GIUSEPPE GARIBALDI E LA SUA VITA A CAPRERA

Giuseppe Garibaldi

 

Già nel 1811, quando Garibaldi aveva 4 anni e Mazzini 6, a La Maddalena sbarcava un certo Alessandro Turri proveniente da Genova, latore di un eccezzionale messaggio per il ministro d'Inghilterra alla corte di Cagliari: il documento aveva per titolo Memoria circa un progetto di indipendenza italiana ed è uno dei primissimi che si conoscano sulle aspirazioni unitarie del popolo italiano. Il Prasca lo cita per intero nella sua opera sull'Ammiraglio Des Geneys, avendolo trovato tra i carteggi di lui con una annotazione che testimonia come egli avesse ricevuto nell'isola il Turri e avesse preso conoscenza con molto interesse del progetto.

Vi si parlava di un "Partito dell'Unione e dell'Indipendenza Italiana" nato intorno al 1809, di cui facevano parte anche primari magistrati e capi dell'Armata Italiana voluta da Napoleone; e vi si chiedeva all'Inghilterra e alla corte sabauda un'appoggio ai piani di insurrezione previsti.

E dunque, oltrechè storico, molto interessante, che uno dei primi atti unitari italiani fosse datato dal nostro arcipelago; il riferimento alla corte sabauda rappresenta una primizia ante litteram, una specie di prologo di quanto un giorno sarebbe accaduto e che in quel momento nessuno degli attori poteva ancora prevedere.

Frattanto, imprigionato nella torre di Guardia Vecchia, languiva Vincenzo Sulis, comandante delle Centurie di Miliziani di Cagliari dopo le rivolte del 1793 e degli anni seguenti. Il capopopolo morì a La Maddalena nel 1834, portando con se uno degli ultimi conati di rivolta vagamente autonomistica, e perciò anacronistica per quei tempi, dei sardi.

L'idea di unità d'Italia era strettamente connessa a quella di indipendenza e nasceva come specificazione del più universale principio di libertà de popoli, nato dal grande movimento di valori che la rivoluzione francese aveva portato con sè.

Le vie del mare erano i canali di propagazione del nuovo ideale; sulle navi si faceva una propaganda capillare; le grandi Marine erano tutto un fermento e quando i marinai sbarcavano nei porti vi diffondevano quelle idee che avrebbero conquistato l'intera Europa.

Garibaldi stesso fu iniziato a tali visioni durante un viaggio in mare, nel 1833, dal pensatore francese Emile Barrault, seguace di Saint - Simon e scrisse: " Non solo discutemmo sulle rigorose questioni di nazionalità, nelle quali si era fino allora limitato il mio pattriottismo..., ma ancora sulla gran questione della unanità".

In quell'anno, a Marsiglia, avvenne l'incontro di Garibaldi con Mazzini e la sua affiliazione alla Giovine Italia. La stessa suggestione ideale subivano molti dei giovani e giovanissimi maddalenini imbarcati sui regi legni in quei medesimi giorni: ricorderò per tutti uno dei più gloriosi, destinato a diventare intimo di Garibaldi, Giovan Battista Culiolo, il famoso "Maggir Leggero".

L'idea di unità e fraternità tra i popoli era a La Maddalena un modo di essre che si legava strettamente ai valori di solidarietà e di umanità ai quali il mare e l'isolamento, da cui avevano dovuto affrancarsi fin dall'origine i primi duri pastori corsi, li avevano plasmati.

GARIBALDI A CAPRERA

Trascorsero cinque lunghi anni in cui parve che l'astro garibaldino fosse tramontato. Garibaldi, Leggero e Cocelli, dopo qualche mese di permanenza a Tangeri nella più totale povertà, dovettero separarsi: il Generale partì per gli Stati Uniti, mentre gli altri non poterono seguirlo per mancanza di mezzi. Cocelli morì poco dopo per un colpo di sole, forse dovuto al fatto che i due passavano lunghe ore a pesca per sfamarsi. Il Maggior Leggero si imbarcò allora su una nave mercantile, sempre sperando di ritrovare in qualche porto del mondo il suo generale; ma quegli, a sua volta, dopo aver fatto la fame fabbricati candele di sego per qualche tempo a New York presso il poverissimo Meucci, l'inventore del telefono, cercò e trovò un imbarco come comandante di una nave mercantile e navigò a lungo sulle rotte dell'estremo oriente. Nel 1855 Leggero si trovò in Costa Rica, combattente per la libertà di quel popolo contro i "filibustieri yankees" di William Walker, quì in una terribile battaglia, egli fu ferito al braccio destro e fu necessario amputarglelo; caduto prigioniero, fuggì, ancora convalescente, e attraverso peripezie di ogni genere riuscì a mettersi in salvo e a trovare un lavoro come guardia di dogana a Punta Arenas.

Allo scoppio della seconda guerra contro Walker, riprese il suo posto di ufficiale nell'esercito costaricano e tornò a combattere con tanto eroismo da meritarsi l'encomio dello stesso comandante nemico; di nuovo venne ferito e fatto prigioniero. Riacquistata la libertà, il maddalenino si trasferì nella Repubblica del Salvador e fu arruolato in quell'esercito come istruttore e organizzatore.

Frattanto a La Maddalena la vita scorreva sui ritmi senza tempo del mare, in attesa dei naviganti, vedendone partire e arrivare ogni giorno. Le difese dell'arcipelago furono potenziate nel 1850, con la costruzione nell'isola maggiore del potente Forte San Vittorio sul dosso di Guardia Vecchia, del Forte Santa Teresa, detto anche di Sant'Elmo o Forte Tegge, e della batteria Sant'Agostino sulla punta occidentale di Cala Mangia Volpe.

Nell'isola di Santo Stefano fu edificato il bel Forte San Giorgio non lontano dal luogo ove sorge la torre da cui mezzo secolo innanzi Napoleone aveva cannoneggiato la cittadina.

Per tutte queste opere fu potenziato il contingente di forzati già di stanza a La Maddalena al servizio della Marina Militare; fino a quando fu in auge la navigazione a remi, essi venivano impiegati sulle navi e va detto a questo riguardo che il trattamento dei forzati da parte della Marina sabauda fu sempre di gran lunga più umano di quello degli altri paesi europei e che spesso, ai tempi della lotta contro i pirati e corsari, quei poveretti ricevevano in premio la libertà quando partecopavano con valore agli scontri.

Nella costruzione delle opere di divesa, i forzati venivano occupati soprattutto nelle cave di granito, la cui estrazione, ancora per molti anni, fu limitata agli usi militari.

Il traffico marittimo nell'arcipelago, vivace nella buona stagione, si riduceva fortemente durante l'inverno, quando le tempeste potevano scatenarsi all'improvviso.

A proposito dell'inclemenza del mare nelle Bocche di Bonifacio, La Maddalena fu impotente testimone di uno dei più tragici naufragi de Mediterraneo, avvenuto nella notte tra il 14 e il 15 febbraio 1855 sulle scogliere dell'isola corsa di Lavezzi.

La grande fregata da guerra francese "La Semillante", armata di 60 cannoni e di 250 uomini di equipaggio, era salpata con tempo bello e mare calmo dal porto di Tolone, trasportando 750 soldati di fanteria destinati alla guerra in Crimea. La navigazione procedette tranquilla fino alle alte coste meridionali della Corsica: quì si scatenò la burrasca. Non v'era modo di accostare ad alcun porto, perciò il capitano decise, come spesso si fa in questi casi, di infilare le Bocche di Bonifacio per sottrarsi al pericolo delle coste irte di scogli. Ma nel tratto di mare tra l'isola corsa di Lavezzi e quella sarda di Razzoli, la nave incappò in uno di quei terribili marosi, che i naviganti chiamano "onde anomale", alto come una montagna, dotato di una forza immane. L'onda afferrò la "Semillante", la sollevò quasi fosse un fuscello, la trasportò e la scagliò contro la costa di Lavezzi, irta di infiniti scogli come denti di un gigantesco squalo.

La nave letteralmente scoppiò in una miriade di scaglie. Se qualcuno dei mille uomini avesse potuto sopravvivere all'urto spaventoso, sarebbe stato comunque immediatamente ghermito dalla folle sarabanda delle onde impazzite e scagliato più volte contro i denti di roccia.

Quando il mare si placò e le prime barche di Bonifacio e do La Maddalena si accostarono all'isola seguendo la traccia dei detriti, uno spettacolo orrendo si presentò agli occhi dei marinai: Lavezzi era orlata da una corona di schegge di legno e brandelli umani; nessuna traccia di vita, nessun relitto di una certa consistenza, se non i poderosi 60 cannoni in fondo al mare. Non c'era neppure la possibilita di ricomporre i corpi. si decise di sepellire i poveri resti sulla stessa Lavezzi e sorse un cimitero con mille croci sull'isola deserta; alcune croci erano altissime affinchè i naviganti, passando, potessero in futuro salutare quegli infelici giovani.

Garibaldi frattanto, stanco e sfiduciato per la sua vita errabonda sui mari, aveva chiesto e ottenuto dal governo piemontese di tornare in Italia, per stabilirsi a Nizza con i suoi figli: erano trascorsi ormai cinque anni dalla sua partenza dalla Maddalena, durante i quali egli non aveva più fatto parlare di sè, e si pensava che il mito di quell'uomo e la presa sulla fantasia popolare si fossero affievoliti, se non spenti. Così egli potè rimetter piede in patria e curarsi di una grave malattia reumatica, prima avvisaglia dell'artrite che l'avrebbe perseguitato per il resto dei suoi giorni.

Da Nizza, per campare, ottenne il permesso di fare il piccolo cabotaggio tra Genova e Marsiglia con la nave da carico "Salvatore", imbarcandovi come mozzo anche il figlio Menotti. Ma pensava di fermarsi, finalmente, e il desiderio divenne imperativo un giorno del 1855, quando sbarcò in Gallura con un gruppo di amici italiani e inglesi per una partita di caccia e rimase affascinato dalla solitaria e incontaminata bellezza del promontorio di Capo Testa, con i suoi splendidi graniti protesi sulle Bocche di Bonifacio e il terreno incolto che in alcuni tratti si prestava all'aratro. Avrebbe potuto lasciare il mare e finalmente costruire una casa per la sua famiglia dove vivere in pace di una sia pur modesta agricoltura. Cercò senz'altro il propietario del promontorio, il pastore Pietro Pelosu, e lo convinse a venderglelo, versandogli una cauzione di 200 lire. Poi riprese il mare.

Ma le cose dovevano andare diversamente. Nel novembre di quell'anno morì, a Nizza, suo fratello Felice, che gli lasciò in eredità tutto quanto aveva: non molto, ma sufficente per acquistare un pò di terreno e un cutter per un modesto commercio in mare. Nel dicembre, mentre navigava alla volta di Porto Torres, una burrasca lo convinse a riparare in Corsica. Da quì, Garibaldi scrisse la seguente lettera all'amico Francesco Susini de La Maddalena:

"Porto Vecchio, 7 dicembre 1855

"Sono diretto per la Sardegna, quì trattenuto a bordo del "S. Giorgio" per cattivo tempo. Da Porto Torres penso di percorrere la Gallura, ove penso che sarà facile che scelga un punto di stabilimento, per passarvi alcuni mesi d'inverno, o forse per abitarvi definitivamente, se trovo un posto adatto. Un consiglio vostro o di Pietro circa al punto da prescegliersi per lo stabilimento, mi sarebbe caro, quanto l'esser vicino a voi, sarebbe una delle consolazioni mie predilette....".

Finì che egli fu di nuovo ospite dei Susini a La Maddalena e ogni giorno, con Pietro, passava in Gallura per cacciare e per sondare e verificare se proprio lì avrebbe voluto stabilirsi. Con Pietro si era immediatamente riannodata la vecchia e profonda amicizia iniziata cinque anni prima e il Generale ne aveva una fiducia completa: Egli gli fece notare che parecchi pastori, e non il solo Pelosu, si contendevano la proprietà di Capo Testa e qualora Garibaldi avesse perfezionato l'acqusto con quello, "non sarebbe passato un mese ch'Ella morrebbe per mano assassina"; Il che nel duro mondo dei pastori, era una soluzione più che probabile.

Perchè - gli chiese Pietro - non stabilirsi in una delle isole de La Maddalena, per esempio a Santo Stefano? Garibaldi lasciò perdere le 200 lire di caparra date al Pelosu, e cominciò a riflettere sul consiglio dell'amico. Io credo che a colpirlo fosse l'idea dell'"isola": l'isola come proprio mondo delimitato, l'isola come casa - patria della propria soggettivita, ove tornare per ripossedersi, per essere se stessi, garantiti da mura d'acqua, in una solitudine mediata dal mare. Nessuna propietà e circoscritta come un'isola.

Garibaldi in quei giorni, continuando a passare dalla Maddalena alla Gallura, scartò Santo Stefano, propro perchè "troppo vicina", quindi troppo poco isolata dal resto del mondo che per lui era certo rappresentato dala Sardegna e non da La Maddalena. Infatti la sua scelta cadde a poco a poco si Caprera, a questa ancor più prossima di Santo Stefano, ma più appartata, difesa dalla costa sarda dalle prime due.

Caprera! quel longilineo relitto di Sardegna ad essa strappato da una forza immane, imponente caos di graniti, ordinati a formare la catena orrida del Tejalone, apparentemente alta, altissima. Caprera, che l'esule aveva più volte contemplato cinque anni prima, dalla vigna dei Susini, trascolorare sulla tavolozza della natura lungo le ore del giorno in tutti i toni, dai più delicati ai più bui, e sempre restare intatta nella sua sembianza di miraggio, di scenario per un mondo a misura d'eroi o di demoni.

Caprera che non offre nulla se non alla tenacia, all'umiltà del lavoro, alla semplicità, alla bontà: e non erano questi forse i sentimenti che commovuevano fino in fondo all'anima quel guerriglero - marinaio - contadino ormai vicino alla cinquantina, che aveva percorso la circonferenza della terra senza trovare forme concrete alla propria sete di idealità?

