BORGHESI PICCOLI PICCOLI
LA RIFORMA DEL COMMERCIO


Gennaio 1998

 

I fatti

Il 16 gennaio il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto legge che riforma il commercio al dettaglio. Chi vorrà aprire un negozio (sino a 300 mq di superficie) non dovrà più chiedere (e comprare) una licenza. Spariranno le 14 tabelle merceologiche e ne resteranno in vigore solo due: l'alimentare e il non alimentare: con la riforma dunque un negozio potrà vendere dischi insieme a vestiti. Ogni negoziante potrà decidere liberamente i tempi di apertura e chiusura tra le 7 e le 22 con il solo vincolo di non superare le 13 ore giornaliere; saranno possibili inoltre aperture di domenica per 8 settimane l'anno. Verrà soppresso il registro esercenti del commercio (rec). Sono esclusi dalla riforma, tra gli altri, bar e ristoranti, farmacie, tabaccai, benzinai, artigiani (come i parrucchieri), edicole. Sarà bloccata l'apertura di grandi centri di distribuzione per almeno un anno dal momento in cui entrerà in vigore la legge.

Sino ad oggi chi voleva aprire un negozio doveva comprare una licenza da un altro commerciante che smetteva l'attività: questa compravendita era illegale, ma tollerata. Una licenza per un bar nel milanese ad esempio gira intorno ai 200 milioni di lire. I Comuni vegliavano affinché due negozi dello stesso settore merceologico non sorgessero l'uno vicino all'altro. I Comuni fissavano inoltre gli orari di apertura e chiusura..

I maggiori organi di stampa (in Italia proprietà diretta di settori della borghesia) hanno salutato con entusiasmo la riforma, chiamata, in senso positivo, "rivoluzione". Il Corriere della Sera (proprietà del gruppo HdP, a sua volta controllato da Mediobanca e FIAT) del 18 gennaio ha ospitato in prima pagina un editoriale di Mario Monti, economista, membro italiano della Commissione Europea: la riforma "avvicina l'Italia all'Unione economica e monetaria concepita nel 91" in modo "non meno profondo di quello determinato dal risanamento in corso nella finanza pubblica". La Repubblica (proprietà del finanziere De Benedetti) del 17 titola "Commercio, la grande svolta", mentre La Stampa (quotidiano di proprietà FIAT) nello stesso giorno inneggia alla fine della "schiavitù delle chiusure rigide" e pubblica in prima pagina un editoriale di Luciano Gallino, che si affida alla lirica: "e pochi aspetti della vita urbana sono più deprimenti del contrasto fra il movimento, le voci, la sfilata dei volti, i colori, gli odori di una moderna zona commerciale, e lo scenario di appena un quarto d'ora dopo, quando tutte le saracinesche sono state abbassate insieme per legge: silenzio, la folla sparita nel nulla, un cane che rincorre una cartaccia , il furgone delle pulizie che arranca in fondo alla strada. È possibile che un po' di queste tristezze ci vengano risparmiate se verrà attuata, senza esserne snaturata nel tragitto parlamentare, la proposta di riforma del commercio approvata ieri dal governo". Si noti l'incitamento al governo perché non ceda alle pressioni dei commercianti.

Gli stessi giornali confinano nelle pagine interne, per farle sparire nei giorni successivi, le reazioni delle organizzazioni dei commercianti. Sergio Billé, presidente della Confcommercio, la maggiore organizzazione del settore, afferma che "questa non é una riforma: é il ritorno al Far West, se nei prossimi giorni non riusciremo a modificare almeno qualcosa, sarò costretto, mio malgrado, a trasformare la Confcommercio in un'associazione di Cobas per difendere il mercato e tutelare i consumatori". Billé ed altri esponenti minacciano proteste clamorose, denunciano il rischio della sparizione del commercio al dettaglio, lo scippo del valore patrimoniale della licenza ("la liquidazione dei commercianti").

