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"I MODELLI DELLA SCHIZOFRENIA E I SINTOMI BASE"

 

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Recensioni bibliografiche 2003  

 

 di Massimo Di Giannantonio1, Giuseppe Di Iorio2,

 

 Silvia Dongiovanni3, Maria Rosaria Grimaldi4

 

 




 

Novità - News

(1) Professore Ordinario di Psichiatria presso l’ Università “G. D’Annunzio” di Chieti, direttore Centro Salute Mentale, ASL Chieti

 

(2) psichiatra, Centro Salute Mentale, ASL Chieti

 

(3) in psicologia, tirocinante presso il Servizio di Psicologia Clinica, ASL/LE       

 

(4)  psichiatra, Dipartimento Salute Mentale, ASL/LE


 

 

Rivista Frenis Zero

 

“ Il delirio propriamente detto non è che la reazione

obbligatoria di un intelletto ragionante, e spesso intatto,

 ai fenomeni che promanano dal suo subcosciente”

(De Clèrambault, 1920) 

 

    

   

STORIA DELLA SCHIZOFRENIA ED EVOLUZIONE DEL CONCETTO

Maitres à dispenser

 

 

La schizofrenia è sicuramente il più studiato ma anche il più discusso dei disturbi mentali. Da oltre un secolo, infatti, è sempre stata al centro dell’attenzione di tutte le scuole di psichiatria, soprattutto per i complessi problemi psicopatologici, nosografici, patogenetici e terapeutici che ha posto e che continua a porre ad ogni generazione di psichiatri.

La schizofrenia costituisce, infatti, l’archetipo della malattia mentale per gli importanti fattori che la costituiscono: la grave alterazione del funzionamento, l’uscita dal senso comune e l’ingresso in un mondo incomprensibile, ma soprattutto per il decorso che oscilla tra l’imprevedibilità e l’ineluttabilità.

La nascita del concetto di schizofrenia nella sua struttura sindromica attuale è dovuta a E. Kraepelin[1], il quale, nel suo Trattato di Psichiatria del 1893, descrisse un gruppo di disturbi, apparentemente eterogenei, come facenti parte di un medesimo processo morboso, con insorgenza in età giovanile e con un progressivo decadimento di varie funzioni psichiche, fino ad una condizione simile (ma non uguale) a quella delle demenze di origine organica.

  Foto: Emil Kraepelin

Kraepelin chiamò questa sindrome Demenza Precoce. La sua innovazione consisteva nel considerare quadri sintomatologici iniziali apparentemente diversi come facenti parte di un medesimo processo morboso.

Tuttavia, questa classificazione pose non pochi problemi.

Eugen Bleuler, nella sua monografia del 1911, fece notare che non tutti i pazienti avevano un esito in deterioramento e che l’età di inizio non poteva essere considerata un elemento specifico.

Egli propose un distinguo tra i sintomi sia dal punto di vista clinico-descrittivo: fondamentali ed accessori, sia dal punto di vista della derivabilità psicologica: primari e secondari.

I sintomi fondamentali (dissociazione ideica, autismo, deterioramento) sono caratteristici della schizofrenia; quelli accessori (disturbi percettivi, deliri, disturbi della memoria, della personalità) compaiono in altre sindromi. Inoltre, un sintomo definito “fondamentale” ha un peso diagnostico molto superiore rispetto ad un sintomo “accessorio” anche se è quest’ultimo a dominare il quadro clinico.

In sostanza, il modello interpretativo di Bleuler presuppone l’esistenza di una alterazione primaria ed essenziale comune a tutte le forme e le manifestazioni della malattia che si esprime, a livello clinico, con sintomi specifici. Le alterazioni funzionali e strutturali, poi, sono una necessaria conseguenza dell’alterazione primaria.

   Foto: Eugen Bleuler

I sistemi di classificazione proposti da Kraepelin prima e da Bleuler in seguito, influenzeranno notevolmente la nosografia sviluppatasi nel corso del Novecento.