Caprera! Caprera ammantata di macchia selvaggia, avvolta di tutti gli aromi e i brusii e i voli e i suoni secchi di zoccoli caprini e suini... Caprera tuonante di ondate burrascose e di folli venti di ponente, del nord; oppure bisbigliante di sciacquii dolci come sussurri di amanti. Caprera ove vivere, ove meditare, Caprera ove Morire....

In quei giorni nacque l'innamoramento di Garibaldi per la sua isola, un innamoramento che egli volle sempre tenere riparato dal rumore dell'ufficialità, al punto che nelle sue Memorie scriverà: "Il periodo decorso dal mio arrivo a Genova in maggio del 1854 sino alla mia partena da Caprera in febbraio 1859, è di nessuno interesse. Io passai parte navigando, e parte coltivando un piccolo possesso, da me acquistato nell'isola di caprera."

Invece la scelta e l'acquisto dell'isola segna nella vita di Giuseppe Garibaldi lo spartiacque tra la fase errante dell'avventuriero idealista e soggettivo, sia pur grandissimo, e la maturata visione che costruisce, plasma, realizza, unifica. Il guerrigliero brasiliano col suo impeto irriflessivo non avrebbe potuto costruire una nazione: l'uomo di Caprera, capace di soffrire e di meditare, la costruì.

Prima di lasciare La Maddalena, il 29 dicembre 1855, egli diede a Pietro Susini la più ampia procura perchè acquistasse per suo conto la metà circa dell'isola, tanta quanto ne consentiva l'eredità di Felice.

Pietro si mise subito all'opera, acquistando il terreno dei Collins, parte di quello di Ferracciolo ed alcuni altri lotti. Garibaldi raggiunse Nizza e poi passò in Inghilterra per comperarvi il cutter per i suoi trasporti marittimi.

A Londra egli si era precedentemente fidanzato con una ricchissima dama dell'alta società, Emma Roberts, donna assai colta e intelligente che gli fu poi amica devota e saggia per tutta la vita; Gli inglesi avevano un'adorazione per il romantico generale italiano e gliene diedero innumerevoli dimostrazioni. La Roberts si era interessata anche per sistemare in un ottimo collegio il figlio di Garibaldi, Riccioti, e questi ora potè rivederlo. Acquistò un piccolo basimento di 36 tonnellate a cui, in onore della donna amata, diede il nome di "Emma".

L'"Emma", con cinque uomini di equipaggio, compreso lui che lo comandava e Menotti, iniziò a navigare tra Nizza, Genova e la Sardegna, unendo il piccolo cabotaggio al trasporto dei materiali per la costruzione della casetta di Caprera.

LA COSTRUZIONE DELLA CASA BIANCA

Il primo ricovero di Garibaldi a Caprera fu una tenda sotto la quale bivaccò per due mesi con Menotti; ma egli aveva premura di riunire la famiglia, facendo trasferire nell'isola anche gli altri figli, Teresita e Ricciotti.

Perciò, insieme col primogenito e aiutato dal fedele amico - segretario Giovanni Basso, da Felice Orrigoni e da altri compagni, si diede a restaurare una casupola di tre vani appartenuta un tempo a qualche pastore. Ma gli spazi non erano sufficenti neppure per la provvisorietà: quindi con l'"Emma" trasportò da Nizza una piccola costruzione in legno smontata e la sistemò accanto all'altra. Cinse il territorio con un muro per tenere lontane le capre fameliche e finalmente nell'estate 1856, con gran gioia della piccola comunità, giunsero Teresita e Ricciotti, accompagnati da una servetta, Battistina Ravello, per accudirli.

A questo punto, la "famiglia" Garibaldi si componeva già di una decina di persone e difficilmente in seguito saremo in grado di valutarne le variazioni, perchè la dimora del Generale ebbe sempre le porte aperte ai parenti, agli amici, a strane e mutevoli figure di maestri, famigli e accoliti che andavano e venivano intorno a quell'uomo dal fascino illimitato e al nucleo centrale dei figli e delle donne che egli amò tenerissimamente.

Si mise subito mano alla costruzione definitiva di una vera casa, quella che lo stesso clan chiamò la "Casa Bianca" e che come tale sarebbe stata poi ufficialmente nota.

Mi avvalgo, a questo proposito, del lavoro scritto da Fernanda Poli per presentare il Museo Garibaldino di Caprera; è un prezioso volumetto che il lettore poteva facilmente trovare trovare sia a Caprera che a La Maddalena, oltre che nelle librerie di Sardegna, il quale è, ad'oggi, la guida più seria e completa per visitare l'eremo del Generale.

Garibaldi aveva sulle prime la presunzione di essere un'ottimo architetto ed ingegnere, ma ben presto i suoi aiutanti gli fecero capire che questa non era davvero la sua vocazione, anzi era l'unico mestiere che non gli fosse congeniale. C'è il gustoso aneddoto del capomastro che gli disse: "Generale, usare la cazzuola non è affar vostro", e lui con la modestia cristallina che gli era propria, rispose: "Hai ragione: trasporterò le pietre". E si mise a fare tranquillamente il manovale, lavoro che svolse tranquillamente fino al termine della costruzione. Il complesso degli edifici sorse nel luogo che fin dall'inizio Garibaldi aveva prescelto, cioè al centro del versante occidentale di Caprera, rivolto a La Maddalena; si tratta di una conca granitica raccolta e passabilmente protetta dai venti.

La Poli precisa che la Casa Bianca "Presenta tutte le caratteristiche di una dimora ottocentesca planimetricamente articolata in una successione di vani intercomunitanti disposti intorno ad un piccolo ambiente privo di finestre che accoglie la scala di ingresso alla terrazza". E fa giustamente notare che non è fatta secondo le nostre attuali corenze razionali, ma è nata avendo come perno la famiglia senza porsi problemi privacy. "...Le stanze della casa possono assumere elasticamente funzioni diverse in relazione alla variabilità dei componenti della famiglia, nucleo tanto dilatato da accogliere nel suo interno amici e collaboratori".

E infatti, secondo questa visione garibaldina che sta tra la semplicità tribale e la gens romana, la Casa Bianca subì nel tempo le trasformazioni e gli ampliamenti che servirono allo sviluppo che servirono agli sviluppi e ai bisogni dei suoi abitanti. Tale evidenza era uno dei fattori per cui, oggi, visitandola, si ricava l'impressione di un'edificio vivo, dal quale da un momento all'altro potrebbe uscire Donna Clelia o il Generale in persona o un garibaldino o un bimbo. E soprattutto, al visitatore non superficiale, sorge la riflessone del confronto tra questa dimora al servizio dell'uomo, identica nel suo spirito alle dimore di tutte le isole, di tutti i semplici della terra, e le nostre case - scatola, anche le più lussuose, nelle quali l'uomo non può che essere l'oggetto contenuto ad adattarsi, a seconda dei casi, agli spazi dell'angusta o del benessere, pianificati astrattamente da centrali di livellamento esterne.

La Casa Bianca, crebbe come un organismo vivente e dopo appena un anno era ultimata ed abitata con tutte le sue appendici ed adiacenze, da una comunità tra le più singolari.

Delle aggiunte successive, mi limito a ricordare la "casa di ferro", un vero e proprio fabbricato, in realtà di legno, rivestito in lamiera metallica, donata a Garibaldi dal comilitone Felice Orrigoni nel 1861: essa fu sempre destinata ai collaboratori del generale per i più svariati usi, da alloggio per gli ospiti, a segreteria, officina del legniaiolo, magazzino delle provviste. La stalla, i magazzini, l'abbeveratoio, il canile, nonchè il famoso mulino a vento, furono aggiunti posteriormente al 1861.

La Casa Bianca fu costruita in blocchi di granito locale rivestiti dentroe fuori con intonaco e calce; il resto del materiale occorrente venne portato dalla Liguria a bordo dell'"Emma".

I viaggi del cutter servivano naturalmente, come si è detto, per trasporti di merci varie per conto terzi o per commercio diretto di Garibaldi tra i porti liguri e quello sardi. Le finanze del Generale erano in uno stato più che precario ed egli nutriva sempre meno speranze di poter trarre dal cabotaggio un regolare sostentamento per la famiglia, vuoi per la scarsissima propensione all'attività commerciale, vuoi per l'attrazione sempre più forte che la terra e le attività agricole esercitavan su di lui.

A facilitargli un chiarimento sulla sua vera vocazione, fu ancora una volta il destino: nel gennaio del 1857 l' "Emma" navigava pigramente da Genova a Caprera carica di calcina per la casa: aveva dato non poche preoccupazioni negli ultimi tempi per avarie diverse. Ora ci si mise anche il mare grosso; si era ormai in vista della Gallura, quando si videro salire dalla stiva sinistre volute di fumo; nessun dubbio; la calce era entrata in combustione. Garibaldi, Menotti e gli altri uomini fecero di tutto per spegnere l'incendio, mentre tentavano di portare la nave verso Caprera. Lottando contro il fuoco e contro le falle che frattanto si erano aperte qua e là nella chiglia, riuscirono a raggiungere l'isola, ma il comandante si rese conto che la nave era condannata, diede ordine quindi di puntare sui bassi fondali dello Scabeccio e di farvela arenare. L'"Emma" era finita. E il Generale ne trasse l'auspicio che con lei dovesse finire anche la propria lunga e travagliatissima vita da marinaio; finalmente aveva la giustificazione per dedicarsi con appassionata esclusività alla sua agricoltura.

CAPRERA "CAPUT MUNDI"

- L'UOMO DI CAPRERA -

La Casa Bianca

L'agricoltura, dicevamo, attrasse il suo animo e, con tutta semplicità Garibaldi passò dall'essere marinaio all'essere coltivatore: non aaveva mai lavorato la terra, ora ne divenne discepolo appassionato.

A Caprera, quando meno si parlava di lui nel mondo, egli ebbe attraverso l'agricoltura l'iniziazione alla maturità e sua grande maestra fu la natura; l'ascoltava ogni giorno, annotandone scrupolosamente la lezione di esperienza in quei Quaderni agricoli, che rappresentano, sotto la loro apparente elementarità, una delle chiavi per comprendere l'uomo Garibaldi. Ed ecco segnati con diligenza il numero delle bestie, i contratti con i pastori, i conti correnti coi contadini dai quali si faceva aiutare, l'acquisto di nuovo bestiame e le morti a causa della "ferula" velenosa, le simine di patate, di fave, le regole per trapiantare, innestare e seminare. Negli anni seguenti scoprì il mondo straordinario delle api e divenne apicoltore, inaugurando un nuovo apposito Quaderno su cui segnava il numero delle arnie, la temperatura, il tipo di fiori da cui gli insetti racciglievano il polline, la data; e poi a lato, con la sua ordinata grafia, annotava le operazioni fatte: " Si ammazzano formiche - si mette acqua nelle api - 26 sciami a fine giugno - pochi fiori - una cassetta trovata vuota - si svuota l'apiario ogni giorno e si trovano sempre tarme e formiche - si continua ad alimentare le api con miele e si visitano le arnie povere - le api non trovano alcun polline - api al pascolo - api dentro per il freddo, la guerra mortale tra le api continua forse per essere le arnie troppo vicine..." e così via. Annotazioni attraverso le quali si vede come l'uomo entrasse gradatamente dentro i segreti della natura, passando da un generico amore quasi mistico, a una conoscenza delle leggi intrinseche di nascita e morte, dei processi di sviluppo, delle lotte di sopravvivenza,dei ritmi di crescita.

Oltre a questa disciplina "scentifica" dell'osservare, trattenere, dedurre, Garibaldi si sottopose a quell'altra, altrettanto plasmante, della fatica del lavoro: dall'alba al tramonto, insieme con i suoi, combattè la lunga battaglia di trar fuori campi dal granito, di vedersela con veli di terreno alti pochi centimetri sopra la roccia più dura e incoltivabile che esista, e zappando, sarchiando, lavorando spesso con le sole mani, riuscì ad averla vinta sull'impossibile, fino a ricavarne quel tanto che bastasse a sfamare le non poche bocche che vivevano con lui.

Egli apprese così la legge della mediazione, dove la conoscenza dei limiti è più importante di quella delle certezze, dove gli obbiettivi da raggiungere sono fatti in egual misura di mete ideali e di bisogni concreti, dove una battaglia si vince con qualità che ben poco hanno a che vedere con la giovanile e impetuosa baldanza dell'adolescente, quali la tenacia, la capacità di assecondare la natura e di durata dello sforzo.

Passava d gioia infantile dai violenti sforzi dello spaccare i massi granitici con la mazza, alla delicatezza con cui le sue mani sapevano posare nel terreno gli esili virgulti degli olivi, delle viti, delle fave; e un giorno riuscì ad ottenere uno spazio di Humus sufficentemente ampio per seminarvi il grano: il grano, il pane! E lo si vide percorrere avanti e indietro quel campo nuovo, compiendo il vasto gesto del seminatore con una luce sacerdotale negli occhi; aveva riposseduto in sè quella millenaria dimensione del coltivatore che sola giustifica e spiega la necessità e la leicita del governare.

Prima di Caprera, Garibaldi non possedeva tale maturità. Aiutandoci con un'immagine classica, possiamo dire che nell'epopea brasiliana egli aveva vissuto la tappa dell'eroe puro, di Achille; nel successivo lungo esilio per mare aveva dovuto come Ulisse, passare attraverso l'iniziazione dei distacchi e, solo, senza compagni, povero e nudo, tornare in patria e trovarvi un regno occupato dallo straniero e diviso dalle avidità e dalle lotte intestine. Ora, attraverso l'agricoltura, egli viveva la tappa di Esiodo, conoscendo come la sofferenza sia mediatrice nell'uomo tra gli ideali astratti e la dura natura dentro e fuori di lui, per poter costruire un mondo a misura d'uomo governato più dalle leggi che dall'istinto epico, più dalla giustizia che dall'eroicità.

