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29.12

La propaganda di Hollywood

FORREST GUMP E JEAN SEBERG


di John Kleeves

La seguente è la mia recensione del film Forrest Gump (1994), regia di Robert Zemeckis, con Tom Hanks (Forrest Gump) e Robin Wright (Jenny Curran). Il film è stato prodotto per la Paramount dai signori Steve Tisch, Steve Starkey e Wendy Finerman. Come si vede è di cinque anni fa ma è talmente " speciale " da meritare una rivisitazione.

Due premesse. La prima è la mia solita: io sostengo che la filmografia statunitense ("Hollywood") è una filmografia di Stato, controllata sin nei dettagli dalla United States Information Agency (USIA), un'Agenzia federale pubblica nell'esistenza ma segreta nell'operatività (come la CIA) istituita nel 1953 allo scopo di creare nel pubblico internazionale una precisa ancorché falsa immagine degli Stati Uniti. L'Agenzia, che non si occupa solo di Hollywood, ora conta sui 30.000 dipendenti ed ha sede al 301 IV South West Street di Washington; il direttore si chiama Joseph Duffey. Il fatto che i critici cinematografici di professione abbiano mancato di notare tale collegamento dipende dalla loro visuale limitata, e da una acquiescenza con la Grande Potenza che ha fatto loro reprimere - più o meno consciamente - quei sospetti sull'indipendenza di Hollywood che sicuramente spesso gli affioravano in mente (non si fa carriera nei media italiani dicendo verità sgradite agli Stati Uniti). Io dunque analizzo i film di Hollywood per mostrare al pubblico gli elementi di propaganda politica e culturale di cui sono stati caricati dall'USIA.

Mi pare la prima cosa che si debba dire di questi film. La seconda premessa è una rapida biografia di Jean Seberg, necessaria perché pochi ricordano questa attrice eppure grande diva degli anni Sessanta. La Seberg nacque il 13 novembre 1938 a Marshalltown (Iowa). Giovane bellissima e assai fine, che portava i capelli biondi tagliati un po' corti, debuttò nel 1957 con Saint Joan (Santa Giovanna) di O. Preminger e quindi lavorò regolarmente. Fra gli altri film ricordiamo Bonjour Tristesse (Idem, 1958) sempre di Preminger; The Mouse That Roared (Il ruggito del topo, 1958) di J. Arnold, con P. Sellers; A bout de souffle (Fino all'ultimo respiro, 1960) di J.L. Godard, con J.P. Belmondo; A Fine Madness (Una splendida canaglia, 1967) di I. Kershner, con S. Connery; Pendulum (Idem, 1969) di G. Schaefer, con G. Peppard. Per la fine dei Sessanta era una diva conclamata, al livello di Jane Fonda, e arrivò all'apice nel 1970, quando uscirono ben quattro film che la vedevano protagonista: il grande successo Airport (Idem) di G. Seaton, con B. Lancaster, D. Martin, V. Heflin, J. Bisset e G. Kennedy; Paint Your Wagon (La ballata della città senza nome) di J. Logan, con C. Eastwood e L. Marvin; Macho Callaghan (Idem) di B. Kowalski, con L.J. Cobb; e la produzione italiana Ondata di calore di Nelo Risi.

Erano però gli anni del movimento per i diritti civili dei neri e delle Pantere Nere. L'FBI era stato incaricato dal Congresso di eliminare tali movimenti, usando i mezzi repressivi consueti per il regime statunitense: false accuse giudiziarie; persecuzioni dell'IRS (Internal Revenue Service, il fisco americano) e della DEA (Drug Enforcement Agency, l'antinarcotici); licenziamenti da parte dei datori di lavoro; diffamazioni; omicidi anonimi per strada compiuti da agenti travestiti. Il programma preparato dall'FBI in merito era stato chiamato COINTELPRO, e in base ad esso erano stati fatti assassinare Malcom X nel 1965 e Martin Luther King nel 1968, mentre entro i primi anni Settanta tutti gli elementi trainanti - per un totale di alcune decine - venivano soppressi con agguati in strada (Huey Newton sfuggì sino al 1983, quando fu ucciso a Los Angeles; Abbie Hofmann riparò all'estero ma nel 1989 tornò e fu ucciso con una iniezione che provoca un arresto cardiaco senza lasciare tracce; Bobby Seale fu incarcerato sino al 1997; Ira Einhorn, latitante all'estero dal 1979 perché accusato di aver ucciso la sua ragazza Holly Maddox, uccisa invece si sa da chi, è stato fermato in Francia nel gennaio del 1999 e attende l'esame della richiesta di estradizione degli Stati Uniti). La tecnica della diffamazione veniva usata con larghezza. Nel 1967 il produttore Robert Maheu fabbricò per conto dell'FBI, di cui era informatore abituale, uno spezzone porno apparentemente ripreso da una telecamera nascosta, dove protagonista era un sosia di King. Si era trattato di una operazione del tutto analoga a quella compiuta nel 1957 nei confronti del presidente dell'Indonesia Sukarno, sempre realizzata tramite Maheu. Anche la cantante Eartha Kitt subì trattamenti del genere nell'ambito di COINTELPRO.

La Seberg in privato era sempre stata simpatizzante del movimento dei neri e raggiunta la grande notorietà nel 1970 pensò di usarla per pubblicizzare la causa. L'FBI la inserì nelle liste di COINTELPRO, e poco dopo venne da sé una occasione di diffamazione: la Seberg era incinta e al momento adatto l'FBI concertò una campagna di stampa insinuando che il padre era un leader delle Pantere Nere. Appresa la notizia la Seberg entrò nelle doglie e diede alla luce un bambino prematuro che morì tre giorni dopo, l'8 settembre 1970. La donna, sgomenta per tanta malvagità, non riuscì mai a superare il trauma; tentò subito il suicidio, e di lì in poi avrebbe ripetuto il rito ad ogni anniversario della morte del piccolo.

Intanto tutti in America l'avevano abbandonata; nessun produttore poteva offrirle parti, nessuno dei colleghi di ieri - Eastwood, Lancaster, Marvin, Peppard, Connery, Sellers e così via - si azzardò ad offrirle sostegno, anche solo morale. La Seberg fu portata in Europa, dove alcuni cercarono di aiutarla facendola lavorare. Girò così l'italiano Questa specie d'amore (1971) di A. Bevilacqua, con U. Tognazzi e F. Rey; il francese Kill (1971) di R. Gary, con J. Mason e S. Boyd; lo spagnolo L'altra casa ai margini del bosco (1973) di J.A. Bardem; il francese L'attentato (1973) di Y. Boisset, con J.L. Trintignant, M. Piccoli, P. Noiret, G.M. Volontè; il nominalmente anglo-americano Il gatto e il topo (1974) di D. Petrie, prodotto per la TV dall'amica Aida Young; il francese Prossima apertura casa di piacere (1974) di D. Berry. Il suo ultimo film, il trentesimo della carriera, fu Bianchi cavalli d'agosto (1975) di R. Del Balzo. L'8 settembre 1979, a Parigi, il suo decimo tentativo riusciva e moriva suicida. Da allora l'USIA ostacolò la riprogrammazione dei suoi film ovunque potè, certo in Italia, perché la gente non doveva focalizzare sulla donna e la sua vicenda. Ecco perché pochi ora ricordano Jean Seberg. Si può anche notare che Paolo Limiti, un adoratore di Hollywood e delle sue bionde star del passato, nella sua trasmissione su Rete 2 " Ci vediamo in TV " non nomina mai questa attrice.

Siamo pronti per Forrest Gump. E' un film inquietante e pericolosissimo, perché non solo oltremodo carico di propaganda politica e culturale, ma anche costruito con tecniche subliminali sopraffine e atte a danneggiare. Racconta la singolare vita di un americano di nome Forrest Gump, semi ritardato e da bambino poliomielitico, cui capita di avere contatti pure fugaci con molti grandi personaggi e di partecipare agli eventi storici nodali del suo tempo. In pratica tramite Forrest si fa una carrellata di trenta anni di storia americana, diciamo dal 1955 al 1985, dandone senza farsi accorgere una valutazione precisa. Il film è del 1994 ed è anche stato trasmesso dalla televisione di Stato italiana, per cui non è necessario dilungarsi sulla trama. Ecco gli elementi di propaganda intenzionale che sono presenti nel film:

1 - Forrest è descritto come gli USA vorrebbero che il mondo credesse l'americano tipico: forse poco intelligente ma onesto e ben intenzionato, candido sino all'ingenuità; uno che se fa il male lo fa per stupidità o per eccesso di zelo. E' propaganda culturale, perché l'americano tipico è l'opposto; è astuto, cinico e mal intenzionato, e quando fa il male - pur ridendo, come in genere - sa di farlo. Serve perché gli americani amano fare gli sprovveduti per "non pagare il dazio", come si dice qui: dopo avere compiuto una nefandezza, mettiamo un colpo di Stato o una strage di civili, sono dispostissimi ad attribuirla al loro "zelo anticomunista" forse eccessivo, a "informazioni incomplete o sbagliate", a "bombe intelligenti" che con falsa ritrosia ammettono qualche volta difettose, anche a pura e semplice dabbenaggine. Tutto pur di non dire: Abbiamo sovvertito e abbiamo ucciso perché così avevamo programmato per la nostra convenienza. Non dico che non esistano americani come il Forrest del film. Esistono in verità, e si possono anche prendere a modello per un film. Frank Capra lo ha fatto molte volte. Ma averne inserito uno come protagonista di un film come questo non può che essere una scelta precisa e maliziosa.

2 - Attraverso l'abile montaggio di filmati d'epoca vediamo Forrest in contatto con i presidenti Kennedy, Johnson e Nixon. Ci sono più strati di falsità. Sono presentati come incontri di un uomo comune con il Potere incarnato e così si dice implicitamente che i presidenti americani comandano. I presidenti americani invece non contano proprio niente. Il Potere negli Stati Uniti è detenuto dall'establishment imprenditoriale, in particolare dalle Multinazionali, e il presidente è solo un impiegato incaricato di fare i loro precisi interessi nel mondo, il che è la definizione di sempre della politica estera americana. Gli Stati Uniti in effetti non sono una repubblica presidenziale; sono una dittatura dell'imprenditoriato. Dire o suggerire che i presidenti americani comandano è propaganda.
Quindi si presentano i tre presidenti secondo i soliti cliché: Kennedy idealista, democratico, ben intenzionato; Johnson populista, democratico, ben intenzionato; Nixon, disonesto, poco democratico, male intenzionato (e perciò sarebbe stato allontanato dalla carica, e cioè licenziato). Tutto falso: erano dei presidenti americani e perciò erano tutti uguali, tutti dediti a fare gli interessi all'estero dell'establishment, con i soliti metodi spietati. Kennedy fece uccidere Ngo Din Diem; tentò di fare altrettanto con Castro (per 20 volte secondo quest'ultimo); diede impulso alla sovversione in Indocina; fece preparare l'orrendo programma quadro di manipolazione psicologica di massa che fu chiamato in suo onore CAMELOT (come i media americani chiamavano Kennedy, perché era " nobile " e " senza macchia " come un cavaliere della Tavola Rotonda; il programma The Quartered Man che fu usato dalla CIA per il colpo di Stato in Cile del 1973 faceva parte di CAMELOT). Johnson fece mettere in scena l'incidente del Golfo del Tonchino e poi iniziò quei bombardamenti di civili in Indocina che alla fine, tirate le somme, avrebbero provocato 6 milioni di morti. Nixon era come loro, giusto meno simpatico, e fu licenziato solo perché aveva sancito la sconfitta nella Guerra del Vietnam.

3 - La sensazione della democraticità del sistema americano pervade tutto il film. Lo fa in maniera indiretta, dandola per talmente scontata da non meritare evidenziazioni. Come detto gli USA non sono affatto una democrazia. Sono un sistema totalitario, che si regge sull'esclusione dal voto di più della metà della popolazione e sulla repressione del dissenso. Sopra l'ho chiamata una dittatura dell'imprenditoriato, e dire o suggerire che sono una democrazia è propaganda.

4 - Durante una manifestazione di "hippies" e di neri a Washington un uomo un po' anziano e in divisa stacca goffamente la spina del megafono dell'oratore di turno. E' una inserzione di propaganda subliminale: suggerisce che eventuali boicottaggi alle manifestazioni progressiste degli anni Sessanta - dei pacifisti, dei figli dei fiori, dei neri - furono dovute ad iniziative estemporanee e personali di singoli benpensanti, sia pure magari appartenenti a qualche corpo statale o federale. Noi abbiamo invece avuto modo di vedere a proposito del movimento per i diritti civili dei neri che si trattò di ben altro, che si trattò di una repressione ufficiale, e violentissima benché surrettizia, ordinata dal Congresso.

5 - Nel film i movimenti degli hippies pacifisti e dei neri per i diritti civili sono potentemente diffamati. I loro happenings sono disordine, schiamazzi, ubriachezza, droga e intemperanze sessuali. Non è certo la parte "buona" dell'America. La parte buona è evidenziata da Forrest, che casualmente capita in una di queste manifestazioni vestito in alta uniforme (è in licenza dal Vietnam, dove faceva il suo dovere; mantiene la divisa perché - ci suggerisce la regia - ne è orgoglioso). E' proposto un party delle Pantere Nere, cui partecipa Jenny, l'amata di Forrest: alcool e droga e tutto il resto. Un giovane presentato come comunista, segretario della tal cellula, picchia senza apparente motivo Jenny; si sa come sono i comunisti. La salva Forrest, nella sua divisa. Non sono le opinioni del regista o dei produttori; è la propaganda dell'USIA.

6 - L'USIA ha stabilito nel 1978 con molta precisione come Hollywood deve rappresentare la guerra del Vietnam, sia dal punto di vista politico che militare tecnico. Non posso dilungarmi e mi limito all'essenziale. Politicamente va detto, o dato per sottinteso, che gli USA intervennero per difendere il Sud dalla minaccia comunista. Dal punto di vista militare non andavano assolutamente mostrati i bombardamenti di civili e tutta la guerra andava ridotta a una guerriglia nella foresta, con piccole pattuglie americane che si difendevano da proditori attacchi di elementi non in divisa. Panzane naturalmente, propaganda. Gli USA intervennero per assicurare alle loro Multinazionali le risorse del paese e dell'Indocina tutta; interessavano particolarmente le foreste di alberi della gomma, buoni per fare i pneumatici. I bombardamenti di civili erano quotidiani, e così per anni. E la guerra fu una classica guerra moderna, risolta non dai guerriglieri Viet Cong ma dalle artiglierie e dalle divisioni corazzate, meccanizzate e di fanteria dell'esercito regolare del Vietnam del Nord. E' importante invece fare credere che si sia trattato unicamente di guerriglia: si giustifica in qualche modo l'esito del conflitto.
Invece ammettere una guerra "regolare" rivelerebbe una verità che gli USA vogliono nascondere a ogni costo: la congenita e stupefacente debolezza delle loro forze di terra, che non sono in grado di battere nessun avversario, praticamente (nel 1968, l'anno dell'offensiva del Tet, quando i carri armati nord vietnamiti giunsero a Saigon, 540.000 equipaggiatissimi soldati americani appartenenti a 51 divisioni, appoggiati da una potentissima aviazione e serviti da 850.000 ascari sud vietnamiti, avevano a che fare con il seguente avversario: 87.400 regolari nord vietnamiti ripartiti in 10 divisioni, 56.000 Viet Cong, altri 69.000 guerriglieri sciolti, e 50.800 elementi non combattenti addetti a trasporti, sanità, propaganda e così via).
Forrest va alla guerra in Vietnam e le sue vicende concordano con la versione USIA, come per tutti gli altri film di Hollywood è ovvio. Non si parla dei motivi della guerra, ma se ci fosse stato qualcosa di losco l'intelligente e democratico tenente Dan lo avrebbe detto, no? Quindi il combattimento cui partecipa Forrest è tipico di quanto prescritto dall'USIA: la sua pattuglia cade in una imboscata di guerriglieri. Di carri armati nord vietnamiti che avanzano in file serrate e di carri armati americani abbandonati dagli equipaggi in fuga non c'è traccia.

7 - A parte come un cammeo va trattata una scena di Forrest in Vietnam. In una sequenza di pochi secondi si vede la pattuglia di Forrest avanzare in perlustrazione col fucile spianato in una risaia, fra i contadini sud vietnamiti che rimangono chini a lavorare sulle loro piantine tranquilli, come se niente fosse. E' una scena di propaganda subliminale. Sembra innocua e invece trasmette un messaggio preciso: che i contadini sud vietnamiti - e i sud vietnamiti in generale - si fidavano degli americani, li consideravano alleati e amici. Una falsità: i sud vietnamiti, e i contadini in particolare, erano terrorizzati dai soldati americani. Basti ricordare l'episodio di My Lai, una frazione del grosso villaggio sud vietnamita di Song My, dove nel novembre del 1968 la Compagnia "Charlie" dell'Americal Division sterminò tutti gli abitanti perché nei pressi erano attivi guerriglieri Viet Cong; le vittime furono 500, ed erano vecchi, donne e bambini perché gli uomini erano alla pesca. Esiste un filmato dell'operazione, girato da uno dei soldati americani. Da notare che Hollywood non ha mai tratto un film da tale episodio, che pure si presterebbe.

8 - Analoga la scena in cui il reduce tenente Dan presenta la nuova moglie a Forrest: nel doppiaggio italiano è definita una latino americana, ma ha tratti somatici indocinesi, addirittura vietnamiti (messaggio subliminale: i vietnamiti non ci tengono rancore, perché non abbiamo fatto loro nulla di male). Probabilmente, poi, nell'originale inglese la donna è proprio definita " vietnamita " e così è il doppiaggio nei paesi meno evoluti.

9 - Una sottile propaganda culturale è propinata da Forrest podista. Forrest corre a piedi per gli States senza mai dire nulla. La gente pensa che abbia un qualche messaggio da comunicare e diversi giovani cominciano a trotterellargli dietro in attesa. Dopo tre anni e due mesi Forrest finalmente si ferma ed i giovani pendono dalle sue labbra, ma lui dice: "Sono un po' stanchino. Penso che tornerò a casa". E' una irrisione per coloro che attendono qualcosa dai pensatori, dagli ideologi, da tutti quelli che non ritengono soddisfacente il sistema americano e continuano a cercare. Per l'USIA il sistema americano è perfetto e chi spera di trovare alternative è un illuso. Occorre ricordare che un funzionario dell'USIA - uomini e donne culturalmente preparatissimi, veri intellettuali di regime - partecipa alla messa a punto finale della sceneggiatura di ogni film di Hollywood.

10 - Nel film c'è un chiaro elogio del capitalismo americano. Dopo il Vietnam Forrest e il tenente Dan, uno semi ritardato e l'altro senza gambe, diventano miliardari con la Bubba Shrimp Company. Messaggio subliminale: sono due meritevoli e il sistema - che è giusto - immancabilmente li premia, sia pure dopo averli fatti penare un po'. Si fa di più. Si suggerisce infatti - sempre per via subliminale - che è Dio stesso a guidare tale sistema: provoca una tempesta che elimina la flotta peschereccia della concorrenza. E' l'idea fondamentale del Calvinismo, la religione americana: Dio fa arricchire i meritevoli, o gli insondabilmente prediletti, e manda a ramengo gli altri. Segue un po' di propaganda subliminale a favore della Apple Computers: Forrest e il tenente Dan arricchiscono ulteriormente investendo in azioni di questa Multinazionale, che diventa veicolo di positività e quindi positiva anch'essa. Diventati capitalisti consolidati i due fanno beneficenza: donano alla parrocchia Protestante locale, alla madre dell'amico nero Bubba morto in Vietnam, e fondano un ospedale a Bayoula, il paesino di pescatori di gamberi rovinati dalla tempesta divina. Nella vicenda è contenuta - di nuovo per via subliminale - una diffamazione dei neri: i pescatori di gamberi di Bayoula (paesino della Louisiana nel delta del Mississippi) sono tutti neri e sempre stati in miseria ma ecco, arrivano due bianchi a fare il loro mestiere e diventano miliardari.

11 - Come si vede il film fa grande uso delle tecniche subliminali per convogliare propaganda. Evidentemente un esperto in materia ha collaborato alla realizzazione dell'opera. Una tecnica subliminale sopraffina in effetti è anche usata per la "normale" costruzione della vicenda. Forrest ha una vita punteggiata da contatti personali, pure fugaci, con grandi personaggi pubblici: conosce Elvis Presley (cui addirittura ispira le caratteristiche movenze); incontra i presidenti John Kennedy, Lyndon Johnson e Richard Nixon (e ne innesca la caduta); partecipa casualmente ad una intervista televisiva di John Lennon; assiste all'attentato al governatore Wallace. Occorre in qualche modo rendere verosimile tale sequela di eventi pubblici e si ricorre ad altri collegamenti più sotterranei, che riguardano accettabili concatenazioni di eventi sul piano privato e predispongono ad accettare anche quelle a livello pubblico. Il filo conduttore sono gli arti inferiori del corpo umano. Forrest bambino guarisce dalla poliomielite e diventa valido maratoneta. In Vietnam il tenente Dan lo ammonisce come prima cosa a tenere i piedi asciutti (le risaie). Lo stesso tenente Dan perde proprio le gambe. Il collegamento con la sfera pubblica avviene col governatore Wallace, rimasto paralizzato nell'attentato, e su di una sedia a rotelle come il tenente Dan. Il tenente Dan alla fine cammina con delle protesi che richiamano gli apparecchi portati da Forrest bambino.

12 - E vengo al motivo per cui ho inserito nelle premesse una biografia di Jean Seberg. Perché la figura di Jenny Curran, l'amata di Forrest, è stata costruita in modo da evocare proprio lei. La vicenda di Jenny non è esattamente uguale a quella della Seberg, perché sarebbe troppo scoperto, e quindi inefficace se non controproducente (non sarebbe un'operazione subliminale...). I punti di contatto però sono molti e qualificanti. Chi è la Jenny proposta nel film ? E' una giovane bionda e bella, sensibile e con propensioni artistiche, tendenzialmente una brava ragazza. Si mette però con gli hippies e i contestatori, e in particolare frequenta le Pantere Nere. Finisce così nella promiscuità e nella droga, e contrae l'AIDS. L'idea del suicidio comincia a farsi strada nella sua mente (la passeggiata sul balcone del grattacielo). Partorisce da single un figlio, che è di Forrest. Dopo qualche anno sposa Forrest e quindi muore. I collegamenti sono: la collocazione temporale negli anni Sessanta/Settanta; il nome " Jenny " analogo a " Jean "; la somiglianza fisica di Jenny con la Seberg; le sue propensioni artistiche; la sua frequentazione delle Pantere Nere; il tema del suicidio; la gravidanza, e da single; la durata annosa di una angosciosa parabola conclusa con la morte. Questi collegamenti nel subconscio dello spettatore che in un angolo della memoria conserva qualche vaga nozione di Jean Seberg e della sua vicenda provocano con sicurezza l'identificazione, anche se a livello di coscienza non se ne accorge.

Perché è stata compiuta tale operazione ? L'obiettivo propagandistico del film è di proporre gli anni Sessanta/Settanta americani nel senso voluto dal regime; di riabilitarli. Se ci pensiamo sono gli anni peggiori per l'immagine americana dell'intero Novecento: movimento dei diritti civili e sua repressione; contestazione giovanile e sua repressione; Pantere Nere e loro sterminio; guerra del Vietnam e relative bibliche stragi di innocenti. La vicenda di Jean Seberg fu all'epoca un avvenimento clamoroso, e negativo per il regime quasi come quelli accennati: era opportuno, dato che si faceva un film per riabilitare tutto il periodo, riabilitare anche gli aguzzini della Seberg.
Il personaggio di Jenny infatti riabilita il regime tramite la diffamazione che opera della Seberg. Il subconscio di quegli spettatori in cui si è verificata l'identificazione ragiona con la cieca meccanica che gli è propria: se Jenny è la Seberg allora la Seberg finì male perché con hippies e Pantere Nere imparò la droga e la promiscuità e di lì la disperazione e la gravidanza e il suicidio; non sapevo che avesse anche l'AIDS ma sì, può darsi. La Seberg è diventata così un personaggio negativo, e se ebbe degli aguzzini questi non furono poi così inescusabili. Il lavorio del subconscio come si sa ha effetti a livello della coscienza (è per questo che l'USIA ricorre così spesso alla tecnica subliminale). Molti lettori italiani potranno obiettare di non aver mai sentito parlare di Jean Seberg. Può darsi, ma altri sì. Ci sono paesi poi dove la vicenda della Seberg ebbe eco maggiore che in Italia, inducendo strascichi più lunghi nella memoria. In Francia ad esempio, e senz'altro negli Stati Uniti; non tutti i critici cinematografici europei inoltre sono come quelli italiani, o come Paolo Limiti. L'USIA quando manipola sceneggiature non pensa solo all'Italia; pensa al mondo.

Povera Jean Seberg. Le diffamazioni dell'FBI l'uccisero. Ora anche le diffamazioni di Hollywood, sulla sua tomba.

Il personaggio di Jenny in Forrest Gump costituisce la prova provata, inoppugnabile, delle interferenze del governo statunitense nei prodotti finiti di Hollywood. In questo caso infatti è esclusa ogni altra ipotesi. Non può essersi trattato delle opinioni personali del regista o dei produttori: che interesse potevano avere Zemeckis, Tisch, Starkey o Finerman a falsificare, e in tale modo subliminale e premeditato - da specialisti della propaganda - la vicenda di Jean Seberg? Solo l'USIA, per conto del governo statunitense, poteva avere interesse in una tale operazione. E' la prima volta nella storia di Hollywood che l'attività dell'USIA viene dimostrata. Ciò è stato dovuto a un colpo di fortuna nostro: lo specialista in tecniche subliminali dell'USIA che ha lavorato sul film era troppo bravo ed ha ecceduto nei virtuosismi.
Lo stesso personaggio di Jenny in Forrest Gump rappresenta anche la sentenza più definitiva per i critici cinematografici non solo italiani, ma anche europei: era un messaggio in codice diretto all'inconscio degli spettatori e non l'hanno afferrato. Spero abbiano imparato cosa sono davvero i film di Hollywood.

