antologia

leggi e collabora all' Antologia di Iperspazio Racconti, puoi esprimere la tua critica letteraria su uno o più racconti letti, contattare l' Autore e se vuoi, scrivere anche tu un racconto breve .(Leggi nell'apposita pagina le regole di Iperspazio). presto Arturo scriverà una sintetica presentazione di OGNI Autore (come nell'Iperspazio Poesia.) la mia casella postale per ogni proposta : artfer@tiscalinet.it

In questo numero:

Arturo F.

Presentazione critica al "Paradosso"

nuovo * Buon San Valentino, amore (i miei burattini si ribellano)

franco canna 

Lo scacco- Il filosofo- Il limone il mandarino e lo spettro - l'Altare

Fosca massucco

Dietro il sipario di uno spettacolo di marionette - Storia di un giullare

Enzo chiattone

Allucinazione

Alberto scanavacca

nuovo * Il Lago

Paola R.

nuovo * Dialogo fra due viandanti


Presentazione critica di Arturo Introduzione....

ai Racconti scelti dal "Il Paradosso ed.2000"

(Inseriti per gentile concessione dell'Autore in Iperspazio Racconti, l'intera opera si può consultare al sito www.pensierimultipli.com ) ricco di dibattiti culturali e molto materiale letterario e culturale. Per scrivere direttamente all' Autore Franco Canna

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Nota e antefatto:

Prima di inserire i racconti scelti ho inviato questa E-mail all'Autore per fargli leggere la mia presentazione in anteprima. Ho ritenuto opportuno inserire la sua risposta perché è dimostrativa di quanto possano essere creativi gli scambi culturali tra autori. Opinioni, idee, approfondimenti, tra persone tra loro sconosciute che, attraverso la rete, da luoghi, forse lontani, in tempo quasi reale, ma in verità in una dimensione particolare dello Spirito, approfondiscono i propri temi in una ricerca coinvolgente .

E' giusto e necessario ed è bello che questo esempio stimoli altri al dialogo, non per una celebrazione narcisistica del proprio io (come qualche volta accade) ma per imparare anche ad ascoltare, che poi in letteratura e nell'arte significa leggere, vedere, riflettere, approfondire e non solo creare, ma far vivere e rivivere, nel tempo e nella dimensione particolare della memoria, più che celebrare, le proprie ed altrui opere (ma non appartengono un po' a tutti ?) in nuovi forme coinvolgenti e sviluppi creativi. In questo caso la critica letteraria è un'opera nell'opera, autonoma, non servile, libera e altrettanto innovativa quanto le altre forme espressive.

( lettera aperta a Franco Canna )

Cosa succede quando due scettici si incontrano ? Probabilmente come due segni meno in matematica diventano in più , il che significa che cominciano a credere. Già ma a credere a cosa, a chi, se in fondo sono e restano scettici? Il primo processo di due scettici è di demolirsi a vicenda, se sono intelligenti lo fanno bene e in ugual misura e in fondo si rispettano. Allora in questa seconda fase subentra l'ironia, un ironia mista a tristezza in quanto chi più degli scettici è convinto della molteplicità di ogni pensiero umano e della sua precarietà, Chi più di lui sa provar pena per ogni opinione. Ogni "normale" opinione fa in effetti pena perché, proprio quando viene pronunciata, cioè tenta da "relativa" di guadagnarsi il diritto di "assoluta" si smaschera, rivelando, se in buona fede la sua ingenua presunzione, se in cattiva, la sua squallida ipocrisia.

Chi leggesse con occhi superficiali il Paradosso di F.C. potrebbe trarre affrettate conclusioni e appiccicare facili etichette. F.C., spesso provocando il lettore, (ma forse anche se stesso) sembra favorire questo processo, di che altro si alimenta il paradosso se non della scintilla che scocca tra due polarità (luce- oscurità) (materia e ideale) (corpo e pensiero) (istinto-ragione ?). Ma la mia sensazione è che proprio quando F.C. sembra prendere una decisa posizione ad esempio verso la materia, la "carnalità" la logica, un' altra parte di lui, quasi spettrale, Pirandelliana, demoniaca lo prenda in giro rivelando al lettore smaliziato la sua forte tendenza all' ideale (se non vogliamo chiamarlo Spirito) .Così avviene quando la logica, la ragione sembrano dominare, il serpentello dell'istinto, le strane sincronie spazio temporali degli eventi, i cosiddetti "casi" della vita che affascinano questo scrittore, sembrano sorridere ed ammiccare magicamente (e anche tragicamente) dietro le parole, le allusioni, come "spettri", larve forse di pensiero o materia inespressa che rivendicano la loro "virtuale ed impossibile, illogica esistenza. Allora una sua interiore vena di narratore, per intenderci, da romanzo lungo, sembra prendergli la mano, per combattere mortalmente con un'altra potente vena lirica e poetica. Tale lotta irrisolta ovviamente produce discontinuità e una strana, molto originale, forma narrativa.