E che Garibaldi intendesse perfettamente tale unità tra il lavoro della terra e i suo ufficio d'uomo, è provato dal fatto che nei Quaderni agricoli egli annotava senza soluzione di continuità, anche le proprie idee e osservazioni politiche relative all'indipendenza e l'unità d'Italia. Così, ad esempio, alla fine del 1856, dopo annotazioni contabili sulle patate, sugli agnelli e sui fagioli, scrive addirittura il suo "programma italiano":

"Bisogna fare un'Italia avanti tutto.

L'Italia è oggi composta dagli elementi seguenti: Piemonte, repubblicani, murattisti, borbonici, papisti, toscani e altri piccoli elementi, che benchè vicini al nulla non mancano di nuocere all'unificazione nazionale. Tutti questi elementi devomo amalgamarsi al più forte o essere distrutti; non c'è via di mezzo! Il più forte degli elementi italiani io credo che sia il piemonte, e consiglio di amalgamarsi a lui. Il potere, che deve dirigere l'italia nell'ardua emacipazione dal giogo straniero, deve essere rigorosamente dittatorio".

Poi ricomincia tranquillamente a segnare: "Gennaio 16 - una coppadi fave: £ 5,94...".

Il "Programma Italiano" pare una trasposizione su scala politica della sua dura esperienza caprerina: scelta della soluzione più realizzabile (monarchia sabauda) al di sopra di ogni astrazione idealistica; eliminazione degli elementi nocivi (dissodamento del terreno da coltivare); visione unitaria del fine sulla base dell'elemento più saldamente costituito (il Piemonte come la coltivazione più compatibile); il potere deve essere rigorosamente dittatorio (conoscenza della tenacia e delle energie necessarie).

Con l'unico cenno di senso dell'umorismo che si conosca in Garibaldi, egli amava batezzare gli asini con i nomi dei suoi avversari politici; così si legge nei quaderni: "Un'asino donatomi dal signor Collins: viene chiamato Pio IX... un'altro asino donatomi dal signor Collins: viene chiamato Don Chico (Francesco Giuseppe)... due altri asini comperati da susini: vengono chiamati Oudinot e Napoleone III... etc."

Durante il ritiro iniziatico di quegli anni, l'uomo di Caprera maturò anche il suo rapporto con gli altri uomini, che si sviluppò dalla cameratesca fratellanza dell'epoca brasiliana, così simile al sentimento unitivo delle "bande" degli adolescenti, al più elevato senso religioso della comunione umana. Ebbe l'intuizione dell'unità della vita: "L'anima mia è un atomo dell'unità dell'universo", scrive nei Ricordi e Pensieri. Vide un unico Filum esistenziale percorrere i rosei graniti di Caprera, la trionfante vitalità della macchia, gli animali e se stesso; quindi gli uomini tutti. L'uguaglianza tra gli uomini prima di essere un diritto, fu per lui la propria individuale conquista d'esser uomo; infatti non era intesa come promisquità, ma come individuazione, identificazione; non dava confidenza ad alcuno, neppure ai più intimi: li amava e quindi li eleggeva al loro ruolo civile; con pochissime persone arrivò al "tu", donne o uomini che fossero. Ma chiunque venisse a contatto con lui aveva l'ineguagliabile emozione di essere l'agente di se stesso.

Non a caso tra i primi ad accogliere Garibaldi nell'intimo della loro riservata e selezionatrice realtà sociale, vi furono i pastori di Gallura; egli si recava spesso a caccia sulla costa sarda accompagnato dai Susini, da Menotti e da alcuni dei suoi compagni e visitava ogni volta gli stazzi.

Suo grande amico fu, fin dal tempo in cui il Generale stava scegliendo il luogo ove vivere, Ignazio Sanna, un agiato pastore che aveva il proprio regno a "Li Muri", presso Arzachena. Li presentò Pietro Susini e subito tra loro si stabilì la corrente di un'intesa profonda, che durò poi tutta una vita e che si espresse nel rituale antichissimo dei re - pastori: si scambiarono i doni delle rispettive terre, si offrirono a vicenda di essere padrini e testimoni di nozze. Quando l'uomo di Caprera arrivava a "Li Muri", la moglie di Ignazio, Maria Prunedda, gli faceva gran festa, come la regina del clan all'ospite venuto dal mare: faceva uccidere il migliore agnello e, aiutata dalle donne, lo cucinava con ogni cura, usando i legni odorosi del ginepro e del lentischio, e insaporendone le carni con le più buone essenze della macchia. Poi gli venivano offerti i prodotti migliori dello stazzo: i formaggi e le ricotte di pecora e capra, il latte appena munto, le prelibate conserve dei frutti di quelle benedette terre selvatiche.

E mangiavano intorno al camino, su panche coperte da pelli di capra, dialogando delle cure dei campi e della pastorizia, di caccia, ma anche delle famiglie loro e di quella più grande famiglia, l'Italia, che prima o poi bisognava pur fare.

Da quell'incontro, altri seguirono e si è perso il conto di quanti pastori pastori di Gallura Garibaldi sia stato "compare".

A poco a poco la fama delle gesta d'America e della difesa di Roma si stemperò e si fuse nei sardi con l'evidenza quotidiana che essi avevano della bontà e della smplicità dell'uomo di Caprera. Adesso, quando andava a La Maddalena o in Gallura non v'erano dimostrazioni clamorose di giubilo, ma reverente familiarità, il rispetto che si deve a un patriarca buono. I suoi atti compiuti a Caprera si dilatavano subito nella dimensione dell'aneddoto mitico e come tali si divulgavano nel popolo: è uscito di notte per cercare un agnello sperduto e poi lo ha riscaldato nel proprio letto...! Ha sgridato i bambini perchè strapazzavano una pianta...! non vuole che si tengano gli animali legati o in gabbia...! E' estremamente parco a tavola...! Ha vestito un ignudo...! E' povero...!

Queste testimonianze evangeliche si fondevano con l'immediato e irresistibile fascino che emanava dalla sua persona quando lo si avvicinava. non'era alto ed era piuttosto tozzo, le gambe un pò arcuate tipiche dell'uomo di mare e di chi ha molto cavalcato, il torace robusto e muscoloso sul quale si innestava il collo corto ma non grosso e la stupenda testa . Barba e capeli biondo - rame, nobili e fini i lineamenti, ampia la fronte; e poi gli occhi: marrone, vivacissimi e profondi, nei quali v'erano una determinazione e una concentrazione palesi, scoperte, dirette all'animo dell'interlocutore. Nel suo sguardo non v'era mai alcunchè di sottinteso, di ambiguo, di non detto: dolcissimo sempre, se doveva esprimere collera era collera, dolore era dolore, gioia era gioia piena, comando era comando, amore era amore senza condizione. La sua voce era armoniosa, dolce, profonda; cantava spesso con bella intonazione baritonale e recitava poesie con tanto sentimento che anche gli incolti lo ascoltavano affascinati. Aveva mani molto belle, nobili, forti, che nel discorrere muoveva poco e lentamente. Vestiva sempre nella stessa guisa: calzoni grigi legati in vita con una cinghia, camicia rossa, il poncho o una giacca da caccia, cppello a larghe tese oppure la tipica papalina con la quale fu poi ritratto in tanti quadri, stivali ferrati.

Ma non è sufficente il tratto della sua persona o il suo abbigliamento per spiegare il fascino di Garibaldi sui singoli e più ancora sulle masse; esso doveva consistere in un fluido complesso di purezza, di lealtà e semplicità, di coscente volontà e determinazione che, nella misura in cui progrediva il suo sviluppo interiore, ne faceva l'uomo in cui credere, l'uomo in cui affidarsi, l'uomo del destino, il "mandato". Stando alle innumerevoli testimonianze, chi lo incontrava aveva la sensazione di trovarsi in presenza di un essere lungamente atteso, già conosciuto "dentro".

Quel che in America fu l'estro di una comunicativa immediata, a Caprera in pura conoscenza e accettazione di una missione da compiere, e quindi il suo sguardo era coscente del dolore di tutti, della fatica, di limiti, ma anche dei funi cui tendere, delle possibilità, delle qualità.

L'UNITA' D'ITALIA

E finalmente scoccò l'ora della redenzione: era prontoun popolo, un re e un redentore.

Garibaldi lasciò Caprera, chiamato da Cavour, nel dicembre del 1858; nel febbraio seguente re Vittorio Emanuele II lo nominò Maggiore Generale dell'armata Sarda e lo incaricò di costituire i famosi Cacciatori delle Alpi. Scoppiò la guerra con l'Austria e i Cacciatori, al comando dell'uomo di Caprera, operarono prodigi di onnipresenza, di valore e di tattica militare durante la campagna di lombardia: dove gli eserciti regolari perdevano o trascinavano la guerra nel superato reticolo delle manovre da manuale, i Cacciatori vincevano o si ritiravano, aggiravano, riattacavano come un manipolo di mitici guerrieri, in cinquecento e poi in duemila contro le decine di migliaia. E il popolo usciva per loro dalle case, li abbracciava, si riconosceva in essi, più che nelle truppe regolari di Sua Maestà.

Poi, il 6 maggio 1860, l'appuntamento dei mille a Quarto, il finto arrembaggio al "piemonte" e al "Lombardo" della compagnia Rubattino e la partenza per l'impresa favolosa di Sicilia.

Noi non possiamo, percorrerne le tappe, ma possiamo e dobbiamo rivelare alcuni aspetti.

L'accordo segreto con Rubattino per l'uso delle due navi e di squisita marca maddalenina e non mi stupirebbe affatto che fosse stato preparato per il tramite del buon Capitano Roberts, che della Rubattino era socio e abituale utente.

Tutto il disegno strategico della campagna da Quarto a Marsala, a Calatafimi, a Palermo, a Reggio, a Napoli, e il frutto maturo dell'esperienza americana di Garibaldi, con l'innesto felice delle autorità, della coscenza di limiti, di rischio e di sforzo formatosi in lui nella operosa meditazione di Caprera. Egli infatti dimostra una conoscenza psicologica degli uomini e delle masse, una padronanza delle leve di sentimento su cui agire, e soprattutto una capacità di esercizio dell'autorità, che gli erano estranei nella gioventù a Montevideo, se non a livello di nebulose intenzioni. La sua non fu una conquista di territorio, ma la genesi di una conoscenza nazionale che si espresse in quei giorni attraverso due motivi fondamentali: l'entusiasmo dei Garibaldini fino al testimoniato sprezzo della morte; la partecipazione e poi il delirio gioioso delle popolazioni. A Palermo e a Napoli Garibaldi seppe rievocare, senza discorsi, soltanto con il comportamento suo e dei suoi, la carica di identificazione popolare di tutti i Vespri e le Giornate di Milano uniti insieme.

Da quei giorni e fino alla sua morte, per gli Italiani l'Italia fu Garibaldi, non il Re. Essi volevano essere come Garibaldi e, soltanto perchè il loro ero pose il regno nelle mani di Vittorio Emanuele, accettarono questi come sovrano e accettarono la monarchia come forma di governo. Nel momento stesso in cui consegnò il regno da lui conquistato, Garibaldi ricevette dal popolo l'ideale investitura a Vate della patria da far essere, ne divenne la memoria e l'intenzione.

Con la medesima modestia con cui era partito due anni prima dall'isola, l'uomo di Caprera si imbarcò a Napoli per ritornarvi, il 9 novembre 1860. Di tanta gloria, portava con se un pacco di merluzzo, un sacchetti di semi di fave e uno di fagioli, più tre cavalli: la sua valorosa Marsala, Borbone, che aveva tolto a un suo nemico a Reggio, Said, donatogli dal Pascià d'Egitto. In tasca aveva duemila lire.

Sbarcò a La Maddalena tra il trpudio degli isolani e della gente di Gallura venuta a salutarlo. Il giorno dopo era sui campi di Caprera a lavorare e rprendeva ad annotare i suoi Quaderni Agricoli. Intorno a lui pascolavano liberi, tre cavalli che d'ora in poi non avrebbero più conosciuto il morso e le redini nè la stalla, tranne quando vi si rufugiavano spontaneamente.

Ma a Caprera non conobbe mai più la quiete dei primi due anni: "la famiglia" crebbe di numero per la presenza di un gruppo sostenuto dei più vicini tra le "camicie rosse", di cui parleremo in seguito. Inoltre ora ospitava il vate d'Italia. Non è affatto azzardato ne retorico affermare che l'isola rocciosa divenne il il centro morale d'Europa; fu meta di migliaia di persone di ogni ceto sociale e i più vi andavano per chiedere a Garibaldi un consiglio, un adesione, un patrocinio; oppure per sondarne le idee. Partigiani suoi oppure avversari o loro emissari, non intraprendevano alcunchè, senza aver sentito prima lui, il suo orientamento, le sue possibili reazioni. Innanzitutto vi erano gli emissari del re, di Cavour, di Mazzini; il re gli era legato, oltre che dalla compresibile riconoscenza, anche da una profonda simpatia ed amicizia. Cavour e Mazzini invece furono, per ragioni diverse, spesso ostili o perlomeno diffidenti nei suoi riguardi, ostilità e diffidenza ricambiate da Garibaldi, che non perdonò mai al primo la cessione della "sua" Nizza alla Francia, mentre del secondo lo innervosiva la sua contunua insistenza per riportarlo all'idea e alla forma repubblicana che a Garibaldi continuava ad apparire irrealizzabile nel presente momento storico.

Si recavano anche a trovarlo i rappresentanti di tutti i movimenti indipendentistici o rivoluzionari europei, dai polacchi agli ungheresi, ai russi, ai greci, agli spagnoli e per tutti egli aveva consigli e incoraggiamenti, Oltre che concreti interventi: non dimentichiamo che spedizioni di garibaldini andarono a combattere e a morire in Polonia, in Grecia, a Creta.

Intorno alla figura del Vate di Caprera fiorino in Italia in quegli anni le associazioni operaie di mutuo soccorso di tutti i tipi e ne ricevette le delegazioni anche numerose.

Poi vi era lo stuolo degli intellettuali, scrittori, giornalisti, pittori, poeti, che volevano vederlo per scriverne, per ritrarlo, per strappargli dichiarazioni esclusive: ed egli tutti riceveva con immutabile semplicità e cortesia.