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28.12

Omelia di Natale del Patriarca latino di Gerusalemme

        Patriarcato Latino di Gerusalemme

           HOMILIA Dl NATALE 2001

 Fratelli e sorelle,

Signor presidente Yasser Arafat,

 1. L'augurio di un Buon Natale a voi tutti.  In questa notte santa, chiedo a Dio per voi tutti in questa Terra Santa e per tutti i nostri fedeli in ogni parte della nostra diocesi, in Palestina, Giordania, Israele e Cipro, e per tutti i cristiani, i musulmani e gli ebrei, ogni bene e ogni benedizione.

 2. Vorrei rivolgere un saluto speciale al presidente Yasser Arafat impedito da una decisione politica a partecipare come di consueto a questa preghiera in questa notte. Chiediamo a Dio per te,  presidente Arafat, la pace del cuore, la forza della pace e della speranza e la fermezza per reclamare la libertà del popolo di cui sei responsabile finché la libertà non sia ristabilita. La limitazione imposta alla tua libertà è la stessa imposta al tuo popolo. Il cammino verso Betlemme, il giorno di Natale soprattutto, è un cammino di pace. Con ciò noi diciamo pure ai governanti di Israele: pace e sicurezza. Anche per voi preghiamo e chiediamo saggezza e luce, perché vediate che la strada per Betlemme non può che essere una strada di pace: e in modo particolare con la presenza del presidente Arafat. Signor presidente, tu mai sei stato tanto presente in questa città e in questa festa nella quale tu veneri il mistero di Dio.

 3. Fratelli e sorelle, abbiamo ascoltato la parola di Dio nelle letture di questo giorno. La prima lettura del profeta Isaia comincia con questo versetto: "II popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce" (Is 9,1). Questa luce ci si è manifestata in questo giorno della natività di Nostro Signore Gesù Cristo, Verbo di Dio, fattosi uomo, come dice san Giovanni: "In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio" (Gv 1,1). Queste parole sono il tema della nostra meditazione della nostra preghiera e del nostro sforzo costante ad vvicinarci a Dio che  ha voluto prendere dimora tra noi, come dice san Paolo: “Cristo Gesù pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Fil 2, 6-7). E' lui il bambino annunciato dal profeta Isaia quando dice: " Un bambino è nato per noi, ci e stato dato un figlio...  ed è chiamato Dio potente.  Padre per sempre, Principe della pace" (Is 9,5).

 4. Nella seconda lettura San Paolo ci dice: "E' apparsa la grazia di Die), apportatrice di salvezza per tutti gli uomini" (Tt 2: 11) Poi instaura un legame una seconda volta tra il Natale e il mistero della croce e dice: "Ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere buone" (Tt 2,14).

 Nella terza lettura, dal vangelo di san Luca, abbiamo ascoltato il racconto dell'evento: Giuseppe e Maria venivano da Nazaret a Betlemme, ubbidendo a un ordine dei poteri politici del tempo che erano romani: il governatore della Siria, dal quale dipendeva Betlemme, aveva in effetti dato ordine che ciascuno tornasse a casa sua per un censimento generale. Maria e Giuseppe dunque tornavano a Betlemme come tutti coloro che erano interessati dal censimento. E il vangelo racconta l'evento in termini semplici e concisi: "Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo" (Lc 2,6-7). Tornarono nella loco città come degli stranieri e nella sala degli stranieri non c'era più posto. Dovettero rifugiarsi in una grotta vicina e il mistero di Dio si compi nell’umiltà.

 Davanti al Verbo di Dio noi ci prostriamo nell'adorazione e meditiamo, chiediamo a Dio di accrescere la nostra fede, perché la nostra intelligenza fino ad oggi resta impotente a comprendere tutto il mistero della bontà di Dio verso l’umanità.

 5.  E, nella nostra meditazione del mistero della bontà divina, torniamo alla nostra realtà umana, per constatare il male e il peccato, in noi come persone e nel comportamento di chi governa questa terra, per ritrovare la nostra lacerazione tra gli appelli della bontà divina e le sfide del male dell'uomo in noi e in coloro con i quali lottiamo. Presi in questo male, preghiamo perché la bontà di Dio si manifesti in noi e nella nostra terra e riempia i cuori dei due popoli, il palestinese e l'israeliano. La nostra situazione odierna e simile a quella descritta dal profeta Geremia : "Se esco in aperta campagna. ecco i trafitti di spada: se percorro la città, ecco gli orrori della fame. Anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare. . . Aspettavamo la pace ma non c'è alcun bene, I 'ora della salvezza ed ecco il terrore" (Ger 14, 18-19). Si, lo spavento e il terrore riempiono il cuore degli israeliani e dei palestinesi. Si paria di terrorismo e con questa parola si pensa di trovare il pretesto per non fare la pace. Si paria di terrorismo e ci si rifiuta di vedere e di ascoltare degli innocenti, uomini e donne come tutti gli uomini e tutte le donne che reclamano la loro libertà e la loro terra. E' tempo che il popolo israeliano si interroghi con coraggio: cosa chiedono i palestinesi ? E comprenda che non vogliono ucciderlo o odiarlo, ma gli chiede libertà per se stessi: la sicurezza per gli israeliani sarà il frutto di questa libertà.

 6. II conflitto che viviamo ha anche una dimensione cristiana, si svolge infatti attorno ai luoghi santi della Redenzione del mondo, dove la misericordia di Dio si è manifestata. E minaccia la sopravvivenza dei cristiani in questa terra. Per questo noi diciamo a ogni palestinese cristiano alla ricerca della sua identità e della sua missione in questa terra messa alla prova: tu sei cristiano testimone di Gesù nella sua terra e tu sei palestinese private della tua libertà. Occorre dunque che tu sia cristiano e che reclami la tua libertà. La tua libertà è un dono di Dio, tu non hai il diritto, per alcuna ragione, di rinunciarvi nemmeno dinanzi al più grande e al più forte di questo mondo.  La tua identità consiste nel testimoniare Gesù, il suo amore,  la sua pace,  il perdono: nel vedere Dio in ogni persona umana, nel fratello come nell’avversario, e con questa visione e con la forza dello spirito reclama la tua libertà, senza dimenticare e senza deformare l'immagine di Dio in te o nell'anima dell’avversario al quale stai reclamando la tua libertà.

 Papa Giovanni Paolo II ha invitato il 13 dicembre i vescovi cattolici di Gerusalemme, il Custode di Terra Santa e dei vescovi rappresentanti le Chiese del mondo, per riflettere insieme sulla pace in Terra Santa e sull’avvenire dei cristiani che in essa vivono. Già di per se l'invito e un segno dell'amore e della sollecitudine del Santo Padre. La pace? E' condizionata dalla fine dell'occupazione. L'avvenire dei cristiani? E' nelle nostre mani, si tratta di accettare la nostra vocazione a essere cristiani in questa terra e non dispersi nel mondo. In questa terra vuol dire nella nostra società palestinese araba e musulmana. Se accettiamo la nostra vocazione e se scopriamo il cammino da compiere, tutto il mondo e pronto ad aiutarci a vivere una vita di testimonianza, onorevole ancorché difficile, nella nostra terra. Perché l'avvenire dei  cristiani preoccupa le Chiese:  e anche il mondo arabo e musulmano ha questa preoccupazione, interessato alla nostra sopravvivenza. Perché insieme musulmani e cristiani portiamo la responsabilità di una sola società, di uno stesso destino e di una medesima pace in questa terra santa, con la società israeliana invitata a porre fine all'occupazione, per ricominciare la comune marcia verso la pace.

 8. L'angelo dice ai pastori: Vi annuncio una grande gioia,  vi e nato un salvatore. Si, al di sopra delle case demolite, al di sopra dei cuori affranti sotto l'occupazione, al di sopra delle famiglie in lutto, a Betlemme e in tutti i villaggi e le città palestinesi e israeliane, al di sopra dei cuori pieni di terrore, ai di sopra della forza ingiusta, la voce degli angeli si innalza: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama.

 8. Proseguendo la meditazione del primo capitolo del vangelo di san Giovanni, leggiamo questi versetti: "II Verbo era la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Egli era nel mondo... eppure il mondo non lo riconobbe" (Gv 1, 9-10). II mondo rifiuta la luce che viene da Dio;  alla luce che promana da Dio viene impedito di penetrare nei consessi di guerra,  nel consesso di coloro che pianificano su scala mondiale, di coloro che si permettono di opprimere dei popoli per la sola ragione che sono poveri,  a profitto di altri popoli, per la sola ragione che sono forti. II mistero di Dio e la luce di Dio dicono: non e consentito opprimere dei popoli perché sono deboli e poveri, non e permesso che altri popoli esercitino l'ingiustizia solo perché sono' forti. Tutto questo e peccato. Ed e un peccato che fa nascere e nutre il terrorismo nel peccato dei  forti. La  sua  sparizione  e  la tranquillità dell’umanità intera sono egualmente nelle mani dei forti, ma dei forti che sono umili e che accettano la luce della saggezza di Dio e praticano la giustizia.

 9. Fratelli  e  sorelle,  da  Betlemme  noi  preghiamo  con voi ovunque siate in questa notte santa.  Preghiamo per il nostro presidente Arafat, presente ugualmente fra noi. Preghiamo per i prigionieri e poniamo le loro sofferenze dinanzi a Dio. Preghiamo per la giustizia e la pace nei cuori degli israeliani e del palestinesi. Preghiamo per coloro che governano in questo mondo, affinché Dio li guidi e siano capaci di ascoltare il grido di tutti gli oppressi. Preghiamo perché Dio riempia i nostri cuori del suo amore e della sua pace. Amen.

 + Michel Sabbah

Patriarca Latino di Gerusalemme  

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27.12

Buon Natale Sharon

Con estrema coerenza, l'Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana dello "sceicco Palazzi" (ma anche del Sismi, dei Somali "liberi", forse di qualche influente prelato, di altre cose che per ora non citiamo, ma soprattutto della destra israeliana) plaude all'esito della vicenda natalizia di cui è stato involontario protagonista Yasser Arafat, il quale, è bene ricordarlo, è pur sempre il presidente di un'Autorità nazionale riconosciuta internazionalmente, dai connotati curiosamente simili - come osserva un nostro corrispondente - ad un'altra, assurta nei libri di storia a simbolo della prevaricazione e della discriminazione:

 
"Per quale ragione, l'autorizzazione ad esercitare un Governo Autonomo Israelita all'interno del "Ghetto di Varsavia" nel contesto del III Reich sarebbe degradante ed  inaccettabile per la dignita' degli israeliti che vi erano racchiusi, mentre l'analoga situazione vigente all'interno dei "Territori Autonomi" concessi (e, per di piu', costantemente rimessi in discussione da Tel Aviv) alla Palestinan National Autority, nel contesto della sovranita' territoriale israeliana, e' senz'altro nobilitante e accettabile?".

Karim Elayoun

P.S. e poi chi è questo Davide di Porto? Mi date l'indirizzo?

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As-salamu `alaykum wa rahmat-Ullahi wa barakatuH.

Dear Brothers and Sisters,

The Majlis al-Ulema of the Italian Muslim Association heartily approves and
congratulates for a decision sending an uncompromising message of hope for
the future.

After years of thwe Oslo fraud and of compromise with PLO thugs, the Prime
Minister of Israel Ariel Sharon finally grants Bethlehem a Xmas mass which
is not  profaned by the presence of the terrorist Yasser Arafat

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Prime Minister Ariel Sharon's Greetings To The Christian Communities For
The Holiday Season
(Communicated by the Prime Minister's Media Adviser)


Jerusalem Monday, December 24, 2001 12:08 AM

On behalf of the Government of Israel, I extend warm greetings to the
people of the Christian faith in Israel and worldwide at this holiday season.

In the spirit of our Declaration of Independence and as a democratic
nation, the State of Israel has always championed religious freedom and
guaranteed free access to its holy sites for members of all religions. The
State of Israel always has - and always will - adhere to these principles.

The Government of Israel welcomes all those who have come here to celebrate
Christmas.  As the 4000 year-old People of the Book who have again returned
to their homeland, we recognize the sanctity of this land to members of
other religions, and will do everything in our power to ensure freedom of
worship for all visitors to Israel.

During this festive season, symbolizing the yearning of the Christian world
for peace, we hope that the new year will bring the victory of light and
freedom, over the forces of darkness and terror, which threaten the free
world today.

 From Jerusalem, the eternal and united capital of the Jewish people, the
city of peace, I pray that the coming year will be one of peace, prosperity
and security for all nations the world over.


Gen. Ariel Sharon

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Cultural Institute of the Italian Islamic Community

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27.12

Articoli interessanti dalla newsletter dello ICCII

Un saluto a tutti, Davide di Porto

da IL TEMPO - Quotidiano del mattino - Anno LVIII N.354 - Lunedì 24 dicembre 2001

Pagina 3 - Primo Piano - 77° giorno di guerra: la caccia a Bin Laden


In una riunione tenutasi a Roma i sensitivi hanno indicato ai servizi segreti la presunta ubicazione del rifugio

SEI MEDIUM PER TROVARE BIN LADEN

L'Fbi sulle traccce di Osama a Omar, interrogato l'ex ministro della Difesa dei talebani. Tra i presenti c'era anche Lidia Gambuti, fondatrice dell'associazione "Gente in Armonia" di Rimini

di Fabio di Chio


PER STANARE lo sceicco del terrore Osama Bin Laden gli americani sono disposti davvero a tutto, anche ad usare ogni arma. Anche il potere della mente.

Venerdì scorso, a Roma, due ufficiali dell'intelligence italiana al servizio del Comando centrale (Centcom) di Tampa, in Florida, diretto dal generate Franks, si sono dati appuntamento in un'abitazione nei pressi del giardino zoologico. Insieme con altre sei persone, cinque uomini a una donna: un francese, un americano, un egiziano, un israelita, uno sceicco somalo ed una italiana, Lidia Gambuti, fondatrice del gruppo «Gente in armonia» di Rimini che riunisce circa quattrocento persone. Sono sensitivi, "medium", e chiaroveggenti, persone in grado di raggiungere uno stato di trance o di concentrazione tale da superare le barriere del tempo e dello spazio e rintracciare cose o persone, sia in questo che nell'altro mondo. Almeno così assicuravano le credenziali dei sei "cacciatori paranormali". Tutti sono rimasti in quell'appartamento per ventiquattr'ore: chi ha sbirciato nella sfera di cristallo, chi ha interpellato gli spiriti, sbarrato il terzo occhio sui cieli e nelle grotte dell'Afghanistan, cercato di intercettare l'onda mentale di Osama e scovarlo accucciato e dolente nel suo nascondiglio di roccia.

Alla fine della full immersion nel metafisico i sei hanno fornito ai due ufficiali i loro responsi. Uno diverso dall'altro.

Hanno dato Bin Laden ancora in Afghanistan, al riparo in Pakistan, fuggito nello Yemen, salvo in Somalia, scampato in Cina, tornato in Arabia Saudita. Insomma, il viaggio astrale partito da Roma non ha portato ad una meta univoca. Il generale Franks lo ha saputo, ma pare non si sia affatto scoraggiato più di tanto, e che non abbia affatto smesso di cercare in astrale. Stando all'intelligence, infatti, gli americani una consulenza esoterica l'avevano già sollecitata a margine del convegno degli occultisti che si è tenuto qualche mese fa a San Marino. Anche in quell'occasione l'esito non era stato favorevole.

La visione fornita dalla signora Gambuti sul covo di Bin Laden è risultata la piu suggestiva e la più attuale quasi. Secondo la medium il ricercato numero uno si troverebbe nelle grotte di Tora Bora. La stessa cosa nei giorni scorsi l'hanno sostenuta alcuni capi tribù e lo stesso presidente del Pakistan Musharraf, secondo il quale però, piccola differenza, Osama sarebbe ancora lì ma da morto, rimasto vittima dei massicci bombardamenti aerei americani. Una squadra di agenti dell'Fbi sta interrogando il mullah Mohamad Fazil, ex vice ministro della Difesa dei talebani, nella speranza di ottenere informazioni utili alla cattura del mullah Mohamad Omar, leader supremo dei talebani. Khalid Pashtun, portavoce del nuovo governatore di Kandahar, ha detto che otto funzionari dell'Fbi sono arrivati nell'antica capitale afghana per mettere Fazil sotto torchio. L'ex vice ministro è stato arrestato un mese fa dalle milizie del signore della guerra uzbeko Abdul Rashid Dostum al momento della resa dei talebani nel nord dell'Afghanistan. Pashtun ha detto che I'Fbi sta cercando di avere notizie sul mullah Omar e anche su Osama Bin Laden, gli uomini su cui gli Stati Uniti non vedono l'ora di mettere le mani.

Nell'immagine del nascondiglio fornita dalla signora Gambuti ci sono particolari precisi e non difficili da verificare. Secondo la medium per accedere al rifugio di Osama bisogna attraversare a nuoto il fume Helmand - che bagna l'interno dell"Afghanistan - immergersi ad un tratto, imboccare il passaggio sommerso per poi ritrovarsi nel cuore di una grotta: il nascondoglio introvabile di Osama. Fantasia o realtà? Il mistero continua.

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IL PIANO OPERATIVO
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COSTITUITA DAL'ONU LA "ALLEANZA ANTIFONDAMENTALISTA PER LA SOMALIA"

di Fabio di Chio e Anna Maria Turi


PER I SOMALI in Italia è scattata la chiamata alle armi. O almeno per quelli che una divisa da militare I'hanno già indossata in passato. II generate Massimo Pizza e il colonnello Antonio D'Andrea, entrambi vicepresidenti dell'Associazione musulmani italiani (Ami), posti dal governo italiano a disposizione della struttura internazionale di intelligence  sotto l'egida dell'Onu, nei giorni scorsi si sono incontrati  con ex generali dell'esercito e funzionari di polizia somali.  Lo scopo è quello di creare una sorta di Alleanza somala antifondamentalista - così  come già accaduto in Afghanistan - di militari "in sonno", attuamente residenti in Occidente - dove lavorano e si sono rifatti una vita - ma che potrebbero tornare in azione al  fianco delle forze militari occidentali nel momento in cui l'America darà il via all'operazione militare in Somalia contro Al Qaeda.

Gli ufficiali incontrati dai due inviati Onu erano circa una decina. Tra questi: il Qadi Ali Hussein, presidente dell'Ami e colonnello a riposo della Guardia di Finanza, poi ambasciatore di Somalia presso Ia S. Sede; Osman Falco, generale candidato a capo di stato maggiore delle forze somale, già vice comandante della polizia all'epoca di Siad Barre, Osman Iyò, ex leader dei servizi segreti somali, ora avvocato; Abdullah Yussuf, comandante dell'Esercito del Putland, rifugiatosi in Italia a partire dal 2000.

Gli ufficiali d'origine somala che risiedono in Italia e il cui arruolamento nelle Forze Armnate italiane risale al 64° corso allievi ufficiali Valtomorizza, si riconoscono nelle posizioni dell'Associazione musulmani italiani, fra le più moderate, guidata dallo Shaykh Abdul Hadi Palazzi: il loro portavoce è l'ex ambasciatore presso la Santa Sede, il Qadi Ali Hussen, che dice: «Coloro le cui posizioni di potere e di ricchezza dipendono dai fondi della Lega araba che Barakat (la banca somala chiusa da Bush, ndr) ha stornato a favore dei suoi protetti debbono oggi farsi da parte per il bene del paese. L'intervento internazionale - aggiunge - deve consentire la liberazione della Somalia dall'occupazione dei gruppi fondamentalisti wahabiti e la creazione di un governo moderato, di confessione sunnita, democratico, alleato dell'Occidente e seriamente interessato a ricostruire i rapporti d'interscambio fra l'Italia a la sua ex colonia».

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I contatti tra gli inviati Onu e l'Alleanza somala non sono avvenuti soltanto in Italia. Si sono svolti anche in Africa, dove i due funzionari Onu, Pizza e d'Andrea, hanno preso contatto con circa cinquecento ex ufficiali indigeni appartenenti alle tribu degli Shakl e dei Rahwen, militari con doppia cittadinanza somala-italiana, addestrati in Italia a partire dal 1950 nelle accademie di Esercito, Guardia di Finanza, Carabinieri e Carristi di Modena, Caserta a Roma. Sono Ioro ad aver scortato le forze Onu durante la missione di osservazione del territorio e di monitoraggio.


Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana
http://shell.spqr.net/islam/
mailto:islam@spqr.net

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27.12

AIDS: l'altra guerra. 10000 morti al giorno

di ACTUP Paris

Primo dicembre. Manifestazione, ore 15, Place de la Republique. Dopo l'11
settembre, c'è voluto poco tempo agli Stati Uniti ed ai suoi alleati per
mettersi sul piede di guerra. Una coalizione mondiale, dei budget senza
limiti, una mediatizzazione quotidiana: i paesi ricchi hanno spiegato in 2
mesi l'arsenale che rifiutano dopo 20 anni ad un'altra guerra: la lotta
contro l'AIDS. Un decimo dei soldi impiegati in Afghanistan sarebbe
sufficiente per vincere l'epidemia. Una vera solidarietà internazionale, una
prevenzione senza falsi pudori, delle condizioni di vita decenti, l'accesso
ai trattamenti per tutti: il primo dicembre nessuno potrà pretendere che
esigiamo l'impossibile. Proponiamo a tutti coloro che lavorano con noi di
sostenere questa manifestazione: - firmando questo testo d'appello,
partecipando alla manifestazione. Contatti: actpress@actupp.org per maggiori
informazioni www.actupp.org

60 paesi hanno chiesto che nulla all'interno degli accordi sulla proprietà
intellettuale ostacoli l'accesso ai medicinali o alla salute. L'OMC deve
garantire questo diritto legittimo dei paesi poveri e dei malati.

Attualmente più di 36 milioni di persone nel mondo sono affette da AIDS.
Malgrado la mobilitazione internazionale, il 90% dei malati non ha accesso
ai trattamenti essenziali alla loro sopravvivenza. Ogni giorno 10.000
persone che avrebbero potuto essere curate muoiono.

In questo contesto, il prezzo dei medicinali gioca un ruolo determinante. E
la produzione di medicinali generici come la diversificazione delle fonti di
produzione dei medicinali generici sono indispensabili perché le cure
terapeutiche anti-HIV siano infine abbordabili, in modo duraturo, per i
malati dei paesi poveri.

L'unica condizione per ottenere un ribasso dei prezzi dei prodotti
farmaceutici è la concorrenza tra numerosi produttori. Senza quest'ultima,
la creazione di un sistema di prezzi differenziato tra nord e sud del mondo
resterà condizionata dalla buona volontà delle industrie occidentali, e si
rivelerà inadatta a permettere l'accesso alle cure.

Gli accordi internazionali sulla proprietà intellettuale autorizzano i paesi
a produrre o ad importare delle copie di medicinali.

Una parte dei trattamenti contro l'HIV sono fabbricati in certi paesi, come
l'India o il Brasile, e venduti a basso costo. Questo ha l'effetto di
obbligare le multinazionali ad allineare le loro tariffe.

La riduzione drastica del prezzo di alcune delle molecole indispensabili per
i malati di AIDS è dovuta all'apparizione dei medicinali generici venduti a
prezzi molto bassi, questo ha prodotto un ribasso senza precedenti nel
prezzo proposto dalle multinazionali. Nell'ottobre '00, un produttore
indiano di generici ha proposto delle triterapie per 800 dollari US all'anno
(si tratta di un risparmio di più del 90% in rapporto al prezzo annunciato
dalle multinazionali). Nel febbraio '01 ha portato il suo prezzo a 350
dollari US. Nell'ottobre '01, un altro produttore di generici è sceso a 295
dollari Usa. La necessità di una concorrenza tra produttori per permettere l
'accesso alle cure è così evidente.

I produttori di generici hanno così provato 2 cose:
· Che i margini di ribasso del prezzo dei medicinali sono molto superiori di
quanto sostengono le industrie occidentali (noi non sappiamo ancora quali
siano i reali costi di produzione dei farmaci)
· Che l'introduzione dei generici cambia completamente la distribuzione
nella misura in cui l'accesso a medicinali abbordabili non dipende più dal
buon volere filantropico delle multinazionali, ma dalle regole economiche
della concorrenza.

Alcuni paesi hanno attualmente la capacità di produrre dei medicinali di
buona qualità che possono vendere a prezzi molto bassi (India, Brasile,
Tailandia).

Pertanto, la totalità delle cure terapeutiche contro l'Aids non è
disponibile a dei prezzi abbordabili nei paesi in via di sviluppo.  L'AIDS è
una malattia che ha bisogno del maggior numero di molecole esistenti al fine
di poter prescrivere le combinazioni terapeutiche più efficaci e le più
adatte ai pazienti. Ora, non esiste oggi una produzione dei generici più
recenti (amprenavir, lopinavir, tenofovir, per esempio).

La maggior parte dei paesi in via di sviluppo, messi sotto pressione,
esitano ancora ad autorizzare la produzione o l'importazione di copie di
medicinali, temendo le rappresaglie dei paesi occidentali. Le produzioni
locali riguardano dunque solo pochi paesi.

Inoltre, a partire dal 2006 l'insieme dei paesi membri dell'OMC dovranno
applicare i suoi regolamenti. Se l'interpretazione sugli accordi della
proprietà intellettuale non è chiara e che il diritto dei paesi in via di
sviluppo a produrre, importare o esportare medicinali generici non è
riconosciuto da tutti, i paesi poveri più toccati dall'AIDS saranno esclusi
d'ufficio dall'accesso ai nuovi trattamenti e più in generale alle future
innovazioni della sanità. E' per questo che oggi a Doha, una sessantina di
paesi chiedono che l'OMC doni ufficialmente delle garanzie ai paesi che
vogliono ricorrere a delle copie di medicinali.