Timoty Crow, agli inizi degli Anni Ottanta, distingue la schizofrenia in due aree principali: forme che sono caratterizzate dalla presenza dei cosiddetti segni positivi, ossia segni psicopatologici, caratterizzati dalla floridità quali la produzione allucinatoria e la comparsa di idee deliranti. Questi vengono ad opporsi alla sintomatologia negativa caratterizzata da toni spenti, cioè segni che descrivono la linea autistica del processo psicotico (appiattimento affettivo, perdita dell’eloquio, diminuzione dell’iniziativa, anergia, apatia).

La classificazione in due aree di Crow è rimasta molto problematica nel tempo, in quanto, nella prima forma si collocano le situazioni psicopatologiche di “tipo eccitatorio”, mentre nella seconda forma quelle di “tipo depressivo”.

Tuttavia, il merito della classificazione di Crow consiste nell’aver rimesso in luce diversa il decorso come un continuum, riproponendo ciò che avevano sostenuto gli autori prima di Kraepelin.

I sintomi negativi sono fondamentali per l’individuazione della fase pre-schizofrenica e di tutti quei sintomi che possono insorgere sei o sette anni prima che si manifesti l’episodio psicotico conclamato.

Partendo dal modello teorico dicotomico o bimodale perseguito da Bleuler, Crow, Andreasen, negli anni Ottanta, si è giunti ad un modello teorico di tipo dimensionale. Infatti, la dicotomia “sindrome positiva/sindrome negativa” non poteva spiegare in modo completo tutta la variabilità della sintomatologia schizofrenica: un’ampia serie di sintomi (disturbi formali del pensiero, disorganizzazione del comportamento) non potevano essere attribuiti con certezza a nessuno dei due raggruppamenti sindromici principali. Alla fine degli anni ‘80, quindi, grazie all’utilizzo di nuove tecniche di analisi, è stata identificata in modo indipendente la terza dimensione sintomatologica rappresentata dalla disorganizzazione. Questo nuovo approccio alla descrizione della sintomatologia schizofrenica è di natura più pragmatica.

Alla base di tale modello sussiste il concetto di dimensione psicopatologica, ovvero un’area di funzionamento alterata che è descritta da un insieme di sintomi che concorrono alla sua identificazione con un peso differenziale. Le dimensioni psicopatologiche sono ipotizzate sia in base all’osservazione clinica, sia attraverso la tecnica statistica dell’analisi fattoriale. Questo modello si è dimostrato particolarmente produttivo nel caso della schizofrenia.

Inizialmente, le dimensioni erano identificate su base prettamente clinica ed era stata proposta una “dicotomia dimensionale” basata sulla distinzione tra “sintomi positivi” (sindrome positiva) e “sintomi negativi” (sindrome negativa). A queste due dimensioni erano stati attribuiti decorsi, esiti, terapie farmacologiche e meccanismi patofisiologici differenti.

Anche se questa dicotomia psicopatologica ha rappresentato un riferimento utile per la sperimentazione di nuovi farmaci, negli ultimi dieci anni, il modello dimensionale è divenuto più complesso con l’introduzione  di tre principali componenti nel quadro sintomatologico della schizofrenia, a cui sottendono altri meccanismi patofisiologici correlati tra loro.

La prima dimensione psicopatologica è definita come trasformazione della realtà ed è caratterizzata dai “sintomi positivi”(deliri ed allucinazioni).

La seconda dimensione è definita come impoverimento ed è caratterizzata dai “sintomi negativi” (ipoaffettività, alogia, perdita della progettualità, asocialità).

La terza dimensione, infine è caratterizzata dalla disorganizzazione del pensiero e del comportamento.

La nuova descrizione del modello dimensionale ha incrementato il numero degli studi e quindi la comprensione della schizofrenia. Innanzitutto, ha permesso di ipotizzare, ma anche di dimostrare, come ad ogni dimensione psicopatologica possa sottendere uno specifico meccanismo patofisiologico e come ogni dimensione possa rappresentare uno specifico target per la terapia farmacologica.