A tale enorme movimento, deve aggiungersi la mole davvero impressionante della corrispondenza. Lettere e plichi giungevano a migliaia da ogni parte del mondo; fu necessario dover potenziare l'Ufficio Postale di La Maddalena, mentre Garibaldi che a tutti voleva rispondere, fu costretto a farsi aiutare da Menotti, Basso ed altri, riservandosi però sempre la firma. Nella loro santa e sconsiderata ingenuità: "Giuseppe Garibaldi - Caprera -" senza neppure affrancare, ritenendo che quel destinatario dovesse essere al di sopra e al di fuori di ogni obbligo amministrativo e che, come i bimbi che scrivono a Babbo Natale, dovesse valere di un'ovvia franchigia postale. Ma le lettere giungevano regolarmente a Caprera gravate da multe che il Generale doveva pagare. Quindi dovette chiedere ai giornali di pubblicare un trafiletto in cui si diceva che, essendo egli povero, pregava chi gli scriveva di affrancare la corrispondenza, evitandogli le multe.

Frattanto si andava faticosamente costituendo la struttura dello Stato Italiano e Garibaldi, eletto deputato in Parlamento, aveva un unico pensiero: l'Italia non poteva dirsi tale senza la Roma papale come propria capitale; la politica e la diplomazia si muovevano nelle sabbie mobili di mille interessi di parte da contemperare e di una difficile trama di rapporti con le altre nazioni europee, prima fra tutte l'Austria.

L'uomo di Caprera non era nè un politico nè un diplomatico, anzi, era negato per l'una è per l'altra cosa: egli era il Vate del polpolo e il popolo voleva Roma. Sul filo ideale di questa sua missione egli si mosse sempre. Quindi nel giugno del '62 lasciò Caprera per Palermo e con i suoi Garibaldini ricominciò a percorrere l'Italia avendo come obbiettivo la capitale: "O Roma o morte!". Venne il vergognoso fatto dell'Aspromonte: Garibaldi ferito! Garibaldi al Varignano prigioniero del re cui ha donato il regno! Garibaldi torna a Caprera!"

E' piuttosto evidente che ancora una volta, pur nelle avversità, era lui a tenere le difficili redini degli umori del popolo, a frenarne gli scatenamenti e le rivolte, a guidarlo lungo la via di un controllato avvicinamento al fine voluto. A Caprera per tre mesi si curò la brutta ferita dell'Aspromonte, continuando a seguire e a dirigere i lavori agricoli. Nel marzo '64, ancora zoppicante fece un breve viaggio in inghilterra, ove ricevette accoglienze trionfali; il suo viaggio aveva un duplice scopo: quello di perorare la causa di alcuni prigionieri politici e l'altro di esprimere la propria gratitudine al gruppo di amici inglesi che, guidati da Emma Roberts, si erano uniti per fargli dono dell'altra meta di Caprera. Garibaldi era dunque l'unico propietario della sua isola, e tanto l'amava, che non pensò minimamente di rifiutare quel generoso regalo, ma anzi, ne fu riconoscente con la gioia di un bimbo.

Lo riaccompagnarono a Caprera i duchi di Shuterland con il loro yacht "Ondina" e poiche egli soffriva per la ferita per il riacutizzarsi dei suoi reumatismi, lo portarono a Ischia dove venne curato per due mesi. L'anno successivo allo scoppio della seconda guerra di indipendenza contro l'Austria, di nuovo Garibaldi venne chiamato dal re; la campagna si concluse, come noto, con lo storico "Obbedisco", che ancora una volta sottolineava, grazie al suo comportamento di fermezza e di obbedienza insieme, il divario esistente tra le aspirazioni e la realtà popolare da un lato, e la reticenza confusa di una classe politica ancora impari al compito di governare un grande stato nazionale.

Tornato a Caprera, ne ripartì nel settembre '67 per partecipare al Congresso Internazionale della Pace di Ginevra, dove la sua fu una delle voci più alte in favore della pacificazione dei popoli in una visione di europeismo che precedette la storia di un secolo.

Poi continuò ad occuparsi del problema romano. Andò a Firenze per preparare una nuova spedizione su Roma, ma il 24 settembre fu arrestato dai Carabinieri di Sua Maestà e rimandato a Caprera in domicilio coatto.

Gli abitanti dell'arcipelago videro l'isola circondata da un dispiegamento di ben sette navi da guerra e compresero. tutti cercarono di non rallentare nè mutare il loro normale ritmo di vita per non compromettere la posizione del Generale.

Garibaldi sofferente per l'artrite, simulava la malattia ancor più grave; sapeva che Menotti e Ricciotti nel frattempo si battevano a Roma, ma non aveva notizie certe e voleva a tutti i costi raggiungerli. Fece un primo tentativo di fuga, cercando di intercettare in barca il postale per Porto Torres risalendo il Passo della Moneta verso nord, all'altezza degli isolotti Barrettini: ma fu senz'altro fermato da un'imbarcazione di guardia e riportato a casa. Da allora la vigilanza si fece ancora più stretta; le acque venivano patugliate, oltre che dalle navi, anche dalle lance che potevano agevolmente navigare sui bassi fondali della Moneta e fino nelle cale di Caprera.

Tutte le barche vennero requisite, mentre quelle da pesca venivano fermate in mare e perquisite accuratamente; i navigli da carico potevano navigare nelle acque intorno a Caprera soltanto muniti di uno speciale permesso del comandante di squadra. Furono requisite anche le barche di Garibaldi, ma non il piccolo becaccino, una specie di piroga, che era celato tra il lentischio presso la riva della Cala di Barca Briciata sul Passo della Moneta. Anche la goletta, dono degli amici inglesi, era rimasta, bene in vista, nel porto dello Stagnarello. Il comandante della squadra, Isola, aveva l'ordine del governo di non spingere la sorveglianza fino al territorio della casa del Generale, di non fermare parenti, Garibaldini o altri provenienti o diretti a La Maddalena. Si temeva infatti una reazione popolare e si sapeva che a un cenno dell'Uomo di Caprera tutta l'Italia sarebbe insorta, così come si era ben certi che in quel momento tutta l'Italia stava col fiato sospeso a vedere cosa sarebbe accaduto nell'isoletta delle Bocche di Bonifacio.

Alcuni ufficiali delle navi andavano alla Casa Bianca per informarsi della salute del prigioniero e i familiari rispondevano che egli non stava bene e non poteva riceverli.

Frattanto Garibaldi e i suoi preparavano la fuga. Da Livorno giunse a La Maddalena una tartana con il genero Tanzio e il maddalenino Antonio Viggiani: studiarono le possibilità di liberarlo, ma ci si rese conto che l'unico modo era che egli riuscisse da solo a raggiungere la Sardegna e lì lo avrebbero atteso per portarlo in continente.

La scena era dunque nuovamente statica, vuota, affidata alla stella del sessantenne Uomo di Caprera che col suo sottile istinto di vecchio marinaio fiutava il vento, il mare e il cielo.

Venne il 14 ottobre. Garibaldi scrisse poi nelle Memorie: "Era il plenilunio, circostanza che rendeva difficile assai la mia impresa e, secondo i miei calcoli, la luna doveva uscire dal Teggiolone (montagna che domina Caprera) un'ora circa dopo il tramontar del sole. Io dovevo quindi profittare di quell'ora per il mio passaggio alla Maddalena, non prima ne più tardi: prima mi avrebbe tradito il sole è più tardi la luna.

Quindi alle 6 pomeridiane sgusciò fuori di casa e raggiunse il beccaccino celato tra i lentischi. Giovanni il giovane sardo custode della goletta, lo attendeva per aiutarlo a mettere a mare la piccola barca; Egli vi si calò dentro e salpò. "Costeggiai a sinistra la spiaggia della Caprera, facendo meno rumore di un anitra, ed uscii in mare per la punta dell'Arcaccio, ove Frosciante, altro mio fido, e Barberini, ingegnere di Caprera, avevano esplorato il terreno per timore di alcuna imboscata".

Due fattori distassero l'attenzione dei marinai che perlustravano le acque della Moneta: Giovanni, il givane sardo, partì cantando con il canotto di salvataggio della goletta, remando in direzione opposta a quella del suo Generale; da La Maddalena se ne tornava in barca Maurizio, un collaboratore di Garibaldi che, essendo un pò allegro, non rispose al "chi va là" dei soldati, e quelli spararono diverse fucilate, per fortuna senza colpirlo.

"Per combinazione - dicono le memorie - ciò succedeva mentre io stavo operando la mia traversata, favorito pure dal vento di scirocco, le di cui piccole ondate servivano mirabilmente a nascondere il beccaccino che appena d'un palmo dalla superficie del mare... Dunque, mentre la maggior parte de' miei custodi si precipitavano su Maurizio, io traquillamente traversavo lo stretto della Moneta ed approdavo nell'isoletta, divisa dalla Maddalena da un piccolo canale guadabile, giunsi a greco dell'isoletta e vi approdai fra i numerosi scogli la circondavano, quando il dico della luna spuntava dal Teggiolone". Garibaldi avrebbe dovuto trovare ad attenderlo i suoi, Basso e Cuneo, ma la sparatoria udita gli aveva convinti che fosse stato preso e tornarono quindi al pase.

"Indebolito dagli anni e dai malanni, l'agilità mia era poca tra gli scogli e cespugli dell'isola di La Maddalena. Per fortuna ero illuminato dalla luna, che avrei temuto sul mare, ma che benedivo in quel mio difficile transito, tanto più difficile che, avendo dovuto passare il canale guadabile senza scalzarmi per essere irto di punte granitiche, avevo gli stivali pieni d'acqua, e quindi il canticchiare dei miei piedi ne bagno, cosa ben dispiacevole camminando. In tale stato giunsi con tutte le precauzioni in casa della signora Collins, e vi fui accolto generosamente".

Lady Collins non aveva bisogno di spiegazioni: fu direttamente sua alleata, lo rifocillò e si preoccupò di mandare segretamente qualcuno ad avvisare Pietro Susini della presenza del Generale a La Maddalena. Quegli, già d'accordo con il Garibaldino Basso, le rispose di tenerlo nascosto fino al giorno seguente, mentre egli preparava il trasferimento in Sardegna.

Da questo momento la fuga di Garibaldi è la storia mirabile della solidarietà della gente di Gallura con il Vate d'Italia, ed è il pendent perfetto di quell'altra pagina gloriosa in cui diciott'anni prima, i popolani romagnoli, i toscani e liguri l'avevano sottratto alle polizie di tre Stati, facendogli attraversare segretamente la larghezza d'Italia.

Il giorno 16 alle sette pomeridiane, Pietro Susini lo andò a prendere a casa Collins con un cavallo e gli fece attraversare La Maddalena con un largo giro per evitare l'abitato, fino a Cala Francese: quì lo aspettavano Basso, Cuneo, Maurizio e un marinaio maddalenino con una barca. Compiuta la traversata, rimandarono la barca e si nascosero presso lo stazzo di un pastore per il resto della notte e parte del giorno 17. Frattanto Pietro che era andato a cercar cavalli ricomparve intorno alle 6 pomeridiane con tre animali fornitigli da gente del posto. Viaggiarono tutta la notte, parte a piedi parte a cavallo, e all'alba avevano superato i monti che si affacciano sul golfo di Olbia (allora Terranova) dove avrebbero dovuto trovare la barca di Canzio e Viggiani. Non trovandola fu ancora un pastore, Nicola, ad ospitarli nel suo stazzo mentre Cuneo andava a cercare i compagni.

Garibaldi era stanchissimo dopo quindici ore di cavalcata e il pastore, cui era stato taciuto il suo nome, si prodigò in ogni modo per offrirgli un giaciglio e del cibo. Ma il Generale, vista l'ospitalità dell'uomo, volle rivelargli la propria identità e quegli gli manifestò la sua gioia reverenziale e la sua devozione profonda.

Nel primo pomeriggio Cuneo potè accompagnare Garibaldi nell'isolato Porto Prandinga, dove lo aspettava la Paranzella "San Francesco" con Canzio e Viggiani, e fecero subito vela verso l'Italia. Nessuna delle numerose persone che avevano aiutato l'Uomo di Caprera nella fuga fiatò. Si seppe che egli era a Firenze soltanto il giorno 20 ottobre, dai giornali.

E venne la battaglia di Monterotondo, poi la sconfitta garibaldina di Mentana, frutto delle incomprensioni e dei dubbi di Mazzini, quanto della profonda malafede del governo italiano: "Infine il governo italiano, preti e mazziniani erano pervenuti a gettar lo sconforto nelle nostre fila."

Garibaldi fu di nuovo arrestato, tradotto al Varignano e di quì rispedito a Caprera.

L'unità d'Italia era così ancora una volta rimandata ed egli non sapeva darsi pace che non lo comprendessero proprio "Quegli uomini che ponno chiamarsi giustamente i luminari del moderno periodo del risorgimento nazionale, e che ne furono tanto benemeriti, come per esempio Mazzini, Manin, Guerrazzi, ed alcuni de' loro amici".

Tornò nella sua isola sconfitto, sofferente, deluso, e Caprera come sempre lo accolse nella calma fonda della sua essenza di granito, macchia, mare, vento, offrendogli quale rimedio ai suoi mali la pace del lavoro dei campi e della pastorizia.

L'ultima impresa guerresca fu nel 1870, in Francia, al comando della valorosa "Armata dei Vosgi", ma tornò a casa anora deluso dalle menzogne e dai bassi intrighi del mondo politico e militare, pur essendo l'unico Generale vittorioso tra quanti avevano combattuto in quella guerra contro i prussiani. Da questo momento il compito di Garibaldi è di deporre la spada e rappresentare l'ideale unitario soltanto come presenza vigile nella nazione e nell'Europa: e tale egli sarà fino alla fine dei suoi giorni.

