calda che
mai mi era capitato di vedere da lì. A causa dell'inquinamento, con il
paesaggio fuori il campo deturpato da industrie sviluppate attorno ad esso,
c'era un contrasto impressionante tra modernità e uguaglianza a cinquanta
o più anni fa: verderame sui fili di ferro dei filari delle viti, fiocchetti
consunti ad essi annodati, attrezzi agricoli primitivi; veicoli con motori a
idrogeno, tetti brillanti di pannelli solari, vecchi diesel ad olio di colza
sempre pronti al clacson suonante. E questo a me piaceva e bastava; l'attore
lì dava bella mostra di sé. Pur non avendo niente di antico e
d'inestimabile sapeva evocare emozioni struggenti. Meglio di come riescono quelli
che, affondando il corpo in un fitto prato di soffice trifoglio vanno piangendo
poiché poi dopo debbono passarci il diserbo, lui presenziava il beltempo
come il maltempo. Dopo tutto quello che avevo fatto per lui avrei voluto posizionarlo
degnamente, ancor meglio; mi prendeva male il vederlo, col fisico asciutto ma
non ossesso. Ed il non riuscirci mi dispiaceva, sinceramene e proditoriamente.
Forse un tempo era stato uno di quei guerrieri che attacca l'ospizio dei vecchi
poiché il palazzo del governo richiede eccessiva tribolazione, ma adesso,
così ridotto, non dovendo più affermarsi per avere un essere,
mi faceva una sensazione grande.
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A casa io avevo un carattere aperto, gioviale, generoso, buono: generalmente
per molto tempo, qualche volta per poco. Con lui no. Andavo sempre coniugandomi
con un cercare di dare sorrisi, disponibilità ed amore quando non lo
piansi dove l'avevo piantato. Lo piantai con ritrosia, perché mi sentivo
invadente. Per tanto tempo l'avevo guardato e rimirato fino in fondo ai suoi
occhi dipinti, imitandone l'intensità, come in uno specchio, nello spicchio
d'anima che mi pareva sincera. Per lui avevo provato una così speciale
sintonia che piantarlo era l'unica valida ragione per non continuare a servirlo.
In diverse situazioni mi era capitato d'incontrare persone dal cui sguardo capivo
che avevano capito un loro errore, qualcosa del loro passato, un fatto contingente.
In quegli occhi dipinti però, sempre pronti a sostenere il mio sguardo,
riuscivo a lasciarmi addietro il mio carattere e il suo ematoma, anche se mi
sembrava purtroppo di instaurare come una relazione non buona. Mi perdevo nella
normalità di credere la creatura preziosa, così come facevo con
le persone bisognose di attenzioni sociali, che non avvicinavo: persone bloccate
e sfasate, per un dolore. E questo mi portava ad una terribile confusione. Trattavo
lo sguardo dipinto come uno reale. L'effetto alone del mio guardare sulle più
scomode posizioni viste trattava il dipinto su legno secco come l'anima su carne
viva; e questo mi portava desolazione e bruciore. Dopo essere entrato in tanti
occhi con lo sguardo, piantarlo voleva dire per me scaricare via i tempi di
attesa oziosa, evitare di coinvolgermi in una odiosa relazione ancor più
scomoda. Mi ero voluto convincere che esiliandomi a svolgere qualche altra cosa
avrei trovato un riposo fattibile in un altro luogo, lontano da lui.
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Non allora lontano m'allarmavo. A tre anni di distanza dalla festa del diciottesimo.
