Mi è capitato di recensire
tempo fa un bel giallone inglese, ovvero La prova del fuoco di Frances Fyfield, e notavo quanto
il crime novel inglese si fosse allontanato
dai grandi modelli storici, siano la Christie o Durbridge,
ma senza far rivoluzioni, conservando tutta una serie di elementi
caratteristici della scuola britannica: l’ambientazione provinciale,
l’attenzione all’ambiente domestico, l’analisi dei rapporti familiari. Ora, nel
leggere questo romanzo d’esordio della Rendell,
decana del giallo d’oltremanica, mi rendo conto da dove viene la Fyfield; e capisco perché questi gialli solidi e assai poco
propensi alla sperimentazione abbiano comunque e sempre un fascino tutto loro.
Per l’appunto, l’appeal discreto ma ineludibile del classico giallone inglese.
In un romanzo come questo Con
la morte nel cuore, l’Inghilterra si racconta e si guarda allo specchio
come nell’Ottocento si rispecchiava nei classici di Dickens, di George Eliot e
di Trollope. Soprattutto gli ultimi due vengono in
mente, in quanto cantori di quell’Inghilterra al tempo stesso agraria e
alto-borghese (se non aristocratica) che trova la sua terra d’elezione proprio
in quel Sussex in cui è ambientato il romanzo della Rendell. Campagna britannica curata come un giardino,
mucche al pascolo, occasionalmente una caccia alla volpe, ogni tanto un
cadavere sotto gli alberi.
Proprio lì viene trovato il
corpo esanime di Meg Parsons, una casalinga
assolutamente qualunque, ordinata e bigotta, strangolata in un bel pomeriggio
estivo. L’indagine condotta dall’ispettore capo Wexford
(personaggio di un’inglesità quasi metafisica) si
stringe attorno a Doon, un tempo amante della donna,
la cui passione giovanile non s’è consumata. Il problema è che Doon è uno pseudonimo, un nome tracciato su vecchi libri di
poesia vittoriana donati alla vittima; e non è affatto facile capire chi, tra
gli abitanti di Kingsmarkham, si nasconda dietro quel
nome poetico un po’ retrò.
Ma al momento dello
svelamento (con tutti i sospetti riuniti, stile Agatha Christie), abbiamo la
sorpresa di scoprire, oltre al colpevole, che l’Inghilterra non è più quella
dei delitti sul Nilo o dei dieci piccoli indiani: questo romanzo è infatti del
1964, e l’atmosfera della Swinging London
in queste pagine si sente.
Chiudo plaudendo alla
traduzione di Giuseppe Costigliola, che se l’è cavata
benissimo sia con la prosa che coi versi di cui il romanzo è ricco.
(Pulp Libri, n. 50, p. 47)