A partire dal 1872 si dedicò alla stesira definitiva delle Memorie, a scrivere i suoi romanzi, le poesie, a leggere i classici preferiti. Nella prefazione alle Memorie è detto: "Oggi entro ne' miei 65 anni di vita, ed avendo creduto per la maggior parte della mia vita ad un miglioramento umano, sono amareggiato a veder tanti malanni e tante corruzioni in questo sedicente secolo civile". Eppure non si stancherà mai, fino all'ultimo di mandare da Caprera centinaia e centinaia di lettere, proclami, appelli per la pace, per stimolare iniziative di progresso sociale, per avviare grandi progetti di bonifica, di assetto del territorio, per frenare gli abusi, per soccorrere il popolo, per affrontare il problema meridionale e quello sardo in primo piano.

Caprera restava il cuore pulsante del mondo occidentale: basta leggere la corrispondenza da e per l'isola, per passare in rassegna tutti i problemi più pressanti d'Europa.

VITA A CAPRERA: LA FAMIGLIA, I GARIBALDINI E LE DONNE

Spesso nulla spiega meglio l'ambiente di un uomo, delle testimonianze "a caldo" di coloro che lo visitarono. Così ho scelto, tra le innumerevoli, la testimonianza del grande pensatore rivoluzionario russo Bakunin che, scrivendo alla contessa Elisabeth Salhias de Tournemire, descrive l'ambiente di Casa Garibaldi e il suo incontro col Generale nel corso della visita che gli fece insieme alla moglie, dal 19 al 23 gennaio 1864:

" ...Garibaldi ci ha accolto molto amichevolmente ed ha prodotto su noi due un'impressione profonda. E' guarito del tutto, e benchè zoppichi un poco e forte come un leone e sta in piedi dalla mattina alla sera. Lavora nel suo giardino, il quale anche se non è bellissimo e straordinarianente interessante, perchè è tutto seminato dalle sue mani sulla roccia e tra la roccia. La vista è triste e bellissima. Non c'è che una casa in pietra, bianca, pomposamente chiamata "Palazzo di Garibaldi", un'altra piccola di ferro ed una terza, ancor più piccola, di legno. Nel giardino ha giovani alberi e piante, aranci, limoni, mandorli, viti, fichi, le palmier aux dattes, ecc. ecc. e molti fiori. Erano fioriti del resto soltanto i mandorli e la bellissima rosa bianca.

"A Caprera c'era quella che in Russia chiamano estate. Siamo rimasti tre giorni e tutti e tre furono sereni. Anche le sere e le notti erano calde.

Da Garibaldi abbiamo trovato un giovane segretario politico, Guerzoni, che funge ora da anello nella nuova unione tra mazzini e Garibaldi, Basso, militare e marinaio, compagno americano di Garibaldi e i due figli di questi, Menotti e Ricciotti, oltre ad alcuni soldati e marinai garibaldini, in tutto una dozzina di persone. E' una vera repubblica democratica e sociale. Non conoscono la proprietà: tutto appartiene a tutti. Non conoscono neppure gli abiti da toilette, tutti portano delle giacche di grossa tela con i colletti aperti, le camicie rosse e le braccia nude, tutti sono neri dal sole, tutti lavorano fraternamente e tutti cantano. In alto sulla roccia sta un piccolo mulino a vapore e quando funziona è una festa per tutti. Tutti se ne occupano, gli uni portano l'acqua, gli altri mettono sotto il fornello degli arbusti e delle radici di cui è ricca Caprera, altri stanno stesi sulle roccie in pose pittoresche, parlano di politica, delle passate e future imprese, e cantano. In genere questa piccola adunata a Caprera di ragazzi sani, forti e gloriosi, di cui ognuno s'è già reso famoso per qualche gesta di coraggio, mi ha rammentato le prime pagine del "Corsaro" di Byron.

"Ma tra loro sta Garibaldi, grandioso, calmo, appena sorridente, l'unico lavato e l'unico bianco in questa folla d'uomini neri e magari alquanto trasandati. Egli è infinitamente buono e la sua bontà s'allarga non soltanto agli uomini ma a tutte le creature. Ama i suoi due tori, le sue vacche, i suoi vitelli, i suoi montoni e tutti lo conoscono e non appena egli appare tutti si rivolgono a lui ed egli accarezza ognuno o ad ognuno dice una parola buona. Mi ha raccontato che un giorno incontrò un'agnello che si era perduto e che stava cercando sua madre. Lo prese nelle sue braccia, lo portò con se, mise del fieno sotto il suo letto, ordinò che si portasse del latte ed una spugna e rimase steso tutta la notte con un braccio abbassato, tenendo la spugna che l'agnello succhiava. Il giorno dopo si alzò presto e passeggiò con l'agnello tra le braccia un'ora o due, fin quando non trovò la madre. Così pure ad un ragazzo che rompeva dei rami senza alcuna necessità disse "Percè fai così? bisoga aver rispetto di ciò che è vivo". La sua religione è la vostra, crede in Dio e nel destino storico dell'umanità. "Oltre a ciò io non credo a nulla" dice. Vi ho detto che ho notato in lui un dolore profondo e nascosto. Tale dovette essere il dolore di Cristo quando disse: "Il raccolto e maturo e pochi sono gli operai". Questo è il dolore di quest'uomo ormai anziano dopo aver dedicato tutta la vita alla liberazione e all'umanizzazione dell'umanità. E così anche i più grandi e fortunati uomini non raggiungono il loro scopo. Eppure bisogna sforzarsi e tirarsi dietro il mondo. In mezzo ad una lunga conversazione Garibaldi mi ha detto: "In questi ultimi tempi la vita m'è venuta a noia, io mi separerei volentieri da lei, ma vorrei morire in modo utile alla patria e alla libertà di tutti i popoli. Intendevo partire per la Polonia, ma i polacchi mi fecero dire che io sarei stato inutile là e che il mio arrivo avrebbe causato più danno che giovamento. Perciò ho rinunciato. Del resto io stesso ammetto che sarò più utile a loro quì che non là. Se faremo qualcosa in Italia, ciò sarà profiquo anche per la Polonia, che ora, come sempre, ha tutta la mia simpatia".

"E' chiaro che egli, con tutto il partito del movimento si prepara all'azione in primavera: in che cosa consisterà nell'azione è ancora difficile dire, gli ostacoli sono immensi. La guerra, o ciò che sarebbe meglio, la rivoluzione in Germania, potrebbero influire enormemente su tutto ciò...

"E' stato straordinariamente caro e gentile con mia moglie e con un'inglese che beveva non poco e aveva il naso rosso. Accompagnandoci la fece sedere su una sua barca ed essa pescò con un lungo bastone dei ricci di mare, e delle specie di frutti di mare.

"Il 23 siamo tornati a Genova, il 26 passando per Livorno sono giunto a Firenze e - ve lo dirò in segreto - sono già innamorato dell'Italia e ho dato la mia parola a mia moglie che in un mese parlerò italiano...".

Intorno a Garibaldi fioriva dunque "una vera repubblica democratica e sociale". In effetti, il limite tra questa comunità e l'anarchia era rappresentato per tutti quei giovani ardimentosi e avventurosi il principio moderatore delle passioni e l'esempio di una dirittura morale più unica che rara. Vicino a lui gli idealismi venivano incanalati nell'ideale, le animosità in ardire, le istintività elementari si plasmavano in qualità personali, la violenza e la durezza in forza e dedizione. C'era di tutto tra i garibaldini, venivano dalle più svariate provenienze. Non avevano un soldo assicurato: ogni tanto, tra una campagna e l'altra, il Generale riusciva a farli rientrare fra le truppe regolarmente pagate dalle regie casse e allora la paga era assicurata, ma essi non sapevano mai nè quanto nè per quanto tempo. tuttavia a Caprera i soldi non servivano: la comunità viveva secondo una regola evangelica e il frutto della terra e i doni che giungevano spesso dagli ammiratori sfamavano e vestivano tutti.

L'unico sempre pulito era Garibaldi; i suoi uomini conoscevano soltanto l'igiene di salutari bagni di mare. Nei locali vari in cui la casa si articolava, dentro e fuori dal nucleo principale, c'era un disordine da accampamento, assolutamente casuale, gagliardo, fuori ordinanza, "garibaldino" insomma. Chi visita oggi il lindo Museo, non può certo farsi un'idea dell'ambiente tra il 60 e il 70.

Il tempo passava tra caccia, pesca, periodiche visite a La Maddalena per poter bere un pò di buon vino fuori vista dal generale che era astemio, oppure per un incontro con una bella maddalenina.

Ognuno lavorava o non lavorava a seconda delle proprie inclinazioni: la terra era coltivata da Garibaldi e da alcuni contadini pastori; gli altri davano una mano casualmente e comunque sempre per amore del Generale. Ma appena questi chiedeva qualunque cosa che rientrasse nell'aspetto militante di quello strano cernobio, scattava nell'interpellato l'imperativo all'obbedienza ed allora ciascuno era pronto per qualsiasi impresa, anche la più rischiosa o la più scomoda. Da un'attimo all'altro, ciascuno era tranquillamente disposto a saltar su una barca e partire per qualsiasi punto del globo a portare messaggi a un re, a un ministro, o a combattere una guerra di indipendenza per qualuncue popolo, o a sfidare una qualsivoglia polizia per formentare una rivolta o liberare un prigioniero.

Quando avevano compiuto la missione, se erano vivi, tornavano, a volte a pezzi. Fu esattamente così che tornò, alla fine del 1860, il Maggior Leggero, dopo 10 anni di lontananza passati a combattere per la libertà dei popoli dell' "altra metà del mondo". Garibaldi se lo vide davanti un giorno appena conclusa la battaglia di Sicilia: senza un braccio e senza due dita della mano superstite, fregiato di ciccatrici sul capo, sul petto, sulle gambe. Lui, cisì frddo e taciturno, sembrava in preda ad una grande agitazione e si giustificava e chiedeva scusa al suo Generale per non essere giunto in tempo all'appuntamento di Marsala. Si trovava a San Miguel nel Salvador, quando da alcuni marinai seppe dell'impresa di Sicilia; si precipitò dal console sardo Luigi Ansaldo, si fece rilascare il passaporto per Genova e partì con la prima nave. Ma giunse in ritardo, allora si imbarcò per Caprera e si presentò a Garibaldi per giustificarsi!

Da quel momento Leggero riprese il suo posto tra gli intimi del Generale. L'anno dopo, questi lo mandò a Sorrento a comandare la Compagnia Invalidi, che costituì per non tradire l'ardimento di quei suoi che ne erano nella carne una testimonianza vivente.

Quì il nostro maddalenino conobbe finalmente l'amore: fu un vero colpo di fulmine, quello tra lui e la graziosa Giuseppina Maresca e i due si sposarono dopo pochi giorni, contro la volontà dei genitori di lei, impressionati dalle mutilazioni dell'uomo.

Poco dopo Maggior Leggero fu integrato nell'esercito regolare come capitano e non gli furono neppure riconosciute le campagne combattute con Garibaldi. Il Regio Esercito non era in grado di aprezzare un Garibaldino! Nell'aprile del '62 lo destinarono alla Casa Reale degli Invalidi, ad Asti; era per lui una umiliazione intollerabile. Non sappiamo se per interessamento di Garibaldi, oppure per il suo comportamento, da allora il Maggior Leggero fu praticamente in continua licenza a Caprera e numerose sono le testimonianze dei visitatori che lo videro sempre taciturno, serio, con gli occhi vivacissimi, al fianco del suo Generale.

Fu in particolare addetto al traporto della posta clandestina da e per Caprera e fu tra i protagonisti dei preparativi per la fuga di Garibaldi dall'isola ne 1867. Tra i suoi compiti c'era anche quello della vigilanza sulla persona del Generale.

Scrive il suo biografo Beseghi che nessuno vide mai Leggero con decorazioni sul petto: "Nè le medaglie delle compagne, ne la croce di cavaliere che egli ebbe tra i primi, subito dopo che Vittorio Emanuele istituì l'Ordine della Corona d'Italia".

Morì il 14 gennaio 1871, a 58 anni, per aver mangiato dei funghi velenosi raccolti durante una partita di caccia; lasciò Giuseppina con tre figli e incinta del quarto. Dalla sua bocca non uscì mai una sola parola delle sue eroiche avventure di guerra, se non quelle dette balbettando a Garibaldi per giustificarsi di non aver potuto combattere anche in Sicilia. Tra i più fedeli dei garibaldini sempre presenti a Caprera è da ricordare Giovanni Basso, nizzardo, che fu il segretario prezioso e modesto e mai lasciò il Generale dalla difesa di Roma fino alla morte. Gli fu compagno di navigazione sul Pacifico, fu nei Cacciatori delle Alpi, partecipò alla campagna di Sicilia, gli fu vicino quando venne ferito nell'Aspromonte e durante la Prigionia al Varignano. Aiutante di campo nel '66 e '67, combattè nell'Armata dei Vosgi come capo squadrone;

Infine lo abbiamo visto protagonista della fuga da Caprera. Alla Casa Bianca era il factotum: tra l'altro, scrisse migliaia di lettere per il Generale e la sua immedesimazione era tale che ne imitava perfettamente la grafia; solo un esperto può riconoscere la differenza tra le due mani. Basso morì a sessant'anni, due anni dopo il suo grande amico. Giovanni Froscianti, ternano, era uno spiritaccio imparentato col demonio. Fu con Garibaldi in tutte le battaglie a partire dal 1848, fino al 1867; poi visse con lui a Caprera dove fece il segretario in alternanza con Basso. Morì nell'85 a 74 anni.

Gusmaroli era stato prete, e aveva gettato la tonaca per seguire gli ideali di indipenza; fu con Garibaldi in tutte le campagne fino a Caprera. Aveva moglie e due figli e perciò abitava a La Maddalena, dove per mantenere la famiglia si industriava a riparare le reti da pesca, ma trascorreva ogni minuto libero con i compagni della Casa Bianca. Era poverissimo. Il garibaldino Giuseppe Nuvolari scrisse in un suo libretto: "Pochi giorni prima che morisse, io fui al suo capezzale e tutto commosso mi disse: "Mi dispiace, Giuspin, di morire senza averti restituito tutto quello che mi imprestasti".