Perché questo governo ha deciso di sfidare la categoria dei commercianti? Qual é l'obiettivo che vuole raggiungere? C'é un qualche legame con le clamorose proteste dei produttori di latte contro le multe?

Gli obiettivi della riforma

In Italia vi é un negozio ogni 99 abitanti contro i 220 della Germania e i 230 della Francia. In generale il lavoro autonomo ha in Italia una forza molto superiore agli altri Paesi industrializzati. Secondo i dati dell'OIT all'inizio degli anni novanta la percentuale di popolazione economicamente attiva "indipendente" (la somma dunque della borghesia e dei lavoratori autonomi) in Francia era del 10,2%, in Germania del 8,4%, negli USA del 8,3%, ma in Italia era del 21,4%: una percentuale più che doppia rispetto agli altri Paesi. Questa distanza é un segno dell'arretramento economico del capitalismo italiano, povero di capitali e di grandi gruppi, con un tessuto economico disperso, una popolazione economicamente attiva ristretta ed una ipertrofica piccola borghesia.

La forza strutturale della piccola borghesia é anche frutto però della politica. Dal '48 alla fine degli anni ottanta l'Italia é stata dominata da una borghesia debole che, dovendo affrontare un movimento operaio troppo forte e combattivo, ha dovuto stringere un'alleanza di ferro con una serie di soggetti, tra i quali la piccola borghesia (un altro: la gerarchia ecclesiastica). L'espressione politica di questa alleanza é stata la Democrazia Cristiana. Ciò ha comportato una crescita atipica del capitalismo. Ad esempio l'esigenza di garantirsi il serbatoio di voti moderati della piccola borghesia agricola (la Coldiretti, come anche la Confcommercio, é stato uno dei pilastri del dominio democristiano) ha determinato un potente freno alla modernizzazione capitalistica delle campagne (da qui la polverizzazione dei produttori di latte). Anche i commercianti hanno così goduto di un trattamento di favore e non sono mai venuti a scontrarsi con il capitalismo reale, che significa inanzitutto concorrenza. Un negoziante godeva di una rendita di posizione che gli derivava dal fatto che tutti i suoi vicini non potevano vendere la sua stessa tipologia di merci. In questo modo la psicologia sociale della piccola borghesia in Italia é sempre stata fortemente improntata al corporativismo: il negoziante che fallisce addebita la sua sconfitta allo stato e alle sue tasse, non ai prezzi più bassi del suo vicino. Inoltre per tutto il dopoguerra i commercianti hanno goduto di una sorta di impunità fiscale, che ha favorito la loro sopravvivenza e ritardato l'effetto delle implacabili leggi del capitalismo. Molti Comuni hanno ad esempio ostacolato sotto pressione dei commercianti l'apertura di nuovi supermercati. Fino ad oggi la piccola borghesia é stata protetta dallo stato anche dalla concorrenza internazionale: é sempre di gennaio la protesta dei produttori di arance in Sicilia, in rivolta perché il governo ha tolto dazi protezionistici nei confronti delle arance africane. Una miriade di esercizi sopravvivono con risicati margini di profitto, spesso integrati da altre entrate, comunque garantiti dall'autosfruttamento (specie delle donne). La protesta della piccola borghesia negli ultimi anni si é indirizzata a destra, anche perché i dirigenti del movimento operaio italiano hanno sempre preferito dirottare la rabbia operaia verso i negozianti ("evasori fiscali") invece che contro il padronato.

L'alleanza tra borghesia e piccola borghesia in Italia é finita all'inizio degli anni novanta. Già nel corso degli anni ottanta si registravano i primi timidi attacchi da parte di vari governi alla piccola borghesia, ma sempre rientrati e ridimensionati. L'attuale governo di centro sinistra é il primo che si é seriamente posto il compito di attaccare la piccola borghesia (purtroppo per noi lavoratori non si é limitato a quella classe sociale). Prima ha cominciato con gli edicolanti protagonisti di lotte durante il governo Berlusconi per impedire la vendita dei quotidiani nei supermercati: Prodi e Bersani, ministro dell'industria, hanno chiuso un accordo che permette la vendita dei quotidiani nei supermercati, ma anche la possibilità da parte delle edicole di vendere varie tipologie di merci. Poi é stata la volta dei benzinai coi quali é stato raggiunto un compromesso che prevede la chiusura assistita di un terzo dei distributori. Finita l'epoca degli accordi consensuali il governo ha resistito ai produttori di latte che non vogliono pagare le multe ed ora propone la riforma del commercio.