Dopo quello che mi era sembrato il mio ultimo servizio per la patria, in ambito
di attivista del servizio civile involontario, avevo capito che, come nell'antichità
erano le saline una fonte di potere e di ricchezza, nel moderno non sono i rifiuti
dati ai poveri a mantenere ai ricchi l'esaltazione del superfluo. Come quando
nei secoli passati la chirurgia era meno progredita e si ricorreva alle intercessioni
di alcuni individui per ottenere guarigioni, sentivo che la generosità
dei poveri verso i ricchi si sarebbe un giorno palesata. Stava a me trovare
un modo per passare da aiuto-povero ad aiuto-ricco per aver maggior lucro da
reinvestire in attività per chi stava, senza guadagno, trafitto dalla
miseria. Il giorno che, dopo il passaggio di tronchi sul fiume, con il loro
comparire per dopo sparire, mi decisi a dare una svolta alla mia carriera lavorativa,
era il momento giusto. D'altronde si sa, tutti i fiumi portano al mare. La mia
risorsa strategica, tale da permettermi di uscire dall'astrazione illusoria
compensante i desideri irrealizzati, fu cambiare giro di persone incontrate.
Lavorando sodo avevo capito quanto i progressi nell'ambito della scienza spaziale
derivano dall'applicazione e dal perfezionamento di tecnologie belliche, lavorando
solo avevo capito che il finanziamento pubblico che arriva sul sociale serve,
anche se si disperde sempre in élite d'équipe composite. Iniziai
ad interessarmi dell'estrazione del cloruro di sodio, dei cicli evaporativi
delle acque. La gaiezza di pensare al lavoro fu grande, iniziai a prendere consapevolezza
che, anche se non io solo potevo darmi tutto l'amore di cui avevo bisogno, comunque
(e nonostante tutto) qualcosa potevo fare. Decisi che l'unico mio modo di vivere,
prima di riconciliarmi con me stesso, sarebbe stato quello di non pensare che
per un po' agli affari, così come avevo fatto per gli altri svolgendo
quel mio particolarissimo servizio civile. Forse di voce in voce si diffuse
il mio nome nelle bocche della gente acquirente; sicuro è che finì
addirittura in un manifesto mostrato soventemente, di cui conservo ancora una
copia scritta col pennarello. Mi feci estroverso al cento per cento, traendo
dentro me che prima tendo ad ignorarla, la gente. Ma poi lego.
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Passare dall'acqua dolce a quella salata non mi fece nessun effetto particolare.
Come un bimbo che non si stupisce alla vista del mare perché ha visto
un lago, io, tutto preso com'ero stato portato, andai a cercare quel qualcuno
che mi aveva aiutato. Andai anche se non lo trovai. Anche se dovetti accontentarmi
della sua esperienza trascritta in un manuale bagnato. Tra efferati attacchi
d'idee commerciali e intuizioni dei percorsi con anse sempre un po' inattese,
mi diressi verso quella che mi avevano detto chiamarsi salina, forse una zona
con persistente irraggiamento solare ad alta temperatura, con venti dominanti
idonei, con un'area vasta di superficie piana non ombreggiata. In quella salina
la composizione del terreno era impermeabile, capace di evitare dispersioni.
C'era grande disponibilità di acqua di mare minerale, limpida, non inquinata,
lontana da fonti di acqua dolce del pozzo, imbottigliata. L'intera area della
salina era ubicata in una zona di bassa piovosità, c'erano delle vaschette
ben dimensionate, accessibili, regolari con buoni argini. L'unica cosa che mancava
era la disponibilità di manodopera qualificata capace di unire le conoscenze,
sia tecniche che legate all'esperienza, ad una forte propensione al lavoro.