Quando chiuse gli occhi, Garibaldi, che lo amava molto, volle dettarne l'epitaffio per la lapide nel cimitero vecchio di La Maddalena: "Quì giace - il Maggiore Luigi Gusmaroli - dei Mille - egli svestì l'abito di Prete - quando giovane in età di ragione - capì che non doveva essere - della setta degli impostori - e se fè uomo, milite valorosissimo della libertà italiana - pugnò in tutte le Patrie Battaglie - e fu padre e marito onesto e amorosissimo".

Giuseppe Nuvolari visse a Caprera per non molto tempo, ma fu l'esperto di agricoltura, prezioso consiglere del Generale, egli era infatti di Mantova, dove si occupava della conduzione di un ricco podere; fu dei Mille, do temperamento coraggioso e battagliero. A la Maddalena aveva spesso da dire con gli uomini del posto che si lamentavano di non avere sufficenti provvidenze governative; scrisse allora il libretto Lettera al Sindaco di Maddalena (1789) per confutare tali lagnanze facendo un parallelo tra le condizioni di vita della popolazione del suo paesello mantovano e quello dell'isola e dimostrando che in continente si stava peggio. Tra l'altro, il garibaldino offre scorci che lasciano intravedere la vita del tempo a La Maddalena; ad esempio, questo: "In un paese di 1.700 abitanti circa, dove il più povero contadino non lavora a meno di £ 4; dove vi sono 20 osterie, 4 macellai e 15 botteghe di ogni genere; col vino e la carne che costano metà prezzo di quanto si paga al continente; col sale che non costa nulla come in tutta la Sardegna; con le donne che vestono sull'ultimo figurino di Parigi e tante altre belle cose, il piangere miseria è una vera ironia!".

Assidui di Caprera erano anche Francesco Bideschini, veneziano, cognato di Menotti, e Jacopo Sgarallino, livornese, entrambi combattenti in quasi tutte le campagne garibaldine.

Ma se questa era la guardia del corpo permanente del Generale, si contano a decine le "camicie rosse" che lo venivano a trovare trattenendosi per giorni a volte per mesi, nella colorita comunità di Caprera: e penso a Guerzoni, lo storico di Garibaldi, al vecchi, al sacerdote, ai tre chirurghi di tante campagne, Ripàri, Basile e Albanese, e il buon Fazzari, il Colonnello Elia,, Francesco Nullo, Nino Bixio, Timoteo Riboli, Missori e altri.

Tra i garibaldini dobbiamo ora menzionare i figli Menotti e Ricciotti e il genero Stefano Canzio, i quali ci introducono così nella numerosa famiglia dell'Uomo di Caprera.

Menotti, il primogenito di Anita, nato nelle più romanzesche circostanze d'una fuga durante la ritirata ne Rio Grande do Soul in Brasile, il 22 settembre 1840, fu legato a suo padre da un'amore profondissimo, non solo filiale, ma da amico, da sootoposto, da compagno, da confidente fidato. Giunse sedicenne da Nizza a Caprera nel 1856 e seguì Garibaldi in tutte le sue campagne dal '59 al '71: ebbe il battesimo di fuoco tra i Cacciatori delle Alpi, e si distinse in ogni occasione, all'Aspromonte fu anch'egli ferito. Sposò la sorella dell'amico Bideschini e ne ebbe quattro figli; con lei si stabilì presso Roma. Fu deputato di Velletri al parlamento per oltre vent'anni e chiuse la carriera militare col grado di generale. Morì nel 1903.

La figura di Menotti è tra le più belle del mondo garibaldino e se poco fu illustrata, lo si deve alla preminenza sempre avuta dal padre e alla sua personale modestia. Nella "guardia del corpo" di Caprera non lo si sarebbe distinto dagli altri, se non perchè era soggetto a un maggior lavoro e costantemente chiamato da Garibaldi a qualche incarico particolare.

Ricciotti, quartogenito di Anita, era più giovane di Menotti di sette anni e quindi aveva nove anni quando giunse nell'isola; come si è detto, fu mandato per alcuni anni a studiare in Inghilterra ed egli ne fu plasmato tanto che vi si stabilì per lunghi periodi e visse sempre nell'ambito della società brtitannica. Combattè col padre in tutte le campagne dal '66 al '71, poi in Grecia contro i turchi con un corpo volontario nel '97 e nel 1912, quindi dopo la morte del Generale. Ebbe ben nove figli, che si sparsero per il mondo. Credo fosse di temperamento gioioso, cordiale, estroverso.

Stefano Canzio, genovese, aveva sposato Teresita Garibaldi, figlia di Anita, il 25 maggio 1861, entrando così anche ufficialmente nella famiglia; ma di fatto il Generale lo teneva già come un figlio: lo aveva conosciuto ragazzo ventenne e idealista, poi lo ebbe ottimo combattente e ufficiale in tutte le campagne, nessuna esclusa. Canzio e Teresita ebbero dodici figli, parte dei quali nati a Caprera. Fu per accudire a questi bambini che arrivò nell'isola Francesca Armosino, destinata a diventare prima la compagna poi la moglie. Ma di ciò parleremo tra breve.

La vita familiare di Garibaldi a Caprera - e solo di tale periodo ci occuperemo - non e compresibile se non inserita nel suo concetto quasi religioso del rapporto con la donna.

"...Sempre la considerai la più perfetta delle creature": Questa affermazione, contenuta nelle Memorie, risponde pienamente alla sua verità. Che fosse popolana o nobile e ricca dama, per Garibaldi la donna fu sempre all'apice della scala dei valori, e in ognuna di quelle che amò, vide l'incarnazione di una qualità ideale, cui il suo sentimrnto si elevava come offerta votiva: la vide quale trasposizione nel femminismo dell'eroe. Innamorarsi per lui era il riconoscimento folgorante di una "deità" in terra: perciò i suoi furono sempre colpi di fulmine immediati e il bisognio di unione, prepotente come un imperativo categorico, non ammetteva attese nè incertezze. Aprescindere da quelle che egli stesso riconobbe e di cui si innamorò, tutte le donne nel loro insieme adoravano Garibaldi e ve ne sono innumerevoli testimonianze nel delirio delle popolazioni ovunque passasse, ma soprattutto nella loro partecipazione costante alle campagne di guerra come infermiere, portaordini, combattenti dietro le barricate, confezionatrici di munizioni, educatrici e stimolatrici alla resistenza e alla lotta.

E ciò avveniva proprio in virtù del fatto che la donna si sentiva da lui valorizzata al più alto diapason ideale., individuata come compagna, madre dei figli della nazione, eroica, in perfetta complementarità con il proprio uomo.

Anche in amore dunque Garibaldi era un puro, un'innocente, quindi a volte un ingenuo, ma dalle donne fu ripagato, salvo in due occasioni, con la fedeltà spesso portata spesso fino alla sublimazione. Il suo carattere univoco, idealista, modesto e la sua propensione alla vita avventurosa, rude, disagiata, determinarono che soltanto due popolane - Anita e Francesca - gli diedero la continuità del rapporto coniugale e fisico; ma le altre, la raffinata Emma Roberts e la colta e irrequieta e intraprendente Speranza Von Schwartz, gli fecero dono di un'amicizia preziosa vincente su ogni prova e incorrutibile nella buona e nella cattiva sorte. Emma e Speranza si può dire che furono tra i più grandi "Amici" di Garibaldi: Il rapporto con loro superò il fatto erotico - fisico, e si liberò di ogni limitazione sessuale, e fiorì nella più squisuta devozione e nell'affetto più concreto e provvido che un'uomo possa desiderare.

La prima che visitò Caprera fu Emma Roberts, la "fidanzata" inglese: Garibaldi che voleva sposarla, si spaventò ben presto del lussuoso ménage londinese della dama, di tutti quei camerieri e maggiordomi in livrea, dell'etichetta che la posizione sociale di lei imponeva; nel suo candore glielo disse chiaramente e la trovò comprensiva e saggia. Non si parlò più di matrimonio, ma noi già sappiamo che Emma provvide largamente all'educazione di Ricciotti a Londra e fu la promotrice e la principale offerente, insieme con il duca di Sutherland, con Julie Salis Schwabe e con Lady Clarence Paget, della colletta con cui gli amici inglesi acquistarono nel '64 la seconda metà di Caprera per farglene dono. Al di là di questa tangibile amicizia, la roberts fu sempre vicina all'Uomo di Caprera con le sue lettere piene di consigli di straordinario acume politico; molti errori gli evitò grazie alla saggezza dell'amica e la ricambiò con una stima e una fiducia che giunse fino a consentire che nei loro rapporti scorresse il "tu", privilegio assolutamente eccezzionale per Garibaldi che, come già si è detto, lui riservava a pochissimi intimi.

Dopo la vacanza trascorsa insieme in Gallura, Emma tornò a Caprera una sola volta nel '65 a visitare quella strana repubblica così diversa e lontana dalle coordinate del suo stile britannico; poi si limitò ad essere la migliore rappresentante della secolare simpatia e amicizia che legò gli inglesi alle terre e agli uomini del sole.

Quando Garibaldi ebbe creato condizioni di abitabilità nella sua isola, vi trasferì come si è detto, i figli accompagnati dalla servetta Battistina Ravello, nizzarda, analfabeta, assai modesta anche quanto ad intelligenza. Si era ne '56, la vita a Caprera era più che disagiata, addirittura primitiva, rude, il lavoro spossante. Avvenne che la Battistina, tra tutti quei guerrieri contadini pieni di energie, scielse il suo posto quasi istintivamente vicino al padrone e lo seguì senza porsi problemi anche nel letto.

Dopo un'anno, nell'ottobre del '57, sbarcò a La Maddalena la scrittrice Speranza Von Schwartz col preciso intento di conoscere l'uomo di cui tutto il mondo parlava.

Nata in Inghilterra, e naturalizzata cittadina inglese, Speranza era figlia di un ricco banchiere di Amburgo; sposata una prima volta, rimase vedova a sedici anni; si risposò con il banchiere schwartz, dal quale divorzio. Attraente, ricca, elegante, intelligentissima, essa conosceva molte lingue europee, compreso il greco, e scriveva indifferentemente in ciascuna di esse; era molto colta, conosceva le letterature e la storia dei vari paesi, ed era una buona intenditrice di arte e di musica. Ma forse ciò che colpì maggiormente Garibaldi fu lo spirito indomito, inquieto e avventuroso di lei, che la spinse a viaggiare senza sosta per l'Europa, la dove più incandescenti si facevano le lotte di indipendenza, dove fervevano il pensiero e l'opera dei molti "profeti" degli ideali di redenzione. Dotata di un coraggio virile, unito alla dolcezza e a una grande sensibilità, amazzone perfetta, signora della conversazione, diplomatica sottile: queste le qualità che forse più di ogni altra fu vicina, dopo Anita, al Garibaldi dell'epoca.

L'amore scoccò subito, fin dal primo giorno a Caprera e appena essa lasciò l'isola, in novembre, già partivano le appassionate lettere del Generale; ma Speranza fu tanto intelligente da saper indirizzare quel sentimento dirompente in un profondo legame di solidarietà, quasi come tra compagni d'arme, che piacque a Garibaldi in maggior misura di un rapporto fisico che non vi fu mai. L'amore fu tutto espresso da lui nelle lettere e nell'accettazione riconoscente dei mille servizi e doni che riceverà dall'amica negli anni seguenti; da lei, in una generosità senza limiti.

Tra l'altro, Speranza scriverà moltissimo sull'Uomo di Caprera, sia col suo nome sia con lo pseudonimo di Elpis Melena, traduzione in greco di Speranza (Elpis) e Schwartz (= nera = Melena): essa fu tra i massimi divulgatori contemporanei delle idee e delle gesta del Generale.

Ma fece assai di più: rischiò alcune volte la vita per recapitare messaggi clandestini di lui e una volta fu anche catturata e chiusa in una squallida prigione da cui evase in modo romanzesco; riuscì ad introdursi con abilità al Varignano quando Garibaldi vi giaceva ferito e prigioniero, isolato da tutti, e lo curò come una sorella. Accorse, mandata da lui, a curare i garibaldini feriti, a tramarne la fuga, a soccorrerli con viveri e mezzi economici. Fu a conoscenza di tutte le debolezze e gli errori del grande amico e seppe contenere le gelosie che egli assai spesso suscitò in lei con la sua disarmanter igenuità, dentro alla calda maturità di quel suo essere donna davvero eccezionale. Tenne infine per lui una mole incredibile di rapporti con diplomatici esteri, col mondo internazionale dei cospiratori, con gli editori della pubblicazione delle Memorie e di altri scritti.

Quando Speranza visitò Caprera la prima volta, le bastarono pochi giorni non solo per infiammare l'animo del Generale, ma per conoscere a fondo l'ambiente che lo circondava e la comunità maddalenina: visitò i Roberts, i Collins, Webber, esplorò La Maddalena, il Parau (Palau), parlò con la gente.

A Caprera, Speranza aveva compreso benissimo dalle occhiatacce della Battistina il rapporto intercorrente tra questa e il Generale; e ne ebbe conferma quando nell'agosto successivo tornò nell'isola. Garibaldi le propose di sposarlo ad essa, con molto tatto e buona grazia, declinò l'oferta pur lasciando in lui la certezza del profondo sentimento che li univa.