Dopo il 19 settembre, 60 paesi hanno chiesto che "più nulla all'interno
degli accordi internazionali ostacoli l'accesso alla salute ed ai
 medicinali";  questo in particolare al fine di poter produrre o scambiare
prodotti generici senza dover subire pressioni o ricatti da parte dei paesi
del nord.

Gli USA, l'Australia, il Giappone, la Svizzera e il Canada si oppongono a
questa richiesta e cercano di soffocarla e continuano ad imporre ai paesi in
via di sviluppo delle regole ancora più impegnative degli accordi
internazionali.

Contrariamente ai discorsi recenti di alcuni responsabili politici, nei
fatti e da loro pressioni, i paesi ricchi rifiutano ai più poveri il diritto
di ricorrere alle disposizioni degli accordi dell'OMC che loro stessi usano
accuratamente in altri domini (le licenze obbligatorie sulle emissioni
televisive o le componenti elettroniche, nel caso degli Stati Uniti). E'
molto significative il fatto che gli Stati Uniti e il Canada progettano di
copiare la ciprofloxacina, medicinale contro l'antrace sotto il brevetto
della Bayer, nel nome dell'urgenza nazionale e per il prezzo eccessivo.

Il 28 ottobre, l'OMC ha messo in circolazione l'ultima versione, prima dell'
inizio della conferenza ministeriale, della sua proposta per una
dichiarazione sulla proprietà intellettuale a Doha.

In questo testo, una volta ancora l'organizzazione mondiale del commercio si
accontenta di una parafrasi deliberatamente vaga degli accordi TRIPS ed
evita di prendere una posizione chiara e precisa su quello che autorizzano.
Così la possibilità per i paesi intermediari di produrre ed esportare
medicinali affinché i paesi meno avanzati e quelli che non dispongono delle
capacità di produzione necessarie possano beneficiarne, è  occultata in
questa proposta.

L'unica apertura proposta da questo testo, l'articolo 4, che comporta due
opzioni. La prima riprende la domanda dei paesi poveri secondo la quale
niente negli accordi TRIPS debba ostacolare alla salute ed ai medicinali. La
seconda non è né più né meno che una ripresa della posizione americana e non
presenta alcun interesse per i PVS.

Se, come è probabile, l'opinione dei paesi poveri verrà scartata, tutte le
domande deposte dalla coalizione di 60 paesi il 19 settembre a Ginevra, sarà
ignorata dall'OMC a beneficio della posizione americana. E l'OMC dimostrerà
ancora una volta il suo disprezzo per i bisogni della popolazione.

A diverse riprese, l'OMC ha sostenuto ufficialmente o ufficiosamente la
posizione criminale dei paesi del nord. A questo stadio dell'epidemia di
AIDS, l'organizzazione mondiale del commercio deve assolutamente
pronunciarsi in favore dell'accesso ai medicinali generici per i malati dei
paesi poveri.

Se Mike Moore (direttore dell'OMC) e Robert Zoellick (segretario americano
per il commercio) si sono sistematicamente opposti agli sforzi dei paesi
poveri per garantire il diritto fondamentale alla sanità, Pascal Lamy
(commissario europeo al commercio), che ha scelto l'ambiguità, è oggi in
posizione di porre un fine alla logica criminale dell'OMC.

Il primo novembre 2001, la Commissione Paritaria Europea ha mandato Pascal
Lamy per "sostenere chiaramente e senza ambiguità la posizione dei PVS sull'
interpretazione dell'accordo ADPIC. La commissione paritaria "si augura di
integrare nella dichiarazione ministeriale che sarà adottata dall'OMC a
Doha, il riconoscimento esplicito dell'autorizzazione del ricorso alle
clausole di contenute nell'accordo ADPIC. Lamy "conferma che nulla, in
questo accordo, dovrebbe impedire ai membri dell'OMC di prendere misure per
proteggere la sanità pubblica. I paesi che fanno ricorso alle clausole di
salvaguardia non potranno dunque essere perseguiti davanti all'OMC"
(guardare il sito del parlamento europeo).

La commissione Lamy porterà una parte maggiore di responsabilità nelle
decisioni che saranno prese alla conferenza in Quasar.

10000 persone muoiono ogni giorno di AIDS. Il commissario europeo per il
commercio deve rifiutare il gioco degli USA all'OMC.

E' categorico che a Doha l'OMC debba stabilire senza ambiguità che, seguendo
le disposizioni previste negli accordi internazionali sulla proprietà
intellettuale, i paesi abbiano la possibilità di produrre, importare od
esportare medicinali.

Gli accordi dell'OMC prevedono una certa flessibilità della protezione dei
brevetti che è permetta di fronteggiare le urgenze sanitarie ed i bisogni di
medicinali a basso costo.

Così, l'articolo 31 dell'accordo ADPIC prevede che gli stati possano
decretare una licenza obbligatoria su un brevetto e così fabbricare o
importare dei generici di un medicinale sotto brevetto.

L'articolo 30 prevede che un paese possa fabbricare dei generici di un
medicinale sotto brevetto per esportarlo in un paese dove questo brevetto
non è sotto monopolio, tanto che un generico non è commerciato nel paese d'
esportazione ma solo in quello d'importazione -questo non causa dei torti
particolari al detentore del brevetto nel paese d'esportazione.

L'articolo 39.3 prevede che sia possibile ai paesi ricchi trasmettere gli
aiuti tecnici concernenti la fabbricazione di un nuovo medicinale a dei
paesi poveri nei quali l'assenza del brevetto sul suddetto medicinale
permette questa trasmissione, nella misura in cui non rappresenta una
concorrenza sleale, o nei paesi poveri in cui il laboratorio non cerca di
ottenere l'autorizzazione di commerciare il suddetto medicinale. Questo è
essenziale, da una parte, affinché ogni governo possa assicurarsi della
qualità dei medicinali venduti sul suo territorio, dall'altra parte, perché
nel caso in cui il brevetto non sia sotto monopolio, i fabbricanti di
generici possano fabbricare delle copie di medicinali originali che siano
assolutamente perfette in qualità.

L'articolo 66 prevede che i paesi meno avanzati avranno diritto ad una
estensione automatica fino al 2016 del periodo di transizione durante il
quale non sono ancora obbligati a proteggere la proprietà intellettuale
attraverso l'applicazione dell'ADPIC. Ma l'OMC rifiuta ai paesi detti
"intermediari" come l'India, dove le statistiche ufficiali contano 5 milioni
di sieropositivi e dove il PNB/HAB è inferiore a 500 dollari, il diritto a
questa estensione. E' conseguenza necessaria che la riunione dell'OMC a Doha
faccia valere questa estensione per tutti i paesi in via di sviluppo,
compresi i paesi intermediari. A Doha i ministri del commercio del mondo
intero preciseranno le regole del commercio internazionale per il futuro. In
materia di accesso ai trattamenti e alla sanità, la posta in gioco è alta.
Medicinali abbordabili e di qualità dovranno essere prodotti e distribuiti
da paesi in via di sviluppo senza alcuna ritorsione. L'OMC non può
costituire un ostacolo al diritto alla sanità.

Dichiarazione finale dell'OMC sull'accordo  TRIPS e la sanità: malati di
AIDS 1, industrie farmaceutiche 0.

E' ora di invertire la rotta: gli interessi dei malati hanno preso il posto
agli interessi commerciali delle multinazionali.

Ormai, il dogma del monopolio delle compagnie private sui prodotti vitali
(come i medicinali), non fa più forza sulla legge.

I governi sono in questo momento liberi di produrre e di importare delle
versioni generiche di farmaci sotto brevetto di cui hanno bisogno.
Dichiarando che "ogni membro (dell'OMC) ha il diritto di accordare delle
licenze obbligatorie ed ha inoltre la libertà di determinare i motivi per
cui tali licenze possano essere accordate", i 142 stati membri hanno
stabilito senza ambiguità il primato della salute sul profitto,
indipendentemente dalle situazioni d'urgenza nazionale.

A Doha, i PVS hanno provato la loro determinazione. Guidati dai paesi
africani, una coalizione di più di 80 paesi in via di sviluppo ha portato i
paesi ricchi a delle concessioni, alla faccia delle pressioni e delle
manipolazioni per dividere il loro gruppo, esercitate da USA, commissione
europea, Giappone e Svizzera.

Ormai, i paesi che applicheranno aperte pressioni o sanzioni bilaterali
contro i paesi poveri cercando di limitare l'accesso ai medicinali si
esporranno alla condanna dei membri dell'OMC.

Tuttavia, la vittoria non è totale: tutte le disposizioni previste dagli
accordi TRIPS non sono state chiarite a Doha. L'indispensabile
riconoscimento per i paesi produttori di medicinali sotto licenza
obbligatoria della possibilità di esportare verso i paesi più poveri che non
dispongono della capacità di produzione è stata rifiutata dai paesi
sviluppati.

La maggioranza dei malati di AIDS, e la maggioranza dei malati in generale,
vivono in paesi che non sono in condizione di produrre da soli i medicinali
di cui hanno bisogno. L'esportazione a partire dai paesi emergenti è dunque
un necessità. Ora, anche se la dichiarazione dei ministri del commercio
riconosce l'esistenza del problema, i paesi ricchi avrebbero tuttavia
ostacolato una presa di posizione indispensabile. Di fatto la dichiarazione
di Doha non abbatte questa barriera.

Contro la pressione dei paesi ricchi e delle compagnie farmaceutiche la
lotta deve continuare per finire il lavoro incompiuto durante questa
conferenza - milioni di vite sono in gioco.

Act up-Paris esige che l'OMC chiarifichi nel corso della prossima riunione
del consiglio dei TRIPS il fatto che nulla nell'accordo sulla proprietà
intellettuale debba ostacolare l'esportazione di medicinali abbordabili.

Traduzione a cura di Dario Martelli (dario.martelli@libero.it)

Il Gruppo Traduttori di ATTAC vi augura un 2002 di pace e giustizia.
Ci rivediamo l'11 gennaio.

---
Il Granello di Sabbia è realizzato da un gruppo di traduttori e traduttrici volontari/e e dalla redazione di ATTAC Italia redazione@attac.org
Riproduzione autorizzata previa citazione e segnalazione del "Granello di Sabbia - ATTAC - http://attac.org/"

 

GRANELLO DI SABBIA (n°26)
Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
Giovedì, 27-12-2001
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27.12

In tempo di guerra chi paga?

di Doug Henwood

"la guerra che verrà
non è la prima.
prima ci sono state
altre guerre.
alla fine dell'ultima
c'erano vincitori e vinti.
fra i vinti la povera gente
faceva la fame.
fra i vincitori faceva la fame
la povera gente ugualmente"
Bertold Brecht

I ricchi in pista per la riduzione delle tasse.
C'è un vecchio detto degli economisti secondo il quale, in tempo di guerra,
i governi attuano politiche egualitarie per ottenere il favore popolare. Ad
esempio, nel corso delle prime due guerre mondiali e della guerra di Corea,
il governo ha imposto una tassa supplementare sugli utili delle imprese - in
parte perché gli serviva questo gettito, ma anche perché la popolazione non
pensasse che le aziende ricavavano profitto dallo sforzo bellico. Alla fine
delle guerre, erano state aumentate anche le imposte personali sui redditi
più alti.
Stavolta no. Nella sua grande lotta contro il terrorismo, una lotta che ci è
stato detto dal governo Bush che potrebbe durare quaranta o cinquant'anni,
sembrerebbe che a dirigere le danze ci sia Papà Warbucks (antico personaggio
dei fumetti USA - vedi "Little Orphan Annie" -, precursore del più famoso
Zio Paperone, NdT).
L'ostentazione di egoismo e opportunismo è scioccante anche per chi è
abituato a seguire la vita del Congresso USA.
Pochi giorni dopo l'attentato al WTC il Congresso aveva già stanziato un
aiuto di 15 miliardi di dollari per le compagnie aeree. Non un centesimo per
i 100.000 e più dipendenti licenziati.
E in questo momento, quando il Congresso discute di misure destinate a
stimolare l'economia, i maiali si affollano davanti al truogolo, e i nostri
legislatori non hanno altri pensieri che sfamarli.
Il problema non è ridiscutere la necessità di un forte aiuto fiscale.
L'economia americana perdeva colpi già prima dell'11 settembre. Non è facile
capire se si trattava di una vera recessione, ma comunque era finito
l'aumento dell'occupazione e l'industria aveva iniziato a declinare da più
di un anno. Tra marzo 2000 e settembre 2001 nell'industria erano svaniti più
di un milione di posti di lavoro. Una parte era stata assorbita dal settore
dei servizi, che però non godeva buona salute neanche lui.
La causa vera di questo rallentamento è l'esplosione della bolla finanziaria
che si era creata attorno all'high-tech. Quando saltano bolle speculative di
queste dimensioni, generalmente si lasciano dietro economia in gravi
difficoltà, e ci vogliono anni per superarle.
E' proprio quello che è successo negli USA nel corso degli anni '90, e in
Giappone in questi ultimi 12 anni.
Gli attentati dell'11 settembre hanno inferto un grave colpo economico e
psicologico a un'economia già dissestata, cosa che ha quasi certamente
innescato una vera recessione.

CONGRESSO RETROGRADO
Il rimedio classico alla recessione sarebbe l'uso di una forte leva
fiscale - riduzione delle tasse per i redditi medio-bassi - e un aumento
delle spese statali. La motivazione è semplice: in tempi difficili, chi ha
soldi è restio a spenderli, e chi ne ha già pochi di solito se ne trova
ancora meno a causa dei licenziamenti, della riduzione d'orario e di
salario. Le aziende, di fronte alla riduzione di vendite e di utili,
tagliano gli investimenti e ricorrono a massicci licenziamenti.
E che cosa fa il Congresso?  Taglia le tasse ai più ricchi e alle imprese:
azioni economicamente inefficaci - anzi, l'esatto contrario di quello che si
dovrebbe fare - ma molto gradite a coloro che finanziano i congressisti.
In ottobre la Camera ha adottato un pacchetto di 100 miliardi di dollari
destinato a detassare tutti gli investimenti delle aziende, facilitando così
l'occultamento in paradisi fiscali dei profitti di gruppi come General
Electric o General Motors, e offrendo miliardi di dollari in aiuto a
compagnie tutt'altro che in crisi.
Il pretesto era che queste misure avrebbero spinto le imprese a investire, a
crescere e ad assumere; ma non c'è nessuna prova che la riduzione delle
imposte abbia questi effetti. Le aziende investono, crescono e assumono
quando aumentano le vendite, e le considerazioni fiscali sono marginali.
L'emendamento approvato dalla Camera dei Deputati accelererebbe anche le
riduzioni di imposta a favore dei redditi più alti, anticipandole dal 2006
al 2002, e riducendo l'imposizione sulle plusvalenze. Secondo i calcoli di
CTJ (Cittadini per la Giustizia Fiscale) il 41% della riduzione di imposte
finirebbe in tasca all'1% dei più ricchi, e quasi il 75% andrebbe al 10% più
ricco.
L'amministrazione Bush è molto soddisfatta per questo approccio. Ma i ricchi
non saranno in grado di spendere tanto da avere un significativo effetto
stimolante sull'economia.

LA LOTTA DI CLASSE DEL PARTITO REPUBBLICANO
Al Senato, la situazione è un po' più complessa. I repubblicani hanno
proposto riduzioni di imposta ancora più sostanziose per i più ricchi - CTJ
stima che più del 50% andrebbe all'1% più ricco. Però, diversamente da
quello che è successo alla Camera, i repubblicani non hanno avuto abbastanza
voti per far passare l'emendamento. I democratici, contrariamente alle loro
abitudini, sono stati molto critici.
Jim Jordan, direttore della Campagna democratica al Senato, ha dichiarato al
New York Times che era rimasto stupefatto nel constatare "a che punto
possono arrivare i repubblicani per dimostrare che sono il partito dei
ricchi e delle imprese". I repubblicani classificano questi discorsi come
"lotta di classe", come se i loro schemi mentali non entrassero a pieno
titolo in questo concetto.

I RICCHI PAGHERANNO UNA QUOTA MINORE DELLE ENTRATE STATALI, E TUTTI GLI
ALTRI NE PAGHERANNO DI PIÙ.
I democratici hanno proposto sinora di aumentare le spese per la sicurezza
interna, per la copertura mutualistica dei licenziati e per i sussidi ai
disoccupati, ma nulla che assomigli lontanamente ad una lotta di classe, e -
probabilmente - nemmeno a uno stimolo per l'economia. E sarebbero d'accordo
a ridurre le imposte per le aziende.
Se il "piano repubblicano" andrà a buon fine, i ricchi pagheranno una parte
ridotta delle spese governative - comprese quelle di guerra - e tutti gli
altri vedranno aumentata la loro quota. Evidentemente non è sufficiente che
i dipendenti perdano il posto di lavoro, a centinaia di migliaia per volta.
L'unica buona notizia è che i due partiti sono d'accordo per versare ai più
poveri - coloro che nell'estate scorsa non erano riusciti a raggiungere un
imponibile fiscale di 300 dollari - un assegno di pari importo. Ma questi
fondi non hanno avuto alcun effetto sull'economia: a quanto sembra, i
beneficiari li hanno usati per saldare vecchi debiti o per metterli da
parte. E' proprio per questa tendenza al risparmio in tempi difficili che le
spese statali dovrebbero comporre una parte importante nel pacchetto di
misure destinato a rivitalizzare l'economia.
Cosa dovrebbe esserci in questo pacchetto? Ecco qualche elemento: estensione
e prolungamento del sussidio di disoccupazione (oggi ne beneficiano solo il
47% dei disoccupati, contro il 75% degli anni '70); rilancio della politica
di redistribuzione delle ricchezza, abbandonata da Reagan in poi, per
accordare aiuti agli stati che a causa della recessione vedono fortemente
decrescere le entrate; aiuti alla compagnia ferroviaria Amtrak per
promuovere trasporti economici e alternativi all'aereo; e riduzioni di
imposte (più generosi di 300 dollari!) per i nuclei famigliari a medio e
basso reddito.
Purtroppo, le organizzazioni che dovrebbero battersi per queste misure, come
l'AFL-CIO, hanno abbandonato la lotta quasi tutte.

Doug Henwood è editore di "The Left Business Observer"
www.leftbusobserver.com, un periodico di politica ed economia. Articolo
pubblicato in collaborazione con Labor Notes, un mensile di Detroit.
Possibilità di abbonarsi a http://www.labornotes.org.

Traduzione a cura di Umberto G.B. Bardella

Il Gruppo Traduttori di ATTAC vi augura un 2002 di pace e giustizia.
Ci rivediamo l'11 gennaio.

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Il Granello di Sabbia è realizzato da un gruppo di traduttori e traduttrici volontari/e e dalla redazione di ATTAC Italia redazione@attac.org
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GRANELLO DI SABBIA (n°26)
Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
Giovedì, 27-12-2001
______________________________

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27.12

La guerra dell'acqua

di Thierry Adam

La privatizzazione nel Sud America è progredita da 20 anni a questa parte in
maniera inquietante, raggiungendo tutti i settori, specialmente quelli
legati ai servizi pubblici. In Bolivia, dal 1985, pochi settori vi sono
sfuggiti: l'elettricità, le ferrovie, i trasporti aerei, tutti sono stati
svenduti ai privati sotto la pressione delle istituzioni finanziarie
internazionali. Anche la distribuzione dell'acqua potabile e lo smaltimento
sono state oggetto di un trasferimento di gestione verso il privato, come a
La Paz (Agua de Illimann - Vivendi) o a Santa Cruz dove le cooperative di
gestione lo saranno presto. Di fronte ai gravi problemi tecnici, demografici
e finanziari, la necessità di riformare una gestione dell'acqua ormai
obsoleta, la classe politica e i sindacati, sotto l'influenza della Banca
Mondiale e del FMI, hanno abdicato e accettato la necessità inesorabile di
lasciare che le società private prendessero in carico la raccolta dell'acqua
e la sua distribuzione.

Pertanto la lotta di Cochabamba ha segnato una formidabile inversione di
questa tendenza, mostrando che un'alternativa può nascere dal coraggio e
dalla determinazione degli abitanti.

A Cochabamba, 400?000 abitanti, terza città del paese, la gestione dell'
acqua è retta da regole secolari di utilizzo, appartenenti alla cultura
indiana, basate essenzialmente sulle pratiche agricole. Ma i problemi di
accesso e smaltimento si sono moltiplicati, tanto per la consumazione quanto
per l'uso agricolo, anche a causa dell'esplosione demografica della città.
Il 55% degli abitanti (del centro) ha accesso qualche ora al giorno alla
vecchia rete municipale, il 20% la ottiene da sorgenti autonome (raccolta d'
acqua piovana, pozzi..) e il restante 25% fa ricorso alla distribuzione con
i camion. Nelle zone rurali, solo quattro agricoltori su dieci hanno accesso
all'acqua potabile. Infine 54% soltanto degli utenti sono raccordati alla
rete fognaria con possibili gravi conseguenze per la falda freatica. A
Cochabamba, l'irrigazione delle terre circostanti, essenziale per una
produzione agricola vitale, non può più mantenersi ad un livello
sufficiente.

In effetti, studi idrogeologici realizzati nel 94 mostravano che la bilancia
idrogeologica del bacino imbrifero di Cochabamba si equilibra tra apporto e
consumo e che tutte le nuove punzioni per trivellazione farebbero abbassare
pericolosamente la falda. Nonostante questo, i prelievi continuano.
Il governo decide allora di ricorrere al privato. Agirà simultaneamente su
due livelli.
Da una parte, una legge sull'acqua, fortemente influenzata dalle industrie
dell'acqua come la Lyonnaise, è redatta e votata senza alcuna consultazione,
introducendo una serie di meccanismi destinati ad accelerare la
privatizzazione ed incoraggiare gli investimenti stranieri.
Essa prevede tra l'altro:
· Il divieto della raccolta dell'acqua piovana al fine di permettere il
monopolio delle risorse.
· La fine delle sovvenzioni pubbliche.
· La concessione del trasporto e di tutte le risorse disponibili, fino alla
falda.

D'altra parte, il governo delega la distribuzione e la raccolta dell'acqua
di Cochabamba a un'impresa privata, Aguas del Tunari, consorzio detenuto al
55% dalla International Water Limited (IWL) filiale della compagnia
americana Bechtel e dall'italiana Edison. Partners spagnoli e boliviani
completano il consorzio.
L'accordo è passato a seguito di una richiesta d'offerta troncata, la cui
sola risposta era  della Aguas del Tunari. L'accordo prevede la concessione
per 40 anni per tutta la città e i dintorni. Si invoca allora l'assenza di
alternative a questa privatizzazione e tutti sembrano esserne convinti,
volenti o nolenti.

Progetto MISICUNI:
Al fine di approvvigionare la città e' stato elaborato rapidamente un
progetto importante: il progetto MISICUNI.
Esso prevede la costruzione di una diga e di una centrale elettrica sul
fiume Misicuni, cosi' come la costruzione di un tunnel di 20 km destinato a
portare l'acqua a Cochabamba. La fine di questa realizzazione, una delle più
complesse del sud america (4000 metri sul livello del mare!) è prevista per
il 2007. Il suo costo totale ammonta a 300 milioni di dollari USA.
Alla fine del 1999, una serie di incidenti nel cantiere (una persona muore
per una caduta, un'altra dopo l'apertura del tunnel, la necessità di
scavarne un altro .) fanno moltiplicare i costi del progetto. Ed è qui che
interviene la Banca Mondiale. Benché essa abbia sempre negato, il suo ruolo
negli avvenimenti che seguiranno sarà cruciale.
Nel giugno 1999, al termine dell'esame delle spese pubbliche boliviane, essa
raccomanda che "Nessuna sovvenzione debba essere accordata per limitare l'
aumento delle tariffe dell'acqua a Cochabamba, perché queste devono
riflettere il prezzo reale di approvvigionamento del progetto Misicuni" in
aggiunta, più in là, "poiché il governo ha deciso di non ricorrere a
sovvenzioni pubbliche [.] e che gli utenti [di Cochabamba] pagheranno
interamente il servizio [dell'acqua]. E' critico che il governo mantenga
queste decisioni."

Il costo del progetto diventa allora il pretesto per aumentare i prezzi dell
'acqua di proporzioni incredibili: da 35 a 300% secondo i modi di
approvvigionamento precedenti. Tutti sono ora costretti a pagare, compreso
chi non ha accesso alla rete e chi si vede attribuire una tassa terriera per
le acque di scarico. L'impresa decide allora di porre dei contatori a spese
degli utenti. E, peggio, intende far pagare l'acqua di irrigazione che i
contadini utilizzano gratuitamente da decenni.

Nel dicembre 1999, quando il salario minimo è limitato a meno di 100$ al
mese, la bolletta dell'acqua ammonta a 20$: quasi il 22% del salario mensile
di un impiegato (e il 27% del salario mensile di un'impiegata). Un quarto
dello stipendio per la bolletta dell'acqua!
Di fronte a questa vergognosa aberrazione e alla mancanza di reazione da
parte della confederazione sindacale e dei partiti politici, la resistenza
assume una nuova forma. Le federazioni operaie locali, le organizzazioni di
agricoltori così come le associazioni per la difesa dell'acqua, creano una
nuova organizzazione: la Coordinadora de la Defensa de Agua y la Vida, che
si sforzerà di far barriera al progetto e mobiliterà gli abitanti. Oscar
Olivera, allora segretario generale della Federazione degli operai d'impresa
di Cochabamba, raggruppante 50 sindacati, diventa uno dei leader.

