L'eco di Bergamo

 

Di centinaia ne è rimasto uno solo

(di Anna Carissoni)

 

Del centinaio di magli ad acqua che, sul finire del ‘700, sorgevano lungo il Serio ed i suoi affluenti non è rimasto che questo di Nossa. Un sopravvissuto – se si pensa che nel 400 in questa zona funzionavano una decina tra magli e mulini – quasi il simbolo di n paese che stenta a ritrovare una propria fisionomia industriale.

 

Nel tramonto del mito del progresso facile, legato all’industria tessile locale che ha velocemente smantellato la cultura artigianale tipica di queste parti, il grigio edificio sembrava un fantasma, tornato da un passato remotissimo a raccontarci la fatica umile e dura, ma nobile ed umanissima, delle mani, dell’acqua e del fuoco.

 

Il maglio di Nossa lo devi cercare, nascosta com’è la sua cupa struttura muraria, tra costruzioni più recenti che parlano tutt’altra lingua; e spersa com’è, la sua voce, tra i rumori stordenti delle strade che gli scorrono accanto. Quando l’hai localizzato, rincorrendo il ritmico battere della mazza che via via si fa più nitido e vicino, devi accedervi scendendo una scaletta di pietra che è già un presagio; e, già prima di varcarne la soglia, l’oscurità e l’odore acre del fumo ti precipitano in un’epoca lontana, le cui radici – lo senti – sono ancora qui stanche, certo, sempre più precarie; ma ancora ostinatamente, miracolosamente vive.

Dentro all’antro della fucina, tra i bagliori del fuoco che cuoce i metalli – il ferro è buono da battere solo quando è rosso – due uomini si muovono con gesti agili e movimenti sincroni. Sono solo in due ma è come se fossero una squadra; il signor Luigi Valoti, " ol Maister ", e suo foglio Ernesto, ultimi rappresentanti di una lunga dinastia di valenti artigiani del ferro.

 

Lavorano in silenzio, con abilità, come se seguissero il copione immutabile di un rito sacro e solenne. Sotto i colpi della mazza, dei quali l’antica esperienza del fabbro sa dosare l’intensità, variandola a suo piacimento – perché in questo sta il grande segreto del maglio ad acqua – prendono forma via via gli attrezzi , agricoli e non, che, come dicono gli esperti " stanno agli attrezzi stampati a macchina come la Ferrari sta al 127 Fiat ".

 

Fuori, tra le pale muschiate della grande ruota, l’acqua della Nossa corre impetuosa, con scrosci di gioia infantile ed il suo urtare contro il legno lascia sospesa a mezz’aria una miriade di piccole gocce iridate. L’acqua , la mazza, il martello; è un cantare sereno, una composta polifonia. La perfetta sincronia dei due uomini ha qualcosa di misterioso; non c’è bisogno di poche parole, uno sguardo, un cenno; le mani percorrono di volta in volta, con sicurezza, gli stessi spazi negli stessi tempi.

 

Qui non c’è posto per il pressapochismo, per l’improvvisazione, per la fretta; qui il lavorare ha un’altra dimensione; diventa un atto di sapienza, quasi d’amore.

Il " Maìster " sembra uscito da una favola scritta in tempi lontani: autentico artista del suo genere, maestro indiscusso, non ha però altri discepoli che il figlio, già anch’egli tuttavia incamminato su un sentiero che forse, domani, lo porterà altrove dai bagliori e dal fumo della fucina.

 

La mazza del maglio continua a scandire, col suo assolo incessante, il ritmo austero della fatica. Il suono della sua voce sembra un monito profondo, accanto ai rumori del nostro tempo che scorrono via, rapidi ed inconsistenti come le illusioni di un progresso che ha dimenticato le ragioni dell’uomo e del suo rapporto con gli elementi della natura.