Ma F.C. avverte chiaramente: se uno ha una fede, un opinione un concetto può essere, anzi "è nel giusto" e, nello stesso tempo non lo è, e, soprattutto non deve avere la pretesa di esserlo. Non è un semplice relativismo dell'osservatore ma mi sembra relativismo, non integralista, individuale, però rispettoso dell'altro. Nicchie separate, eppur possibili, vera fede, non fede, Dio, non Dio esistono e coesistono non in impossibili ed improbabili unioni ma come concetti -limite, esistenziali e personali (probabilmente tutti "paradossali")

La sofferenza del mantenere un tale posizione ideologica, (ma direi anche "morale") si sente tutta nella disuguaglianza dei vari racconti, alcuni mi hanno entusiasmato, altri molto meno in quanto più "prevedibili", ma, e non so se sono nel giusto, credo che F.C. sia ben consapevole di ciò, che faccia parte del gioco che non è un gioco, della sua "estraneazione" alla sua stessa persona, della molteplicità di pensieri e forme della realtà, che è una vera e propria filosofia espressa anche nel suo sito (scelta niente affatto nichilista ma assai "morale" in quanto, se coltivata e perseguita con coerenza, rispetta e valorizza anche le differenti opinioni, proprio perché, in fondo, non le considera "differenti" ma "possibili".).Ci sarebbe ancora da dire perché ho scelto i racconti che qui vedete dalla sua interessante raccolta che invito caldamente a leggere e rileggere integralmente nel suo sito….Ma non lo farò, perché almeno questo chiedo al lettore che è passato dal mio sito e ,spero, soprattutto da quello di pensieri multipli che COMPRENDA e se non comprenda INTUISCA e se non intuisca RAGIONI e se non ragioni, indaghi, quasi a fiuto, sul filo sottile, forse invisibile, che collega questi racconti al mio sito e sia anche in grado di dire criticamente che io sto dicendo sciocchezze, o forse che ho visto qualcosa che anche lui riconosce.

Basta pensare un istante all'inquietante personaggio di Arturo (un altro Arturo, dopo il toro Arturo al Brennero, i vari Arturo dei film, la miriade di maggiordomi con questo nome, e le isole, e gli Alias (vedi Arthur), la Stella, il Re, e infine io, tra gli altri molteplici Arturo possibili e generabili che in tutto questo marasma ho già perso (ammesso l'avessi mai avuta) la mia identità.

E se ti posso fare un augurio caro Franco oltre il desiderio che continui le tue ricerche filosofiche-letterarie (sono molto curioso di vederne gli esiti narrativi) è che perda ancora un po' del tuo io, per essere forse meno incisivo, ma più saggio, non per soffrire di meno, ma per farlo con quella sensibilità di artista che porta, a volte, consapevolmente, un peso superiore agli altri, senza fargliene una colpa o esserne fiero , non arrabbiandosi contro la normalità o il conformismo e rattristandosi solo per la volgarità ipocrita e banale di chi si fa, fino a divenirlo, stupido . Ma non sono forse anch'essi, ( gli ignavi ,i poveri "in" e "di" spirito) modalità di esistenza, forse di pensiero-multiplo?. Sono l'altro termine del paradosso e penso soffrano anch'essi della chiusura nella prigionia nella loro piccola nicchia per la quale hanno venduto gli ampi spazi della loro possibilità. Soffrono e si disperano fino all'annullamento cerebrale per la misera condizione umana che è di tutti. Come loro rischiano di cadere in tutte le trappole sociali ed economiche della società che li circonda, in fondo noi rischiamo, con pari incoscienza, di precipitare negli abissi infernali della nostra mente .

Buona lettura, cari navigatori attenti a non perdervi e ….occhio alle penne, in questi racconti c'è molto Fuoco!

Arturo F.

INDICE

1 Note ed antefatto

2 Presentazione critica

3 La risposta dell' Autore

4 I racconti:

Lo scacco- Il filosofo- Il limone il mandarino e lo spettro - l'Altare

 

LA RISPOSTA

Osservazioni "autentiche" sulla lettera aperta

Caro Arturo, inizierò dichiarandoti la mia sorpresa. Non credevo che avresti letto i miei racconti così! In effetti non mi ero sbagliato: non hai letto accuratamente, hai penetrato i miei racconti. La tua presentazione critica ai miei racconti scelti da te deriva da un’attentissima lettura di tutti i miei racconti e delle mie riflessioni. Pochi altri entrati tanto addentro alle mie ipotesi; nessuno lo aveva espresso tanto bene. Bando alle ciance, adesso, ho da fare delle osservazioni.

Inizierei dicendo che hai colto nel segno sulla questione del relativismo "rispettoso". Immagina un po’ di persone sedute in cerchio, a parità di livello (parità formale); immagina che ciascuno, metaforicamente, si alzi (disuguaglianza sostanziale, istinti di superiorità). Risultato? Tutti in piedi (parità sostanziale). Nell’assolutizzare le nostre posizioni, non facciamo altro che porci un gradino più su degli altri, estendendo la nostra sfera personale (il "per me"). Il rispetto sta nel rendersi conto che analoga operazione (probabilmente) viene eseguita dagli altri. Disuguaglianza sostanziale e parità sostanziale coesistono (paradossalmente?). Chiaramente... per me. Azzardo, qui, la citazione di un filosofo per una sua figura, a mio avviso, decisamente intrigante: Leibnitz e la sua "monade dalla finestra aperta"... mondi individuali e comunicanti, ciascuno centro del suo universo, ma con una finestra che illustra l’esistenza di altri universi pari (in quanto monadi anch’essi) al suo.

Fine conoscitore delle vicende umane (o attento ipotizzatore), hai letto oltre (o nei) dibattiti presenti sulle dualità dell’uomo: forma e sostanza, corpo e spirito, desideri immediati e traguardi di lungo periodo. Credo che sia la condizione tipica dell’uomo, il suo dolce-amaro perdersi nel volere e non potere perché vuole qualcosa incompatibile con il suo primo volere... si tocca la sua sensibilità al tempo, la prestanza del presente nell’istinto e la ragione saggia a suggerire sofferenze per più ampi traguardi. È anche la mia storia, di credente, non credente, in una condizione di ateo nella mente, religioso nella coscienza formata in anni di educazione... Tanti risultati, compromessi, forse riflettono la grande mediazione che è la persona.