Solo come quando facevo dei piccoli favori alla gente bisognosa di attenzioni
socializzanti, in posizione d'attenti o di riposo, iniziai quello che poteva
apparire a tutti un mio lavoro banale di controllo delle acque, costrette a
defluire in bacini posti in rigoroso ordine decrescente. Iniziai così
tanto per fare, aspettando quel qualcuno che mi aveva aiutato e che non sarebbe
mai arrivato. Rispetto al servizio civile mi distaccai dal mio stato di uomo
coinvolto con l'indigente, ma non come un paralizzante osservatorio. Lo feci
come una persona attiva, ancora disponibile all'occorrenza a prendersi la servitù
di portar via la spazzatura, di tagliare a qualcuno le unghie per fargli risparmiare
quanto di spendibile in un centro estetico. Quel qualcuno che cercavo, che in
passato mi aveva aiutato, era stato sepolto dallo smuoversi di un mucchio di
sale. Era salito a far la revisione della sua situazione esistenziale. In un
libro ostruito dal sale bagnato m'aveva comunque istruito in un modo che io
non apprezzavo. Il libro si intitolava "il salariato". Il mio modo
di trattare il sale era infatti particolarissimo, diverso dal suo. Io, grazie
al sale, realizzavo dei potenti giochi pirici che portavano al ricovero in infermeria
di tante persone solo per eccesso di fumo inalato e bagliore. Mai dolore al
timpano o ustione. Lui no. Lui il sale lo inscatolava. Io osservavo la realtà,
formulavo un'ipotesi, la confrontavo con altri fenomeni. Creavo una fiamma e
la guardavo. Se mi emozionava davvero progettavo un successo, altrimenti no.
Mi lasciavo trasportare dalle mie creazioni come ruscelli e fiumiciattoli su
mondi interiori. Erano come acque cinegeniche le mie esplosioni.
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I giochi pirici col sale erano qualcosa d'impressionante. Tutti i miei artifici
cambiavano il paesaggio circostante. L'impatto ambientale lo riuscivo a controllare
facendo delle fontane alte, con il sale ricadente sempre dove si poteva poi
aspirare o lasciare stare. I miei giochi pirici piacevano perché erano
estensioni di forme immaginate estinte, addensavano in forme vagamente alienanti
certe impressioni della retina quando si stringono forte le palpebre dopo aver
fissato una luce. Anche se non ero mai riuscito ad abbassare la frequenza delle
vibrazioni fino a solidificare la luce, il cambiare della densità fisica
del sale, da grosso a fino e poi invertito, dava un effetto dissolvenza ai fuochi
artificiali perché faceva sentire il vibrare più sottile della
densità fisica. Accadde un giorno, in mezzo ad una cerimonia assolutamente
normale, in cui tutto il mio ingegno non interessava a chi il sale lo vedeva
buono per sciogliere il ghiaccio e mangiare, che mi feci un nuovo esame di coscienza
generale con le cosce accavallate. Dopo il congedo e il furto ben gestito dell'amico
ligneo, dedicandomi progressivamente al lavoro, avevo visto passare un discreto
lasso di tempo. Avevo lessato le mie intemperanze giovanili piazzandomi benissimo
in un mercatino e trovavo tra le mie mani il foglio del distretto militare del
mio capoluogo.
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Mi volevano per tre giorni, per farmi delle visite, per vedere se ero abile
al servizio militare. Dopo il pensiero di aver lasciato casa in balia dell'inquinamento,
io che ero sfuggito all'alloggio con gli obiettori, che mi ero reso conto che
la maturità giusta per intuire dove raffermarmi non potevo trovarla con
i soldi, corsi a cercare il congedo. Lo trovai ed era bellino, scritto a macchina
su una pagina staccata dal quaderno, senza la firma del sindaco e la data. Alla
faccia delle paracadutiste allieve volontarie professioniste con sempre minor
innocenza in casa, per ragioni di detenzione del potere, fui portato da due
miei clienti in una grandissima caserma dell'esercito italiano. Per tre giorni
stetti coi militari. Fui trattato come un ragazzo e fui insospettito dai loro
commenti su me. I pensieri del lavoro però, in cui esercitavo maltrattamenti
fisici e soprattutto psicologici a carico dei membri deboli che incontravo,
per garantirmi gli appalti migliori, ebbero il sopravvento sulle problematiche
che avrei incontrato riconoscendomi sedicenne o diciassettenne come i medici
militari del distretto avrebbero voluto. Avevo svariate prove, disconfermate
dai documenti d'identità, che io avevo ragione e loro no. Una prova era
il lavoro, la vastità delle mie intimidazioni che portavano verso alcuni
miei concorrenti infelicità, insicurezza, stress; fino a farli sfociare
in stadi di vera e propria malattia conclamata.