Primi scontri.
Nel gennaio 2000, un primo sciopero di camionisti paralizza la città per 4
giorni. Il governo, costretto a negoziare, promette d'invertire la marcia
dei prezzi. Ma la Coordinadora, vigile, convoca una marcia per febbraio,
sentendo che la situazione si sarebbe protratta.
Il 4 febbraio, migliaia di persone, tra cui tantissime donne e giovani, si
riuniscono in città: le strade vengono bloccate, nelle piazze la popolazione
si riunisce e brucia un grande mucchio di bollette dell'acqua. Ripresosi
dalla sorpresa, il presidente Hugo Banzer, invia in piazza un migliaio di
poliziotti con lo scopo di " proteggere la popolazione dalla violenza dei
manifestanti", etichettati come "isolati e manovrati dalla mafia". La
manifestazione termina con una violenta repressione della polizia. Comunque,
nel contesto generale boliviano, segnato dal malcontento generale, il
sollevamento è popolare e rischia di estendersi. Al termine degli scontri,
il governo e la società si impegnano al congelamento dei prezzi fino al
prossimo negoziato, nel novembre 2000.

Fino allo fine.
Ma oggi i membri della Coordinadora, apprendendo l'esistenza di una legge
sull'acqua orientata alla soddisfazione degli interessi privati,
percepiscono chiaramente l'origine e i meccanismi di aumento del prezzo dell
'acqua. In marzo hanno fatto ricorso ad una consultazione popolare per
decidere come seguitare la mobilitazione; il verdetto è senza appello: no
alla privatizzazione, no al consorzio. La Coordinadora lancia allora un
ultimatum per il 4 aprile, minacciando uno sciopero generale e un blocco
illimitato.
In aprile, la città intera e i dintorni sono bloccati da un clima di
insurrezione generale. Una solidarietà naturale nata dalla lotta e dalla
speranza di vittoria. La repressione si inasprisce. Al terzo giorno di
scontri, i leader della Coordinadora  vengono arrestati e il presidente Hugo
Banzer dichiara lo stato d'emergenza. I proiettili veri seguono i
lacrimogeni e i proiettili di gomma; l'8 aprile un ragazzo di 17 anni,
Victor Hugo Daza Argadoña, muore colpito alla testa da un ufficiale dell'
esercito praticamente davanti alle telecamere della televisione boliviana.
Ovunque la guerra dell'acqua diventa il simbolo della lotta per la dignità e
il rifiuto di una situazione insostenibile: no alla povertà, no alla
politica governativa, no al liberalismo cieco. In 5 delle 8 province della
Bolivia, allora attraversate da uno dei più violenti terremoti sociali della
sua storia, esplode la solidarietà.

Vittoria.
Alla fine della rivolta, la tensione e la radicalità dei manifestanti sono
così forti che i poliziotti inviati sul posto sono obbligati a chiedere il
permesso per poter uscire dalla città sani e salvi.
La situazione è insostenibile per il governo che, il 10 aprile, cede su
tutta la linea. Per la prima volta nella storia della Bolivia, una legge già
votata viene modificata sotto la pressione popolare.
Il contratto di delega è annullato così come il progetto Misicuni; i
dirigenti dell'Agua del Tunari si dileguano con tutti i documenti. Il
governo locale rimette la gestione locale dei servizi dell'acqua, la SEMAPA,
alla Coordinadora. Un comitato provvisorio di lavoro, composto dai
rappresentanti della città, della coordinadora e dal servizio dell'acqua,
comincia a discutere del piano di una futura cooperativa gestita da
assemblee di quartiere. I gruppi di lavoro si riuniscono per gestire
collettivamente l'approvvigionamento dell'acqua.
Più tardi si creerà una "coordinazione dell'acqua e dell'economia familiare"
, composta, tra gli altri, da rappresentanti degli utenti. Questa viene
incaricata della gestione dell'acqua in collaborazione con l'impresa
municipale di distribuzione. Le quasi 57?000 famiglie della regione evitano
dunque un aumento annuale di un centinaio di migliaia di franchi, essendo il
prezzo solamente "adattato" del 3% o del 5%.

Un seguito difficile.
Comunque, anche dopo questa vittoria eclatante (ma anche dolorosa), la
coordinazione si ritrova con un progetto certo formidabile, ma che non è
meno minato. Essa deve risolvere una serie di problemi delicati, perché la
gestione da parte dei cittadini non fa sparire le difficoltà. Bisogna
trovare altre risorse oltre la falda della campagna circostante che fornisce
già il 40% dell'acqua consumata. La società di sfruttamento è
superindebitata (40 milioni di $). La rete esistente deve essere cambiata.
Mancano le competenze tecniche per immaginare soluzioni poco costose ed
efficaci.
Inoltre l'Aguas del Tunari esige un risarcimento per la rottura del suo
contratto di 160 milioni di franchi! (24.5 milioni di euro).
Secondo Oscar Olivera, leader della Coordinadora, questa esperienza deve
essere estesa a tutti i servizi pubblici. Nonostante gli ostacoli, Olivera
continua a lottare  perché una gestione diretta e partecipativa dell'acqua
non diventi una sconfitta.
Decide allora di far appello agli aiuti internazionali. Diverse
organizzazioni rispondono al suo appello. Così, professionisti tedeschi del
settore dell'acqua, in pensione, gli indicano come sia possibile, a basso
costo, rimpiazzare le tubature in cattivo stato inserendo dei tubi più
piccoli all'interno della vecchia rete.
Al momento attuale, non si può dire se la gestione della cooperativa dell'
acqua a Cochabamba sia stato un successo; ci sono troppi problemi da
risolvere e il coinvolgimento della popolazione locale, per quanto grande
possa essere, non sarà sufficiente
Al momento, molti dei problemi tecnici permangono, per esempio quale sia la
giusta maniera di fissare il prezzo dell'acqua, o come portare ulteriori
risorse d' acqua a Cochabamba senza trasferire tutto il costo sulla
popolazione, senza squilibrare il sistema idrologico o ancora senza
danneggiare i numerosi contadini indiani che vivono sulle montagne.
Oscar Olivera attraversa dunque il mondo alla ricerca di questi aiuti,
offrendo alloggio a tutti quelli che desiderino venire a portare il loro
sostegno al progetto e offrire le proprie competenze. Senza questo aiuto
tecnico la Coordinadora potrebbe, in effetti, restare pericolosamente
dipendente dalle esperienze essenzialmente fornite dal settore privato.
Sarà questo un appello alla costituzione di brigate internazionali di un
nuovo genere (pacifiche queste) basate sulla cooperazione mondiale e la
volontà di preservare la gestione dei bisogni essenziali lontano da appetiti
capitalistici?
Ecco, senza dubbio, un concetto che potrebbe completare efficacemente
l'ingranaggio degli aiuti internazionali (che a volte considerano puramente
fatti e cause in vista della privatizzazione). Se si concretizza questa idea
sarebbe un passo verso un servizio pubblico cittadino autogestito mondiale.

Thierry Adam. Gruppo " acqua" eau@attac.org

Traduzione a cura di Luisa Ferrari

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GRANELLO DI SABBIA (n°26)
Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
Giovedì, 27-12-2001
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27.12

Il settore dei servizi è soddisfatto da Doha

di Daniel Pruzin

I rappresentanti delle associazioni del settore dei servizi hanno espresso
la loro soddisfazione al termine della conferenza ministeriale dell'
Organizzazione Mondiale del Commercio, che si è tenuta a Doha, in Qatar, dal
9 al 14 novembre, malgrado il rinvio dei negoziati sui servizi al 2003,
formulato nella dichiarazione finale.

L'OMC ha iniziato i negoziati prescritti sull'agricoltura e i servizi all'
inizio del 2000 e i lavori preparatori sui servizi sono stati abbozzati all'
epoca. Ma le discussioni si sono arrestate, nell'attesa del lancio di un
nuovo ciclo di negoziati, più ampio e nel quale l'introduzione di nuovi
settori di negoziazione avrebbe offerto ai membri dell'OMC carta bianca per
negoziare delle concessioni tra i differenti settori.

I ministri del commercio si sono risolti a lanciare questo ciclo alla
conferenza di Doha, scrivendo all'ordine del giorno i nuovi settori, quali
le tariffe doganali dei prodotti dell'industria, le regole antidumping e
compensatorie, così come l'ambiente, campi ai quali si aggiunge la
possibilità di introdurre nel giro di due anni questioni nuove, quali quelle
della politica degli investimenti e della concorrenza.

I ministri hanno riconosciuto il lavoro già svolto sui negoziati relativi ai
servizi, così come il numero importante delle proposte presentate dai membri
dell'OMC su numerose questioni. Hanno altresì riaffermato la linea di
condotta e le procedure adottate nel marzo 2001 dal Consiglio sul Commercio
e i Servizi dell'OMC per il proseguimento dei negoziati.

I ministri hanno aggiunto che i paesi partecipanti ai negoziati dovrebbero
sottoporre le loro richieste iniziali di accesso al mercato dei servizi
entro il 30 giugno 2002. In seguito, le offerte iniziali dovrebbero essere
presentate dai partecipanti al più tardi il 31 marzo 2003, data in cui la
fase di negoziazione potrebbe partire.

Capisaldi e scadenze certe: le due chiavi per la riuscita.

J. Robert Vastine, il presidente della Coalizione americana delle imprese di
servizi (US Coalition of Services Industries), ha dichiarato che il suo
gruppo era soddisfatto degli esiti di Doha. "l'essenziale, per noi è di
avere ottenuto capisaldi e scadenze certe per la presentazione delle
 offerte", ha confessato il 19 novembre al Bureau of National Affairs (BNA).

Ha aggiunto che il rinvio di parte dei negoziati, per l'esattezza, non era
una cosa malvagia. «Il settore dei servizi e i governi hanno bisogno di
tempo per diffondere l'informazione su questioni quali la trasparenza e la
regolamentazione nazionale», ha precisato. « Molte persone non comprendono
questi problemi. Avremo bisogno di tutto questo tempo per informare i
cittadini, e potrebbe portare ad offerte più considerevoli»

"Perché correre?", ha concluso, sottolineando il fatto che il ciclo di Doha
non dovrebbe concludersi prima del 1° gennaio 2005. Questo ciclo è condotto
come un tutt'uno, ciò significa che, anche se l'accordo sui servizi fosse
concluso prima della data di scadenza , bisognerebbe aspettare che i
negoziati relativi agli altri settori, siano terminati per concludere l'
accordo globale.

La dichiarazione di Doha non precisa se gli accordi conclusi prima
entreranno in vigore, provvisoriamente o definitivamente, nell'attesa della
fine del ciclo di negoziati.

Il Comitato europeo delle assicurazioni, una federazione che rappresenta le
associazioni di compagnie assicuratrici di 29 paesi europei, ha ugualmente
accolto in maniera positiva la conclusione della conferenza di Doha il 19
novembre. "Ciò che c'è di nuovo e di importante nel settore assicurativo, è
che delle reali negoziazioni sui servizi stanno per essere iniziate, dopo un
periodo di quasi stagnazione di questi due ultimi anni", ha dichiarato.

Christopher Roberts, del Forum europeo dei servizi, che raggruppa i
rappresentanti di più di 30 settori di servizi in Europa, ha aggiunto che la
sua associazione era "nel complesso soddisfatta dal risultato di Doha. Noi
sapevamo che se i negoziati sui servizi avessero portato a dei risultati
significativi, avremmo indetto un nuovo ciclo."
« Preferiremmo infatti, che il processo di domanda e di offerta ai servizi
iniziasse prima », ha riconosciuto, « ma è più importante avere un
calendario preciso. La parte della dichiarazione dei ministri relativa ai
servizi non è stata materia controversa a Doha. Siamo contenti di iniziare,
dall'anno prossimo, dei negoziati seri ed approfonditi."

L'ottimismo di Mr. Moore.

Mike Moore, direttore generale dell'OMC, ha dichiarato il 19 novembre, che
il rinvio dell'inizio dei negoziati, relativi alla fase di domanda ed
offerta di servizi, tendeva ad assicurare un certo equilibrio tra i servizi
e gli altri settori. « Vogliamo evitare che qualche settore sia troppo in
anticipo rispetto agli altri », ha precisato.

I paesi interessati dai commerci agricoli, come i 18 membri del gruppo di
Cairns, hanno insistito perché le discussioni previste per i servizi e l'
agricoltura, siano condotte contemporaneamente, al fine di garantire una
buona riuscita di quest'ultima, per la quale la posta politica è molto più
elevata.

La dichiarazione di Doha esige membri dell'OMC che sottoscrivano una
proposta completa di scadenze per l'accesso al mercato agricolo da ora fino
alla quinta conferenza ministeriale dell'OMC, prevista per il 2003.

Daniel Pruzin. Bureau of National Affairs, Inc., Washington (editore di
servizi di informazione specializzati negli affari, la legislazione, la
giustizia e la regolamentazione).

Traduzione a cura di Simone Bocchi

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26.12

Occhi puntati sulla Somalia

Per chi ancora non lo abbia fatto, si legga le pagine del 13.12 "Dossier: Somalia prossimo obiettivo"

Teniamo d'occhio il fantomantico istituto islamico di 'Abdul-Hadi Massimo Palazzi, l'Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana (Via Muzio Scevola 81/25 00181 Roma; tel. e fax 06/7825036), connesso all'AMI (http://shell.spqr.net/islam/ mailto:islam@spqr.net) perchè un inaudito fronte d'interessi sta premendo affinché la "guerra al terrorismo" prenda una 'piega somala'. 

Se le cose andranno come vogliono queste persone, la candidatura a "Papa dell'Islam italiano" dello "sceicco Palazzi" (pubblicamente filosionista: quello della sceneggiata davanti alla Comunità di S. Egidio in occasione della visita di al-Qaradawi, per intenderci), che ha trovato nei quotidiani "Libero" e "L'Opinione" (ma anche "Il Tempo"  e "Il Messaggero" non lesinano gli spazi) delle puntuali casse di risonanza, ne uscirà rafforzata. Seguiranno aggiornamenti in merito.

Davide di Porto

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25.12

La fine del pensiero unico e le guerre future

Dal sito www.wumingfoundation.com. Questo che segue è un articolo del 23 agosto 2001,scritto da Sbancor, che è un noto personaggio dell'alta finanza italiana, che annuncia con largo margine lo scenario che ha cominciato a profilarsi dall' 11 settembre. Il sito è curato dagli ex Luther Blisset all'interno del link Giap (una mailing-news a cui è possibile iscriversi). Vai anche su www.yndimedia.org dove trovertere novità sulla morte di Carlo Giuliani, se è di vostro interesse. Giuliana

Una riflessione e un contributo importante, in attesa di riprendere con /Giap/ e con tutto il resto.
Quanto è accaduto a Genova e nelle settimane successive, e quanto accadrà nell'autunno rovente, ha solo in minima parte a che vedere con l'ideologia e la "incultura democratica" di questa o quella compagine governativa nazionale.
In Isvezia il governo non è "fascista", ma al vertice UE la polizia si comportò in modo non dissimile, anzi: se a Giuliani hanno sparato in faccia, al ragazzo di Goteborg spararono alla schiena.
Può sembrare una forzatura ma non lo è: l'attacco al movimento (errori e "sbavature" a parte) era preannunciato dal "crollo" dell'Argentina, paese-modello dell'FMI, laboratorio delle politiche neo-liberiste made in USA.
E' un dato di fatto che il "Pensiero Unico" non è più tale, il neo-liberismo è in piena crisi di legittimazione perché c'è un movimento globale che lo contesta e contrasta, le multinazionali hanno una pessima reputazione e anche per questo i consumi si contraggono (McDonald's ha dovuto chiudere 250 "ristoranti", le principali corporations hanno subito un sensibile calo dei profitti etc.). In questa situazione non rosea, l'Impero deve gestirsi l'annunciata, drammatica recessione. Gli "aggiustamenti" servono a poco perché la coperta è corta.
Abbiamo chiesto a Sbancor (nome noto a molti /Giapsters/ e a chi - prima di Genova - partecipava al forum sul fu-sito www.tutebianche.org) una ricapitolazione delle ultime mosse intorno al dollaro e alla tenuta del sistema. Gli abbiamo anche chiesto: "Cosa succederà nei prossimi mesi e che ruolo possiamo giocare noi?". La sua risposta è inequivoca: RESTARE UNITI/E, NON ACCETTARE NESSUNA ARTIFICIOSA DIVISIONE TRA "BUONI" E "CATTIVI".
Ecco il pezzo. Buona lettura, e diffondete!



LA FINE DEL "PENSIERO UNICO"  
Dalla crisi del neo-liberismo ai nuovi scenari geo-politici

di Sbancor (*)
sbancor@hotmail.com


1. E ALLORA CAPISCI CHE LA RECESSIONE DEVE ANCORA VENIRE. E SARA' DURA.

“Ormai alla ripresa dietro l’angolo non ci crede più nessuno in America. E molti  hanno paura di guardare anche cosa ci sia dietro l’angolo: hanno paura di trovarci il Giappone e la “trappola della liquidità” (liquidity trap)”  Così un mio amico, analista di una banca d’affari internazionale, commentava l’ultimo dei tagli  operati dal FOMC (Federal Open Market Commitee). Tralascio per decenza i “fuck you european shits”  di cui il discorso era infarcito. Ormai anche i migliori analisti americani parlano come Al Pacino in Scarface.
 Nonostante sette tagli del denaro consecutivi, infatti,  le notizie che provengono dagli “States”  continuano a segnare brutto tempo. Non solo: vengono rivisti anche i dati  dell’anno precedente: come dire il miracolo economico americano e i favolosi incrementi di produttività erano meno forti di quanto si pensasse.  Ormai anche i giornali, e non solo l’Economist, che l’aveva sempre detto, incominciano a parlare della “bolla delle dot.com”. Insomma la “new economy” sembra finita prima ancora di iniziare. E l’economia torna ad essere “the dismal science”, la scienza triste evocata da Carlyle.  Di più: quando anche i più collaudati strumenti di politica monetaria non funzionano, quando  anche le manovre sui tassi sembrano non aver effetto sull’economia, ecco riapparire il fantasma della crisi, nella sua versione più inconcepibile per il pensiero economico: la "liquidity trap", la trappola della liquidità.  Tecnicamente può essere rappresentata  così: anche  a costo del denaro “zero” o addirittura negativo nessuno è più disposto ad investire. I risparmiatori/investitori attribuiscono al semplice possesso di denaro un “premio di liquidità” cosi alto che fa giudicare ogni investimento, ma anche ogni acquisto come troppo “incerto”  per essere perseguito. E’ ciò che da anni sta avvenendo all’economia giapponese: i prezzi scendono (deflazione) ma anche i consumi scendono.
 A tassi di interesse zero e a liquidità praticamente illimitata il PIL è cresciuto nel primo trimestre del 2001 solo dello 0,1% e per la chiusura del semestre si prevede un PIL negativo.
Questa preferenza per la liquidità  non è solamente un fatto economico. Esso segna il limite di un pensiero economico, di più, di un “common sentiment”. Quel sentire comune che fa di noi, adepti della comunità finanziaria, esseri sostanzialmente  indistinguibili dai nostri gessati, dalle scarpe Church, scrupolosamente nere e dai gemelli d’oro.  Quel sentire che ci fa sentire in ogni luogo del mondo a casa nostra, perché i nostri pantaloni sono sostenuti da identiche bretelle blu (o nere) a bottoni.  
Quando scatta la “liquidity trap” è come se le bretelle cedessero contemporaneamente e in tutto il mondo e tutti noi ci trovassimo improvvisamente in mutande. Come capirete in simile imbarazzante situazione diventa impossibile non cedere alla tentazione di misurare le rispettive virilità. Fare i conti con la realtà in certi casi  può avere effetti devastanti!
 Scrive J.M.Keynes: “In pratica, si è tacitamente convenuto, di regola, di ricorrere sostanzialmente ad una convenzione. (…)  L’essenza di questa convenzione sta nel supporre che lo stato di cose esistente continuerà indefinitamente…. Il metodo convenzionale di calcolo sarà compatibile con un grado notevole di continuità e stabilità dei nostri affari fino a quando possiamo confidare che la convinzione sarà mantenuta….Una procedura del genere di questa testé descritta   -ne sono certo - è quella che ha fornito la base per lo sviluppo dei nostri principali mercati di investimento. Ma non vi è da sorprendersi che una convenzione, tanto arbitraria se si considerano le cose da un punto di vista assoluto, abbia i suoi punti deboli. E’ questa precarietà che costituisce una non piccola parte del nostro problema….”  (J.M. Keynes: Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta , UTET Torino 1971, pp. 292-93)


2. LA CONVENZIONE NEOLIBERISTA

La convenzione che, insieme alle nostre bretelle, oggi sta incominciando a cedere, è il pensiero unico neo-liberista che ha dominato la fine del passato millennio  e sta tentando, ancora, di estendere il suo dominio in questo.  Pochi  assiomi possono così riassumerla:
1. L’economia è la scienza che governa la società nel suo complesso: le altre scienze sono subordinate ad essa che ne decreta, attraverso il mercato, la loro efficacia. Università, centri di ricerca,  sistemi sanitari, beni culturali, alimentazione, architettura, arte, cultura, religione  e quant’altro sono soggetti alla “dura legge del mercato”. A dirigere queste attività vanno chiamati dei manager  (dal latino manus agere ).
2. Il mercato decreta il successo o l’insuccesso di ogni attività e della vita umana in generale. Questo successo è misurabile in beni mobili ed immobili.
3. Il mancato successo può essere attribuito solo a colpa soggettiva o malattia grave. Più spesso all’infingardaggine  dei perdenti che vogliono, attraverso la spesa pubblica, minare la stabilità della moneta e dello Stato.  Costoro vengono chiamati  “comunisti”, qualunque sia il credo ideologico a cui si riferiscono.
4. Lo sviluppo dei servizi, così come la crescita del III° mondo vengono affidati all’iniziativa privata e alle forze del mercato. I paesi che non riescono a svilupparsi sono paesi sostanzialmente “illiberali” e gli aiuti vanno commisurati alle loro progressive liberalizzazioni e privatizzazione.
5. Il lavoro deve essere flessibile: solo avendo la libertà di licenziare si può ragionevolmente assumere qualcuno.
6. Le pensioni vanno investite sui mercati dei titoli di debito o di proprietà di imprese, in modo da legare il reddito futuro all’andamento attuale dell’economia e garantire un comportamento coerente degli occupati.
7. L’egoismo privato,  l’avidità del singolo, è presupposto del bene collettivo. Chi pone limiti  all’egoismo e all’avidità sta operando contro l’umano interesse. Comunista.
8- Il diritto internazionale si fonda su questi principi: chi non li rispetta può essere liberamente invaso o bombardato e infine tradotto di fronte a un Tribunale Internazionale. I patti eventualmente sottoscritti precedentemente  con il “reo” (V. caso Noriega, Hussein, o Milosevic)  possono essere  tranquillamente dichiarati inesistenti.
9. Chi protesta contro il presente stato di cose è un “comunista”.
10. La legge del mercato abroga tutte le precedenti leggi.

Può sembrare incredibile, ma l’insieme corposo di questi principi dipende da alcune macrovariabili economiche.  Nonostante schiere di economisti, giornalisti, presentatori televisivi, telegiornali e pubblicità abbiano cercato di convincerci che queste leggi facciano parte dell’ “umano sentire” e in qualche caso della volontà divina, esse a loro volta dipendono da alcune insignificanti variabili quali:
1. Il valore del dollaro. (oggi in discesa sull’Euro)
2.  L’andamento del Dow Jones e del Nasdaq. (diverse migliaia di punti persi in un anno)
3. L’andamento della bilancia commerciale degli Stati Uniti (-450 miliardi di dollari)
4. Il flusso netto di investimenti esteri diretti e di portafoglio negli States. (oggi pari al 64% dei flussi netti di capitali)

Questo insieme di variabili definiscono lo “stato di cose esistenti”: la Regola e la Convenzione. Se esse cambiano il pensiero unico che ne deriva dovrà inevitabilmente recepire  il cambiamento degli indicatori sottostanti. Attualmente tutte queste variabili hanno un segno meno davanti. Il che rende mooooolto nervosi gli uomini con le bretelle.  
Oggi i grandi gestori internazionali del risparmio, le banche d’affari, i fondi comuni, i fondi pensione, le assicurazioni  vivono un periodo d’incertezza e precarietà circa la Regola e la Convenzione. Questa incertezza  aumenta il “premio di liquidità”  quello strano differenziale fra un valore in denaro e l’equivalente in investimenti o beni  che aumenta ogni volta che si teme che il prezzo pagato oggi sia  superiore al prezzo a cui lo rivenderò domani.  L’incubo peggiore, per coloro che vivono di rendite, è sicuramente la “svalorizzazione”  del proprio capitale.  Le venali aritmetiche borsistiche che assicurano all’1% della popolazione americana di governare l’economia, ma a molti altri di integrare un reddito o peggio pagare un debito, incominciano mostrare da troppo tempo un segno negativo. Nell’1% serpeggia malumore, nel resto si fa strada una vera e propria depressione. La Depressione aumenta l’incertezza, questa agisce sul premio di liquidità e la depressione prima o poi sarà disperazione.