Sul piano della conoscenza e dell’interpretazione del disturbo, l’approccio dimensionale permette di creare modelli basati su un numero limitato di variabili e, quindi, ipotesi patogenetiche più semplici e più facilmente valicabili, e di valutare meglio l’ipotesi di un continuum psicopatologico con altri disturbi psichiatrici. Le dimensioni che caratterizzano la schizofrenia possono, infatti, evidenziarsi anche in altri disturbi categoriali (ad esempio nei disturbi dell’umore).

Sul piano della ricerca dei correlati biologici, l’approccio dimensionale permette di ottenere analisi di correlazione fra elementi psicopatologici e variabili biologiche molto significative. L’analisi dimensionale permette di isolare gruppi di pazienti schizofrenici omogenei per la presenza dominante di una dimensione psicopatologica significativa e di analizzare in modo più preciso il possibile  correlato biologico che sottende a questa specifica dimensione.

L’approccio dimensionale, inoltre, è di fondamentale importanza per la comprensione del concetto di spettro schizofrenico, introdotto da Kety nel 1976.

Inizialmente tale termine designava tutti i disturbi che avevano un comune determinante genetico. Infatti, Kety osservò che i figli biologici di madri schizofreniche  adottati da famiglie normali presentavano una maggiore incidenza di schizofrenia e una maggiore incidenza di tratti di personalità di tipo schizofrenico. Questo indicava che una stessa costellazione genetica condizionava sia la malattia conclamata, sia un insieme di tratti temperamentali che non si manifestavano necessariamente in uno specifico disturbo schizofrenico. Queste ultime forme vennero, quindi, inquadrate a livello nosografico, come forme attenuate facenti parte di un medesimo spettro.

Un’altra osservazione riguarda la modificazione del quadro sintomatologico della schizofrenia in funzione dell’età di insorgenza: l’allontanamento progressivo dall’età tipica di insorgenza della schizofrenia, porta ad un inquadramento nosografico differente delle manifestazioni considerate “atipiche” per la schizofrenia.

Inoltre, anche i tempi di insorgenza della schizofrenia condizionano il quadro clinico, la prognosi e la risposta terapeutica, tanto da inserire i casi ad inizio acuto in un quadro nosografico differente da quello del disturbo indice.

Da queste osservazioni si evince, quindi, che un insieme di disturbi facenti parte di quadri nosografici differenti, siano in realtà l’espressione di uno stesso processo morboso, in cui alcune determinanti (genetica, età di insorgenza, rapidità di comparsa dei sintomi) assumono un significato patoplastico specifico.

Successivamente alle osservazioni effettuate da Kety, emerse una difficoltà nell’individuazione dei fenotipi dei disturbi psichiatrici.

Per risolvere il problema dell’esatta identificazione dei fenotipi, si è quindi allargato il concetto di spettro fino all’inclusione di tutti i disturbi che , rispetto ad un disturbo indice, si presentano con caratteri fenomenologici simili ma non esattamente coincidenti con esso. In sostanza, sono delle “varianti” del disturbo indice che hanno alcuni elementi in comune con esso e fanno, quindi, parte del medesimo gruppo di disturbi (es. “spettro schizofrenico”).

Oggi, esistono diversi criteri per la definizione di uno spettro e l’inclusione o l’esclusione da esso: la definizione e la descrizione in modo univoco del disturbo indice che denomina lo spettro; i sintomi o caratteristiche “essenziali” del disturbo indice e il riscontro di questi stessi sintomi in altri disturbi.

Attualmente si preferisce utilizzare il termine di “sintomi caratteristici” del disturbo schizofrenico per indicare quei sintomi la cui presenza /assenza permette di effettuare una diagnosi differenziale. I sintomi caratteristici, quindi, hanno un valore sommatorio ai fini diagnostici.