In quest’ottica anche il tuo rifiuto di un mio nichilismo è giusto: i miei racconti sono immorali (non amorali) e in quanto tali hanno una loro morale, che è proprio la morale del possibile, della molteplicità, della fuga dalla costrizione della morale tradizionale.

Mi permetto una notazione su quello che più di tutto ho apprezzato: nell’invito alla lettura, l’esortazione a intuire ed indagare. Nella prefazione alla prima edizione de "Il paradosso", accennavo a questa necessità. Nei miei scritti non c’è la soluzione a dei problemi, anzi! L’obiettivo, che è poi anche quello del sito, non è di indirizzare una riflessione, ma di scatenarla: faccio presente che esiste un punto, un oggetto di riflessione (quasi sempre nel titolo) ed illustro un percorso che conduce a quel punto nel racconto. Mai si troverà una soluzione... un’uscita da quel punto: quelle che – per esigenze narrative – dovessero apparire come le mie soluzioni non è detto che lo siano in realtà (per esempio, c’è in "Dubbio" una diatriba sugli effetti dell’alcol in cui la posizione vincente dalle intenzioni del narratore è... quella contraria alla mia!). Insomma, do un punto e illustro una raggiera di possibilità che si dipartono – a 360° - da quel punto. Ognuno scelga la sua.

Concludo dicendo che la tua lettura ha già riempito di senso l’esperienza de "Il paradosso" e anche quella di Pensierimultipli, senza la quale non avremmo avuto accesso l’uno all’altro.

Grazie.

Franco Canna

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Lo scacco

 

Mi seguì. Volt, Volt... Prese l’arco e mi seguì. Entrammo nella scatola, tra la polvere e cominciammo a tirare. Vinse lui... ah, la determinazione... La verità è che io preferivo lo scacchiere. Perché avevo accettato la sfida? In fondo erano giorni già abbastanza tormentati! Quella scatola iniziavamo a vederla sempre meno, da quando Fabio – almeno così mi piace chiamarlo – aveva iniziato a giocare di nuovo con noi. Il fatto è che Volt era un soldatino professionista, non un alfiere di riserva, come me, mischiato al resto, soldatino acquisito. Eccolo, Fabio. Chissà dove mi porterà oggi... stavo bene con Volt... Non trasferirmi! Però, che strano, mi sta portando in posti nuovi. Un mare? No, non mi lascia... ma che succede?

Un lento macchinare di strategie mi si svolgeva intorno; di alcune non capivo neanche il senso, ma dovevo obbedire. Ero un alfiere del re, di nuovo. La lotta mi vedeva protagonista. Non più il pacifico Fabio governava le mie sorti, ma qualcuno che voleva vincere. Molti amici caddero, quella volta, ma vincemmo. Onestamente, preferivo perdere all’arco con Volt.

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Il filosofo

 

Meno era un tipo intrigante. Camminava sempre ondeggiando, ma sapeva il fatto suo. Sguardo brontolone, non risultava, però, antipatico a nessuno. Non aveva amici, solo tante conoscenze con le quali scambiava chiacchiere d'ogni genere. Non aveva una partner fissa né figli, e partecipava spesso a "rendez-vous" sessuali, anche di gruppo. Nel quartiere era conosciuto come il "filosofo", per quel modo così umano in cui sapeva porsi davanti ai problemi. Umano? C'è forse un modo cattivo, impietoso, disumano, appunto, in cui si possono analizzare le questioni? No, no. Umano nel senso di "proprio dell'essere umano": Meno era un cane.

Si svegliava ogni giorno di buon'ora, faceva colazione, una passeggiata per rinfrancare lo spirito e poi cominciava il suo giro, diverso giorno per giorno, presso gli "habituel" del suo quartiere. Sicuramente il più visitato dei suoi interlocutori era Scettico, un altro cane molto noto nel quartiere, il cui nome la dice lunga sul suo atteggiamento nei confronti degli altri. E anche di Meno. Proprio per questo i due chiacchieravano tanto spesso e animatamente, con Meno ad esporre le sue osservazioni o teorie e Scettico a fare, volta per volta, l'avvocato del diavolo, con contestazioni argute, ma senza mai proporre controteorie positive. Scettico era un cane di mondo e a lungo aveva girato prima di stabilirsi li nel quartiere. Aveva poche certezze terrene, tanti dubbi, e poca fiducia nella possibilità di trovare una logica alle cose del mondo o ai rapporti interpersonali. Non amava parlare di filosofia o psicologia, le cui problematiche lo avevano riguardato e interessato troppo tempo addietro, ma, ed era egli stesso a riconoscerlo, con Meno era diverso, perché le sue argomentazioni, per quanto quasi mai convincenti, erano sempre ben poste, sicché era difficile tirarsi indietro davanti ad un confronto così stimolante.

 

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Il limone, il mandarino e lo spettro

 

Durante una discussione, P. mi disse: "E così ho curvato lo spazio-tempo; ho messo in un limone e in un mandarino l’istante della morte di S. e quello di un'altra persona. Ho messo i due frutti secchi in quel vaso cinese che hai visto allo studio, ma questa sospensione che ho praticato non può durare in eterno: il vaso potrebbe rompersi, non so, cadere…"

Gli chiesi: "Ma come hai fatto a mettere un istante in un frutto?"

P. mi rispose: "Il tempo è infinito, non puoi fermarlo… allora l’ho curvato e l’ho messo lì, così che, in una nicchia di spazio-tempo, qual è un limone o un mandarino, sono riuscito a sistemare per un po’ la mia speranza che quelle persone vivano".