3. LE CRISI "REGIONALI"

La crisi del pensiero unico neoliberista  è dunque la sua incapacità di produrre ricchezza finanziaria indefinita, di prolungare l’illusione che il denaro possa produrre altro denaro senza passare per la produzione. La più grande obiezione alla “new economy” sono l’andamento del Dow Jones e di Wall Street. . Non solo, sempre più evidente appare la sua incapacità a governare le crisi economiche “regionali”, dalla Turchia all’Argentina, al Far East.
Il caso Argentino è forse il più emblematico. Dopo svariati tentativi di tener sotto controllo un inflazione che oscillava fra le tre e quattro cifre, un ministro particolarmente brillante, Domingo Cavallo, decide di rinunciare di fatto alla sovranità monetaria del proprio paese. Per far ciò rispolvera un vecchio metodo usato dagli inglesi in diversi paesi,  al tempo dell’Isola del Tesoro e dell’Impero di sua Maestà: il “currency board”. In esso si stabilisce per legge una parità di cambio fissa fra la moneta nazionale (il peso) e un’altra moneta (il dollaro). La politica monetaria dell’Argentina, a quel punto è delegata alla FED. Ciò che Cavallo dimenticò è che per poter permettersi il “currency board” sarebbe stato necessario per l’Argentina avere un forte flusso di esportazioni pagate in valuta verso l’area del dollaro. Ma proprio l’adozione del dollaro rese impossibile l’export argentino: mentre Brasile e Cile potevano svalutare e diminuire quindi i prezzi relativi delle merci, l’Argentina era ancorata al Dollaro. La cura ovviamente funzionò per l’inflazione, ma cominciò a provocare un crescente squilibro della bilancia commerciale. Per pareggiare la bilancia dei pagamenti furono iniziate, sotto Menem, le privatizzazioni. In pochi anni gli Argentini si vendettero tutto: aerei, aeroporti, centri commerciali (sono tutti di Soros)  impianti di estrazione del petrolio, telefoni, elettricità ecc.  L’Argentina era guardata dal mondo come il paese dove il pensiero unico del F.M.I. e della Banca Mondiale aveva vinto. Un miracolo economico!  Ma le privatizzazioni prima o poi finiscono, lo squilibrio commerciale resta, lo Stato deve drenare denaro sui mercati internazionali  attraverso prestiti internazionali in valuta, ad ogni giro i tassi salgono e il rating diminuisce. I tassi alti scoraggiano l’economia e per tre anni l’Argentina va in recessione. Le Grandi Famiglie (3% della popolazione) incominciano a cambiare i pesos in dollari. Servono altri prestiti, sempre più cari. A questo punto scoppia la crisi finanziaria. Nessuno presta più soldi all’Argentina che è costretta a tagliare del 13% i salari pubblici e a bloccare totalmente la spesa pubblica. Neanche questo basta, ed ecco l’F.M.I., caritatevole, giungere in soccorso, prestando 8 miliardi di dollari . con una clausola, però, che l’Argentina aderisca al FTAA cioè si apra al libero scambio con gli USA.  Doppia trappola:  il deflusso di dollari non potrà che aumentare, per il libero scambio e in più si mette in ginocchio il Brasile e si fa saltare il Mercosur.
La crisi finanziaria argentina è solo rimandata di qualche mese: una boccata d’ossigeno per l’UBS, Citygroup e Chase Manhattan e altre grandi banche che hanno ancora qualche mese per “securizzare” i propri crediti, cioè farli scomparire nel risparmio gestito di fondi pensione. Quando la stessa cosa avvenne in Messico nel 1995 a rimetterci fu il Fondo Pensione degli Insegnanti della California!
Ma ormai è fin troppo chiaro: le ricette virtuose del F.M.I. sono peggio delle cavallette. Dopo il Sud Est asiatico e la Russia stanno rovinando il Sudamerica. Ma la grande fornace di Wall Street ha bisogno di capitali esteri che tengano su i corsi azionari e quindi “mors tua vita mea”! .
Meraviglie della globalizzazione dei mercati finanziari!

Il liberismo è l’ideologia rovesciata del monopolio monetario e finanziario che l’America impone sul resto del mondo.  Comprate quello che volete, basta che lo paghiate in dollari. Fate tutti i debiti che volete, basta che li contraete presso una banca americana e che siano dominati in dollari. Investite nell’industria che vi pare, basta che sia quotata a Wall Street.


4. LA NOVITA' DELLA GLOBALIZZAZIONE DAL BASSO

Ma c’è una altra novità che ormai nessuno può ignorare:  la globalizzazione dal basso sembra più rapida, se non più forte, della globalizzazione economica.  All’impasse del WTO dopo Seattle, si contrappone  la capacità di diffusione su tutto il pianeta  di moltitudini che solo per l’effetto rovesciato dei media oggi si definiscono “no global”.
Da Nizza a Praga a Quebec City, a Goteborg, a Genova. E domani a Napoli e  infine a Washington,  dove scenderà di nuovo in piazza l’AFL-CIO, il più grande  sindacato americano.
Il mix teorico-pratico di questo movimento è assai confuso. Ma la somma delle istanze che avanza sono un cocktail  micidiale per il pensiero unico neoliberista: in esso si sommano proteste antiche, vetero comunismo, neo-anarchismo, pacifismo, sindacalismo di base, pensiero cattolico, verdi, immigrati, minoranze etnico-linguistiche.  Finchè rimane unito è inattaccabile. Per questo Genova:  occorreva provare il terreno delle violenza per vedere di separare le componenti del movimento e batterle in campi separati, una per volta. Ecco perché hanno dato via libera ai black bloc e si sono concentrati a massacrare cattolici, ambientalisti, cooperanti, costruttori di pace ecc. Soprattutto i cattolici fanno paura:  sono contro le guerre, sono contro le biotecnologie, sono contro il neo-liberismo, sono contro tutto ciò che potrebbe  servire nei prossimi mesi per rimandare la depressione economica.
Assisteremo a un nuovo scontro fra Impero e Papato?
Ho paura che Genova sia stata solo una prova generale.  Nei prossimi mesi vedremo al lavoro diverse squadre di “guastatori specializzati”.  A Genova hanno perso, questo è fuori di dubbio. E a farli perdere sono stati 300.000 ragazzi che sono restati li per due giorni sotto le manganellate e i lacrimogeni, a volte sotto il fuoco diretto di polizia e carabinieri senza andarsene, ma anche senza alzare il livello dello scontro. Le moltitudini, appunto. Ragazzi incarcerati e torturati che continuano a lottare nelle aule dei tribunali.  Una capacità di documentazione e informazione in tempo reale mai vista prima.  Una solidarietà internazionale che non si vedeva dai tempi del Vietnam.  Quella che doveva essere la  frammentazione del movimento rischia di trasformarsi in una vera e proprio “débacle” per i registi occulti del terrore.  
Ma chi sono questi registi e perché si preoccupano tanto di noi?
Non sono certo i berlusconiani, utili idioti che non sanno neanche di cosa si stia parlando. Ricordiamoci che le prove generali della repressione di Genova sono state fatte a Napoli, sotto un governo di Centrosinistra. In America userebbero un termine  molto descrittivo: “l’establishment”. E l’”establishment” è fatto dei signori con le bretelle delle banche, degli uomini delle multinazionali, dei circoli più reazionari, via via scendendo verso il basso, fino a poliziotti corrotti, gruppi neofascisti, ex agenti della CIA, dell’FBI, della DEA.  La politica, in senso tradizionale qui non c’entra.  Sono altri i legami che occorre indagare. Riti di denaro e di sangue che hanno accompagnato la politica imperiale degli ultimi cinquant’anni. Riti internazionali e segreti, ma assolutamente lineari nei comportamenti . Decifrarli  in tempo è l’unica  speranza di evitare altre trappole, questa volta mortali per il movimento.


5. WARFARE AGAINST WELFARE: LA POSTA IN GIOCO

La posta in gioco è alta. Per l’”establishment” imperiale  si tratta di restituire al capitalismo internazionale l’ultima chiave per poter uscire da un ciclo recessivo che si annuncia lungo. Questa chiave si chiama *Warfare*.  Il Warfare non necessariamente è guerra, anche se ogni tanto qualche guerra è pur necessaria per smaltire le scorte d’armi e giustificare i nuovi investimenti. Il Warfare è un complesso militare industriale e di intelligence ed insieme una politica economica. La possibilità di iniettare liquidità nel sistema mirata direttamente ad investimenti in tecnologia che possono perpetuare la supremazia imperiale.  Da un punto di vista economico il warfare è molto più efficace del welfare.  E’ più selettivo, permette di distribuire i soldi fra gli amici,  stimola l’innovazione tecnologica, evita politiche sociali imbarazzanti, ha minor impatto sull’inflazione e indirizza la domanda del III° mondo verso un prodotto, come le armi, che assicura la sopravvivenza agli wasp (white anglosaxon protestant),  dimostrando inoltre l’inutilità delle politiche di aiuto a un terzo mondo barbaro e crudele.
Il warfare va continuamente alimentato da visioni geopolitiche.
E’ questo il grande gioco”, la scacchiera, come dice Brzezinsky, dove giocare lo scontro fra le civilizzazioni (S.Huntington: The Clash of Civilisation and the Remaking of World Order, 1998).
E che sulla scacchiera sia tornato un “old fellow” come Henry Kissinger  rende il gioco particolarmente pericoloso.
L’America, almeno dal tempo di Bush senior, sta cercando di superare un ostacolo psicologico: la sindrome del Viet-Nam  che gli impedisce di far funzionare sul serio il Warfare . Ci è quasi riuscita con la guerra del Golfo e con il Kossovo.  Dove potrà provare una prossima “guerra”?
La Palestina  è la miccia. Sempre accesa. Chi ha provato a spegnerla ha fatto una brutta fine, come Rabin.
Quanto è lunga la miccia e fino a dove può bruciare?
La polveriera non è in Medioriente.
Il Medioriente al massimo è la seconda parte della miccia. La polveriera è in un punto imprecisato delle frontiere  della cosiddetta area “turanica” (Iran, Afghanistan, Tagikistan, Khirghisistan, Azerbaijan, Uzsbekistan, Pakistan.)
Da secoli  è il ventre molle della Russia, ma (attenzione) è il ventre molle anche della Cina. Dalle etnie Uigure (turche) si risale verso lo Xin Xiang : il più grande bacino minerario e petrolifero del mondo.
Da li si controlla tutta l’Eurasia. Si controllano le “pipe lines” del III° millennio.  Da lì passano le vie della droga. Da li passano i mercanti di schiavi  che riforniscono le industrie e i commerci di tutto il mondo.
“La via della Seta”.   
La “ Via della Seta” però incomincia a Gerusalemme.
E’ qui che i “fondamentalisti” di tutte le religioni da millenni hanno segnato il luogo della battaglia fra le “civilizzazioni”: la piana di Armageddon.
Si lo so: può sembrare follia. Che c’entrano gli interessi economici con le antiche leggende?  C’entrano. Il denaro è il terreno del simbolico. Quando non può nutrirsi di numeri deve nutrirsi di sangue.
Oggi il dibattito alla corte imperiale è se consentire Armageddon e accendere la miccia che brucierà fino al centro dell’Eurasia,  oppure no.  A favore ci sono fondamentalisti ebraici e gli ultraprotestanti millenaristi. C’è Richard Armitage  e i vecchi  delinquenti della CIA, gli ultimi di “Phoenix”,  quelli dello scandalo Watergate e  Iran - Contras, quelli che hanno armato i “talebani”.  Contro ci sono gli ebrei democratici, che hanno il terrore che Israele venga sacrificata sull’altare dell’ “Impero”, i cattolici, i pacifisti, i leftist americani.
I democratici di Clinton avevano preferito la più nota via dei Balcani. Puntavano anche loro verso il centro dell’Eurasia, ma volevano arrivarci con le bandiere della “democrazia”, la Nato, gli Europei.
E soprattutto non volevano problemi con la Cina. Anzi volevano pacificare tutto il Pacifico.  Bush no. Ha bloccato qualsiasi accordo sulla riunificazione delle Coree,  ha ripreso le “guerre stellari” e, soprattutto, odia gli ebrei.
Finora ha trattenuto Sharon, che voleva attaccare durante il G8. Poi i Russi sono entrati anche loro nella partita e per la II° volta in un mese (agosto 01) si è evitata la guerra in Cisgiordania.
Per quanto a lungo  reggerà?
Può sembrare incredibile:  ma gli unici che possono fermare il prossimo carnaio siamo noi, la moltitudine in marcia da Seattle.  Per questo devono eliminarci prima .  E soprattutto rompere la miracolosa unità fra le diverse anime del movimento. Ancora una volta “si può quel che si fa”.  


*) Sbancor scrive sulla rivista "Derive Approdi". Per le edizioni "Derive Approdi" ha scritto Diario di guerra. Critica della guerra umanitaria (1999).
http://www.deriveapprodi.org/libri/diarioguerra.html

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22.12

Danni collaterali

Una notiziola da nulla, da inserire tra i particolari della dura "giornata di guerra" dei marines: leggete come la propone burocraticamente il sito del 'moderato' "Corriere".

da www.corriere.it, 21 dicembre 2001

La situazione dopo la caduta di Tora Bora

Rumsfled: "Abbiamo attaccato un convoglio"

Il ministro: "Le operazioni militari proseguono". Molti morti civili colpiti mentre andavano a celebrare il nuovo governo

WASHINGTON - Le operazioni militari americane in Afghanistan "continuano senza pause": lo ha detto il ministro della difesa americano Donald Rumsfeld. Rumsfeld, durante la conferenza stampa che si è svolta al Pentagono, ha poi raccontato che, nelle ultime ore, è stato attaccato un convoglio: "Abbiamo fatto molte vittime", ha detto. E, rispondendo a una domanda sulla mancanza di bombardamenti negli ultimi giorni, ha aggiunto: "Quando abbiamo un obiettivo, attacchiamo. Quando non lo abbiamo, non attacchiamo".

BOMBA COLPISCE PER ERRORE CONVOGLIO CIVILE - Sessantacinque civili diretti dalla città di Khost, nell'Afghanistan orientale, a Kabul per assistere alla cerimonia d'insediamento del nuovo governo sono morti quando il loro convoglio è stato bombardato da jet americani. Lo ha riferito il capo della shura, consiglio islamico, di Khost, Haji Safullah. Secondo altre fonti i morti sono quindici.
Il convoglio, composto da due veicoli, era partito da Khost in tarda serata ed è stato colpito verso le 22 locali (18.00 italiane di ieri), poco dopo essere entrato nella provincia di Lowgar.

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22.12

Nessuno tocchi il Natale della Fallaci

 Un gruppo di hacker avrebbe lanciato un'indegna campagna per sabotare il nuovo libro di Oriana Fallaci. L'ultima catena su Internet rischia infatti di far fallire il lancio di *La rabbia e l'orgoglio*, che con la sua bella copertina rossa sta riempiendo le vetrine di tutte le librerie sotto Natale.

Il testo che segue viene pubblicato puramente a scopo di documentazione; non sappiamo nulla della veridicità di questo curioso scritto, pervenutoci a firma di Fedele Lepanto.

Silvia 


Fedele Lepanto

21 dicembre 2001

 Il nemico della civiltà occidentale questa volta ha alzato, con cinica
crudeltà, il  tiro. Non ha risparmiato la stagione natalizia. E non ha
nemmeno risparmiato la  più grande autrice del nostro secolo, Oriana
Fallaci.

 A colpire questa volta è quasi certamente il terrore somalo: un popolo
barbaro,  abituato a vivere nella sporcizia e nella preghiera, non ha
esitato a sfruttare la  tecnologia che noi, con tanta fatica e ingegno,
abbiamo inventato. Abbiamo  creato Internet anche per aiutare loro; e loro
lo usano, con sciente cattiveria, per  colpire la letteratura che loro non
hanno mai saputo produrre.

 La Rizzoli ha appena lanciato in tutte le librerie d'Italia un libro in
cui la più grande giornalista della storia italiana regala agli italiani i
suoi pensieri sui popoli inferiori. Ecco come Oriana Fallaci, nel suo stile
geniale, racconta un drammatico episodio della storia di Firenze, quando un
gruppo di somali piazzò una tenda davanti al Duomo della città di Giotto e
Brunelleschi, per chiedere la definizione del loro status giuridico:


 "Una tenda rizzata per biasimare condannare insultare il governo italiano,
a quel tempo di sinistra, che una volta tanto esitava a rinnovargli i
passaporti di cui avevan bisogno per scorrazzare in Europa e che (alleluja)
non gli lasciava portare in Italia le orde dei loro parenti. Mamme, babbi,
fratelli, sorelle, zii, zie, cugini, cognate incinte, e magari i parenti
dei parenti."



 L'Occidentale si riconosce sempre dalla perfetta fusione tra sapiente
capacità di analisi e lucida capacità di azione. Infatti, Oriana Fallaci,
dopo aver colto con un occhio degno delle più alte pagine di sociologia la
vera natura della famiglia somala, è passata direttamente all'azione:


 "Chiamai un poliziotto che dirige l'ufficio-sicurezza della città e gli
dissi: 'Caro poliziotto, io non sono un politico. Quando dico di fare una
cosa, la faccio. Se entro domani non levate la fottuta tenda, io la brucio.
Giuro sul mio onore che la brucio, che nemmeno un reggimento di carabinieri
riuscirà a Impedirmelo, e per questo voglio essere arrestata. Portata in
galera con le manette, arrestata. Così finisco su tutti i giornali e
telegiornali,
la-Fallaci-arrestata-nella-sua-città-per-aver-difeso-la-sua-città, e vi
sputtano tutti'. Bè, essendo più intelligente degli altri, nel giro di
poche ore il poliziotto la levò."



 Era necessaria questa premessa, che ci presenta tutta la nobiltà d'animo
della più grande pensatrice della storia italiana, per far capire la
perversità del gesto dei somali. I quali, con il piagnisteo che li
caratterizza, sostengono di vivere in un paese disastrato, accusano
l'Occidente di aver sequestrato e di essersi appena intascato tutte le
rimesse degli emigrati - praticamente l'unica fonte di reddito del paese -
e si lamentano che tra poco saranno sottoposti a un attacco militare da
parte dell'unica potenza militare rimasta sul pianeta.

 È importante non cedere a questo tipo di ricatti morali: prima di tutto,
perché se i somali lo avessero voluto, oggi sarebbero ricchi come i
laboriosi varesotti. Secondo, perché nulla può giustificare un attentato
all'Arte: si inizia colpendo la Fallaci, si finisce per prendere a
cannonate la Cappella Sistina.

 Ma quale è la tecnica usata dai somali? È elementare (d'altronde non ci
possiamo aspettare una grande sofisticazione da simili popoli), ma
purtroppo estremamente efficace.

 Lavorando probabilmente in squadra, "mamme, babbi, fratelli, sorelle, zii,
zie, cugini, cognate incinte, e magari i parenti dei parenti," una banda di
negri (in tutti i sensi) ha passato allo scanner tutto il libro della
Fallaci e lo ha fatto girare in Internet in un comodo file .doc. Chiunque
in Italia può così acquistare e godersi il libro della Fallaci senza dover
spendere le 19.000 lire richieste dall'editore.

 Gli italiani sono un popolo avido e furbo, sempre pronto a dire sissignore
a qualunque islamico gli si presenti in casa. Per questo la catena si è
diffusa con incredibile velocità in rete: comunisti, antiamericani
viscerali, imbecilli, nazisti, noglobal, traditori e ingrati d'ogni specie,
gente che non ama la patria, ha cominciato a diffondere il testo a tutti i
propri amici. Molti non leggeranno nemmeno il libro, lo fanno solo per il
gusto di risparmiare le 19.000 lire e per far proseguire la catena.

La tecnica usata è diabolicamente astuta: appena qualcuno riceve il file,
avvisa tutta la propria lista di indirizzi e-mail. Ma manda il file solo se
richiesto, per evitare di riempire le caselle di posta con allegati non
sollecitati o che potrebbero contenere un virus. I vili partecipanti a
questa catena, poi, evitano di mandare il testo a sconosciuti che ne
facciano richiesta, per non essere colti sul fatto: gli italiani
coraggiosi, si sa, sono emigrati a New York.

Tutti i nemici dell'Occidente alla fine si alleano: infatti molti
partecipanti alla catena sembra che abbiano deciso di donare proprio la
somma di 19.000 lire a Emergency, che cura i terroristi, o ad Amnesty
International, che in questi giorni sta facendo il possibile per impedire
che gli Stati Uniti creino tribunali speciali per sopprimere come si deve i
nemici della civiltà, oppure al Comitato Benjamin che aiuta a salvare le
vite dei futuri guerrieri del pazzo Saddam Hussein.

Lo scopo del complotto è chiaro: privare Oriana Fallaci dei diritti
d'autore che le spettano per legge, ma soprattutto per levatura morale.

Vogliono farle passare un Natale a Manhattan in miseria, mentre per le
strade di Mogadiscio si fa baldoria.

Non lasciamo sola Oriana. Se per caso vi dovesse arrivare la catena,
prendete una ferma posizione in sua difesa.

Potete, ad esempio, mandare un messaggio di denuncia come questo a tutti i
vostri amici in rete. Una catena del Bene contro la catena del Male:


 **********************************************

 Subject: Salviamo il Natale di Oriana Fallaci

 *********************************************

 Testo:

 Viviamo in un mondo davvero immorale.

 Pensate che qualcuno mi ha mandato il testo completo del libro di Oriana
Fallaci, passato allo scanner, in un leggero file da 231 K (ancora di meno
zippato), senza alcun rispetto per i diritti d'autore della piu' grande
giornalista della storia italiana.

 Come si fa a trattare cosi' la gentile signora che si vanta di aver
minacciato di dare fuoco a un gruppo di somali che dormivano in una tenda a
Firenze?

 Facendo girare gratuitamente in rete il libro della piu' grande autrice
italiana, e' chiaro che i nemici dell'Occidente mirano a far passare un
Natale nella miseria alla piu' grande scrittrice italiana, mentre per le
strade di Mogadiscio gente che non sa nemmeno leggere, figuriamoci
scrivere, si da' alla piu' oscena baldoria.

 Nessuno tocchi il Natale di Oriana Fallaci.

 Per cui vi invito ad acquistare il libro in libreria, spendendo 19.000
lire, e *non* a chiedermi di mandarvi il testo gratuitamente. E se mai vi
dovesse arrivare da qualcuno il file con il libro, inviate questo stesso
messaggio ai vostri conoscenti, perche' sappiano che non siete complici dei
nemici dell'Occidente.

 (nome)
 (indirizzo e-mail, ovviamente solo per comunicare la propria solidarieta')

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20.12

Falso il video di bin Laden

Secondo il quotidiano egiziano ash-Sha'b (http://www.alshaab.com) l'Amministrazione americana avrebbe ammesso sotto voce di aver fabbricato il video di Bin Laden con un sosia. Il giornale stesso mostra una foto del Bin Laden originale e una del Bin Laden "contraffatto". 

Pare che il padre di Muhammad 'Ata, al quale Bin Laden avrebbe attribuito nel video l'esecuzione del piano (confermando dunque i sospetti del presidente Bush e dei suoi scagnozzi), si sia rifutato di credere alla veridicità del video. "L'America è la terra della corruzione e dell'inganno.", ha affermato. Se la notizia verrà confermata (anche se non verra confermata a mio modesto modo di vedere), a non avere più alcun dubbio sarà quello sparuto gruppo di persone che ha cercato di riflettere sugli avvenimenti degli ultimi mesi al di là di tutte le falsità mandate in onda dai telegiornali e pubblicate dai giornali nazionali.

Per ulteriori dettagli si leggano i seguenti articoli:
 
"Il video di Bin Laden trasmesso dall'America è fabbricato" http://www.alshaab.com/GIF/14-12-2001/n7.htm
 

"Il padre di Muhammad 'Ata non crede al video e parla di America come terra della corruzione e dell'inganno" http://www.alshaab.com/GIF/14-12-2001/n15.htm

 

"L'amministrazione Bush e la contraffazione del video" http://www.alshaab.com/GIF/14-12-2001/n16.htm

 

"Un gruppo di 'ulama': se l'America ha la prove della colpevolezza di Bin Laden, le porti ad un tribunale internazione e non le sbandieri in tv" http://www.alshaab.com/GIF/14-12-2001/n17.htm

 

19.12

Un dattero per l'Iraq

Questo fine settimana, banchetti con datteri iracheni per rompere simbolicamente l'embargo

IN IRAQ LA VITA DI UN BAMBINO VALE UN DATTERO.

Datteri iracheni "contrabbandati" dalla associazione "Un ponte
per..." come atto di disobbedienza civile alla legge italiana
sull'embargo all'Iraq sono in vendita in tutta Italia per protestare
contro l'embargo e come atto di solidarietà verso la popolazione
irachena colpita con oltre un milione di vittime.

Da 11 anni continuano a morire 4.500 bambini al mese.
Facciamo che la vita di un bambino valga una vita.

I datteri sono in vendita nelle Botteghe del Commercio Equo e
Solidale e nelle piazze.

Il 22 dicembre giornata nazionale di disobbedienza civile
con tavoli di vendita publica in tutt'Italia.

COMUNICATO STAMPA

Per la seconda volta l'embargo all'Iraq è stato apertamente e
pubblicamente violato con una iniziativa di "disobbedienza civile"
alla legge 298/90 promossa dalla associazione di volontariato "Un
ponte per.".

L'iniziativa, consistente nella importazione "illegale" di 20
tonnellate di datteri iracheni, intende essere una ulteriore forma di
pressione sul governo italiano perché dia attuazione alla risoluzione
approvata il 21 giugno 2000 dalla Camera dei deputati che lo
impegnava, anche sotto la pressione di 30.000 firme di una petizione
popolare, a "prendere una posizione ufficiale nelle sedi
internazionali per la revoca delle sanzioni all'Iraq", "sbloccare i
fondi iracheni congelati nelle banche italiane e promuovere
iniziative umanitarie.

"Siamo stufi di aspettare che il governo si muova - hanno detto gli
organizzatori - non riconosciamo più validità ad una legge con la
quale anche il nostro paese partecipa al genocidio della popolazione
irachena, che ha pagato già con oltre un milione di morti."

I datteri sono stati acquistati direttamente da contadini del sud
dell'Iraq, sono stati sterilizzati, essiccati e confezionati in Iraq
ed importati in Italia, dopo aver passato due frontiere ed aver
cambiato due volte identità. Prima della importazione il prodotto è
stato fatto analizzare sia da un laboratorio iracheno che da uno
italiano per verificare la conformità alle norme sanitarie italiane
e per verificare la assenza di uranio impoverito. I proventi della
iniziativa verranno utilizzati in un progetto di riabilitazione di un
centro di salute nella zona di provenienza dei datteri.

Iniziative analoghe avverranno in Canada, Gran Bretagna e Francia ove
i datteri iracheni sono stati riesportati dall'Italia.