La logica é la stessa. E la logica si chiama Maastricht. Come dice Mario Monti con una punta di disprezzo "ha impiegato più di sei anni, ma la logica di Maastricht é arrivata fin sul banco del salumiere". Nell'Italia che vuole competere con le altre potenze nello spazio della moneta unica governo e borghesia non vogliono più trascinarsi dietro il fardello di una gigantesca e improduttiva piccola borghesia. L'obbiettivo é ridurre seccamente i suoi ranghi, in modo che rimangano: imprese capitalistiche in grado di affrontare la concorrenza e non negozietti. Non si tratta solo di supermercati: pensiamo ad esempio allo spazio che si stanno sempre più conquistando le catene di negozi (Benetton, Prenatal, ecc.). È la stessa logica apertamente difesa dal ministro Bersani per i benzinai: basta con le piccole pompe con un risicato giro d'affari: meglio pochi distributori ma che offrano molti più servizi (ricambi, ristorazione, pulizia, ecc.), imprese insomma. Ecco di nuovo Monti: la riforma "accresce i connotati di mercato del settore del commercio e indirettamente dell'intera economia. Che poi non vi sia particolare entusiasmo nelle associazioni interessate non sorprende: accade quasi sempre così, quando le liberalizzazioni comportano l'eliminazione di barriere all'entrata e accrescono la concorrenza."

Il settore del commercio é tra i più arretrati in Italia rispetto al capitalismo internazionale. Il numero di ipermercati e supermercati é inferiore della metà rispetto a quelli di Germania, Francia, Gran Bretagna. Un cambiamento si sta registrando a partire dagli anni novanta (non a caso, epoca del crollo del vecchio sistema politico). Dal '91 al '96 gli ipermercati sono aumentati del 26,4%, i super del 50,3% e conseguentemente i negozi al dettaglio sono diminuiti del 33,6%. Ma il ritmo é ancora insufficiente per raggiungere gli altri Paesi concorrenti.

La riforma prevede un anno di moratoria delle domande di nuovi supermercati, ma solo dal momento in cui entrerà in vigore la legge e dunque dà tutto il tempo ai vari gruppi economici di presentare le domande. Del resto la grande distribuzione é in mano ad amici dell'attuale governo: FIAT, Benetton, Coop. L'unica eccezione é la Standa del gruppo Berlusconi, capo dell'opposizione di destra. L'Amministratore delegato della Standa, Stefano Ferro, ha rilasciato una intervista al Corriere della Sera del 18, dove si dichiarava insoddisfatto: preoccupazione per i piccoli commercianti? Ma figuriamoci: "viene impedita l'espansione di super e ipermercati, della grande distribuzione insomma. Ed é proprio la grande distribuzione la via per favorire i consumatori e per far crescere l'occupazione nel commercio". Si lamenta degli ostacoli che ancora subisce la grande distribuzione, dice insomma quel che il suo capo non può dire per ragioni politiche.

Si preparano tempi duri per i commercianti. Aumenterà l'autosfruttamento della piccola borghesia, che dovrà affrontare concorrenti grandi e piccoli. Alcuni negozi si ingrandiranno e si collegheranno, evolvendo in imprese capitaliste, molti chiuderanno, la grande distribuzione riceverà una spinta decisiva.