Proprio in quel momento, vidi, nel bel mezzo della piazza, una buccia di mandarino a terra.

L’altra persona, oltre a S. ero io. Sì, mi era venuta la brillante idea, un giorno lontano, di vendere la mia anima a P. Fosse dio o satana non me ne fregava niente: io non credo nell’ altro. Avevo guadagnato diecimila lire. Ma ora mi iniziavo a preoccupare…

Continuando la sua arringa, P. mi disse: "Vedi, le nicchie di spazio-tempo sono importanti, non sai quanto… Ti ricordi di Arturo?"

"Quello della barca? Quello che fece vedere la tua barca a quello che se la voleva comprare? L’ormeggiatore?"

"Ma quale ormeggiatore – disse ridendo -. È uno spettro!"

"Uno spettro? Un fantasma? Quelli…"

"Proprio così, uno spettro, che si chiama Arturo, o meglio, che ho chiamato Arturo perché Procida è l’isola di Arturo"

"Vorresti dirmi che credi anche nei fantasmi? La tua credibilità si riduce sempre più, caro P."

"Ma io non credo, so! Vedi, un fantasma è un’anima che, per i sensi di colpa, non si libera e si chiude in una nicchia di spazio-tempo, dalla quale da sola non può mai uscire"

"Mamma mia che cattiveria! Per un senso di colpa relativo a quarant’anni di vita terrena, passare un’eternità in una nicchia!"

"Possono uscirne, e infatti Arturo viene sempre a rompermi, ma sbaglia modo, non otterrà quello che vuole da me. Loro riescono a personificarsi quando qualcuno, in maniera consapevole o non, li chiama."

Non ce la facevo più, potevo anche picchiarlo: "Caro P, devo proprio andarmene, non dirmi niente, magari continuiamo un’altra volta".

P. ci rimase male. Me ne andai.

Ero preoccupato. Lo ero già quando mi disse che aveva messo la mia anima era in quel mandarino e poi nel vaso: è pericoloso unire una cosa senza valore ad una cosa ben più importante, un vaso e la mia anima; lo ero ancor più adesso: e se P. si fosse indispettito e, per fare un dispetto alla mia anima, avesse rotto quel magnifico vaso cinese?

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L’altare

 

Dormivo sopra una panca di legno, in mezzo ad un prato, quando ad un tratto mi svegliò Lulù, una donna dai capelli blu e dal viso tondo.

E mi condusse su per un pendio, dove l’erba si trasformava in fiori lilla e gli arbusti in alberi secolari… salivamo senza parlare, su, su, su, dove i fiori lilla si trasformavano in nuvole e gli alberi secolari in raggi di luce. Poi Lulù si fermò: eravamo davanti a due colonne greche tra le quali spiccava un tavolino trasparente e due nuvolette particolarmente dense. Ci sedemmo uno di fronte all’altra a gambe incrociate con i gomiti sul tavolino, a sorseggiare un tè. Quello era l’Altare del Discorso, su cui Lulù aveva deciso di sacrificarmi. Iniziò a parlare, ma io, vittima felice, non sentivo, mi estraniavo, mi allontanavo giù per la collina, attraverso gli alberi ed i fiori e l’erba e gli arbusti, fino alla panchina, pur continuando a vedermi lassù, seduto al tavolino a parlare con Lulù… e vedevo che io, Arturo, sentivo e discutevo accoratamente con la donna, che stavo bene, vittima su quell’Altare. Ma io no, ero giù sulla mia panchina di legno, e tornavo di nuovo a dormire per risvegliarmi, forse, di nuovo alla voce di Lulù. O forse era stata l’ultima volta.

FoscaFosca Massucco

(dalla rivista il "Vascello Ebbro") anno 1.n.2 vedi note finali dell'Antologia di Iperspazio Poesia

DIETRO IL SIPARIO DI UNO SPETTACOLO DI MARIONETTE

Dalla finestra non avevo mai visto le nubi correre a quel modo, pazze, schiacciate e stirate dal vento. Attento com'ero a queste corse frenetiche, non mi accorsi che il Padrone, entrato con passi leggeri, aveva posato un sacco in un angolo del nostro stanzone. Le altre non si mossero, certe di cosa era successo, forse superiori alla mia curiosità, forse riluttanti nel veder rispecchiare in un' altra marionetta la loro storia. Ma io ero ancora nuovo a questo rituale e per di più ero curioso di sapere chi celasse quel sacco. La luce della Luna, interrotta a tratti da nuvole danzatrici, mi mostrò due occhi di principessa e capelli simili a una cascata di monete dorate. Svelai presto a me stesso l' amore per quella sventurata creatura, marionetta come me….Non ebbi il coraggio di far sbocciare quella principessa dal suo sacco e farle conoscere la nostra Stanza della Quiete. Così quando il Padrone ci raccolse per un nuovo spettacolo, ero di nuovo nel mio angolo a scrutare la corsa dei venti e delle nuvole. Per conoscerci, in fondo, c'era tempo.