I datteri (di cui l'Iraq era il primo esportatore mondiale) erano,
prima della guerra del Golfo la seconda voce nelle esportazioni
irachene. L'embargo, chiudendo i mercati esteri, ha colpito molto
duramente i contadini e tutte le attività connesse alla lavorazione e
alla trasformazione del prodotto.

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18.12

 

www.zmaq.org 

The Independent (U.K.)
lunedì, 10 dicembre 2001

Le percosse dai rifugiati. Simbolo dell’odio e della violenza di questa sordida guerra

 

Hanno iniziato con strette di mano. Noi dicevamo “Salaam aleikum” – che la pace sia con te – poi il primo sasso è passato vicino alla mia faccia. Un ragazzino cercava di prendere la mia borsa. Poi un altro sasso. Poi qualcuno mi ha colpito sulla schiena. Poi dei giovani hanno rotto i miei occhiali, hanno iniziato a sbattermi pietre sul viso e sulla testa. Non potevo vedere a causa del sangue che usciva dalla fronte e mi copriva gli occhi. E proprio allora, ho capito. Non li potevo biasimare per ciò che stavano facendo. In realtà, se io fossi stato nei panni dei rifugiati afgani di Kila Abdullah, vicino al confine afgano-pakistano, avrei fatto la stessa cosa a Robert Fisk. O a qualsiasi altro occidentale che avessi trovato. www.zmaq.org

Robert Fisk,

da Kila Abdullah dopo l’ordalia al confine afgano

 

Allora perché documentare i miei pochi minuti di terrore e disgusto per me stesso, sotto l’aggressione, vicino al confine afgano, mentre sanguino e grido come un animale, quando centinaia – siamo franchi, e diciamo migliaia – di civili innocenti stanno morendo sotto gli attacchi aerei americani in Afghanistan, quando la “Guerra per la Civiltà” sta bruciando e menomando i Pashtun di Kandahar e distruggendo le loro case, perché il “bene” deve trionfare sul “male”?

Alcuni degli afgani del piccolo villaggio sono lì da anni, altri sono arrivati – disperati e infuriati ed in lutto per i loro cari massacrati – durante le ultime due settimane. Era un brutto posto per rompere la macchina. Un brutto momento, proprio prima dell’Iftar, la fine del digiuno quotidiano del Ramadan. Ma ciò che è successo è simbolico dell’odio, della violenza e dell’ipocrisia di questa sordida guerra, un branco crescente di afgani indigenti, giovani e vecchi, che hanno visto degli stranieri – nemici – in mezzo a loro e hanno cercato di distruggerne almeno uno.

Molti di questi afgani, abbiamo appreso, si sentivano oltraggiati da ciò che hanno visto in televisione a proposito dei massacri di Mazar–i-Sharif, dai prigionieri uccisi con le mani legate dietro la schiena. Più tardi, un abitante del villaggio disse ad uno dei nostri autisti, che avevano visto il video degli ufficiali della CIA, “Mike” e “Dave”, che minacciavano di morte un prigioniero di Mazar inginocchiato davanti a loro. Erano illetterati – dubito che molti sapessero leggere – ma non serve un’educazione scolastica per reagire alla morte dei propri cari sotto le bombe di un B-52. Ad un certo punto un adolescente urlante si è rivolto al mio autista e gli ha chiesto, in tutta sincerità, “Quello è Bush?”

Dovevano essere circa le 16.30 quando abbiamo raggiunto Kila Abdullah, a metà strada tra la città pakistana di Quetta e la città di confine Chaman; Amanullah, il nostro autista, Fayyaz Ahmed, l’interprete, Justin Huggler dell’Independent – fresco dalla copertura del massacro di Mazar – ed io.

All’inizio capimmo che qualcosa non andava, quando la macchina si fermò nel bel mezzo di una strada stretta e affollata. Un filo di vapore bianco si alzava dal cofano della nostra jeep, un rumore continuo dei clacson, degli autobus, dei camion e dei risciò che protestavano per il blocco del traffico che avevamo creato. Siamo scesi tutti e quattro e abbiamo spinto la macchina sul lato della strada. Ho mormorato qualcosa a Justin sul fatto che questo era “un brutto posto per rimanere in panne.” Kila Abdullah è la patria di migliaia di rifugiati afgani, masse di poveri ammucchiati uno sull’altro, che la guerra ha prodotto in Pakistan.

Amanullah se ne andò per cercare un’altra macchina – c’è solo una cosa peggiore di una folla di uomini adirati, ed è una folla di uomini adirati quando scende il buio – e Justin ed io sorridevamo alla calca, inizialmente amichevole, che si era già creata attorno al nostro veicolo fumante. Ho stretto molte mani – forse avrei dovuto pensare al signor Bush – e pronunciato molti “Salaam aleikum”. Sapevo cosa poteva accadere se i sorrisi scomparivano.

La folla aumentava e suggerii a Justin di allontanarci dalla vettura, di camminare in mezzo alla strada. Un bambino mi aveva dato un colpetto abbastanza forte al polso e mi convinsi che era stato un incidente, uno scatto infantile di disprezzo. Poi un sasso passò vicino alla mia testa e rimbalzò sulla spalla di Justin. Justin si girò. I suoi occhi trasmettevano preoccupazione, e mi ricordo come respiravo. Ti prego, pensai, è solo uno scherzo. Poi un altro ragazzino cercò di prendermi la borsa. Conteneva il passaporto, carte di credito, denaro, diario, agenda, cellulare. Diedi uno strattone e misi la tracolla attorno alla spalla. Justin ed io attraversammo la strada e qualcuno mi colpì sulla schiena.

Come esci da un sogno quando i personaggi improvvisamente diventano ostili? Ho visto uno degli uomini che erano tutti sorrisi quando ci stringevamo le mani. Non stava sorridendo ora. Alcuni dei ragazzi più piccoli stavano ancora sorridendo, ma le loro smorfie si stavano trasformando in qualcos’altro. Lo straniero rispettato – l’uomo tutto “salaam aleikum” pochi minuti prima – era sconvolto, spaventato, in fuga. L’Occidente era trascinato verso il basso. Justin veniva spintonato e, in mezzo alla strada, vedemmo un autista di autobus che ci faceva dei cenni verso il suo veicolo. Fayyaz, ancora vicino alla macchina, non capiva perché ci eravamo allontanati, e non riusciva più a vederci. Justin raggiunse l’autobus e salì a bordo. Quando misi il piede sul gradino tre uomini tirarono la tracolla della borsa e mi ributtarono sulla strada. Justin tirò fuori la mano. “Attaccati”, gridò. Così feci.

Fu il momento in cui il primo schianto potente cadde sulla mia testa. Quasi crollai sotto il colpo, le mie orecchie fischiavano per l’impatto. Me lo aspettavo, anche se non così doloroso, duro, non così immediato. Il suo messaggio terribile. Qualcuno mi odiava abbastanza da ferirmi. Ci furono altri due colpi, uno dietro la spalla, un forte pugno che mi mandò a sbattere sulla fiancata dell’autobus, mentre ancora afferravo la mano di Justin. I passeggeri guardavano verso di me e poi verso Justin. Ma non si muovevano. Nessuno voleva aiutare.

Gridai “Aiutami Justin”, e Justin – che stava facendo più di quanto un essere umano può fare, stringendo la mia presa che si stava allentando – mi chiese – al di sopra delle grida della folla – cosa volevo che facesse. Allora realizzai. Potevo appena sentirlo. Sì, stavano gridando. Afferrai il termine “kaffir” – infedele? Forse mi sbagliavo. A quel punto fui strappato via da Justin.

Ci furono altri due colpi sulla mia testa, uno per parte, e per qualche strana ragione una zona della mia memoria – alcune piccole incrinature nel mio cervello – riprodusse un momento a scuola, una scuola elementare chiamata ‘I Cedri’, nel Maidstone (distretto inglese, N.d.T.), più di 50 anni fa, quando un bambino alto, costruendo castelli di sabbia nel cortile, mi colpì sulla testa. Ebbi un ricordo del colpo come se odorasse, come se avesse colpito il naso. La botta successiva giunse da un uomo che avevo visto portare una grossa pietra nella mano destra. Me la sbatté con forza tremenda sulla fronte, e qualcosa di caldo e liquido si diffuse lungo la mia faccia, le labbra e il mento. Mi prendevano a calci. Sulla schiena, sulle tibie, sulla coscia destra. Un altro adolescente afferrò di nuovo la mia borsa ed io stavo aggrappato con la sinistra alla tracolla, alzai lo sguardo improvvisamente e realizzai che dovevano esserci circa 60 uomini urlanti di fronte a me. Stranamente, non era paura ciò che provai, ma una sorta di stupore. Quindi ecco come è accaduto. Sapevo che dovevo reagire. O, così ragionavo nello stordimento, sarei morto.

L’unica cosa che mi sconvolse era la sensazione fisica del crollo, la consapevolezza crescente del liquido che iniziava a coprirmi. Non credo di aver mai visto così tanto sangue prima. Per un secondo colsi con lo sguardo qualcosa di terribile, un viso da incubo – il mio – riflesso nel vetro dell’autobus, striato di sangue, le mie mani fradice come quelle di Lady Macbeth, il sangue si spandeva lungo il maglione ed il colletto della camicia, finché la schiena non fu umida e la borsa gocciolante, con schizzi cremisi che apparivano sui pantaloni.

Più sanguinavo, più la folla si concentrava e mi picchiava con i pugni. Sassi e ciottoli iniziarono a rimbalzare sulla mia testa e sulle spalle. Quanto tempo, mi ricordo di aver pensato, potrà durare tutto questo? La mia testa fu improvvisamente colpita da pietre su entrambe le parti e contemporaneamente – non venivano lanciate, ma usate direttamente dagli uomini che cercavano di schiacciarmi il cranio. Poi un pugno mi colpì in faccia, spaccandomi gli occhiali sul naso, un’altra mano si attaccò al paio di ricambio che avevo al collo e strappò il contenitore dalla cordicella.

Credo che a questo punto dovrei ringraziare il Libano. Per 25 anni ho coperto le guerre di quel paese ed i libanesi erano soliti insegnarmi, in continuazione, come restare vivo: prendi una decisione – qualsiasi decisione – ma non fare nulla.

Così strappai la borsa dalle mani del giovane che la teneva. Indietreggiò. Poi mi girai verso l’uomo alla mia destra, quello che teneva la pietra insanguinata, e gli tirai un pugno sulla bocca. Non potevo vedere molto – non solo i miei occhi erano senza occhiali, ma erano annebbiati da un velo rosso – vidi comunque l’uomo quasi tossire, un dente cadere e poi anche lui cadde sulla strada. Per un secondo la folla si fermò. Poi mi mossi verso l’altro uomo, trattenendo la borsa sotto il braccio e scagliandogli un pugno sul naso. Gridò di rabbia e diventò tutto rosso. Mancai un altro uomo con un pugno, ne colpii ancora uno sul viso e scappai.

Ero di nuovo in mezzo alla strada, ma non riuscivo a vedere. Mi portai le mani agli occhi, erano pieni di sangue e con le dita cercai di tirare via quella roba appiccicosa. Fece un rumore come di risucchio, ma ricominciai a vedere e realizzai che stavo piangendo e le lacrime ripulivano gli occhi dal sangue. Cosa ho fatto, continuavo a chiedermi? Ho preso a pugni ed attaccato dei rifugiati afgani, proprio la gente di cui sto scrivendo da tanto tempo, proprio quella gente mutilata e depredata, che il mio paese – tra gli altri – sta uccidendo, insieme ai talebani, appena al di là del confine. Che Dio mi perdoni, pensai. Credo che in effetti lo dissi. Gli uomini le cui famiglie erano uccise dai nostri bombardieri, erano ora anche miei nemici.

Poi accadde qualcosa di straordinario. Un uomo venne verso di me, con molta calma, mi prese per un braccio. Non potevo vederlo molto bene a causa del sangue che mi colava sugli occhi, ma ricordo che era vestito con una specie di veste, aveva un turbante e la barba brizzolata. Mi condusse lontano dalla folla. Guardai dietro le mie spalle. Ora c’erano un centinaio di uomini dietro di me e alcune pietre rimbalzavano sulla strada, ma non erano dirette a me – presumibilmente per evitare di colpire lo sconosciuto. Sembrava una figura dell’Antico Testamento, o una qualche storia della Bibbia, il Buon Samaritano, un musulmano – forse un mullah del villaggio – che cercava di salvarmi la vita.

Mi spinse nel retro di un furgone della polizia. Ma i poliziotti non si mossero. Erano terrorizzati. “Aiutatemi,” continuavo a gridare attraverso la finestrella sul retro della cabina, le mie mani lasciavano strisce di sangue sul vetro. Guidarono per alcuni metri e si fermarono finché l’uomo non parlò loro di nuovo. Poi si spostarono di altri 300 metri.

E lì, accanto alla strada, c’era un convoglio della Mezzaluna Rossa. La folla era ancora dietro di noi. Ma due dei sanitari mi spinsero dietro uno dei loro mezzi, versarono acqua sulle mani e sul viso ed iniziarono mettere delle bende sulla mia testa, sul viso e la nuca. “Sdraiati e ti copriremo con una coperta, così non ti possono vedere,” disse uno di loro. Erano entrambi musulmani, del Bangladesh, ed i loro nomi andrebbero ricordati, poiché erano delle brave e sincere persone: Mohamed Abdul Halim e Sikder Mokaddes Ahmed. Sono sdraiato in terra, mi lamento e comprendo che potrò vivere.

Entro alcuni minuti arrivò Justin. Lo ha protetto un massiccio soldato delle truppe del Baluchistan – vero fantasma dell’Impero britannico che, con un solo fucile, ha tenuto la folla lontana dalla vettura in cui sedeva Justin. Frugai nella mia borsa. Non hanno avuto la borsa, continuavo a dirmi, come se il passaporto e le carte di credito fossero una sorta di Sacro Graal. Ma si sono impossessati del mio ultimo paio di occhiali di riserva – ero cieco senza tutti e tre – mancava il cellulare e anche l’agenda, contenente 25 anni di numeri telefonici di tutto il Medio Oriente. Cosa dovevo fare? Chiedere a chiunque mi abbia mai conosciuto di rinviarmi i numeri di telefono?

Maledizione, dissi cercando di tirare un pugno e realizzando che sanguinavo da una grossa ferita sul polso – il segno del dente che avevo appena tirato giù dalla mascella di un uomo, un uomo sinceramente innocente, il cui unico crimine era di essere una vittima del mondo.

Ho passato più di due decenni e mezzo denunciando le umiliazioni e le miserie dei musulmani nel mondo, e ora la loro rabbia ha afferrato anche me. O no? C’erano Mohamed e Sikder della Mezzaluna Rossa, e Fayyaz che arrivò ansante dietro la macchina, furente per il trattamento riservatoci e Amanullah che ci invitò a casa sua per curarci. E c’era il santo musulmano che mi prese per un braccio.

E – realizzai – c’erano tutti gli uomini ed i ragazzi afgani che mi hanno attaccato, che non avrebbero dovuto farlo, ma la cui brutalità era interamente prodotta da altri, da noi – noi che abbiamo armato la loro lotta contro i russi e abbiamo ignorato il loro dolore e ridicolizzato la loro guerra civile, e poi li abbiamo armati e pagati di nuovo per la “Guerra per la Civiltà”, a sole poche miglia di distanza, e poi abbiamo bombardato le loro case, squarciato le loro famiglie e li abbiamo definiti “danni collaterali”.

Così ho pensato che avrei dovuto scrivere che cosa ci è successo in questo spaventoso, stupido, sanguinoso, minuscolo incidente. Temevo che altre versioni avrebbero prodotto un racconto diverso su come un giornalista inglese fosse stato “picchiato da una folla di rifugiati afgani”.

E naturalmente, questo è il punto. La gente che è stata assaltata sono gli afgani, gli sfregi sono stati inflitti da noi – dai B-52, non da loro. E lo dirò di nuovo. Se fossi stato un rifugiato afgano di Kila Abdullah, avrei fatto ciò che hanno fatto loro. Avrei attaccato Robert Fisk. O qualsiasi altro occidentale che avessi potuto trovare. www.zmaq.org

traduzione di ramarra

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15.12

Indice di Diario della settimana

 

Gentili lettrici, signori lettori,
sul numero di Diario in edicola c'è un po' di chiarezza sul mandato di cattura europeo e sulle ultime peripezie della Fiat, ci sono due bossoli di pistole diverse in piazza Alimonda a Genova e un gruppo di tossime che uccisero archeologi in Egitto e minatori in Mozambico e che oggi si nascondo negli alimenti più comuni. Sfilano, poi, in ordine sparso, un monopattino forse magico e due Twins Towers di luce a Fubine in provincia di Alessandra. Si incontrano anche gli attori in crisi di Bollywood e Xanana Gusmão, probabile futuro presidente di Timor Est.
C'è molto altro. Come al solito.

Sul sito:

Siamo orgogliosi di presentare il terzo premio Diario Pravda, vinto da Silvana Giacobini, direttore di Chi

Siamo altresì orgogliosi di consigliare un regalo di Natale (a noi, a voi, ai vostri cari): l'abbonamento a Diario che arriva fresco fresco (e infallibilmente) il sabato mattina in tutta Italia, isole comprese.


Buona lettura
******************************

Il sommario della settimana
Numero 50. Da venerdì 14 a giovedì 20 dicembre 2001

Caro Diario

Il buon senso
Elementare, Silvio di Mario Portanova
Patrioti, comprate Fiat di Enrico Deaglio

L’inchiesta vecchio stile
La maledizione del faraone di Ettore Siniscalchi

I nostri inviati
Quel che resta dei soldati Ryan di Laura Cavestri
Il monopattino magico. O no? di Paolo Hutter
Accendete quelle Torri di Mario Portanova

Tutta la città ne parla
Una settimana di notizie da: Cremona, Bergamo, Milano, Napoli, Cuvio, Gravellona
(ma anche l'Agenda, In fondo a destra e i Numeri)

Vedi alla voce Cultura
Il signore di buona matita di Pietro Cheli
Cantando con Babbo Natale di Luca Damiani

Lo spettatore esigente
Cinevisioni: Quartetto di Marco Lodoli
E inoltre: Dvd cinema, Opera, Rock, Jazz, Film in tv, Documentario, Radio classica

Lettura
Fratelli Grimm & Co. con dileggio di Giacomo Properzj

Le recensioni
Dorothy Louise Zinn, Alona Kimhi, Jean Rhys, Jean Ziegler, Gerardo Deniz, Daniele Del Giudice e Marco Paolini, Emidio Clementi

Tutto il mondo ne parla
Storie, notizie e curiosità da: Taiwan, Germania, Bosnia Erzegovina, Brasile

I nostri inviati nel mondo
La nostalgia di Parigi di James Panichi
Bollywood ritorna a Kabul di Francesca Marino
Così nasce uno Stato di Ilaria Maria Sala

Un certo stile
Lunghe file per piccole mostre di Daniela Tarabra

Se ne sono andati
Sir Peter Blake, Franco Rasetti, Italo Falcomatà a cura di Andrea Jacchia

Le rubriche
Florence Nightingale, Nicola Montella, Franco Milanesi, Attilio Scarpellini, Elvio Giudici, GiuseppeMontesano, Paola Damiani, Maria Novella Oppo, Allan Bay, Alessandro Robecchi, Luca Fontana, Paolo Della Rosa, Stefano Bartezzaghi, ElfoLe rubriche, Florence Nightingale, Nicola Montella, Franco Milanesi, attilio Scarpellini, Elvio Giudici, GiuseppeMontesano, Paola Damiani, Maria Novella Oppo, Allan Bay, Alessandro Robecchi, Luca Fontana, Paolo Della Rosa, Stefano Bartezzaghi, Elfo

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14.12

Osservatorio sullo stato della democrazia in Italia

E' online il sito dell'osservatorio sullo stato della democrazia in Italia
all'indirizzo www.osdem.it <http://www.osdem.it>
Si tratta di un promemoria sui processi di involuzione autoritaria e di
corruzione mafiosa che sono in atto in Italia.
Il bollettino sarà disponibile in sei lingue, ed è rivolto principalmente
agli operatori della comunicazione di tutti i paesi europei.
Il nostro bollettino non conterrà scoop o notizie scandalistiche, ma
informazioni che si possono ricavare dalla attenta lettura dei giornali
quotidiani, e da una attenta partecipazione alla vita sociale del nostro
paese. La sua funzione sarà unicamente quella di sintetizzare mensilmente
il processo che sta distruggendo la democrazia e la vita civile nel nostro
paese e lo sprofondando nella barbarie e nell'incultura.
Quello che accade in Italia ha certamente caratteri di specificità
nazionale, ma rischia di essere il principio di una infezione destinata a
diffondersi nel corpo d'Europa. E' già successo una volta, nel secolo
passato. Facciamo in modo che non si ripeta.

Da quando una coalizione di centro-destra è andata al governo in Italia la
legalità, la convivenza civile, la libertà, la cultura, sono messe in serio
pericolo.

Berlusconi, attuale presidente del consiglio, ha conquistato il potere
grazie a enormi somme di danaro investite in pubblicità elettorale. I soldi
non gli mancano dato che nell'arco di 30 anni ha costruito un impero
finanziario con il sostegno della mafia e di associazioni segrete come la
loggia P2, della quale è stato membro. E non gli manca neppure la
possibilità di infiltrazione comunicativa, date le dimensioni dell'impero
mediatico che da lui dipende.

Il predominio sul sistema mediatico costituisce un pericolo mortale per la
democrazia italiana. Ma non meno pericolosi di Berlusconi e del suo
partito-azienda sono i partiti che lo appoggiano. Uno è derivazione diretta
del regime fascista, un altro è dichiaratamente razzista e per lungo tempo
ha predicato la secessione del nord e l'espulsione degli stranieri.

Il fascismo e la mafia non sono mai stati alleati, nella storia italiana.
Pur essendo entrambi sintomi di una patologia dell'identità nazionale, si
sono storicamente esclusi a vicenda. La mafia è organizzazione familista e
tribale che sostituisce lo stato e persegue interessi particolari con il
ricatto la violenza e la corruzione. Il fascismo è invece l'affermazione
aggressiva dell'autorità statale, ed è violenza sistematica contro la
società.
Oggi per la prima volta queste due forme sono unite.

Nelle giornate di Genova abbiamo visto in azione la macchina totalitaria di
cui questo governo dispone. In quei giorni il vice presidente del
Consiglio, Gianfranco Fini ha passato due giorni nella Questura genovese da
dove ha pilotato le azioni di violenza, la repressione e la tortura,
l'omicidio di un giovane e l'aggressione contro i cittadini che volevano
contestare il vertice G8.

Gli istinti xenofobi di questo governo si sono manifestati quando si è
trattato di legiferare sulla accoglienza dei lavoratori stranieri. Il
governo ha stabilito di perseguire penalmente l'immigrazione clandestina
come se fosse di per sé un delitto, e ha stabilito che i cittadini
stranieri possono avere un permesso di soggiorno solo nel periodo in cui
hanno un contratto di lavoro.

L'attività legislativa è stata brutalmente sottoposta agli interessi della
mafia di regime. Sono state approvate in gran fretta misure legislative
mirate a sottrarre il presidente del Consiglio e i suoi complici diretti
alle indagini che la magistratura da anni sta svolgendo sui loro traffici.

Berlusconi Fini e Bossi rappresentano un pericolo per la democrazia in
Italia ma anche per la stabilità europea. C'è infatti qualcosa di
specificamente italiano, in questo autoritarismo spudorato e barocco, ma
c'è anche qualcosa di esportabile, esemplare, qualcosa che può infettare le
società degli altri paesi europei.

Per questo riteniamo utile offrire un servizio di informazione sistematica
sulle azioni delle forze mafiose che sono al governo in Italia, sulle loro
iniziative legislative, sulla repressione del dissenso, sui progetti
liberticidi e su quelle dichiarazioni degli esponenti del ceto politico che
governa oggi l'Italia che permettono di illuminare la loro cultura
antidemocratica.

L'Osservatorio sulo stato della democrazia in Italia (www.osdem.it <http://www.osdem.it>) si propone di svolgere questo ruolo.
________________________________________________
<http://www.informationguerrilla.org>
"Independent people against media hipocrisy"

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13.12

AMI e la Somalia

A voi tutti la newsletter dello ICCII

Davide di Porto

salamu `alaykum wa rahmat-Ullahi wa barakatuH.

Carissimi Fratelli e Sorelle di Islamsunnita e Carissimo Abdul`Alim,

Gli ufficiali dell'Arma dei Carabinieri generale Massimo Pizza e colonnello Antonio d'Andrea, già membri dell'AMI che avevano mantenuto la loro adesione riservata per motivi di servizio, ora hanno deciso di uscire allo scoperto e di impegnarsi in prima persona affinché si eviti un bagno di sangue in Somalia. Dal momento che quanto essi stanno facendo per debellare la rete di Bin Laden e della Fratellanza in Somalia, per ristabilire pacifiche relazioni fra l'Italia e la sua ex-colonia e per evitare lo scoppio di un conflitto fra Somalia ed Etiopia è altamente apprezzato da tutti noi, come gesto concreto di sostegno il Consiglio Direttivo dell'AMI ha deciso di eleggere congiuntamente i due alti ufficiali alla vice-presidenza dell'Associazione. L'esperienza dell'Afghanistan mostra come sia facilmente possibile smantellare potenti strutture fondamentaliste armate, a condizione che l'Occidente non basi la sua strategia sugli spostamenti di eserciti da un continente all'altro, ma su un coordinamento con le strutture organizzative dei Musulmani Sunniti, con coloro che già da tempo sono vittime del Wahhabismo militante, e che più di chiunque altro sono interessati a sradicare il cancro fondamentalista dal loro paese.