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Curando personalmente gli affari capii, due anni prima della festa di compleanno,
che la mia ricchezza aveva in fondo uno scoppio e un'esistenza di bagliore.
Il mio essere uomo, privo di pregiudizi, sinceramente solidale, capacissimo
di danneggiare, la doveva però controllare. Da maschio in quell'uomo
che ero dovevo provvedere sempre in qualche modo. Stare attento. Dopo l'esperienza
di svilimento socio-assistenziale nell'ambito del servizio civile irriconoscibile
dal distretto, con il guadagno da manager della pirotecnica, ero passato dal
coordinato e consapevole dell'inutilità del mio servizio allo stato di
benestante quasi sistemato, troppo presto. Non mi ero ancora dotato di codice
fiscale, partita iva, carta d'identità e patente di guida, perché,
lavorando in nero, l'informalità era bastata a far da motore alla crescita
di quel valore aggiunto, aggiungibile a tutto, con cui annientavo la concorrenza.
Rimasto nelle mie occupazioni per lunghi periodi di tempo, con il successo e
con quell'amico strano da andare ogni tanto a trovare là dove l'avevo
piantato, ero rimasto come fuori. Quando a causa del lavoro lasciavo la salina
e mi recavo in riva al fiume a fare sperimentazioni, l'immagine che lui, lì
piantato, mi dava, era sempre meno adeguata a me. Ma dovevo meglio convincermene.
Arso dal vento sul campo era un costante richiamo ligneo a non fare come lui,
a non isolare il mio sguardo, a non intrattenermi in aride conversazioni. Riconoscendomi
l'incapacità di aggiustare da solo i danni commessi e di scorgere quelle
umiliazioni che portano alla verità, pur lavorando sodo, dovevo sforzarmi
di non provare invidia per lui. C'era una grande differenza tra lui che non
doveva più affermarsi per avere un essere e me. Lo dovevo capire.
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C'era qualcosa che nella mia vita non quadrava se avevo lui per amico e quel
tipo di lavoro vicino. L'immagine della mia identità, sempre più
suscitata dal raccordo con l'immagine altrui, non poteva ostinarsi a stare spezzata
tra il carnale e il ligneo, in mezzo alle esplosioni controllate di sale, coi
suoi sentori. Mantenendo i contatti con il paese dove avevo svolto il servizio
civile avevo altre relazioni in cui specchiarmi. Nel risvegliarmi dal sogno
prima di riaddormentarmi avevo sentito più volte la possibile distanza
dei parenti amati lacerarmi prima del suo avvenire, quasi a prepararmi a futuri
distacchi. Ma per lui, per il mio amico, no. Mi vennero dei sospetti brutti
riguardo al fatto che il mio amico fosse stato affetto da una sindrome psichica
intessuta di dettagli pittoreschi, mutati dal folklore della mia immaginazione,
o, peggio, che mai fosse stato in vita. Pensando che mantenere la realtà
temporale dopo averla abbandonata è arduo, iniziai a guardare le scelte
di vita di alcuni miei coetanei meglio sistemati e m'accorsi di essere rimasto
indietro, non di testa ma coi fatti, di alcuni anni. Comportandomi come mi riusciva
meglio, approfondendo i rapporti con quanti mi dimostravano più affetto,
lasciandoli parlare per capire la loro idea di me, iniziai così a frequentare,
con lo stile del militare alle prime marce, che indossa il fez a pandoro, che
segna il passo al momento del fianc arm, una persona capace. Iniziai a frequentarla
un anno prima della festa per i miei 18 anni. Pur non riuscendo a stringere
con lei una profonda amicizia, coltivavo verso il suo essere vera, una persona
sincera, una profonda ammirazione. Sapeva cogliere l'aspetto educativo di ogni
domanda anche posta male, e quindi da odiare, che le rivolgevo. Nell'intensificare
i rapporti con lei mi sentivo tranquillizzare. La incontravo proprio nei contesti
di pace disagevole e mi consolava dicendo che il peggioramento del mio stato
di identità mi aveva trovato accorto, che questo dato non era da dare
per scontato. Mi diceva che la mia sensazione di essere rimasto indietro più
coi fatti che con la testa avrebbe potuto riservarmi ancor più brutte
sorprese ma che non dovevo prendermela. Secondo lei si coniugava con un credermi
più avanti degli altri in svariati fatti. Questa persona era anche il
mio cliente principale. Ricomprava da me tante esplosioni di sale. Per amore
all'affare entrambi ci comportavamo in modo professionale. Spesso, visto che
era lei a dover saldare con me il conto, per non prenderle denaro accettavo
qualche sigaretta, una liquirizia, le caramelle. Io avevo molti dubbi sulla
mia vita, di cui uno grande e tremendo. Lei invece soleva ripetere che la sua
esperienza del dubbio era stato un qualcosa da conquistare e che quindi io potevo
stare contento: lo avevo già come un punto di partenza. Se nel normale
svolgersi d'una relazione bruciavo un appuntamento, rovinavo un incontro tra
persone, secondo lei non dovevo farmi ardere per ore un pensiero interiore.