Borghesi piccoli e soli

Le reazioni del mondo politico alla riforma sono estremamente significative della fase politica che stiamo attraversando. Berlusconi parla di "estorsione" a danno dei commercianti. Ma il suo partito, Forza Italia, é diviso: Antonio Martino, ex ministro del governo Berlusconi, sul Corriere della Sera del 18 si dissocia: "avremmo dovuto proporre noi questa riforma e non lasciarla al governo dell'Ulivo" e rincara la dose su La Repubblica del 19: "ci si schiera con i commercianti perché si ritiene che siano i nostri elettori ma, secondo me, si tradirebbe l'ispirazione liberista del nostro partito". Le cose non migliorano dentro ad AN, spaccata tra il settore liberista e quello "sociale". La Sicilia governata dal Polo, e che ha uno statuto autonomo, non applicherà la nuova normativa. Qual é l'origine di queste oscillazioni?

Il Polo si trova, come destra, in una situazione abbastanza paradossale: da un lato deve guadagnare consensi di massa e può sperare di farlo mantenendo l'egemonia sulla piccola borghesia; dall'altro deve dimostrare alla borghesia di saper governare il capitalismo, e nell'attuale fase ciò significa anche ridurre drasticamente il numero e la forza della piccola borghesia, declassandone una bella fetta nel proletariato e un'altra guadagnandola alla borghesia. Il governo Prodi non deve invece dimostrare un bel nulla al grande capitale. Sotto la guida del personale della Banca d'Italia, cui é stata affidata dal PDS e dal PPI la gestione dell'economia, lo stato italiano ha ottenuto grandi successi sul piano del cosiddetto "risanamento economico", con buonissime chances di essere ammesso alla moneta unica. La Confindustria elogia il governo (in compagnia di FMI, Commissione Europea, ecc.) e continua a non fidarsi di una opposizione di destra guidata da un capitalista, Berlusconi, che pensa a difendere i propri interessi e non quelli generali della propria classe e sorretta da un partito come AN, considerato di tradizioni non liberali. Il Polo dunque da un lato deve provare di essere in grado di pilotare l'Italia nell'arena della concorrenza mondiale, dall'altro deve tenersi stretta la piccola borghesia con l'acqua alla gola a causa della stessa concorrenza mondiale. Un giornalista della Stampa commenta: ciò poteva accadere solo in Italia "dove la sinistra é condannata a fare la destra e la destra é condannata e basta".

A causa di queste esitazioni e divisioni la destra si vede passare sotto il naso, impotente, succose occasioni per allargare la propria audience. Non ha per queste ragioni potuto cavalcare la protesta dei produttori di latte contro le multe, e oggi si ritrova divisa ed esitante di fronte alla possibilità di guidare una rivolta dei commercianti. La borghesia gli toglierebbe ogni residuo credito.

Solo la Lega Nord da destra difende a spada tratta gli interessi della piccola borghesia del Nord. Sulla Padania si accumulano pagine su pagine di cronaca sulla rivolta del latte e su quella incipiente dei commercianti; vistosi titoli denunciano "i gruppi monopolistici della grande distribuzione". Sulla Padania del 21 Giuseppe Vivace, responsabile area economia della Confederazione Nazionale dell'Artigianato lombarda (altra ex "organizzazione di massa" della DC), si lamenta contro "la globalizzazione dei mercati" che schiaccia "in particolare il tessile e il calzaturiero. Soffriamo la concorrenza della Polonia, del Sud Est asiatico, perché i nostri settori ad alto valore di manodopera non ricevono aiuti." La Lega dunque, incurante del disprezzo della grande borghesia, prosegue nel suo disegno di mettere sotto il segno di una strategia reazionaria importanti settori di massa, tra i quali prosegue la sua lenta ed efficace opera di radicamento.