 

 

 

 

 

 

 

 

                

UNA LETTURA FENOMENOLOGICA

 DELLA SCHIZOFRENIA

 

 

Parallelamente alla psichiatria classica, nei primi anni del ‘900 si sviluppa un approccio fenomenologico alla malattia schizofrenica. La pubblicazione di “Allgemeine psychopathologie” di Karl Jaspers, nel 1913, può essere considerata l’atto di nascita della psicopatologia fenomenologica, con l’obiettivo di riconsegnare scientificità alla vita interiore ed alle autodescrizioni dei pazienti.

  Foto:  Karl Jaspers

Secondo Jaspers, quindi, l’oggetto di studio della psicopatologia fenomenologica sono i fenomeni psichici reali. Essa, infatti, si presuppone di indagare cosa provano gli esseri umani nelle loro esperienze interne significative, come le vivono, le relazioni che intercorrono tra di esse e, soprattutto, il loro modo di manifestarsi.

Parallelamente alle riflessioni cliniche di Jaspers, anche lo psichiatra svizzero Ludwig Binswanger si accosta all’analisi fenomenologica della malattia mentale.

L’analisi di Binswanger origina, appunto, dall’incontro delle filosofie di Edmund Husserl e di Martin Heidegger e, da quest’ultimo trae la sua denominazione direttamente dalla analitica esistenziale. Secondo Binswanger è necessario superare la concezione del fenomeno psicopatologico inteso come evenienza naturale destorificata e di cogliere, al contrario, la sequenza di strutture significative che si manifestano nel disturbo psichico.

Il principio del metodo antropoanalitico è, quindi, l’analisi globale dell’uomo. Secondo tale metodo, ogni individuo possiede un proprio progetto esistenziale (“stare al mondo”), e il mondo non rappresenta uno sfondo anonimo ed impersonale, ma ogni individuo lo “colora” secondo lo specifico ed unico modo di essere. Quindi, per Binswanger, l’analisi della presenza (Daseinanalyse) permette di cogliere le diverse possibilità attraverso le quali l’uomo declina il proprio essere-nel-mondo.

Per la fenomenologia, anche la psicosi è un modo di essere nel mondo, sicuramente diverso da quello della maggioranza delle persone, ma non inaccessibile. La Daseinanalyse, allora, si propone come strumento di conoscenza per approfondire l’analisi dei sintomi e svelare l’alterazione profonda dell’individuo che si cela dietro di esso.

Una proposta alternativa alla fenomenologia di Binswanger è tratteggiata dallo psichiatra francese Eugéne Minkowski, il quale declina ogni forma di esistenza nelle diverse modalità di vivere il tempo. Minkowski fonda la sua ricerca fenomenologica sulla distinzione tra “tempo oggettivo” e “tempo vissuto”, proposta dalla filosofia intuizionista di Henri Bergson.

  Foto: Eugéne Minkowski

Il “tempo oggettivo” è il tempo cronologico, frammentato e misurabile.

Il “tempo vissuto”, al contrario, è il tempo soggettivo che si coglie nell’esperienza concreta quotidiana e che definisce lo scorrere incessante della nostra vita. La vita interiore di ogni individuo, infatti, si  determina sulle infinite possibilità di esperire  il fluire di questo tempo, anche in senso psicopatologico. L’analisi fenomenologica consiste, dunque, nel cogliere le perturbazioni profonde e paradigmatiche delle forme temporali che si manifestano nelle esperienze psicopatologiche.

Su questo filone fenomenologico si inserisce il tentativo dello psichiatra tedesco Kurt Schneider (1887 – 1967), il capostipite della Scuola di Heidelberg, il cui obiettivo principale è stato quello di individuare i tratti psicopatologici patognomonici della schizofrenia.

Schneider adotta una prospettiva più pragmatica, disinteressandosi totalmente alla possibile formulazione di una teoria generale sulla schizofrenia. Nella sua impostazione clinica, infatti, la principale aspirazione consiste nell’individuare i sintomi significativi utili alla formulazione di diagnosi certe.