Assumendo anche pose da tronco lavorato, da pianale poggia carne da macello,
potevo prendere qualcosa per stare meglio. Per quanto ero stato asociale nel
sociale diceva che era legittimo il sentirsi insipido in mezzo al sale. Grazie
all'apertura che si creò in me dal frequentare lei, persona capace, vissi
anche una breve storia d'amore. Talvolta foriere erano le mie gesta.
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L'immagine del mio ritorno a casa, in eleganza da vestaglia da camera abbinata
con ciabatte e pigiama, stava in consonanza con quanto di più vicino
alla malattia di mente (che si potrebbe vedere degnamente in me procedere) io
ammettevo. La carcassa delle mie proteste e tutto il resto sulla sommità
della mia nuca erano figura d'un brutto episodio della mia infanzia. Scoprirlo
di botto il giorno del diciottesimo compleanno e capirlo gradualmente nei giorni
a seguire ripensando gli anni a ritroso, era stato peggio di perdere la bussola
e l'orologio. A raccontare l'episodio non ci vuole nulla quando riacquisti la
memoria e ti senti tranquillo di aver già incolpato i parenti per non
averti fatto svegliare prima, quando ancora non ti sei sprecato la forza per
vendicarti del torto che ti arroghi di aver subito. In un'aia adiacente alla
magione dove stavo da piccolo c'era un'altalena in cui ero solito salire. Partecipe
come un principino vi salivo e vi andavo sempre più forte come uno che
si allena, intonando un grido di paura da brivido. In un giorno di pioggia in
quella pieve dove oscillavo lieve, girando a meno di 360°, detti una botta
di schiena in un punto molto morbido in cui il mio babbo ricreava l'humus che
il nonno aveva eroso prima di vivere lo spavento che io gli avevo provocato
svenendo. Con slanci di dedizione, di cui però dovrò sempre esser
grato ai miei, ebbi l'assistenza di tutti i parenti nei mesi della riabilitazione
che seguirono all'accaduto e mi rimisi in salute senza troppi problemi, fino
al compimento del diciottesimo anno, avendo tante attenzioni. In quel giorno
di festeggiamento della maggiore età c'era però qualcosa che non
mi quadrava, su cui avevo rimuginato da dopo la visita al distretto militare
che mi aveva decretato inabile alla leva. Quella visita infatti mi colpì
particolarmente in quanto m'accorsi che per anni avevo vissuto con uno stile
aderente al punto d'incontro con la terra, come uno dall'indole bizzosa nella
solitudine del non avvenuto distacco traumatico di sé dal mondo. Alla
festa del diciottesimo, scoprendo di avere diciotto anni invece dei ventitré
che credevo di avere, capii che l'evoluzione lineare e progressiva della mia
età non si era incontrata con la mia percezione di questo, che davanti
al presentimento di morte successivo alla caduta avevo reagito con mezza tacca
di personalità. Mi ero dato cinque anni in più di quelli che avevo
ed ero entrato in uno stato confusionale come se ne avessi avuti cinque in meno.