 

STORIA DI UN GIULLARE

In una piazza uno spicchio di popolo aveva attorniato il giullare pazzo e, schiamazzando, attendeva l'inizio del suo spettacolo. Ma proprio non era giorno, il giullare rimaneva silenzioso e fermo, seduto a gambe incrociate, a capo chino ed il suo strano cappello con una enorme piuma viola ondeggiante nel vuoto davanti a lui, gli parava gli sguardi ansiosi e trepidanti di tante faccie uguali. Non avrebbe cantato quel giorno, né parlato, suonato o gridato come al solito, contro tutti e tutto, perché si sentiva per una volta normalissimo, si sentiva "tutto" e "tutti". Il suo liuto giaceva trascurato pochi passi alla sua destra e due cani, fermi ed incuriositi, annusavano la sua storia e la sua arte. Non avrebbe cantato perché nulla aveva da dire. Troppe volte aveva cantato le donne dei signori, le taverne e le sorgenti. Come si aspettava, quella popolazione di stracci sciamò velocemente ai lati della piazza, incanalandosi in piccole strade e scomparendo insieme a brontolii di lamentela. E lui, solo. Insopportabilmente solo senza, mai più, la gratificazione del suo disgraziato pubblico. Oppresso, schiacciato e deformato dall'idea, fulmineamente egli dissolse la sua battaglia in una sconfitta dolorosa. E mentre le corde e la voce intonavano ancora una volta "….le donne dei signori….", il popolo sorridente, attratto da quel suono, si dirigeva ancora una volta verso di lui e, rimanendo invischiato insieme, formava un nuovo cerchio attorno al suo giullare così quotidianamente pazzo.

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Enzo Chiattone

(dalla Rivista "Il Vascello ebbro"anno 1 n.2)

ALLUCINAZIONE

"Mi sveglio d'improvviso, come caduto dal letto. Sento in effetti il freddo pavimento sotto il mio corpo, inspiegabilmente fattosi leggero, quasi insensibile. Rimango lì, per terra (per aria ?) qualche istante, annebbiata la vista e gli altri quattro sensi. Mi sollevo sui gomiti in preda ad uno stupore paralizzante quando, nella luce zebrata della persiana(è senz'altro già mattino inoltrato)mi accorgo che ciò su cui poggio supino non è altro che il soffitto candido della mia stanza. Spalancò gli occhi instupidito e scorgo sopra di me (o sotto?) la scrivania capovolta, là, sul pavimento con la lampada da lettura inverosimilmente ripiegata verso l'alto. Anche le lenzuola, aggrovigliate sul letto vuoto, segno inequivocabile di una notte difficile, pendono flosce ai suoi piedi verso le scure piastrelle del pavimento-soffitto.

 E così le frange delle tende, il garofano di stoffa appeso alla chiave dell' armadio, i lembi della camicia battuta sulla sedia, i fogli sporgenti dagli scomparti dello scaffale sembrano tendersi con spasimo gravitazionale all'insù.

Eppure lo fanno con naturalezza loro propria, sembrano rivendicare la loro legittimità del loro essere sotto-sopra. Posso io dimostrare di essere nel giusto, ipotizzare sotto di me, al di là delle tegole milioni di tonnellate di terra, premessa essenziale della gravità, anziché lo spazio infinito !? Tali pensieri ed un sentimento di imbarazzo, di smarrimento caratterizzano il più strano risveglio della mia vita. Certo è che intuii, osservando con inusitata attenzione la robustezza dell'armadio-guardaroba, la quantità di volumi riposti sull'enorme scaffale (ricevere sulla testa anche uno solo di essi sarebbe da trauma cranico!), i pesanti piedi di ferro del letto dal quale inspiegabilmente mi ero staccato poco prima, tutto sospeso tre-quattro metri sopra il mio naso, intuii dicevo che cosa doveva aver provato Damocle sotto l'incombere della mitica spada. I suddetti mobili sembravano tuttavia essere stabilmente piantati sulle piastrelle, così penne e matite rimanevano conficcate nell'apposito contenitore, il libro di Buzzati incollato al comodino dove l'avevo lasciato, le carte stropicciate incastrate nel cestino, il quaderno aperto (che cosa vi avevo scritto la sera prima?) degli appunti aderente al piano della scrivania. Tutto pareva trattenuto lassù, ad una manciata di metri dal mio naso attonito, da un collante prodigioso.

Da una parte mi guardavano con fisso stupore, capovolti, i visi fanciulli di me e mio fratello nella foto poster in bianco e nero scattata ai viali anni addietro. Il poster, incollato sul pianoforte, si reggeva precariamente in bilico su un unico chiodo e dava l'impressione di doversi capovolgere a destra o a manca da un momento all'altro.

Immerso mio malgrado in questa atmosfera di assurdi equilibri ed improbabili sospensioni di pesi, decisi finalmente di alzarmi (abbassarmi ?) a testa in giù. Nel gesto scomposto urtai qualcosa al mio fianco: voltandomi di scatto, non senza inquietudine, vidi che il pallone di carta crespa del lampadario aveva infatti preso ad oscillare ed il suo dondolio pareva nascondere un fondo di rimprovero e compassione insieme, come volesse dirmi: "Non ti accorgi che sei Tu ad essere fuori posto ?" Ciò non poteva che essere vero, escludendo a priori cataclismi, trombe d'aria o simili (i muri erano infatti integri, non la minima crepa ne rugava la superficie).