Seguirono poi le molte lettere d'amore dell'Uomo di Caprera alla bella inglese: esse iniziavano invariabilmente con: "Speranza amatissima", oppure "Preziosa amica mia" con espressioni come: "Voi dovete considerarmi per l'avvenire come cosa vostra... Mi sento l'uomo più felice della terra dacchè vi ho avvicinata...", ecc. le risposte di Speranza iniziavano sempre con "Amico mio, amico amatissimo" o al massimo, con " amicounico e amatissimo" e si occupavano degli scritti autibiografici di lui, e della sua salute, degli incarichi che egli le affidava, i quali andavano dalla liberazione di un prigioniero, alla ricerca di una donna di servizio. Venne la campagia di Lombardia e, mentre Speranza cercava di aiutarlo in ogni modo, Garibaldi si innamorò follemente della diciottenne marchesina Raimondi, la sposò affrettatamente a Fino Mornasco e la lasciò il giorno stesso delle nozze perchè avvertito da una lettera anonima, sulla porta della chiesa, che la moglie era incinta d'un'altro. Speranza verrà a sapere ciò dai giornali. Si aggiunga che, sette mesi prima a Caprera, la servetta Battistina Ravello aveva partorito una bambina, Anita, frutto del suo rapporto col Generale. Il 10 febbraio del '60, un mese dopo lo sconsiderato matrimonio, Garibaldi riprese la corrispondenza con la donna amata come se nulla fosse avvenuto, solo chiedendole "... se posso con sicurezza mandarvi lettere lettere e manoscritti. Vostro sempre".

Speranza superò questi colpi con grande dignità, comprendendo che essi erano conseguiti alla stessa natura di tale uomo: fu da questo periodo che il loro rapporto prese l'impronta di una amicizia tra compagni d'armi.. Essa tornò a Caprera nel '61 e poi ancora ne '63 e nel '64 e ogni volta ne ripartì con la certezza che il vero Garibaldi era l'uomo che passava dalle epiche battaglie alla vita dei campi, rozza ed elementare, circondato dagli amici, dai figli e dalle donne che il destino gli mandava; chiedergli una qualsiasi adesione a sentimenti più esclusivi e sottili, sarebbe stato come pretendere da lui che si uniformasse ad etichette e consuetudini formali: impossibile!

Battistina Ravello, dopo la nascita di Anita, aveva lasciato Caprera e se n'era tornata al suo paese con la bambina, mettendo il Generale nelle angustie per la sorte di questa; egli ne parlò a Speranza ed essa subito gli offrì di assumerne l'affidamento. Passarono alcuni anni in cui la servetta si oppose a consegnare la piccola al padre ed egli dovette rivolgersi anche al tribunale per poter esercitare la patria potestà. Ecco un'altro aspetto peculiare dell'animo di Garibaldi: nutriva per i figli un'amore di tipo patriarcale; che fossero legittimi o meno, egli li voleva per se, come un dono del cielo e gli amava con identico calore. La Schwartz lo comprese fino in fondo e seppe essergli vicina anche in ciò. Quando Anita ebbe nove anni, finalmente egli potè riaverla per intervento del tribunale e dopo un mese, nel luglio 1868, la ffidò all'amica perche provvedesse alla sua educazione. La dama inglese si trovò di fronte ad una piccola selvaggia, violenta e vendicativa. Impossibile tenerla con se: era indispensabile metterla in un ottimo collegio ed essa ne scelse uno svizzero costoso e famoso, dove la piccola rimase alcuni anni, sempre a sue spese e seguita nel migliore dei modi.

Ma nella sua visita a Caprera, Speranza si avvide anche che la famiglia Garibaldi era cresciuta di un'altra donna e di un'altra figlia: fin dal 1865 infatti vi era giunta Francesca Armosino in qualità di nutrice dei figli di Teresita e di Stefano Canzio. Si trattava di un'astigiana, cercata accuratamente dagli amici del Generale perchè non potesse con le sue grazie insidiare tutti quegli uomini; e infatti non era affatto bella e neppure graziosa. Ma, a differenza della Battistina, Francesca era intelligente e di piglio energico, sapeva ispirare fiducia o per lo meno la seppe ispirare al capofamiglia, che a poco a poco la lasciò prendere possesso del ménage domestico. In breve tempo la donna divenne la serva - padrona e di lì il passo fu breve perchè conquistasse il ruolo di incontrastata compagna del Generale. Il 16 febbraio 1867 nacque Clelia. Il fatto che un'anno dopo egli affidasse Anita a Speranza lascia intendere che allontanasse volentieri dalla Casa Bianca un motivo di risentimento della sua donna, risolvendo nel contempo il problema dell'educazione della bambina; e la Schwartz era troppo esperta delle cose della vita per non rendersi conto che in questo momento Garibaldi stava srumentalizzandola in nome di quel gagliardo egoismo che è uno dei tratti caratteristici dei grandi uomini d'azione. Non disse nulla perchè in realtà non sarebbe stata intesa dalla perfetta buona fede dell'amico; ma d'ora in poi la sua devozione si espresse soltanto nell'educazione di Anita, dalla quale per'altro non ebbe alcuna soddisfazione e compenso morale. Si diradarono anche le visite a Caprera, dove tornò nel 1870 e poi nel '74, quando ormai i figli di Francesca Armosino erano tre. La scrittrice rivolse il suo ardore ideale alla causa della libertà del popolo cretese e si stabilì a Creta per parecchi anni, dedicando tutte le sue energie intellettuali, fisiche ed economiche a quegli infelici patrioti, fino ad ammalarsi e quasi a morirne. Garibaldi la seguiva da lontano sempre con affetto, ma nelle lettere la sua partecipazione pare attenuata per l'età e per i guasti che l'artrite andava producendo nel suo forte fisico.

Nel '75 Speranza, che si trovava ad Atene per riprendersi dalla malattia, si fece raggiungere da Anita: non si è mai saputo esattamente cosa sia intervenuto tra Garibaldi e lei in quella circostanza. Io propendo a credere che Anita, ora quindicenne, si sia incapricciata di voler raggiungere il famoso genitore - che aveva visto soltanto nell'infanzia - e abbia fatto ricorso a una menzognera messinscena scrivendogli che la Schwartz la maltrattava: la cosa non è incompatibile col carattere sempre dimostrato dalla ragazza. Ma credo anche che la Armosino e i figli maggiori del Generale, che non avevano mai celato la gelosa antipatia per la scrittrice, abbiano dato particolare credito ed enfasi alla lettera di Anita.

Menotti fu incaricato di andare ad Atene a prendere la giovane e di accompagnarla a Frascati, dove allora si trovava Garibaldi con la famiglia. Quindi tutti insieme tornarono a Caprera. Quì, Anita potè scatenarsi in tutta la sua naturalità, ma dopo pochi giorni fu assalita da una fortissima febbre e morì, non si sa se per un'infezione intestinale o per un'insolazione.

Ben 73 anni dopo, Clelia Garibaldi nel suo libro Mio padre diede una versione iniqua e priva di fondamento sulla intera vicenda di Anita, presentando la Schwartz come "la tedesca innamorata e feroce", colpevole della "pietosa avventura della bimba Anita". Poichè Clelia, all'epoca dei fatti, aveva appena 8 anni, è evidente che il suo racconto è frutto della versione accreditata da Francesca Armosino e poi tramandata nella memoria familiare.

Dal canto suo Speranza Von Schwartz, chiuse dentro di sè come in un forziere la conoscenza che ella ebbe fino in fondo delle uniche debolezze del grande Giuseppe Garibaldi: nella sua dignità di donna interruppe ogni rapporto anche epistolare con lui e soltanto finì un suo libro di memorie con una frase emblematica in cui diceva che egli era come un'astro nel cielo e che, come il sole, aveva alcune macchie.

A proposito di Francesca Armosino, alcuni autorine parlano come una sorta di virago, malevola, avida, possesiva e volgare; altri dietro l'onda della più scoperta vena retorica, ne fanno l'ideale compagna dell'eroe, quasi una mitica figura di donna italica.

Ben pochi, anzi pochissimi, hanno fatto lo sforzo di penetrare un pò puù e un pò meglio nella mentalità e nella psicologia di questa popolana che assunse l'ingrato compito di vivere vicino a Garibaldi tra le mura domestiche. La provenienza di Francesca era il chiuso paesetto piemontese dell'800, dove agli uomini toccava lavorare la terra efinire ogni giorno della vita all'osteria; alle donne lavorare anch'esse la terra , curare la casa, i polli, il forno e via dicendo. per una ragazza non bella in una famiglia numerosa come la sua l'alternativa era di andare a servizio per pochi centesimi. E quasto le toccò, ancor prima di essere portata a Caprera. Riuscì anche a fare all'amore con un soldato e rimase incinta, quindi disonorata agli occhi dei paesani. L'occasione di andare a servire Garibaldi risolveva d'un colpo tutti i problemi: la bambina che aveva partorito fu lasciata a qualcuno ed essa fu portata di là dal mare, lontano dalle malelingue, anzi, riabilitata dal fatto di andare a servire nella casa di un'uomo importante.

Sicuramente quando conobbe l'Uomo di Caprera, Francesca capì con intelligenza che avrebbe potuto ricavarne quel che voleva: Garibaldi stimolò in lei il solo ideale che le si addiceva, quello di realizzare una sostanza utilizzando gli infiniti sprechi che in quella casa si commettevano a causa del disordine imperante e del non attaccamento del Generale alle cose materiali. Col suo fine fiuto contadinesco, la balia comprese che vicino a quell'uomo importante e diverso da ogni altro, avrebbe potuto sistemare non solo se stessa ma tutta la famiglia.

Nei primi anni Francesca si sottopose a lui con la naturalezza saggia di un cane e come tale imparò a leggere e a scrivere: è interessante notare che apprese a scrivere per imitazione del suo padrone, tanto che più tardi la sua scrittura era quasi identica a quella di Garibaldi ed essa potè aiutare Basso nella corrispondenza. Quando iniziarono i rapporti intimi, la vita nella casa mutò: Teresita e Canzio furono persuasi as andarsene a Genova con la loro figliolanza e gli ospiti ivitati a restare soltanto dopo aver sentito lei. In casa non si muoveva nulla senza il suo consenso e gradatamente fu posto un limite al disordine. Anche i garibaldini, sia pure per l'amore che portavano al loro Generale, dovettero adeguarsi, alcuni a denti stretti, a quella nuova imprevedibile gerarchia domestica.

Ma il capolavoro di Francesca fu di aver saputo rendersi indispensabile a Garibaldi nelle poche cose pratiche a cui egli tenesse e cioè la cura dei suoi figli, la cura della sua igiene personale, la cura dei suoi terribili dolori reumatici. In ciò essa lo servì sempre, fino alla morte di lui, con una devozione esclusiva e selvaggia che è la chiave di volta per comprendere un ménage che per molti fu sempre un mistero.

Per anni ed anni lo lavò, lo vestì, lo massaggiò, gli preparò tisane e medicine, lo trasportò in carrozzella, lo sollevò di peso tra le braccia; sempre senza un lamento, con espressione convinta e soddisfatta, quasi come una madre. Sapeva intuire i suoi gusti a tavola, anche i più modesti e ciò non è facile con persone tanto parche e frugali da contenere la scelta in pochissimi cibi.

Com'era nella sua indole Garibaldi, garibaldi individuò perfettamente le qualità donna e queste elogiò ad ogni occasione, dandole im tal modo una propria collocazione esplicita, riconosciuta; anche Francesca come tutti gli altri, vicino a lui sentiva di esser qualcuno, mentre fuori dal rapporto con lui sarebbe stata una nullità. Quando nacquero Clelia, poi Rosita e infine Manlio, essa potè godere anche dell'elezione ideale che il compagno ne fece come madre dei suoi figli. Il sentimento che egli nutriva era di affetto mediato dalla nascita dei figli della sua vecchiaia, che egli amò in modo assoluto e possessivo, più ancora di quelli avuti da Anita.

Francesca invece amava Garibaldi con esclusività quasi animalesca e i bambini erano il frutto del suo possesso sul suo compagno e la prova per il mondo della sua vittoriosa rivincita sulla miseria: Sappiamo da Clelia che non lesinava schiaffoni e che in ogno occasione era pronta ad affidarli a qualcuno, pur di non abbandonare neppure un istante il suo idolo. Per lui, negli ultimi anni non esitò ad abbattere muri e porte, ad aggiungere un locale alla Casa Bianca, per rendergli più confortevole la vita, non ammise nessuno al privilegio di spingere la carrozzella dell'infermo e tanto meno di sollevarlo, vestirlo e svestirlo: erano fatiche enormi cui essa si sottoponeva quasi con beatitudine.

Quanto più il fisico di Garibaldi decadeva col progredire della malattia, tanto più fioriva quello di francesca, nella pienezza della sua vittoria.

Egli era perfettamente coscente della irreversibilità del suo male e nel rigore dei suoi princopi morali, un unico cruccio lo tormentava: quello di riuscire a sposare Francesca e di poter così dare il proprio nome ai figli. Dal tempo del suo disgraziato matrimonio con la mrchesina Raimondi, nel '60, non aveva mai cessato di sollecitare l'annullamento, ma il desiderio divenne addirittura angoscioso dopo la nascita di Manlio, il prediletto, nel 1873. Tentò ogni via, nel '79 giunse ad umiliarsi fino al punto di inviare una supplica al re in carta bollata da £.1, come un cittadino qualsiasi, eforse fu questa la mossa che sbloccò una causa cui non erano valsi famosi avvocati e l'interessamento dei suoi amici più cari. Infatti l'annullamento fu concesso il 14 gennaio del 1880 e a Caprera fu gran festa.

Garibaldi ciese ed ottenne la dispensa dalle pubblicazioni e il 26 dello stesso mese alla Casa Bianca furono celebrate le nozze dal sindaco di La Maddalena Leonardo Bargona, alla presenza della numerosa famiglia dei garibaldini. Se per lui quell'atto rappresentò la pace della coscienza, per Francesca il matrimonio fu il coronamento di una vita di sacrifici, di costanza e di rivalsa sociale: aveva vinto, era la signora Garibaldi, moglie dell'uomo più importante d'Europa!