Piuttosto che causare un'ennesimo conflitto fra Somalia ed Etiopia, riteniamo serva innanzitutto porre le basi per la creazione di qualcosa di simile ad una "Alleanza del Nord" somala, pronta a collaborare con la comunità internazionale nella repressione del terrorismo wahhabita e a debellare le bande armate che controllano parte della Migiurtinia e sono guidate da capitribù degli Habarghadir che sono membri della "Fratellanza" ed hanno stretto da tempo alleanza con al-Qa'idah. Siccome a questo tentativo di creazione di una Alleanza Sunnita per la Somalia stanno lavorando alacremente tre persone, lo Shaykh colonnello Ali Hussen, già ambasciatore di Somalia presso la S. Sede e Presidente dell'AMI, il generale Massimo Pizza ed il colonnello Antonio D'Andrea (già responsabili dell'Ufficio K del SISMI prima dell'inizio dell'operazione Restore Hope), l'AMI ha voluto mandare un segnale forte, ponendo il progetto dell'Alleanza sotto la sua egida, alla luce del sole e dandone comunicazione ai media, e ribadendo con un gesto concreto la sua scelta per la salvaguardia delle relazioni fra Italia e Somalia.

Di nomi che conosci (e che conosciamo) in questo i giorni ne sono stati fatti diversi, e diversi altri sono finiti nelle indagini, compresi quello di Omar Aldrigo, Hajj Abdulkarim Alessandro Ghe e Abdulwahab Sante Ciccarello, membro del direttivo dell'UCOII. Certamente, a chi li conosce, l'idea che Aldrigo, Ghe, Ciccarello o Ferrario abbiano una qualche rilevanza come "finanziatori dell'organizzazione terroristica di Bin Laden" non può che fare sorridere. Semmai - sempre per colpa dell'infame Fratellanza e della sua spregiudicata politica ai danni dei musulmani italiani - si tratta di persone che, a causa della loro mancanza di educazione sunnita e di alcune stamberie ideologiche derivanti da fattori psichici, sono state coinvolte in un gioco sporco che va ben oltre le loro conoscenza e le loro responsabilità; magari ne avranno ricevuto qualche briciola di beneficio materiale, ma non più di questo!  Altri nomi di persone che invece giocavano un ruolo ben più importante nel circuito che in Italia riceveva ed amministrava i fondi della Banca at-Taqwa/Gruppo Nada sono invece finiti sulla stampa in modo marginale, e - MIRACOLO!? - a tutt'oggi non sono stati toccati dalle indagini. La ragione è chiara: hanno scelto di collaborare con inquirenti, magistrati e servizi - non a viso aperto ma dietro le quinte - e stanno operando al fine di salvare loro stessi, addirittura tentando di riciclarsi come "moderati", mentre i pesci piccolissimi ed ingenui che sino a ieri sono stati da loro manipolati rischiano oggi di pagare un conto ben più salato. C'era un tempo in cui la Fratellanza mandava allo sbaraglio le famose "ragazze marocchine accalappiapolli", sul cui passato "non si deve indagare". Oggi manda invece allo sbaraglio alcuni italiani sprovveduti pur di salvare i suoi vertici in Italia. E alcuni di questi italiani - a causa di una certa dose di ingenuità e di spessi paraocchi ideologici - contribuiscono da loro stessi a darsi la zappa sui piedi. Siamo sempre e comunque alla medesima politica da kamikaze, ispirata all'ideologia del Dr. al-Qaradawi. In base a questa stessa ideologia aberrante e pseudo-religiosa, in Israele la medesima Fratellanza (che ivi non si chiama UCOII, bensì HAMAS) manda i giovani analfabeti e privi di educazione religiosa a ben altro genere di sbaraglio!

Stando al "Corriere", Ciccarello proclama con fierezza e senza pentirsi di essere un "piccolo azionista della banca Al Taqwa", e ha la faccia tosta di pretendere che - secondo lui - essa "non investe in armi e non fa investimenti illeciti"! Ma in quale mondo delle favole vive Ciccarello? Si è reso conto che la banca di cui è azionista è stata identificata come uno dei canale privilegiati del finanziamento dell'organizzazione terroristica di Bin Laden nelle sue diramazioni europee? Ma davvero non capisce che i pochi spiccioli di tanti piccoli azionisti come lui, assieme ai miliardi di megadonatori come certi principi wahhabiti del Golfo, sono serviti a finanziare il massacro di centinaia di migliaia di Musulmani in Cecenia, in Afghanistan, in Medio Oriente, in Africa e negli Stati Uniti, nonché il massacro di altre migliaia di innocenti vittime non-musulmane? Secondo le deliranti categorie ideologiche di Ciccarello, tutto ciò non rientra fra le "attività illecite"! Questo è solo un esempio del genere di "Islam" che gli italiani possono assimilare stando a contatto con l'infame Fratellanza e con le sue sigle italiane. E chi si attiene a questo genere di "Islam" siede oggi cooerentemente nel direttivo dell'UCOII.

Quanto alle indagini, in testa ad un documentato articolo firmato da Vittorio Malagutti e Guido Olimpio, il "Corrire della Sera" ha publicato alcuni dei documenti originali, recanti l'intestazione "Bank al-Taqwa, List of ordinary shareholders at 31\12\1999." Ne risulta che Youssef Nada possedeva 64,854 azioni, Ghaleb Himmat ne posedeva 64,853, Yousuf Abdullah al-Qaradawi ne possedeva 2,325 e Ciccarello soltanto 47. I conti quadrano, eccetto che per chi non vuole vederli quadrare.

Wa-s-salamu `alaykum wa rahmat-Ullahi wa barakatuH.


Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana
http://shell.spqr.net/islam/
mailto:islam@spqr.net

DD: nell'articolo del sito http://www.opinione.it/ si scrive che alcuni dell'Ami sarebbero inseriti nelle strutture dei "servizi"...
Riporto nel dettaglio:
 
 
In primo luogo che venga rimessa in funzione la struttura del Sismi e che venga coordinata dai due suddetti ufficiali che godono la massima fiducia dello stesso Abulkassim, tanto da essere diventati entrambi vicepresidenti della Associazione musulmani italiani, una delle più moderate che esistono in Italia, in buoni rapporti anche con Israele.
 
 
 
Noto comunque che si scrive anche un nome che conosco:
e dei convertiti italiani Ahmad Ferrario
 
 
Assalam Aleicom.
Abdul'Alim.

torna all'elenco generale

13.12

 
Vi rigiro alcune notizie dallo ICCII

Davide di Porto

"Libero"

Domenica 25 novembre 2001, p. 3

Undici miliziani provenienti dall'estero sono stati arrestati:
volevano arruolare 3mila uomini armati

"AL-QAEDA CERCA VOLONTARI IN SOMALIA"

Il presidente Hassan lancia l'allarme: "lo sceicco del terrore vuole
nascondersi da noi"

di Dimitri Buffa


Il Presidente della Repubblica Somala Hassan chiede aiuto all'Europa e
lancia l'allarme: "i fondamentalisti della 'fratellanza musulmana' stanno
preparando la fuga di Osama dall'Afghanistan nella regione del Bosaso, da
tempo sotto il dominio dei simpatizzanti di Al-Qaeda". Le prove? Sono
contenute in una intervista a futura memoria fatta dall'Avv. Massimo Pizza,
consigliere legale dell'Associazione di amicizia italo-somala, al portavoce
della stesso presidente presso l'Unione Europea, l'ambasciatore Ali Hussen.

Egli ha affermato che "il Presidente della Repubbliva Somala ha in questi
giorni ordinato l'arresto di undici somali provenienti dall'estero, e
legati al gruppo 'Jamaat al-Ikhwan', una diramazione dei Fratelli Musulmani
che si è alleata con al-Qaeda."

Il reato?

"Cercavano di convincere i tremila militanti armati assenagliati nelle
campagne a prepararsi ad accogliere Bin Laden nel caso in cui una
evacuazione dell'Afghanistan si fosse resa necessaria."

"Questa fazione comprendeva anche un gruppo di mille volontari somali, già
addestrati in Afghanistan, cifra cche, se si aggiungono i cosiddetti
Fratelli Musulmani di altre aree del paese non sotto il controllo
dell'attuale governo, tra cui il Somaliland, lievita fino ad un totale di
una decina di migliaia di militanti sui quali la rete di Bin Laden può
fare affidamento:

"Buona parte dei capi locali sono però già stati incarcerati dal governo
locale del Punt Land a Bosaso. I restanti fiancheggiatori del terrorismo si
troverebbero sparpagliati nel Somaliland, con capitale Argeisa, ex colonia
britannica unificata alla Repubblica Somala.

"Sappiamo anche che non appena le forze anglo-americane hanno deciso di
bombardare l'Afghanistan, si è avuta notizia della partenza dei sosia di
Bin Laden dalla Somalia verso il Pakistan, e di là nello Yemen - dice
l'ambasciatore presso l'UE per la Somalia che in passato è stato anche
console presso la S. Sede - e che, secondo le confessioni di alcuni degli
arrestati, erano già pronti diversi piani di fuga all'estero per il momento
in cui l'Afghanistan fosse risultato indifendibile".

Fra questi vi era un piano secondo cui Osama Bin laden avrebbe attraverso
il Mar Rosso su una barca a vela, approdando sulle coste desertiche e
ospitali del Punt Land somalo.

 
 
LIBERO
quotidiano diretto da Vittorio Feltri

Domenica 2 dicembre 2001, p. 1.

Le rivelazioni di Abdul Hadi Palazzi: E a Roma arrestato un terrorista
egiziano della cellula di Al Qaeda

TUTTA LA VERITA' SULLA MOSCHEA

Milano, un capo islamico confessa: «Sapevamo che il Centro di viale Jenner
era di Bin Laden, ma il goveno dell'Ulivo non voleva grane»


ROMA - Era noto a tutti che il centro di viale Jenner aveva stretto
alleanza con Bin Laden. L'avevamo denunciato più volte. Parla Abdu Hadi
Palazzi, direttore dell'Istituto culturale della comunità islamica
italiana. Racconta di aver segnalato alla commissione affari per i culti
non cattolici degli ultimi quattro governi che il centro islamico di Milano
intratteneva legami finanziari - e non solo - con la rete terrostica.
«Sapevano tutti che in viale Jenner venivano arruolate persone che poi
andavano in Bosnia e in Pakistan». Gli venne risposto che «non si poteva
fare niente, finché gli attentati riguardavano Paesi all'estero». La prima
denuncia risale al 1996, all'epoca del governo Dini.

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Le rivelazioni di Abdul Hadi Palazzi, direttore dell'Istituto culturale
della comunità musulmana in Italia. Che lancia accuse all'ex presidente del
Consiglio Dini

«QUEL CENTRO E' DI BIN LADEN E TUTTI LO SAPEVANO»

Viale Jenner finanziata dallo sceicco saudita. Lo denunciammo, ma il
governo dell'Ulivo non voleva grane.


ROMA - «Era noto a tutti che il centro di viale Jenner aveva stretto
alleanza con Al Qaeda». Era noto, scopriamo più tardi, alla Commissione
affari per i culti non cattolici degli ultimi quattro governi: Dini, Prodi,
D'Alema e Amato. Sono le 16 di venerdì. Ai microfoni di Radio Rai, per la
trasmissione Baobab notizie in corso, parla il direttore dell'Istituto
culturale della comunità islamica italiana. Lo intervista Maria Teresa
Lamberti. Il tema è questo: fino a che punto si può parlare di
«infiltrazioni» negli ambienti delle moschee? Trattandosi di un esponente
della comunità islamica, meglio misurare i termini. Infiltrazioni, dunque,
vale a dire collegamenti sporadici. «Il centro di viale Jenner» , comincia
Abdu Hadi Palazzi, «è preesistente ad Al Qaeda ma a un certo punto ha
stretto un'alleanza, prima di tutto finanziaria, con la rete terroristica».
Il presidente del centro culturale, replica l'intervistatrice, nega alcun
legame. «Era noto a tutti», risponde Palazzi, «l'abbiamo denunciato da
diversi anni». Denunciato? Silenzio in studio. Palazzi racconta di aver
«denunciato» che in viale Jenner si stava progettando la creazione di una
scuola.

«Avvertimmo le autorità che ci pareva pericoloso, visto quel che avveniva
in quel centro». Si sapeva, prosegue, che lì si «arruolavano i volontari
per la Bosnia, il Pakistan, l'Afghanistan». Vista la disponibilità
economica di cui il centro godeva, si attiravano gli immigrati «dando loro
una mano per il permesso di soggiorno, la ricerca della casa...». In questo
modo «venivano selezionati i candidati pronti per essere arruolati». Perché
prima di proporre a uno di partire per il Pakistan «bisogna testarne
centinaia, migliaia». II metodo era scientifico, il collegamento con Al
Qaeda sistematico. Ma soprattutto «lo sapevano tutti». Chi sapeva? Lo
cerchiamo. E' nella sede dell'Associazione Musulmani Italiani, a Roma. Abdu
Hadi Palazzi appartiene all'ala moderata della comunità islamica italiana,
quella parte che da anni, ci racconta, «ha denunciato alle istituzioni
italiane che le infiltrazioni terroristiche ci sono». Parla al presente,
Palazzi. «Abbiamo fatto nomi e cognomi, abbiamo parlato tante volte del
centro di viale Jenner, mettendo in guardia da quello che succedeva là dentro».

La prima volta che denunciò la cosa fu cinque anni fa, all'epoca del
governo Dini, davanti all'ufficio per gli affari dei culti, presso la
Presidenza del Consiglio. Ricorda: «La delega era stata affidata al
sottosegretario alla presidenza Guglielmo Negri». In quell'occasione, dice,
«facemmo presente al sottosegretario qual era la situazione». A lui, come a
quelli che seguirono, precisa. «La risposta era sempre la stessa: "Sappiamo
che alcuni centri islamici hanno legami con organizzazioni terroristiche e
raccolgono fondi per finanziare attentati." Ma finché le azioni
terroristiche avvengono all'estero non possiamo farci niente». Non solo,
«ci hanno sempre detto che se il governo italiano fosse intervenuto,
avrebbe messo a rischio la sicurezza del Paese, diventando un bersaglio
terroristico». L'ultima commissione incaricata del dialogo con i musulmani,
durante il governo D'Alema, non li ha più interpellati. «Solo contatti
telefonici». Abdul Hadi Palazzi conosce bene il fondamentalismo islamico:
«Dal punto di vista finanziario», spiega, «è un'unica struttura; verso Al
Qaeda confluiscono i fondi raccolti da tanti centri anche in Italia». C'è
un livello superficiale di propaganda ideologica, che mira a ottenere
consenso utilizzando strutture culturali o religiose, è un livello
militare. «Ma sono connessi l'uno all'altro e sostenuti da una capillare
struttura finanziaria». Racconta di aver segnalato alle autorità
giudiziarie italiane la presenza di riviste dove era scritto che «i fondi
per la pubblicazione» erano stati ottenuti «grazie alle donazioni della
Banca Al Taqwa», poi diventata Nada Management Organization, oggi
sospettata di essere uno dei principali canali finanziari di Bin Laden.
Abdul Hadi conosce il fondamentalismo. Il 12 aprile del 2000 è stato
assassinato a Roma Mohamed Shawky, 52 anni, direttore della scuola islamica
legata al movimento di Palazzi. «L'hanno ucciso perché era un moderato e
contrastava la propaganda fondamentalista». L'assassino non ha ancora un nome.

Elisa Calessi


 
LIBERO
quotidiano diretto da Vittorio Feltri
martedì 4 dicembre 2001
p. 6

Agenti del Sismi in missione a Mogadiscio per creare un fronte moderato
antiterrorismo

LA SOMALIA CHIEDE AIUTO AGLI 007 ITALIANI

L'exambasciatore Hussen: «In cambio, faremo i noni dei finanziatori di Osama»

di Dimitri Buffa


L'ultima partita con Al Qaeda si giocherà quasi sicuramente in Somalia,
dove buona parte del territorio del Somaliland sta nelle mani dei
fiancheggiatori di Bin Laden. Per questo motivo l'attuale presidente somalo
Hassan Abulkassim chiede l'intervento dell'intelligence italiana. E in
prospettiva quello militare. Per questo usa il suo portavoce Ali Hussen, un
Tempo ambasciatore presso la Santa Sede, prima che lo stato di cui è
capitale Mogadiscio si dissolvesse.

Hussen a "Libero" ha indicato i nomi di quegli elementi della struttura
finanziaria Al Barakaat (quella che attraverso le rimesse degli ignari
somali finanziava Al Qaeda) che operano in Italia e che ancora non sono
stati messi nel mirino della magistratura. Dietro questa sortita del
governo somalo che "Libero" è in grado di anticipare in esclusiva, c'è la
missione compiuta nei giomi scorsi nel massimo segreto da una delegazione
dell'intelligence militare italiana, guidata dal generale Massimo Pizza e
dal colonnello Antonio D'Andrea, già responsabili dell'Ufficio K del Sismi,
una struttura che era stata specificamente creata per la Somalia tra il
1985 e il 1992 dall'ammiraglio Fulvio Martini. Tale missione consisteva nel
mettere d'accordo tutti i capi tribù della Somalia che fanno riferimento
all'Islam moderato e che combattono disperatamente l'attuale strapotere dei
miliziani della Jiamaat al-Ikhwan legati alla struttura di Al-Qaeda. Chi
sono questi somali moderati? I nomi più importanti sono quello del
governatore di Benadir, Hiran Abukar Muhammad, quello di Ugas Hajj Musa,
capo-clan degli Shikal, e quello dell'avvocato Hassan Elai che guida
l'omonima tribù. Che chiede quindi all'Italia il presidente somalo?

In primo luogo che venga rimessa in funzione la struttura del Sismi e che
venga coordinata dai due suddetti ufficiali che godono la massima fiducia
dello stesso Abulkassim, tanto da i essere diventati entrambi
vicepresidenti della Associazione Musulmani Italiani, una delle più
moderate, in buoni rapporti anche con Israele. In secondo luogo, come ha
spiegato a "Libero" il suo portavoce Ali Hussen, «piuttosto che fare un bis
del fallimento di Restore Hope, tanto vale che sia l'Italia, con il
consenso della comunità internazionale, a intervenire militarmente contro
gli scherani somali di Bin Laden». E che possono offrire in cambio le
fazioni somale moderate all'Italia?

«Dopo viale Jenner, gli inquirenti non devono dimenticare il centro in cui
avveniva la raccolta crediti per il Somaliland, "Il Fondaco dei Mori", nel
cuore della Milano bene»

«Come prova di buona volontà - dice sempre Hussen - siamo disposti a fare i
nomi di tutti quei referenti della struttura finanziaria somala di Al
Barakaat che ancora non sono finiti nel mirino della magistratura».

Ecco qualche esempio: «ora che l'attenzione degli inquirenti si è spostata
sull'Istituto dei Salafiti di Viale Jenner, fondato dal trafficante d'anni
egiziano Anwar Shaban, non bisogna scordarsi del banchiere siriano Hassan
Tubba'i, latitante e già direttore della filiale di al Taqwa alle Bahamas».

Non basta: «anche il suo amico e referente per l'Italia, Baha El Din
Ghrewati,residente nella provincia di Imperia, non è ancora stato oggetto
dell'attenzione degli inquirenti, così come non lo sono stati i
responsabili del centro milanese in cui avveniva la raccolta dei crediti
per la Somalia, quel circolo culturale "Il Fondaco dei Mori", nel centro
della Milano bene».

«A dirigere il centro raccolta fondi erano sin da allora - spiega Hussen
a"Libero" - tre responsabili: il convertito svizzero Ali Federico Francesco
Schultz, sua moglie somala Aisha Shams, figlia di un Mukhtar del clan degli
Habar-Ghadir alleato della "Jamaat al-Ikhwan", e l'uomo d'affari sudanese
Muhammad Tahir, esponente di primo piano del Partito di Unità Popolare
Arabo-Islamica, guidato da Hasan Turabi. Il matrimonio fra Schultz e Aisha
Shams ha suggellato di fatto un'alleanza politica fra al Taqwa, il Sudan di
Turabi e gli Habar-Ghadir pro Bin Laden».

Non è finita: «le rimesse per la struttura di propaganda degli alleati
della Fratellanza in Italia provvedeva a farle Ghrewati per il tramite del
palestinese Muhammad Afsa, al presente latitante, e dei convertiti italiani
Ahmad Ferrario e Abdul Jalil Umberto Randellini, entrambi membri assieme a
Schultz della "organizzazione caritatevole" Human Appeal Intemational,
messa fuorilegge dal Regno Unito per il suo ruolo nel finanziamento di
strutture terroriste antibritanniche nello Yemen».

Quanto ai referenti somali in altre città, da Roma il cassiere di Barakaat,
Abdullah Shueb è sparito «nei primi giorni del settembre 2001...». Neanche
il governo di transizione del presidente Hassan è esente da ombre: è di
ieri la denuncia delle autorità della Regione Autonoma del Puntland al
Parlamento europeo sulle complicità di molte figure di spicco
dell'esecutivo con i fiancheggiatori di Osama Bin Laden.

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La Somalia dice all'Italia: cattura i complici di Bin Laden
Per evitare l'intervento militare degli Usa il presidente Abulkassim chiama
in aiuto le strutture investigative del Sismi



Ormai tutti sanno che l'ultima partita con Al Qaeda si giocherà quasi
sicuramente in Somalia, dove buon parte del territorio del Somaliland sta
nelle mani dei fiancheggiatori di Bin Laden.

Per questo motivo l'attuale presidente somalo Hassan Abulkassim chiede
l'intervento dell'intelligence italiana. E in prospettiva quello militare.

Anche per evitare interventi militari massicci dal cielo degli Usa,
AbuIkassim chiede ufficialmente attraverso il suo portavoce Ali Hussen, un
tempo ambasciatore presso la Santa Sede, prima che lo stato di cui è
capitale Mogadiscio si dissolvesse, un intervento internazionale da
appaltare all'Italia.

Perchè proprio noi? "Perchè in Italia buon parte della popolazione non vi
ha dimenticato e vi vuole bene considerandovi fratelli, mentre un
intervento militare anglo-americano rischierebbe di compattare l'odio dei
terroristi contro l'Occidente".

Per fare vedere che le richieste della Somalia hanno anche una
contropartita, Hussen all`Opinione ha indicato i nomi di quegli elementi
della struttura finanziaria Al Barakaat (quella che attraverso le rimesse
degli ignari somali finanziava Al Qaeda) che operano in Italia e che ancora
non sono stati messi nel mirino della magistratura.

Dietro questa sortita del governo somalo c'è la missione compiuta nei
giorni scorsi nel massimo segreto da una delegazione dell'intelligence
militare italiana, guidata dal gen. Massimo Pizza e dal col. Antonio
D'Andrea, già responsabili dell'Ufficio K del Sismi, una struttura che era
stata specificamente creata per la Somalia tra il 1985 e il 1992
dall'ammiraglio Fulvio Martini.

Tale missione consisteva nel mettere d'accordo tutti i capi tribù della
Somalia che fanno riferimento all'Islam moderato e che combattono
disperatamente l'attuale strapotere dei miliziani della Jamaaat al-Ikhwan
legati alla struttura di al-Qaeda.

Chi sono questi somali moderati?

I nomi più importanti sono quello del governatore di Benadir, Hiran Abukar
Muhammad, quello di Ugas Hajj Musa capo-clan degli Shikal, e quello
dell'avvocato Hassan Elai che guida l'omonima tribù.

Che chiede quindi all'Italia il presidente somalo?

In primo luogo che venga rimessa in funzione la struttura del Sismi e che
venga coordinata dai due suddetti ufficiali che godono la massima fiducia
dello stesso Abulkassim, tanto da essere diventati entrambi vicepresidenti
della Associazione musulmani italiani, una delle più moderate che esistono
in Italia, in buoni rapporti anche con Israele.

In secondo luogo, come spiega il suo portavoce Ali Hussen, "piuttosto che
fare un bis del fallimento di Restore Hope, tanto vale che sia l'Italia in
prima persona e con il consenso della comunità internazionale a intervenire
militarmente contro gli scherani somali di Bin Laden".

E che possono offrire in cambio le fazioni somale moderate all'Italia?

"Come prova di buona volontà - dice sempre Hussen - siamo disposti a fare i
nomi di tutti quei referenti della struttura finanziaria somala di Al
Barakaat che ancora non sono finiti nel mirino della magistratura".

Ecco qualche esempio: "ora che l'attenzione degli inquirenti si è spostata
sull'Istituto dei Salafiti di Viale Jenner, fondato dal trafficante d'armi
egiziano Anwar Shaban, non bisogna scordarsi del banchiere siriano Hassan
Tubba'i, latitante e già direttore della filiale di al Taqwa alle Bahamas."

...Non basta: " anche il suo amico e referente per l'Italia, il dott. Baha
El Din Ghrewati, residente nella provincia di Imperia, non è ancora stato
oggetto dell'attenzione degli inquirenti, così come non lo sono stati i
responsabili del centro milanese in cui avveniva la raccolta dei crediti
per la Somalia, quel circolo culturale "Il Fondaco dei Mori", nel centro
della Milano bene."

A dirigere il centro raccolta fondi erano sin da allora - spiega Hussen -
tre responsabili: il convertito svizzero Ali Federico Francesco Schultz,
sua moglie somala Aisha Shams, figlia di un Mukhtar del clan degli
Habar-Ghadir alleato della "Jamaat al-Ikhwan", e l'uomo d'affari sudanese
Muhammad Tahir, esponente di primo piano del Partito di Unità Popolare
Arabo-Islamica, guidato da Hasan Turabi.

Il matrimonio fra Schultz e Aisha Shams ha suggellato di fatto un'alleanza
politica fra al Taqwa, il Sudan di Turabi e gli Habar-Ghadir pro Bin Laden."

Non è finita: "le rimesse per la struttura di propaganda degli alleati
della Fratellanza in Italia provvedeva a farle Ghrewati per il tramite del
palestinese Muhammad Afsa, al presente latitante, e dei convertiti italiani
Ahmad Ferrario e Abdul Jalil Umberto Randellini, entrambi membri assieme a
Schultz della "organizzazione caritatevole" Human Appeal International,
messa fuorilegge dal Regno Unito per il suo ruolo nel finanziamento di
strutture terroriste antibritanniche nello Yemen. Quanto ai referenti
somali in altre città, da Roma il cassiere di Barakaat, Abdullah Shueb è
sparito nei primi giorni del settembre 2001..."