Per il resto i commercianti hanno registrato un totale e inusitato isolamento. Liberazione giornale del PRC ha balbettato qualcosa contro la riforma: il 17 appare un editoriale di Dario Ortolano contrario alla riforma, ma piuttosto confuso, dove si dice favorevole a "un'offerta pluralistica, competitiva e vantaggiosa". Del resto é ben difficile che il PRC, che ha fatto ben poco per difendere la classe lavoratrice dagli attacchi di questo governo, si lanci ora in una strenua battaglia a favore della piccola borghesia. Il PDS ha speso un editoriale il 19 sull'Unità: "Cari commercianti non fate muro contro la riforma" a firma di Paolo Leon, evidentemente preoccupato dei negozianti del centro Italia, spesso elettori del PDS. La loro organizzazione, la Confesercenti, imbocca da subito la strada delle trattative con il governo. Il segretario del PPI, Marini, dichiara che "il provvedimento potrà ricevere qualche correzione, ma non c'é dubbio che va nella direzione giusta". Persino la Chiesa ha abbandonato i commercianti: l'Avvenire del 17 in prima pagina titola: "Ventata di libertà nel commercio".

Maastricht sul banco del salumiere

Maastricht segna il calendario della vita economica, sociale e politica dell'Italia intera. A sua volta Maastricht é frutto dell'accresciuta concorrenza mondiale, che oggi per una moda interessata viene chiamata "globalizzazione". Prodi può permettersi di dichiarare: "Questo paese lo smonteremo pezzo per pezzo, abbiamo tanti interessi corporativi da rompere". Il nostro Primo Ministro non si é minimamente scomposto davanti a reazioni dei commercianti che solo dieci anni fa, in quanto democristiano, lo avrebbero fatto immediatamente retrocedere. Ma allora non c'era la Bundesbank a controllare la lista della spesa. Ogni aspetto della vita dovrà essere rivoluzionato in funzione della lotta al coltello che si scetenerà all'interno dello stesso spazio europeo: é finita per il capitalismo italiano l'epoca delle rendite di posizione. Monti afferma che la riforma si deve vedere "come un passo che, per coerenza, ne richiederà sollecitamente altri" ed in effetti altri pezzi di piccola borghesia dovranno essere "smontati": libere professioni, bar e ristoranti, farmacie (le medicine a più largo consumo in molti paesi sono vendute nei supermercati, ad esempio).

Maastricht sta provocando nella società italiana un sordo risentimento ed un montare della rabbia sociale che non trova alcuna espressione politica se non nel Nordest con la Lega. Ma vi é una larghissima disponibiltà a livello di massa al populismo di destra, basti pensare al clamoroso successo di Castellaneta a Genova, un outsider che in una città politicizzata ed operaia ha rischiato di divenire sindaco. Le masse cercano un caudillo, ma nessuna forza politica nazionale é disponibile a fornirlo. Di Pietro potrebbe incarnare un simile personaggio e non a caso é bersagliato dai media della borghesia. Un caudillo sarebbe costretto per guadagnarsi il consenso a bloccare le controriforme liberali e salvare la piccola borghesia dalla rovina. Nulla di peggio per il nostro capitale. Cresce l'irrazionalità di massa nella società italiana. Basti pensare alla pressione popolare che ha costretto il governo a cedere di fronte alle sperimentazioni senza basi scientifiche del dottor Di Bella. Un'irrazionalità che é solo il segno della drammatica crisi di rappresentanza politica degli oppressi.

La borghesia, forse in Italia per la prima volta nella sua storia, può muovere guerra alla piccola borghesia. La ragione é semplice: a portare avanti il suo programma é un governo sostenuto dai due maggiori partiti della sinistra, che hanno già sacrificato sull'altare di Maastricht gli interessi della propria classe sociale di riferimento. Il movimento operaio dall'insediamento del governo Prodi é caduto in una fase di completa paralisi. I piccoli borghesi hanno sempre visto nel movimento operaio un proprio nemico. Difficile spiegare loro che i privilegi di cui hanno goduto sino alla fine degli anni ottanta rispetto agli altri paesi capitalisti, li dovevano proprio alla forza del movimento operaio organizzato. Ora questo non fa più paura e la borghesia può liberarsi del suo esoso alleato sociale. Maastricht arriva sul tavolo del salumiere, ed ha la forma di una pistola.

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