Non c’è niente di più
difficile della semplicità. Questa regoletta vale in particolare per
quest’ultima prova letteraria del giallista (ma non solo) statunitense (già
edito in Italia da Tropea), uscita oltre Atlantico l’anno scorso e ripropostaci
ora nella bella traduzione di Giuseppe Costigliola, che appunto ha il
grandissimo pregio di preservare la semplicità dell’originale.
La storia è raccontata in
prima persona da Charles Blakey, un trentenne afroamericano dalle
caratteristiche spiccatamente oblomoviane: è disoccupato, è svaccato, pensa
solo a bere e giocare a carte, mentre i debiti si stanno mangiando la sua casa
e la sua vita. Charles è stato cacciato dalla banca dove lavorava perché
rubacchiava, e da quel momento è andato in discesa. Non che se ne dispiaccia
tanto; accoglie il proprio naufragio con filosofica indifferenza.
Ma Mosley mescola Gonciarov
con Gogol, perché in questa vicenda che parte realisticamente s’inserisce un
elemento decisamente grottesco, cioè l’arrivo del signor Anniston Bennet, un
rispettabile uomo d’affari facoltoso e decisamente bianco, che propone a Charles
di affittare la sua cantina a carissimo prezzo. Il che non sarebbe niente di
strano, non fosse per l’uso che Bennet intende farne: vuole che Charles lo
tenga imprigionato lì in una gabbia.
Ora, nel momento in cui il
bianco è in gabbia e il nero fa il carceriere, la situazione si fa alquanto
delicata: il ribaltamento di quel che successe nell’Ottocento (secondo alcuni
ancora fino agli anni ’50 del Novecento, secondo altri ancora adesso) non è
cosa indolore, e scatena tutta una serie di rancori, rabbie e paure che non si
sa bene dove possono finire. E Mosley, che lo sa bene (essendo abbastanza scuro
di pelle), spinge le cose finché dalle cantine di una storia semplice non
erutta di tutto e di più.
Qui si risuscita quella
forma rigorosa di romanzo a tesi che è il dramma a porte chiuse, il cui più
bell’esempio è forse l’omonimo pièce di Sartre. È una forma narrativa
che può ingenerare una tensione spasmodica. Questo libro lo fa, specie nel
finale. Che ricorda un verso famoso di un celebre poeta (e cantante) americano:
no on here gets out alive [nessuno esce vivo di qui]. Forse nemmeno il
lettore.
(Pulp Libri, n. 57, p. 44)