Non era certo neanche un caso di pre-morte nel quale, dice chi l'ha sperimentato, avrei visto dall'alto il mio corpo incosciente. Il letto risultava invece disfatto e vuoto, come mi fossi alzato poco prima, ma invece di essere al bagno o in cucina per la colazione ero finito, chissà come, lassù, sull'intatto candore del soffitto.Non pensai nemmeno per un attimo di raggiungere la corda della persiana per aumentare la visibilità. Ci vedevo a sufficienza e poi che cosa avrebbe pensato di me la vicina, uscita sul balcone a stendere la biancheria? E suo marito, senz'altro già nell'orto a vedere se le verdure crescevano sane ? Si sarebbero probabilmente voltati al gracchiare della persiana ed avrebbero visto, non un' assonnata figura a mezzo busto, bensì una testa spaurita pendere macabramente da dietro la finestra. Come avrebbero reagito ? Oppure anche a loro era successa la medesima sventura. Possibile però che nessuno avesse urlato, che stessero ancora dormendo, levitati nottetempo come inconsapevoli fachiri, su, fino al soffitto senza destarsi ?Mi aspettavo quindi di udire un urlo che squarciasse l' attesa. D'improvviso eccolo, soffocato e rotto : dunque non sono il solo, non è una congiura ordita nella notte e da chissà chi per danneggiare esclusivamente me, non mi tocca rivivere in tragica solitudine la vicenda di una metamorfosi kafkiana, la sconvolgente avventura di un Mr. Hyde coi piedi all'insù, costretto a sorbire pozioni ed antidoti fumanti per procacciarsi la normalità (ah quale perverso processo psichico ci induce a gioire del mal comune, dimenticando la disgrazia che ci investe !) Quell'urlo frammentato, rauco, continuava regolare, irreale. Quasi inumano, quasi di ferro…contro la terra: mi accorsi infatti, con accresciuto smarrimento, che non era un grido d'angoscia e disperazione, ma la zappa del mio vicino ,che stava spaccando le zolle nell'orto, proprio sotto la mia finestra.

Scostai appena le tende ed eccolo lì, dietro le fessure della persiana, che vangava, non un segno di anormalità sul suo volto indifferente; la zappa cadeva grave sulle zolle pesanti che si sbriciolavano sul terreno. La gravità funzionava. Questa novità cioè che nulla di nuovo era accaduto agli altri, mi sprofondò in un baratro di sudori freddi simili alle fiamme della dannazione. Ma Satana dov'era ?Un nemico, fosse stato anche il Maligno in persona, mi avrebbe comunque dato una spiegazione e una fatua speranza: un presentimento di via d'uscita, se fossi sceso a patti con lui. Tuttavia mi accompagnava in quell'abisso alla rovescia una sensazione, l'illusione che rapisce talvolta gli uomini negli eventi più disperati e li induce a reagire. Sotto tale veste mi si presentava la persistente impressione che la soluzione del caso era da ricercare nella stanza stessa, tra gli oggetti improvvisamente muti, impassibili.

Certo qualcosa mi teneva relegato al soffitto, qualche cosa che si nascondeva nel consueto disordine di libri, riviste, sigarette, monete, fotografie, fogli (che cosa avevo scritto la sera prima sul quaderno ?).

In preda a questa fissa convinzione, occhi attenti a fissare ogni più piccolo particolare fuori posto, cominciai ad esaminare tutto…. E tutto sembrava innocuo: le cicche spente nel portacenere, gli intagli di mio fratello alle pareti, stranamente enigmatici visti così alla rovescia, la borsa di fianco alla scrivania, la sedia girevole: tutto invaso dalla staticità ovvia negli oggetti inanimati. Sulla scrivania, ancora aperto, il quaderno sul quale la sera prima avevo scritto alcune pagine. Non ricordavo e d'altra parte la distanza mi impediva di leggervi. Bastò questo: era l'ultima incertezza, l'ultimo problema insoluto, granello di polvere su una vasta superficie cristallina. Così concentrai la memoria su quei geroglifici. Ripercorsi mentalmente decine di volte il rientro della sera precedente. Non vi trovai nulla: ricordavo di essermi messo a tavolino ed aver scritto di getto quelle pagine. Del contenuto non il più sbiadito ricordo.

Fallito quel tentativo, decisi di impegnare la vista dove aveva fallito la memoria. Mi arrovellavo, eppure niente: quelle pagine rimanevano mute, indecifrabili. Ma ormai ero infervorato, sicuro che lì c'era la soluzione. Cominciai allora a spiccare salti come un pazzo per avvicinarmi il più possibile al quaderno. Uno. Doveva esserci un titolo. Due. Cominciava per "A"? Tre. Forse "ALL" Quattro:"aluc….lucin….ALLUCINAZIONE! Fu come se mi si rivelasse tutto in quel momento, come se la memoria si squarciasse e uscisse d'un tratto il significato delle pagine. Nel salto ebbi la sensazione di precipitare, la scrivania mi si scaraventò contro, i fanciulleschi volti del poster, rimasti in bilico fino ad allora, compirono una semigiravolta, mobili libri, riviste penne monete carte mi vennero addosso in uno schianto.

La vanga sotto la finestra per un attimo si fermò. Silenzio. Poi riprese ritmicamente. o, ora, ero per terra sulle scure piastrelle del pavimento vero con un forte mal di testa, inebetito dal trauma, tra alcuni fogli volati in aria e riatterrati. Il lampadario sul soffitto oscillava. Mi sollevai e mi misi a sedere, ancora mezzo stordito, Per sicurezza (o per burla?) presi un centolire e lo lasciai cadere ai miei piedi. La moneta roteava rumorosamente su una piastrella. Alla scrivania, sul quaderno, c'era già scritto questo racconto, a cui ho dovuto solamente apporre la mia firma : Enzo Chiattone

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Alberto Scanavacca

IL LAGO

 

Mi chiedo cosa spinga la gente a recarsi in quei luoghi  che la fantasia vuole popolati di fantasmi. Si sta tanto tranquilli a casa davanti alla TV, perché immergersi nell'oscurità di un bosco o nell'odore acre di una vecchia casa abbandonata? Forse per mettere alla prova quella razionalità che contraddistingue la nostra epoca oppure, più semplicemente, per vincere la noia. Ma la noia non è forse meglio della paura? Dove sta il bello nel sentirsi pulsare il cuore in gola? E poi basta ragionarci su un momento: non c'è motivo per avere paura, sono tutte balle per gli sciocchi!

