Strette di mano
di Giorgio Cadoni
9 ottobre 1999
Avrà provato vergogna Massimo D'Alema nello stringere la
mano di Clark, col quale ha presentato la sua (loro?) arringa
in favore della guerra del Kosovo? Sicuramente, no.
Eppure non si tratta di un'omonimia: si tratta proprio del generale
Clark, quello che di strette di mano è stato prodigo anche
con Thaqi, quello che ha condotto una campagna terroristica contro
il popolo serbo, distruggendo industrie, impianti chimici, emittenti
televisive, scuole e ospedali,
quello che voleva bombardare le truppe russe e ha tenuto a farci
sapere che una terza guerra mondiale non gli fa paura. Ciò
non ostante Massimo D'Alema era fiero come uno
scolaretto che riceve, alla fine dell'anno scolastico, le congratulazioni
del preside. Che cosa sia la vergogna, D'Alema non lo sa. E neppure
il rimorso o il semplice imbarazzo. Era forse imbarazzato, quando
ha partecipato alla marcia Perugia-Assisi dopo aver collaborato
ad una delle più ciniche e crudeli imprese della Nato,
da lui arditamente definita, senza temere la cacofonia, "la
più grande e brillante operazione di guerra aerea dal dopoguerra"?
Il suo volto si era coperto di un pudico rossore quando ha detto
che tagliare lo stato sociale era un provvedimento di sinistra?
La sua mano aveva tremato quando, a Washington, ha firmato il
New Strategic Concept, che autorizza la Nato ad intervenire in
qualsiasi parte del mondo? Niente affatto. Il dubbio non fa per
lui. Oppure è così radicale e incurabile che colui
che, nel profondo, lo ospita sente il bisogno di
nasconderlo, anche a se stesso, dietro lo spettrale sorrisetto
di sufficienza che gli conferisce così spesso la stucchevole
fissità di una maschera; né tragica né comica:
tragicomica, se mai. In ogni caso, non troppo intelligente. Perché
neppure all'uomo che la indossa appartiene l'autentica intelligenza
delle cose. L'astuzia, sì; l'intelligenza, no. Se la possedesse,
si renderebbe conto che un partito che si dice di sinistra non
può fare impunemente una politica di destra, come è
abbondantemente dimostrato dai risultati elettorali italiani ed
europei. Ma il nostro Massimo è persuaso che la sua abilità
manovriera gli consentirà, al momento opportuno, di estrarre
qualche
coniglio dal cappello. E poi conta sul fatto che il blocco concorrente
rappresenta il peggio. Ma, di questo passo, dal cappello uscirà
solo una sonora sconfitta, perché, come diceva Pasolini,
il meno peggio ci ha fatto capire quanto sia diverso dal meglio.
Per quanto la maschera ci sembri ripugnante (che altro può
essere il cinismo, quando non è neppure intelligente?),
l'uomo ci fa pena. Navigare tra Scilla e Cariddi non è
mai stata ritenuta cosa facile. E chi si sforza di tenere i piedi
in due staffe corre il rischio di rompersi l'osso del collo. Però
ci fa più pena il popolo italiano che appare destinato
a pagare le conseguenze della deliberata
distruzione della sua cultura politica. Perché questo si
è fatto con il concorso di giornalisti pronti a tutto e
di intellettuali ansiosi di servire il nuovo padrone, che poi
non è certo D'Alema ma i Poteri forti di cui, quali che
siano le sue intenzioni, è lui stesso al servizio.
Era un sessantottino Massimo D'Alema, o almeno lo dice. Di quell'esperienza,
tuttavia, non è stato capace storicizzare le illusioni
e i limiti, come vorrebbe farci credere. Se ne è solo,
cattolicamente, "pentito", obbedendo allo stesso opportunismo
che in altri tempi lo aveva forse indotto davvero a frequentare
il movimento.
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