Tra il '75 e l''82 il Generale si ridusse a un povero corpo inerte martoriato dall'artrite deformante ed essa amava comporlo nella sedia a rotelle come un'altarino, lindo e ordinato e così mostrarlo al mondo con lei immancabilmente al suo fianco; mai tanti ritratti e fotografie furono fatti a Garibaldi come negli ultimi suoi anni. Poi, utilizzando abilmente la venerazione popolare e la giustificazione di cure termali e cambiamenti d'aria, Francesca facilitò e caldeggiò viaggi in continente sempre più frequenti, esibizioni a volte penose di quello che era stato l'eroe, il Vate d'Italia, di città in città, secondo un rituale molto simile alle processioni delle reliquie. E inevitabilmente v'era una carrozza di lusso, con Garibaldi giacente e lei, Francesca, sempre al suo fianco con Clelia e Manlio bene in vista; in quelle occasioni, poichè non era corretto mostrarsi mentre sollevava di peso il malato, concedeva che fosse menotti aiutato da uno degli intimi a svolgere l'incombenza. Così accadde fino a pochi giorni prima della morte, quando l'Uomo di Caprera fu portato prima a Napoli poi a Palermo in un'apoteosi di folla delirante quale non si vide mai nel nostro paese.

Il vecchio ormai immobile e quasi senza voce, non aveva perduto il suo potere sciamanico sulle masse e queste diedero una dimostrazione sconvolgente di mansuetudine: e facile comprendere l'ovazione, ma è un fatto unico che centinaia di persone entusiaste osservino il più assoluto silenzio al passaggio del loro idolo, , per non dargli una commozione eccessiva, ed erompano nell'urlo osannante soltanto quand'egli entra nella villa che lo ospita; eppure questo accadde nelle due citta testimoni della sua più grande impresa.

Ma ora Garibaldi sentiva prossima la morte e voleva ad ogno costo tornare a Caprera. Palermo desiderava averlo ancora per qualche giorno, ma egli riprese il possesso del suo destino e fu irremovibile nell'ordinare la partenza, affermando che nella sua isola un sacro dovere lo aspettava.

DUE CAPINERE E IL PIANTO DEL MARE

Aveva adempiuto ai suoi uffici d'uomo,era sereno e la disposizione del suo cuore non doveva essere diversa da quanto aveva scritto nel suo romanzo Clelia: "Dio quì si adora come si deve, col culto dell'animo - senza sforzo - nel grandioso tempio della natura che ha il cielo per volta e gli astri per luminari. Il capo della famiglia che primeggia in quest'isola è un uomo come gli altri, colle sue fortune e isuoi malanni. Ebbe la sorte di servire qualche volta la causa dei popoli servi. Come qualunque mortale ha la sua dose di difetti. Cosmopolita, egli ama però svisceratamente il suo paese - l'Italia - e Roma con idolatria".

Era aprile e Caprera tutta fiorita e pregna di profumi si stendeva intorno al vecchio proprio come un tempio grandioso, nel quale egli ora doveva compiere l'ultimo sacro rito. Da molti anni lo aveva preparato in sè, fino ai dettagli: un grande rogo odoroso che bruciasse quel suo corpo tutto dato, tutto consumato, sublimandone le carni, e rendendo alla terra la sua polvere. Un rogo "omerico" come quello di Patroclo, ma che ardesse nel silenzio della sua isola, senza cerimonie nè testimoni all'infuori degli officianti suoi fidi. Perciò, già alcuni mesi prima si era preoccupato di concordare con Francesca le modalità della cremazione e, insieme, avevano esteso le relative volontà testamentarie:

"Caprera, 17 settembre 1881

Avendo, per testamento, la cremazione del mio cadavere, incarico mia moglie dell'eseguimento di tale volonta - con legna di Caprera - e pria di dare avviso a chicchessia della mia morte. ove morisse essa prima di me - io farò lo stesso per essa.

Verrà costruita una piccola urna di granito - che racchiuderà le ceneri di lei e le mie. L'urna sarà collocata sul muro dietro il sarcofago delle nostre bambine e sotto l'acacia che lo domina."

Firmato: Giuseppe Garibaldi

Consento, firmato: Francesca Garibaldi

Inoltre, ancor prima aveva dato incarico ai dottori Prandina, De Cristofori e Pini di sovrintendere all'aspetto tecnico dell'operazione. Quindi tutto era predisposto per bene. Mancava ora la preparazione della pira.

Il vecchio scelse quindi il luogo: una radura, delimitata da un muro di Granito, sol lato destro, guardando la casa, vicino a un pino; scelse con cura i tipi di legna e ordinò ai suoi di raccoglerli: il ginepro resinoso, il lentisco profumato, il mirto sacro, qualche corbezzolo e rami di pino, li fece accatastare. Stabilì che sopra fosse collocata una grande lamiera e su questa un lettuccio su cui deporre la sua salma vestita della gloriosa camicia rossa.

Egli seguì con attenzione ogni dettaglio, poi si mise in pace ad aspettare la morte, ultimando il romanzo Manlio e leggendo i suoi poeti preferiti. Scrisse la sua ultima lettera il 29 maggio al direttore dell'Osservatorio Astronomico di Palermo per avere la posizione di una cometa apparsa in quei giorni nel cielo.

Sentiva la forza venirgli meno dolcemente. Allora chiese a Francesca di essere portato nella grande stanza che aveva fatto costruire per lui sul lato nord della Casa Bianca, dalla cui finestra si poteva vedere il mare, la Corsica e, al di là, immaginare la "sua" Nizza. La moglie, che non lo lasciava più, notte e giorno, vi trasferì il letto e comprese che la fine era prossima; avvertì Menotti a Roma, e chiese l'intervento del medico di bordo di una nave da guerra ancorata a La Maddalena. Ma Garibsldi non voleva medici tranne il suo grande amico Albanese; desiderava soltanto la pace. Fu lieto quando vide Menotti e volle vicino a se il piccolo Manlio.

Il 2 giugno 1882 il morente era come assorto in un suo intimo colloquio con la natura di cui dalla finestra giungevano i colori e gli odori, o con il filo di memorie tra passato e futuro. Nel pomeriggio due capinere si posarono cinguettando sul davanzale e Francesca fece per mandarle via, ma egli la fermò dicendo: "non le scacciare; forse sono le anime delle nostre bambine che vengono a prendermi". Poi chise gli occhi e si spense. Erano le 6 del pomeriggio.

Nelle ore che seguirono si scatenò la disputa sulla cremazione. Contrastanti versioni ne furono date e naturalmente la più accreditata fu per molto tempo che il governo avesse ceduto alle pressioni di parte clericale, vietandola. Ma non fu così: le pressioni ci furono, ma sotto forma di innumerevoli telegrammi che giunsero alla famiglia da ogni parte d'Italia da gente che non voleva che fosse distrutto quel corpo venerato.

Menotti, Ricciotti e Stefano Canzio ne furono turbati e si opposero alla cremazione dopo un lungo colloqio con l'onorevole Crispi da loro stessi chiamato per un consiglio; al consulto parteciparono anche il dottor Albanese medico e amico fedele di Garibaldi, Alberto Mario e Domenico Curatolo. Non sappiamo quale posizione abbia assunto Francesca.

Non ebbe peso sui figli l'opinione di tutta la stampa laica liberale che chiedeva unanime di rispettare la volontà di Garibaldi: in tal senso si erano espressi la "Gazzetta del Popolo", "Il Risorgimento", "La Gazzetta Piemontese", il "Corriere della Sera", la "Regione", il "Pungolo", il "Presente di Parma", la "Lombardia".

Protestò fieramente il Carducci con una famosa invettiva su "Cronaca Bizantina": "...Bruciate tutti i vostri poeti, me il primo. Avete sentito le ultime parole su le capinere? E ora non vogliono nemmeno rispettare l'ultima sua volontà. Non vogliono che l'eroe bruci sulla catasta omerica nel cospetto del mare e del cielo. Lo vogliono trasportare a Roma per fare delle processioni, del chiasso, delle frasi. Oh, ora capisco perchè il popolo italiano non ebbe mai vera epopea!...".

Il corpo dell'Eroe fu imbalsamato e si prepararono i solenni funerali di stato: delle sue volontà fu rispettata soltanto quella di essere sepolto a Caprera vicino alle sue bambine, dietro casa; e fu già gran cosa poiche molti chidevano che fosse portato a Roma e sepolto in Campidoglio.

La Mattina dell'8 giugno, la gente cominciò a sfilare davanti alla salma. Così ne descrive le sembianze lo scrittore Pier Enea Guarniero nel libretto Tre giorni a Caprera, da lui pubblicato subito dopo i funerali: "Pareva dormisse e al primo vederlo ognuno sentiva qualche cosa agitarsi in fondo al cuore, e salire fino alla gola e farvi un nodo. Non si poteva staccar gli occhi da lui, e per lungo tempo non si vedeva altro nella stanza che quella faccia dai lineamenti ben noti ma immobili e irrigiditi nel torpore della morte, con la pelle tesa, senza una ruga, di una tinta cerea, quasi terrea, tutta uniforme e chiazzata solo alle gote da due nere ecchimosi sinistri precursori della dissoluzione. Aveva i peli dei capelli e della barba, rossicci, brizzolati di bianco, ben ravviati e pettinati, le palpebre socchiuse, le labbra semiaperte, come ad un sorriso, e lasciavano a vedere le due fila di denti, scuri e irregolari.

Gli copriva la testa la tradizionale papalina di velluto nero, ricamata a fiorami d'oro e d'argento, e portava al collo l'occhialetto d'oro pendente sul seno. Tutto il resto del corpo era coprto da un largo drappo; le braccia erano rappresentate dalle maniche di una camicia rossa, incrociate sul petto, e un fazzoletto bianco teneva il luogo delle mani. Al di sopra della testa poggiava sul capezzale una corona di foglie d'alloro e un'altra simile l'aveva ai piedi".

Fin dal giorno precedente i maddalenini videro la loro rada coprirsi di Grandi navi: 8 da guerra, tra cui la "Cariddi e il Washington, e moltri altri piroscafi, e sbarcare a centinaia e centinaia di persone. I pellegrini erano almeno il doppio di loro, tanti qunti non se n'erano mai visti nella storia; e rappresentavano un mosaico fantasmagorico e impettito di tutte le componenti nazionali.

La lunga teoria delle lance scaricava sugli scogli di Caprera ministri e generali, operai e signori, contadini e uomini di mare, uomini politici, soldati, garibaldini venuti d'ogni dove.

L'isola era stata pavestata lungo tutto il sentiero che dalla marina portava alla Casa Bianca di bandiere e stendardi e festoni di fiori e di alloro; pareva una gran festa campestre in cui però le bande coi luccicanti ottoni suonavano gli stessi inni che molti avevano sentito a ritmo di carica, nelle lente cadenze della marcia funebre.

Per tutta quella mattina la gente sfilò davanti alla salma, poi si disperse tra i campi e la macchia e si diede avidamente a raccogliere qualcosa che potesse ricordare la circostanza. Scrive Guarnerio: "Si raccolsero i fiori silvestri, cresciuti tra i crepacci e screpolature delle roccie; si tagliarono i rami di pino, di ginepro, nel cimitero, nei campi, dovunque. Un vero saccheggio venne dato alla catasta della legna preparata per il rogo; non so chi non ne abbia portato via un bastone, o almeno una scheggia".

Nulla avveniva di quanto il vecchio di Caprera aveva desiderato.

Alle 2 del pomeriggio il cannone della Cariddi tuonò per annunciare l'inizio del funerale ed esattamente nello stesso momento il vento che fin dalla mattina soffiava fresco, volse a tempesta; il mare, che già era ingrossato, si scatenò in una indescrivibile buriana di onde accavallantisi; le nuvole, che s'erano andate accumulando, coprirono il mondo di un livore plumbeo e infine si squarciarono in un vero e proprio nubifragio. Il rombo dei cannoni fu coperto da quello ben più vasto e terribile di mille fulmini; le voci degli oratori ufficiali, il suono delle bande furono ingoiati dall'urlo del ponente infuriato; il vento strappò via fino all'ultimo drappo, all'ultima bandiera e festone, fece giustizia di cappelli a cilindro, di scialli ricamati, di ombrellini da sole. In breve quel corteo di esteriorità, rumoroso, imbandierato e ciarliero, fu ridotto a una processione di penitenti fradici, muti e spaventati che seguivano la bara dell'uomo più semplice d'Italia fino alla fossa scavata dietro casa, sotto l'acacia.

Appena deposto il feretro tutti fuggirono come anime perse nella bufera verso lo Stagnarello per cercare un'imbarco: i marinai delle lance fecero miracoli di perizia per trasbordare il maggior numero possibile di persone alle navi, ma la tempesta era al suo culmine, il mare, nero come la pece, si contorceva in ondate quali i maddalenini non avevano mai visto, a memoria d'uomo, in quella stagione. Perciò la metà della gente non potè imbarcarsi e l'altra metà, stipata nelle barche, rischiò la morte. Le quasi mille persone rimaste sui graniti di Caprera vagavano sotto il diluvio in cerca di un riparo, chi trovandolo sotto i massi, chi stipandosi nella casetta balneare di Garibaldi, chi risalendo alla casa e rifugiandosi nelle stalle e nei fienili. La notte passò con tutti quei corpi distesi, sfiniti, tremanti e affamati, di generali e popolani, politici e donne, soldati, operai, ministri e studenti, finalmente pareggiati in una eguaglianza da prima linea o da naufraghi, che i vecchi garibaldini presenti avevano conosciuto bene con lui.

Smise di piovere. All'alba del 9 giugno le barche raccolsero in fretta i derelitti, li trasportarono a La Maddalena, dove la popolazione si mobilitò per rifocillarli. Poi le grandi navi salparono e l'arcipelago tornò alla sua solitudine e Caprera tornò al suo silenzio, isola selvaggia, custode ora di un mito.

Al placarsi della tempesta, rispuntò, quel suo sorriso misterioso, quel fascinoso richiamo per pochi eletti, che un giorno, ventcinque anni prima, aveva tratenuto il marinaio - guerriero:

"...E l'ermo

anelante cercai sul derelitto

lido della Sardegna, e te trovai,

Caprera venturosa! Ho, caro scoglio,

rifugio amato del mio cor, qual donna

amata. E se scordar potessi il mondo

tra i tuoi dirupi, nulla vorrei

desiderar su questa terra, e un sasso

chiederti del superbo tuo granito

per ricoprirmi.....".

 

"Giuseppe garibaldi"

Le tombe.

la tomba del generale