Scommetto che molti di voi la pensano così. Vi vedo,  armati di cinismo, pronti a combattere le orde della superstizione. E se potessi ancora ridere, vi giuro che riderei di voi; e riderei anche di me stesso ché per lungo tempo sono stato nei vostri ranghi. E ora sono qui, in uno di quei posti bui, dove "tanto non c'è niente". Bè, forse non c'è niente davvero, perché non penso di essere ancora qualcuno o qualcosa. Ormai probabilmente sono solo un incubo, io sono colui che non è.

Ma continuo a chiedermi cosa ci ha spinto, quella sera maledetta, a scavalcare quella sbarra di ferro e ad avviarci per quel sentiero melmoso. "La gente dice che in quel posto accadano strane cose" - qualcuno (che ora non è più) disse e altri risero e dissero "Andiamoci!". Io ero fra loro. E ci andammo...

Probabilmente è inutile che racconti la nostra disgrazia: le dicerie  si saranno sprecate. E forse qualcuno sta venendo qui, per provare che non è vero niente, che questo è un posto come tutti gli altri. Ma spero che sentirla dalla mia voce (anche se voce non è più, ma qua non esistono parole e devo usare le vostre) possa tenervi lontano da qui. O forse sprecherò quello che non è più il mio fiato: esiste la schiera - di cui io un tempo facevo parte - di coloro che dichiarano di aspirare alla Virtù, alla Grazia e al Bello, mentre sono attratti dalla Decadenza, dalla Precarietà e dal Grottesco. Molti di loro non potranno resistere e, ignorando i consigli della sbandierata ragione, verranno in questi luoghi. E qui di posto ce n'è per tutti.

Mi  ricordo  ancora quella sera di marzo, inverno finito e primavera ancora da venire, quando arrivai qui (ormai sono solo ricordo o, come vi ho già detto, non sono). Era mezzanotte (e lo era veramente, non lo dico per impressionarvi, ché tanto non ho bisogno di inventarmi nulla per farlo). Parcheggiai la macchina ai piedi della salita; appena spenti i fari, una tenebra profonda ci avvolse, tanto che faticai non poco ad infilare la chiave nella serratura della portiera.

Cominciammo a salire per quella strada stretta, i piedi affondavano nel fango; di tanto in tanto si udiva lo schiocco secco di un ramo che si spezzava sotto il nostro peso. L'ilarità di pochi minuti prima lasciò spazio ad un silenzio pesante. Finalmente P. lo ruppe e raccontò la storia di quei due ragazzi morti nel lago, una notte di trent'anni prima. Dopo che ebbe terminato, nessuno commentò. E ricadde il silenzio. I miei sensi erano eccitati: gli occhi tentavano di bucare il buio; l'udito raccoglieva ogni rumore; le mani sfioravano l'aria e i rami bassi delle acacie, in quel tempo ancora spogli; e l'olfatto era ferito da un odore acre. Semplici sensazioni che, nella mia mente e in quella dei  miei  tre compagni, si trasformavano in oscuri presagi. Ma nessuno di noi volle ascoltarli. E proseguimmo.

Dopo alcuni minuti di cammino, scorgemmo una massa scura alla nostra sinistra. Ci avvicinammo: era il capanno degli attrezzi. Guidati dall'istinto, alzammo lo sguardo: la villa si stagliava, bianca e possente, contro il cielo senza luna. Era circa cinquanta metri più in alto e, appollaiata sulla roccia, incombeva su di noi. R. balbettò qualcosa sulla razionalità, ma nessuno gli diede ascolto. Vicino a noi scorgemmo l'automobile di cui parla la leggenda. Volevamo avvicinarci, ma nessuno voleva essere il primo. Nessuno si mosse: eravamo come ipnotizzati dai fari rotondi di quella vecchia auto. Avevano qualcosa di insolito ed inquietante: la macchina era vecchia, arrugginita e impolverata, mentre quei fanali erano lucidissimi e risplendevano nel buio, come se le stelle convogliassero la loro poca luce unicamente in quel punto. Nessuno si avvicinò. E si ripresentarono con nuovo vigore i tristi presagi. Quasi all'unisono manifestammo la volontà di tornare indietro; contemporaneamente ci inoltrammo nelle tenebre, verso il lago.

L'acqua, nera come la pece, era raccolta in un anfratto roccioso, proprio sotto la villa. Senza dire una parola, in fila indiana, salimmo sullo stretto muricciolo di pietra che fungeva da argine e ci sedemmo, volgendo le spalle all'acqua. Il terreno era alcuni metri più in basso, ma le tenebre non ci permettevano di quantificare il dislivello. Dietro, il lago; davanti l'oscurità poteva nascondere un fosso o un baratro: i presagi divennero quasi certezza. Nessuno parlò. Di fianco a me, F. si accese una sigaretta, e subito la spense. Si sentivano lievi fruscii, lontani stridori. Si stavano avvicinando poco a poco. Davanti a noi un grosso olmo spoglio spuntava dalla voragine; percorsi con lo sguardo il suo tronco dal basso verso l'alto; incontrai un ramo che sembrava un enorme dito che indicava. Ma cosa? In cuor mio probabilmente lo sapevo, mi voltai e ne ebbi conferma. Indicava il centro del lago, dove l'acqua era più torbida.

