Mi perdoneranno i lettori
un’espressione frusta? Su Lansdale esistono due scuole di pensiero. Qui lo dico
e non lo nego. Stando alla prima, rappresentata (tra gli altri) dal fine
italianista Emanuele Trevi, Lansdale è un vero cafone, anzi, il poeta della
cafonaggine: un buon selvaggio che nella sua (cafona) coerenza ha il proprio
pregio letterario. Diversamente la pensa chi, come Luca Briasco,
erudito americanista, non si stanca di ripetere che Lansdale è uno scrittore
smaliziato che fa il cafone, o meglio che sa ritrarre magistralmente i
cafoni del Texas, sua patria e sua dimora (e abitando a Nacogdoches
gli è pure finito un pezzo dello shuttle in giardino).
Ebbene, dopo aver letto
questo romanzo, impresa d’esordio del grande Joe (anche fisicamente è una
montagna), mi sono ancor più convinto che, mi si perdoni questa posizione cerchiobottista, hanno un po’ ragione tutti e due. Non in
pari misura: diciamo 60% Briasco e 40% Trevi. È vero
che Lansdale è uno scrittore accorto, tecnico, scaltrito: e ce ne sono di
citazioni, in questo romanzo, soprattutto cinematografiche (alcune palesi,
molte nascoste, tra cui gli omaggi al nostro geniale artigiano dell’horror
Dario Argento), ma anche letterarie. E ci vuole una certa consapevolezza del
proprio scrivere per costruire un giallo perfetto e calibrato come questo,
inserendo pure a ogni pié sospinto scene e topoi tipici dell’horror, in un gioco di cortocircuitazione dei generi che spinge a leggere il libro
non tutto d’un fiato, ma letteramente senza fiato.
Sfido chiunque a cominciarlo e metterlo giù; e quando si scopre chi è il
colpevole (perché Atto d’amore, pur con tutte le sue componenti
splatter-horror, è proprio un giallo con l’enigma da risolvere e il finale
mozzafiato), è una vera sorpresa. Anche politicamente; oserei dire soprattutto
politicamente.
Ma la teoria del Lansdale
cafone cara al Trevi ha la sua motivazione. Lansdale, e ben lo sa chi lo ha
tradotto, è un Grande Provinciale; orgoglioso della propria provincialità, e
quindi genuino cafone (o burino) nel non voler essere altro che cafone (o
burino). Non è un soggetto da grande città e da labirinti metropolitani. La sua
ambientazione è la periferia dell’impero americano; il Texas degli sfigati, del
white trash, non quello di J.R. Ewing o di G.W. Bush. E questo spiega l’unica pecca del romanzo: qui
Lansdale ha voluto giocare in un terreno che non gli è congeniale: ha
ambientato la storia a Houston e Pasadena, che sono, anche se più piccole di
New York, metropoli (due milioni e passa di abitanti per Houston, grattacieli e
tutto il resto). In questo si vede, come in qualche frase un po’ scontata
all’inizio del romanzo, che è l’opera di uno scrittore esordiente. Ma quanto
dotato: a differenza di tanti romanzi che tocca di leggere, qui la seconda
parte (il finale) è nettamente superiore alla prima, e ha una di quelle
architetture che non cambieresti una virgola.
In seguito Joe R. Lansdale
non ripeterà più l’errore, e ambienterà le sue storie in quelle piccole città
di provincia che sono l’ambiente ideale del burino DOC, teatro ottimale delle
sue buone e (soprattutto) cattive azioni. Sarà il Lansdale poeta dei drive-in e
delle Chevrolet, saldamente radicato nella sua terra.
Infine: il romanzo uscì in
America nel lontano 1981. Non è invecchiato affatto. E a leggerlo oggi si
capisce da dove è uscita l’idea di mescolare giallo deduttivo e horror che ha
permesso a Thomas Harris di far milioni (di dollari) con la sua trilogia di Hannibal Lecter. In Atto
d’amore c’è già tutto: il serial killer, la lirica anatomo-patologica, la
mistica del sangue e delle interiora e della merda, lo sguardo lucido e obliquo
sulle miserie dell’America imperiale. Erede del Bloch di Psycho
e ispiratore dei silenzi degli innocenti e compagnia cantante, Seven incluso,
questo romanzo è una lettura imperdibile per chi voglia capire le genealogie
della letteratura di genere americana. E anche per chi voglia soltanto perdere
il sonno.
(Pulp Libri, n. 43, p. 28)