Tra le esperienze abnormi che caratterizzano la schizofrenia, Schneider individua una serie di sintomi che assumono un importante significato clinico per la formulazione di una diagnosi.

Egli ha quindi proposto i cosiddetti “sintomi di primo rango” (allucinazioni uditive, percezione delirante ed esperienze di influenzamento) intendendo con essi una serie di fenomeni, incomprensibili per lo psicopatologo, ma clinicamente facili da riconoscere e che assumono significato clinico di primaria importanza per effettuare la diagnosi.

Tuttavia, dato che gli schizofrenici non manifestano obbligatoriamente questi segni caratteristici, Schneider ha incluso nei suoi criteri un altro gruppo di esperienze che definisce “sintomi di secondo rango”, il cui riconoscimento e incomprensibilità sono meno evidenti e, per questo motivo, non possono  essere considerati patognomonici.

La novità insita nell’approccio di Kurt Schneider risiede nel fatto che il suo ordinamento diagnostico dovrebbe essere inteso come una classificazione puramente psicopatologica, priva di connotazioni patogenetiche o nosologiche e che, per questo motivo, evidenzia una contrapposizione di base con le dicotomie proposte da Bleuler.

 

 

 

 

 

 

 

 

                 

LA RICERCA ATTUALE SULLA SCHIZOFRENIA:

 I SINTOMI - BASE

 

 

Se le precedenti strategie di ricerca erano orientate prettamente in senso diagnostico, la ricerca attuale sulla schizofrenia si è sicuramente posta ad un livello più avanzato.

Lo studio della fase prodromica del disturbo è stato, sicuramente, coadiuvato dall’introduzione del modello della vulnerabilità-stress, un concetto multideterminato, in quanto, da un lato è in contatto con il substrato biologico, mentre dall’altro con le esperienze interne che da sole riescono a definire la cosiddetta “psicosi schizofrenica”.

Come fare, allora, a ricongiungere il corpo e i dati oggettivi, con la mente e i vissuti soggettivi?

Per superare questa sorta di dicotomia mente-cervello, è necessario porre attenzione al pensiero di Gerd Huber e Gerard Gross della Scuola di Bonn, i quali, con l’introduzione della Teoria dei Sintomi Base negli anni Sessanta, hanno spostato l’attenzione dal sintomo schizofrenico conclamato allo studio degli episodi precedenti lo sviluppo psicotico.

Questo concetto trae origine da alcune osservazioni dei deficit percepiti da alcuni pazienti schizofrenici nelle fasi pre-psicotiche anche molti anni prima delle prime manifestazioni psicotiche.

Una vasta percentuale di soggetti, infatti, soprattutto adolescenti, mostrano scarse capacità aritmetiche, poca motivazione, poca tolleranza alle frustrazioni e qualche difficoltà nel mantenere l’attenzione. Ragazzi che, successivamente, si ammalano di schizofrenia vengono descritti come soggetti che hanno avuto sempre difficoltà a stringere amicizie, non hanno mai praticato nessuno sport soprattutto a livello agonistico e trascorrono la maggior parte del tempo ad ascoltare musica e guardare la televisione. Inoltre, al contrario degli adolescenti sani, questi soggetti non sembrano confrontarsi adeguatamente con l’esterno, non vivono le difficoltà tipiche del periodo adolescenziale con serenità e, soprattutto, non riescono a sganciarsi dalla famiglia di origine per crearsi una propria identità.

Molto spesso questi tratti caratteriali vengono diagnosticati secondo i criteri del DSM-IV come Disturbo Schizoide e Disturbo Schizotipico di personalità (Cluster A). Tuttavia, l’esistenza di una personalità schizoide o schizotipica può costituire un fattore di rischio per la schizofrenia ma non una condizione necessaria.