Mi accorsi che anche i miei amici stavano fissando quel punto. E i fruscii e i suoni striduli provenivano proprio da lì. E sembravano bisbigli e lamenti. Ed erano sempre più forti. Senza dire una parola, ci alzammo in piedi. Con calma ci spogliammo, ripiegammo i vestiti con assurda meticolosità e li adagiammo su una roccia. Compimmo queste operazioni senza distogliere lo sguardo dal centro del lago. Respirammo profondamente, ci sedemmo sul bordo e, con lentezza quasi sacra, ci lasciammo scivolare in acqua. Nuotammo verso il punto indicato dal vecchio olmo, ci prendemmo per mano. Guardai i miei amici e mi tornò alla mente la vecchia auto: i loro volti erano emaciati e stanchi, ma i loro occhi brillavano di una luce inspiegabile. L'acqua prese a mulinare, prima lentamente e poi sempre più veloce. Tutto mi si confuse.

Finalmente la massa oscura si richiuse su di me.

Alberto Scanavacca

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ARTURO F.

artfer@tiscalinet.it

Buon San Valentino, amore.

(I miei burattini si ribellano)

dedicato a tutti gli innamorati

I corpi che si frugano, le lingue che si cercano (senza trovarsi) ma non c'è piacere. C'è solo orrore e retorica, quelle ipocrite abitudini che, come parole, ci fanno continuare. In fondo è normale, siamo un uomo ed una donna, forse ci piacciamo, anche se siamo manovrati e dei pezzi di legno, in fondo. Non c'è nessun mistero, una squallida inquietudine nell'atto che sembra automatico attraverso il quale infinite esistenze, passate, presenti e future sembrano rispecchiarsi. Un atto quasi ignobile e furtivo, senza dignità e responsabilità, in cui, entrambi abbiamo fretta di finire, forse per pensare più che dire (non siamo così ipocriti da pronunciare :"- E' stato bello -"Forse lo sarà nella nostra mente quando ognuno cancellerà l'immagine pseudo reale dell ' altro e dimenticherà quei corpi sgraziati e goffi che si confondevano nell'unione, mitizzerà,( come succede nel vero amore) ogni cosa e penserà che in fondo nessuno dei due ha la responsabilità dell'altro e che una o più mani, non necessariamente dello stesso essere, ci manovrano. Tutti i gesti compiuti saranno pensati per reciproco affetto che è solo un desiderio di fuga oltre i fili assurdi che, nella nostra unione, si sono intrecciati ed hanno legato, ancora di più, i nostri movimenti, oltre il presunto padrone che odiamo-amiamo. Pensiamo forse ad un nuovo spazio, oltre il teatro, dove non saranno solo i corpi a tentare un unione ma i pensieri, le anime. Tuttavia siamo di legno. Queste follie forse ci permetteranno di continuare fino al prossimo tradimento (è persino esagerato chiamarlo così), in fondo quale colpa abbiamo delle ignobili trame che ci fanno recitare ?) quando semplicemente un ' illusione più potente avrà preso il posto di un ' altra.

E forse con maggiore impudicizia e volgarità, per compensare la mancanza di sentimenti (ogni volta più tragica ed assurda) consumeremo i nostri giorni in scena non più con innocenti giochi ed esperimenti ma con atti ormai divenuti convenzioni, doveri ed impegni anziché scelte d'amore. (copioni stanchi e troppo visitati)

E' vero siamo sempre più miseri, tristi e solitari, con maschere che vorrebbero farci recuperare il tempo perduto e, ancor di più, quando siamo immobili e lontani uno dall' altra, nonostante il nostro amore che, in fondo, è quasi vero, essendo stato scritto prima di noi, per noi, come l'ultimo atto di una tragica commedia o il primo di una comica tragedia che è la nostra e la vostra casa di spettatori.

Ma Arturo, che ha scritto le nostre parti con la disabile mente del cuore solitario fingendo di non comprendere il nostro desiderio di unione e di morte e di amore ed unione vuole, oggi, proprio oggi, con amara ironia, fare pronunciare ad uno qualsiasi di noi o ad entrambi questa frase:

"Buon San Valentino, amore"

Passi per il "San Valentino" ma, letterariamente parlando e umanamente vivendo, questa ultima parola "amore", in questo contesto e date le premesse fatte fin ora è talmente squallida e volgare da riscattare la nostra intera legnosa esistenza .

Abbiamo deciso, NON LA PRONUNCEREMO. Questo "NO" è la nostra sola libertà possibile, al di là della scena, dove la nostra forza è la disperazione dell ' assenza-presenza che la recita-vita produce ed induce. Ma non è forse più rigido di noi, negli atti e nel pensiero, Arturo (è uno dei burattinai ?) che, pur sapendo, finge di non comprenderci e di non essere, in fondo, come noi, come voi….

Scritto il giorno di San Valentino 2001 da Arturo F.

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Ciao Arturo, eccoti il brevissimo dialogo fra me e me!

Paola R.

Dialogo fra due viandanti

-Chi sei tu?

Ti vedo andare per la tua strada senza amore… gli occhi indecifrabili… uno scandaglio che torna alla luce insaziato da ogni profondità.

Cosa cercavi là sotto?

Il tuo petto non sospira, le labbra nascondono il disgusto e la mano avida di ragno nero si allunga per afferrare ancora chissà che.Chi sei tu? Che facevi laggiù? Riposati qui… Riposati e, chiunque tu sia, adesso, cosa vorresti?

Cosa vorresti, dimmi, per ristorarti?

Ciò che ho di più caro te lo offro.

Per ristorarmi, dici?Per ristorarmi?

-Per ristorarti, certo.

-Quello che hai di più caro vorresti cedermi?

Vorrei, sì, con piacere!

Che faccia piacere anche a te darmi?

Se si può!

Allora dammi un’altra maschera e se ti fa piacere offrimi la tua.

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(finche non si spengono le stelle)

L'Antologia

attende nuovei brani....

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