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Inutile ridire quanto furono vani certi discorsi del parentado. Nei giorni che
seguirono la festa del diciottesimo i miei parenti mi ridissero direttamente,
più e più volte, che dal silenzio della mia salute precedente
alla caduta ero uscito ammalandomi senza saper indicare il mio dolore fisico.
Costretto a letto avevo costretto il loro tempo, facendogli infrangere tutti
i progetti in cantiere, restringendoli nello spazio perché non potevano
più muoversi liberamente o incontrare chi desideravano. Non avevano voluto
interdirmi, non avevano voluto inabilitarmi perché ero minorenne, perché
speravano in una mia uscita dalla condizione di figlio da pensione d'invalidità.
Tra permessi concessi e revocati, schivando prosaici e malevolenti infermieri
primari, i miei mi fecero stare alla larga dai musei anatomici o dai gabinetti
di storia naturale dove qualcuno avrebbe voluto espormi allo sguardo del mondo
studiante un caso umano sconcertante. Però mi filmarono in super 8, mi
trasferirono in VHS, mi registrarono in DVD per avermi sempre a bella posta
di qualcuno pronto a non guardarmi in modo ottuso. Se qualcuno avesse per caso
scorso in me una sindrome come quella che io vedevo nel mio amico ligneo (intessuta
da dettagli pittoreschi mutati dal folklore dell'immaginazione accademica o
popolana), per quanti documenti avevo, potevo giustificarmi disinvolto. Non
ero un semplice fenomeno di turbe, ero solo il frutto di un evento traumatico,
tranquillamente capibile nell'ottica dell'altalena.
15
Sottoponendomi
ad un intollerante sovraccarico di espressioni emotive, quando mi riguardai
la documentazione di tutta la mia attività motoria caotica verso l'incontrollato,
mi sbalordii di me stesso, assoggettato ai mutamenti e ferito dal vedermi. Quasi
a recuperare tutta la percezione di deformazioni e alterazioni delle mie immagini,
nei 5 anni di sfasamento alla mia comprensione arrivato, prendevo e perdevo
chili in base al giorno. Se grazie ad una specie di dialogo mi ritrovai a regredire
dando sensazione illusoria di recuperare i ricordi, di essere arrendevole ad
assumere valori e attese di chi parlava con me, in realtà era come se
vivessi fuori di me, ero atterrito, colpito senza riparo sulla prima linea di
difesa, dal brusco cambiamento esistenziale. La differenza tra il me a 23 anni
e il me a 18 era un'insufficienza di 5, non recuperabile di botto. Catapultato
al primordiale del normale più somigliante alla mia vita non ricordata,
come un bambino nel mondo magico-animistico primitivo, mi ero comportato come
un tredicenne tra lo stupido e l'assorto. Avevo un'idea di me che se da un canto
fluttuava, come oggetto ondeggiato in alto, spersonalizzato, avvertito quasi
estraneo, localizzabile lontano, dall'altro strideva di dati riscontrabili,
evidenzianti me vicino al mio habitat fisico abituale ma lontano, con un che
capace di mutare in modo ancor più drammatico e intuitivo la mia presenza
nel paese che m'aveva visto crescere. Avevo antipatia di me quando fu così
che mi presero delle paure incredibili riguardo ai fatti orribili del mio passato
accaduto, ai resti delle azioni commesse, al mio istinto che si era dileguato
senza dirmi niente. Dall'ansia in base al momento presi ad evitare strade, luoghi,
situazioni, anche con lo sguardo ma senza cattive intenzioni. Il fatto di avere
18 anni invece di 23 mi pose il problema del controllo di me sfuggito a me stesso,
da riprendere a tempo debito o da lasciare perso. Il pensiero del giudizio altrui
sulla mia non esistenza da tredicenne mi ferì quasi a morte data quella
che percepivo come una alterazione, come la bugia dell'assurdo, atipico o utopico,
brutto. I fatti da me commessi bene, male, bene o male, erano spogli di ogni
significanza reale. Sarebbero certo rimasti, riveduti in base all'altura della
mia considerazione o dell'opinione delle altre persone in grado d'influenzarmi.