 

“Là dunque ove i sintomi sono caratteristici,

 essi non sembrano essere originari,

 ma essere già la conseguenza

di un confronto con la malattia; d’altronde,

 là dove essi possono essere considerati come originari,

 essi si offrono in forma non caratteristica”

(W. BLANKENBURG, La perdita dell’evidenza naturale)

 

I sintomi di base insorgono sia prima, sia durante, sia dopo lo sviluppo di un episodio schizofrenico, ma possono essere visibili soprattutto quando i sintomi positivi sono assenti. L’aspetto che li caratterizza è che si pongono come esperienze soggettive con carattere disturbante interposte eziopatogeneticamente tra il substrato biologico della sindrome ed i sintomi psicopatologici conclamati.

Il cambiamento rispetto allo stato di funzionamento precedente si può manifestare in modo subdolo o essere molto rapido, tuttavia si può identificare attraverso un’accurata indagine anamnestica.

I sintomi di base, tuttavia, non rappresentano né elementi diagnostici, né un indice assoluto di distinzione tra normalità e patologia. Essi possono solo essere considerati come indicatori di una vulnerabilità allo sviluppo di quadri produttivi.

Nel modello dinamico proposto da Huber, i sintomi di base sono considerati il correlato fenomenologico più prossimo al disturbo fondamentale situato a livello transfenomenico (deficit nella processazione delle informazioni) e sotteso a livello prefenomenico da un’alterazione biologica della corteccia prefrontale dorso-laterale e del sistema limbico. Secondo il modello dei Sintomi-Base, gli schizofrenici per gran parte del decorso della loro malattia non presentano sintomi produttivi (o positivi) ma solo sintomi di base con conservazione delle capacità di “coping”, adattamento e compenso, rilevabili in fase intra-psicotica (stadi di base reversibili), pre-psicotica (“sindromi d’avamposto” e “prodromi”) e post-psicotica (stadi di base irreversibili).

In particolari condizioni endogene o emotivo-situazionali, i sintomi di base si intensificano e la sofferenza e il disagio associati sollecitano processi psicoreattivi di compenso e di adattamento responsabili della loro trasformazione nei fenomeni caratteristici della struttura schizofrenica (i sintomi di primo rango di Schneider). A questo punto si inseriscono i sintomi produttivi della schizofrenia che costituiscono il punto d’arrivo di un percorso psicopatologico (il livello fenomenologico secondo Huber).

Anche Klosterkotter, altro importante studioso della Scuola di Bonn, ha analizzato la progressione dalle fenomeniche precliniche e subcliniche (Sintomi-Base) ai sintomi psicotici (fenomeni finali), individuando cinque sequenze di transizione che, dai sintomi di base conducono alla percezione delirante. Secondo l’autore, la progressione si verificherebbe in un continuum fenomenologico, nel quale si colloca una gamma di vissuti intermedi che si sovrappongono l’uno all’altro. In ogni sequenza di transizione si può osservare una fase iniziale (fase di irritazione basale) in cui, in seguito a stress aspecifico, si manifestano i Sintomi-Base, una fase intermedia (fase d’esternalizzazione psicotica) in cui le sensazioni penose vissute dai soggetti vengono attribuite all’azione di agenti esterni, ancora sconosciuti, e una fase finale in cui i soggetti giungono ad una spiegazione delirante.

La psicopatologia di derivazione fenomenologica offre un modello che consente di vedere il sintomo non come il prodotto finale e oggettivo di un disturbo, ma come un punto collocato in un continuum, i cui termini sono sempre aperti.

 

“Ogni mezzo è impedimento,

 l’incontro è possibile solo dove è caduto ogni mezzo”

Martin Buber

 

La storia che il clinico e il malato costituiscono è la storia interiore dei loro vissuti e, quindi, la storia dei loro incontri. Infatti, nel qui e ora della terapia, l’unico vincolo che lega i due soggetti è il contratto implicito che fonda la libertà e permette di costituire un mondo.

 

 Note:

[1] P. Pancheri, Il problema della schizofrenia e del suo spettro. In Cassano G. B., “Trattato di psichiatria”, Masson Editore, Milano, 1999

 

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