Avrei ripercorso i rapporti con una memoria nuova, affidandomi ai cinque sensi,
incontrando al dunque tutti problemi umani, diversi certo, ma tanto vicini ai
miei.
16
Ogni mia immagine ricorrente nella documentazione filmica ritraeva me nello
spazio e nel tempo, a svolgere una vita uguale all'attuale mia, ma lo sfasamento
non permetteva coincidenza tra lo starci di corpo e di testa. Io, nell'istante
preciso in cui ero in un posto abituale pensavo di essere chissà quanto
lontano o chissà dove, comunque in un luogo estraneo a me ed eccezionale.
Invece ero quasi sempre lì, sul mio posticino. Quella che consideravo
una pseudo casa era la mia casa. Tutte le persone incontrate e che mi erano
sembrate nuove erano i vicini che mi avevano visto crescere, i compagni di scuola.
Durante la mia assenza io c'ero stato sempre, ma non in coscienza. Mentre pensavo
di essermi allontanato da casa per stare a fare affari con esplosioni e sale,
oppure col ruvido e vernacolare attore ligneo, ero nel poderoso centro di salute
dove inequivocabili dottori non vedevo guardingo. Pensavo di essere un uomo
giovanissimo con delle forze in circolo verso il nuovo ed invece niente era
diverso dal solito. Nel filmato era tutta la realtà ma nei miei ricordi
c'era una estraneità a collegare tutti i fatti che sapevo considerare.
Avevo notato l'inquinamento, ma non avevo considerato miei i luoghi in cui avveniva,
avevo trovato un lavoro e guadagnato soldi ma senza vedere in faccia la gente,
senza capire che ero in un laboratorio protetto. Avevo rispettato la legge a
modo mio, immaginandomi una persona attiva e non un bambinone sorridente. Avevo
fatto quasi tutto in un quartiere, spostando il sale che gli altri usavano per
fare degli oggettini da rivendere all'uscita della messa, stando preferibilmente
con un manichino che con gli altri. Il ritorno a casa abbinato con ciabatte
e pigiama era figura di tutta la mia esistenza nell'incongruenza, da lasciare
alle spalle. Ognuno capisce quando ci arriva che può capitare a tutti
di sentirsi a ventitré anni pur essendo diciottenni, a trastullarsi in
cose da tredicenni per lunghi momenti.
17
Al
fiume andavo con la motozappa trainante un carretto a caricare la rena, passata
la piena. La rena sarebbe servita per innalzare il campo dietro casa, seppellire
alcune cose, cancellare il timore incuneatosi nella mia mente: di essere niente
di più di una entità zoo-morfica modellata da altri in base agli
altari delle loro paure. Non ero più una persona fuori di tempo, non
ero svenuto per il mio spavento. Mi stavo riprendendo da un grande sfasamento
dilaniante. Accanto a dove caricavo c'era un pontiletto che oggi non risistemo,
che andrebbe ripulito dai resti di altre piene che lo hanno reso inagibile.
Attaccato ad esso un tofo, capace d'imprigionare i pesci di fiume. Sentendomi
ancora presente in quel tempo del passato, da una bottiglia con tappo a corona,
mi scolo un bel bicchiere d'acqua di falda, spruzzando, con la lingua tra i
denti, l'acqua a getto in avanti. Con un po' che me ne scivola giù per
il collo, come reflui al lago, adesso che però so chi sono, che conosco
chi mi sta vicino, qual è il mio lavoro, sorrido benevolo a quanto mi
ha fatto soffrire. La foto della mia patente di guida, scattata poco tempo dopo
il giorno di quel diciottesimo compleanno, non evoca rabbia, rancore. Mi suscita
l'uscita da una tragedia della mia vita subita. La vita è tutta un gemere
finché non arriva una svolta.
Francesco
Massinelli
shabbat@tin.it
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