Sono notizie più o meno inedite su cui gli inquirenti e l'intelligence
italiana potranno lavorare a lungo, in cambio la Somalia chiede solo che
l'Italia si ricordi della sua ex amata colonia.


Dimitri Buffa


La Somalia, oggi piu' che mai, è un Paese dal futuro incerto. L'ultima
notizia è quella chiusura della Barakat, la banca di Osama bin Laden che
gestiva i flussi del denaro degli immigrati somali verso le famiglie
restate in patria, per un totale complessivo di circa 450 milioni di
dollari l'anno. La banca, organizzata sul modello Western Union e basata
sul principio del più completo anonimato, aveva 114 sportelli in tutto il
mondo, concentrati soprattutto negli Stati Uniti, in Europa e nel Golfo. La
chiusura è stata effettuata su richiesta del Presidente USA George W. Bush,
nell'ambito del programma finalizzato al congelamento delle rete
finanziaria del terrorismo internazionale. Secondo l'amministrazione USA,
l'anomala banca di Al Qaeda avrebbe assicurato agli uomini di bin Laden una
commissione del 6% su ogni singola rimessa. Tutto il sistema di invio e di
ricezione di fondi in Somalia risultava essere anomino, al di fuori dei
normali sistemi di controllobancario, ed Al Qaeda ne traeva un profitto
pari a circa il 6 % complessivo. Senza più Barakat in attività, la Somalia
si è vista privata della sua più importante fonte di afflusso di capitali
esteri. Oltretutto, il governo provvisorio è paralizzato anche dalla
guerriglia interna: deve far fronte alla presenza di bande armate nelle
varie regioni, soprattutto nelle campagne e addirittura tutt'attorno alla
capitale Mogadiscio, il cui porto e il cui aeroporto inernazionali sono
tuttora chiusi.

Massimo Pizza e Antonio D'Andrea, responsabili dell'Associazione di
Amicizia Italo-Somala hanno intervistato Sua Eccellenza Ali Hussen, già
incaricato d'affari presso la S. Sede all'epoca della presidenza di Siad
Barre, ed attuale portavoce del Presidente Abdikassim Hassan presso
l'Unione Europea.

- Eccellenza, tra i vostri problemi c'è anche quello della forte presenza
nel vostro Paese di sostenitori di Osama Bin Laden. Lei ha notizie dalla
Somalia riguardanti il capo del terrorismo internazionale?

- Il Presidente della Repubblica Somala ha in questi giorni ordinato
l'arresto di undici somali provenienti dall'estero, e legati al gruppo
Jamaat al-Ikhwan, una diramazioen dei Fratelli Musulmani che si è alleata
con Al Qaeda. Cercavano di convincere i tremila militanti armati
asserragliati nelle campagne a prepararsi ad acccogliere bin Laden nel caso
in cui una evacuazione dell'Afghanistan si rendesse necessaria. Questa
fazione comprendeva anche un gruppo di mille volontari somali, già
addestrati in Afghanistan, e se si aggiungono i cosiddetti Fratelli
Musulmani di altre aree del paese si arriva ad un totale di una decina di
migliaia di militanti su cui la rete di bin Laden può fare affidamento.
Buona parte dei capi locali sono però già stati incarcerati dal governo
locale del Punt Land di Bosaso. I restanti finacheggiatori del terrorismo
si troverebbero sparpagliati nel Somaliland con capitale Argeisa, ex
colonia britannica poi unificata alla Repubblica somala. Sappiamo anche
che, non appena le forze anglo-americane hanno deciso di bombardare
l'Afghanistan, si e' avuta notizia della partenza dei sosia di Osama bin
Laden dalla Somalia verso il Pakistan, e di là nello Yemen.

- Di cosa si sta occupando l'intelligence militare italiana?

- Sta spianando la strada perche' gli Americani siano pronti ad intervenire
in Somalia nel caso in cui bin Laden decidesse di rifugiarvisi, o comunque
di trasferirvi parte delle sue strutture.

- Osama bin Laden avebbe previsto quindi come inevitabile la sconfitta dei
Talebani. La sua fuga come sarebbe proseguita?

- Secondo le confessioni di alcuni degli arrestati, erano pronti diversi
piani di fuga all'estero nel momento in cui l'Afghanistan risultasse
indifendibile. Fra questi vi era un piano secondo cui Osama bin Laden
avrebbe attraversato il Mar Rosso su una barca a vela abitualmente usata
dai pescatori yemeniti, che la chiamano 'sambuca', approdando sulle coste
desertiche del Punt Land, dove lo avrebbero accolto i Fratelli Musulmani da
lui finanziati, per poi nascondersi in una baracca, o tenda, o tukul come a
migliaia ne sorgono in queste terre desolate. L'arresto degli undici
emissari dell'organizzazione da parte del governo centrale sembra però
avere sventato proprio la fattibilità di questo progetto di fuga.

- Cosa puo' fare il governo somalo in questa situazione tragica di guerra
portata in casa propria dal terrorismo internazionale e di presenza di
alleati di Osama bin Laden sul suo territorio?

- Il governo provvisorio somalo in più occasioni ha lanciato appelli sia
all'ONU sia agli USA, affinché intervengano con forze internazionali al
fine di bonificare il territorio in mano agli alleati del terrorista
saudita. Finora non c'è stata una risposta positiva, visto lo sforzo immane
rivolto contro il terrorismo internazionale e la priorità dell'impegno sul
fronte afghano. Quel che il governo somalo può fare oggi è seguire
l'esempio dell'Egitto: incarcerare i capi dei Fratelli Musulmani, con un
occhio di riguardo a coloro che già in passato hanno avuto rapporti con gli
emissari stranieri di bin Laden, e quelli fra loro che operavano
direttamente a contatto con la banca Barakat. La Somalia spera in un
successivo intervento delle forze internazionali per spegnere i tentativi
della Jamaat al-Ikhwan di stringere alleanze con i signori della guerra locali.

- Il Prsidente Abulkassim non è dunque spaventato dall'idea che gli
Americani intervengano militarmente?

- Niente affatto: siamo circondati da fazioni armate che possono ricevere
crediti che il governo provvisorio non ha i mezzi per controllare. Il
tentativo di fare della Somalia un secondo Afghanistan è comunque
documentato, anche se al momento il governo provorio somalo non ha i mezzi
per contrastarlo.


"L'Opinione", Martedì 5 dicembre 2001


La Somalia dice all'Italia: cattura i complici di Bin Laden
Per evitare l'intervento militare degli Usa il presidente Abulkassim chiama in aiuto le strutture investigative del Sismi
 

Ormai tutti sanno che l'ultima partita con Al Qaeda si giocherà quasi sicuramente in Somalia, dove buon parte del territorio del Somaliland sta nelle mani dei fiancheggiatori di Bin Laden.

Per questo motivo l'attuale presidente somalo Hassan Abulkassim chiede l'intervento dell'intelligence italiana. E in prospettiva quello militare.

Anche per evitare interventi militari massicci dal cielo degli Usa, AbuIkassim chiede ufficialmente attraverso il suo portavoce Ali Hussen, un tempo ambasciatore presso la Santa Sede, prima che lo stato di cui è capitale Mogadiscio si dissolvesse, un intervento internazionale da appaltare all'Italia.

Perchè proprio noi? "Perchè in Italia buon parte della popolazione non vi ha dimenticato e vi vuole bene considerandovi fratelli, mentre un intervento militare anglo-americano rischierebbe di compattare l'odio dei terroristi contro l'Occidente".

Per fare vedere che le richieste della Somalia hanno anche una contropartita, Hussen all`Opinione ha indicato i nomi di quegli elementi della struttura finanziaria Al Barakaat (quella che attraverso le rimesse degli ignari somali finanziava Al Qaeda) che operano in Italia e che ancora non sono stati messi nel mirino della magistratura.

Dietro questa sortita del governo somalo c'è la missione compiuta nei giorni scorsi nel massimo segreto da una delegazione dell'intelligence militare italiana, guidata dal gen. Massimo Pizza e dal col. Antonio D'Andrea, già responsabili dell'Ufficio K del Sismi, una struttura che era stata specificamente creata per la Somalia tra il 1985 e il 1992 dall'ammiraglio Fulvio Martini.

Tale missione consisteva nel mettere d'accordo tutti i capi tribù della Somalia che fanno riferimento all'Islam moderato e che combattono disperatamente l'attuale strapotere dei miliziani della Jamaaat al-Ikhwan legati alla struttura di al-Qaeda.

Chi sono questi somali moderati?

I nomi più importanti sono quello del governatore di Benadir, Hiran Abukar Muhammad, quello di Ugas Hajj Musa capo-clan degli Shikal, e quello dell'avvocato Hassan Elai che guida l'omonima tribù.

Che chiede quindi all'Italia il presidente somalo?

In primo luogo che venga rimessa in funzione la struttura del Sismi e che venga coordinata dai due suddetti ufficiali che godono la massima fiducia dello stesso Abulkassim, tanto da essere diventati entrambi vicepresidenti della Associazione musulmani italiani, una delle più moderate che esistono in Italia, in buoni rapporti anche con Israele.

In secondo luogo, come spiega il suo portavoce Ali Hussen, "piuttosto che fare un bis del fallimento di Restore Hope, tanto vale che sia l'Italia in prima persona e con il consenso della comunità internazionale a intervenire militarmente contro gli scherani somali di Bin Laden".

E che possono offrire in cambio le fazioni somale moderate all'Italia?

"Come prova di buona volontà - dice sempre Hussen - siamo disposti a fare i nomi di tutti quei referenti della struttura finanziaria somala di Al Barakaat che ancora non sono finiti nel mirino della magistratura".

Ecco qualche esempio: "ora che l'attenzione degli inquirenti si è spostata sull'Istituto dei Salafiti di Viale Jenner, fondato dal trafficante d'armi egiziano Anwar Shaban, non bisogna scordarsi del banchiere siriano Hassan Tubba'i, latitante e già direttore della filiale di al Taqwa alle Bahamas."

...Non basta: " anche il suo amico e referente per l'Italia, il dott. Baha El Din Ghrewati, residente nella provincia di Imperia, non è ancora stato oggetto dell'attenzione degli inquirenti, così come non lo sono stati i responsabili del centro milanese in cui avveniva la raccolta dei crediti per la Somalia, quel circolo culturale "Il Fondaco dei Mori", nel centro della Milano bene."

A dirigere il centro raccolta fondi erano sin da allora - spiega Hussen - tre responsabili: il convertito svizzero Ali Federico Francesco Schultz, sua moglie somala Aisha Shams, figlia di un Mukhtar del clan degli Habar-Ghadir alleato della "Jamaat al-Ikhwan", e l'uomo d'affari sudanese Muhammad Tahir, esponente di primo piano del Partito di Unità Popolare Arabo-Islamica, guidato da Hasan Turabi.

Il matrimonio fra Schultz e Aisha Shams ha suggellato di fatto un'alleanza politica fra al Taqwa, il Sudan di Turabi e gli Habar-Ghadir pro Bin Laden."

Non è finita: "le rimesse per la struttura di propaganda degli alleati della Fratellanza in Italia provvedeva a farle Ghrewati per il tramite del palestinese Muhammad Afsa, al presente latitante, e dei convertiti italiani Ahmad Ferrario e Abdul Jalil Umberto Randellini, entrambi membri assieme a Schultz della "organizzazione caritatevole" Human Appeal International, messa fuorilegge dal Regno Unito per il suo ruolo nel finanziamento di strutture terroriste antibritanniche nello Yemen. Quanto ai referenti somali in altre città, da Roma il cassiere di Barakaat, Abdullah Shueb è sparito nei primi giorni del settembre 2001..."

Sono notizie più o meno inedite su cui gli inquirenti e l'intelligence italiana potranno lavorare a lungo, in cambio la Somalia chiede solo che l'Italia si ricordi della sua ex amata colonia.


Dimitri Buffa
dimitribuffa@Libero.it

LIBERO
quotidiano diretto da Vittorio Feltri

Giovedì 6 dicembre 2001
p. 6

Fazioni in lotta per la presidenza. Qualcuno sogna persino un governo sotto
la bandiera tricolore

L'ULTIMA SPIAGGIA DI BIN LADEN A MOGADISCIO

Ali Hussen, ex ambasciatore presso la Santa Sede: la notizia presto ufficiale

di Dimitri Buffa


ROMA - «Aspettate altri tre giorni e poi la notizia verrà fuori: Bin Laden
sta facendo un'ultima mossa disperata in Somalia, a Mogadiscio. Già oggi
tutti ne parlano, e adesso noi somali eviteremmo volentieri di venire
bombardati a tappeto per questo motivo...».

A parlare così con Libero è Ali Hussen, ex ambasciatore presso la Santa
Sede, e da oggi anche ex portavoce del presidente Hassan Abulkassim, a capo
del governo.

Perché ex?

«Gli ho detto: hai fallito. Mi aveva chiesto di trasmettere la sua offerta
all'Occidente, ma è chiaro che gli americani l'hanno declinata e si
accingono a scaricarlo. Le fonti cui mi rimetto sono gli operatori di pace
Onu italiani - i due alti ufficiali del Sismi Massimo Pizza e Antonio
D'Andrea, recentemente eletti vice-presidenti dell'Associazione Musulmani
Italiani - e questo perchè non si fidano della tribù degli Habarghidir alla
quale lui appartiene... e poi in quanto temono che alcuni loro esponenti
facciano il doppio gioco con i signori della guerra e con i diecimila
miliziani di Bin Laden in Somaliland, infine perché Bush figlio deve
vendicare Bush padre per quella disfatta di Restore Hope che ancora brucia
come unica vera sconfitta della politica americana nel ferzo mondo... anche
se nessuno sa che all'epoca le armi per abbattere gli elicotteri
statunitensi ai somali gliele diede proprio Bin Laden».

E questo spiega perchè nelle carceri di Mazar-e Sharif oggi ci siano anche
volontari somali della Jihad. Pesano inoltre quei 18 marines uccisi e
trascinati per tutta Mogadiscio nel 1994, legati a dei camion dai
guerriglieri, pesano le imboscate e i quasi 1000 morti della missione, ma
pesano anche i 10 mila morti somali in pochi mesi, uccisi, dice oggi
Hussen, «anche dalla mancata occasione di lasciare il coordinamento di
Restore Hope agli italiani, ai quali gli americani rifiutavano di sottoporsi».

E cosa ci vorrebbe dunque adesso per la Somalia?

«Una sorta di un governo provvisorio sotto la protezione Onu e con
l'assunzione di responsabilità militari e politiche da parte delle autorità
italiane», ribadisce il diplomatico.

«Sappiate che, immigrati in Italia a parte, solo qui da noi esistono 50
mila matrimoni misti tra italiani e somali, e che coloro che oggi si
autoproclamano candidati a succedere ad Abulkassim, sono tutti e tre ex
signori della guerra e invisi alla gente».

Il primo Hussein Aidid è il figlio filo americano dell'omonimo signore
della guerra. Ha studiato in America dove ha anche fatto come marine la
carriera militare: ai tempi di Restore Hope venne portato come interprete
in Somalia poi non è più voluto tornare in America. Tecnicamente sarebbe un
disertore, ma gli Usa si fidano di lui.

Altro sedicente candidato, è Osman Atta, ex autista dell'ambasciata
americana a Mogadiscio.

Infine il sempreverde Ali Mahdi, signore della guerra per antonomasia, che
spera nell'amicizia degli italiani (nel 1993 il quartiere generale dei
nostri soldati era di stanza nelle sue terre) ma che all'Italia ha giocato
più di un brutto scherzo.

Quale potrebbe essere allora il ruolo dell'Italia?

«Se volessimo semplificare - ironizza Ali Hussen - quasi tutta la gente da
noi vedrebbe bene persino una ricolonizzazione da parte vostra. Tutti ci
ricordiamo delle strade costruite da Mussolini e casomai vi rimproveriamo
le ruberie della cooperazione... Da noi quando il dittatore Siad Barre si
insediò la prima cosa che disse ai suoi stretti collaboratori fu questa:
"ma come farò a mantenere quello che gli italiani hanno costruito per noi?"»

LIBERO
quotidiano diretto da Vittorio Feltri

Domenica 9 dicembre 2001
p. 5

Al vertice di Tampa la nostra delegazione si presenta divisa a causa dei
veti di Alleanza nazionale e di Ruggiero

SOMALIA, ULTIMATUM USA ALL'ITALIA: «Fatevi carico del Corno d'Africa o si
rischia la guerra con l'Etiopia».

Gli Stati Uniti scaricano il leader somalo: impotente con i terroristi

di Dimitri Buffa


ROMA - Le polemiche sollevate in seno ad Alleanza nazionale circa
l'opportunità di spedire truppe di terra italiane in Somalia hanno creato
non poco sconcerto durante il vertice tenutosi a Tampa dal Comando
strategico della difesa Usa.

E adesso l'Italia rischia di perdere il proprio ruolo in "Enduring
freedom", grazie anche alle strane sortite del ministro Renato Ruggiero e
del suo sottosegretario Alfredo Mantica che sembrano essersi messi di
traverso inopinatamente alla decisione già pianificata da Bush due
settimane orsono, e condivisa dal ministro della Difesa, Antonio Martino.
Nel briefing con gli ufficiali di coordinamento dei paesi dell'Alleanza
atlantica, il colonnello Antonio d'Andrea ha confermato agli alleati che il
presidente del governo provvisorio somalo, Hassan Abulkassim, è da
considerarsi ormai privo di referenti internazionali. Questo perché durante
la missione degli ufficiali del Sismi in Somalia sono chiaramente emerse
tutte le sue ambiguità nel trattare dei fondi della banca Al Barakaat,
quella accusata dagli americani di veicolare i fondi di Al Qaeda. Pertanto
la sua richiesta di ulteriori aiuti è stata giudicata inaccettabile, e la
sua proposta di mediazione è stata rigettata dalla Nato. La sua immagine è
stata poi compromessa dall'apparente incapacità, negli oltre undici mesi
passati dal suo insediamento deciso nella conferenza di Gibbuti, di far
fronte a impegni come quello di fornire dati sulla presenza degli uomini di
Bin Laden in loco. Gli Usa ritengono oggi opportuno che passi la mano.

Una via d'uscita che gli viene offerta anche per salvare la faccia. Anche a
Roma, dove prosegue una parte delle trattative, l'ex-ambasciatore presso la
Santa Sede, Ali Hussen, è stato immediatamente convinto a chiudere i
rapporti con un governo provvisorio ormai in disfacimento. Anche perché il
diplomatico viene considerato un interlocutore credibile dalla nostra
intelligence militare, visto che si è attivamente interessato alla ricerca
di alternative credibili fra i governatori moderati delle diverse regioni
somale.

Il generale Massimo Pizza, già responsabile dell'Ufficio K del Sismi ai
tempi di "Restore Hope", ha fornito a "Libero" alcuni chiarimenti circa la
posizione americana: «Gli Stati Uniti hanno fatto sapere che all'incapacità
del governo di Mogadiscio si intenderebbe rispondere con un intervento di
bonifica del fondamentalismo e di normalizzazione. Sul terreno esistono
oggi due opzioni: o l'Italia vuole contribuire all'impegno nel Corno
d'Africa e si fa subito carico dell'equilibrio della sua ex-colonia e dello
smantellamento della rete dell'Ittihad al-Islamiyyah, oppure la palla verrà
gettata nel campo dell'Etiopia con la riproposizione di uno scenario
analogo a quello della guerra dell'Ogaden».

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12.12

Lettera aperta a Silvio Berlusconi

On.le Dott. Silvio Berlusconi - Palazzo Chigi - 00100 Roma

Egregio Onorevole,

apprendo dalla stampa che ella si é recato alle veglia in Sinagoga e dopo aver indossato la "kippah" ha esternato i suoi sentimenti affermando che si é sentito "sconvolto, come padre, per la strage". (la strage dell'autobus in Israele della scorsa settimana,  n.d.r.)

Non mi risulta che ella si sia mai recato alla Moschea o ad altri luoghi di culto rappresentativi di altre civiltà ed altre culture, per esternare gli stessi sentimenti per le stragi compiute dai suoi amici nord americani e israeliani, stragi che perdurano da oltre cinquanta anni senza che la sensibilità degli "atlantici", ai quali ella appartiene di diritto, abbia mai mostrato segni di comprensione e di solidarietà. Questa sua "commozione" partigiana la colloca automaticamente nell'ambito di un terrorismo senza rischi e senza ideali, un tipo di terrorismo ancora più devastante di quello che é motivato dalla disperazione, perché nasce soltanto da un ignobile servilismo che, oltre tutto, é offensivo della dignità nazionale che, per l'incarico istituzionale che si trova - pro tempore - a rivestire, dovrebbe portarla a comportamenti diversi. Lei ispira le sue azioni a quella morale puritana e calvinista che confonde volentieri l'utile contingente con il bene universale, e ciò spiega molte cose. I suoi amici nord americani credono in perfetta incoscienza e malafede che - per esempio - il petrolio del mondo intero sia destinato ad assicurare benessere ad ogni loro cittadino di serie A, mentre miliardi di esseri umani non dispongono di risorse sufficienti ad assicurarsi un tetto ed il pane quotidiano.

Le cronache rosa di questi giorni ci hanno ripetutamente segnalato che una delle sue figliole ha partecipato al ballo delle debuttanti. Tanti auguri ! A questo punto immagino però che per lei sia impossibile, proprio come padre, comprendere i problemi ed i sentimenti dei genitori palestinesi, iracheni, afgani, argentini, brasiliani, africani dei vari paesi sfruttati dalle multinazionali e di tante altre nazioni che hanno il cappio al collo dell'usura internazionale.

Io padre di quattro figli, le dichiaro apertamente che nelle condizioni di questi genitori sarei un terrorista a tempo pieno.

Per chiarirle meglio le idee le riporto le parole conclusive di una intervista rilasciata alla stampa da Mohamed Ghazwan, palestinese e funzionario di Arafat, un uomo di pace ma disperato: "Per me é terrorismo ogni atto che minaccia la libertà degli altri. E non solo quello che minaccia gli interessi americani. Se le due torri fossero state in un paese del terzo mondo la reazione sarebbe stata la stessa ? Il nostro sangue ha lo stesso colore di quello degli americani" e aggiungo io - anche di quello degli israeliani, che in Palestina altro non sono che degli invasori e degli usurpatori.

Stelvio Dal Piaz - Arezzo

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12.12

La perla del generale

Forse questa segnalazione che ho inviato ai curatori dell'ottima newsletter delle Edizioni Asefi/Terziaria (programma.asefi@asefi.it  ) può interessare qualche amico.

Gentili Signori,

in margine alla segnalazione libraria contenuta nella Vostra ultima "lettera" Vi segnalo un brano che ritengo emblematico della piega autoritaria che il nostro "mondo libero" ha intrapreso lentamente dalla dissoluzione dell'Urss e a tappe forzate a partire da quest'anno, con il G8 di Genova e il fatidico 11 settembre.

Si tratta di una perla del generale Fabio Mini, capo di stato maggiore del comando Forze alleate del Sud Europa e curatore dell'edizione italiana di "Guerra senza limiti - L'arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione" (Libreria Editrice Goriziana), che è il volume da Voi segnalato.

Sono certo che i curatori della "lettera" Asefi sapranno cogliere in ciò che scrive questo signore la sintesi perfetta della dittatura liberale in atto, totalitaria, fanatica e intollerante:

"... c'è il rischio che vecchi movimenti ideologici e rivoluzionari condannati dalla storia, ma mai debellati, traggano profitto da questa instabilità generalizzata e fomentino disordini, ribellioni e ulteriori destabilizzazioni. La questione dell'antrace negli Usa appartiene chiaramente a questa tipologia, ma anche la spazzatura propagandistica e di disinformazione che ci viene propinata sotto le nobili vesti del diritto al dissenso fa parte di questo rischio. E non importa se la matrice sia bianca, nera o rossa. La lotta istituzionale si deve rivolgere anche in questo campo e non sarà né semplice né indolore. Il mondo è cambiato, la guerra globale si è spostata su di un piano completamente nuovo. Il modo di combattere deve cambiare e le priorità per cui lottare devono cambiare. La visione di un mondo globalizzato, piacevolmente impegnato nella beneficienza e legato da stessi bisogni e da stessi consumi, omogeneizzato nelle aspettative e nelle istanze come nelle risposte, si è infranta l'11 settembre. Se avevamo bisogno di un attacco terroristico di proporzioni immani e di una guerra bizzarra e asimmetrica per acquistare coscienza del mondo a-lineare in cui viviamo, i cinquemila di New York non sono morti invano e la guerra al terrorismo in Afghanistan e altrove è giusta e doverosa".

da Fabio Mini, Perché combattiamo ancora, "LiMes", quaderno speciale n. 4, nov. 2001, pp. 19-20.

Coi migliori saluti

Andrea Cenci

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11.12

"PROVE" PROVATE O GRANDE MISTIFICAZIONE?

«PROVE» PROVATE O GRANDE MISTIFICAZIONE?

di Enrico Galoppini

Guerra vs verità: l’ennesima conferma

In guerra, la prima e più illustre vittima è, come spesso si ripete, la verità.

Ma in questa «guerra contro il terrorismo», alla quale dà il suo contributo anche l’Italia, il black-out informativo è stato eretto a sistema, al punto che sentendosi investita di un alto dovere patriottico la quasi totalità dei giornalisti occidentali si è imposta un’autocensura che, dal punto di vista di chi patrocina questa «guerra», ha l’indubbio pregio di evitare un particolare dispendio di energie in attività censorie. E la morte della povera Cutuli, strumentalizzata oltre ogni decenza nella speranza che salvasse la faccia all’intera categoria, non è servita a scacciare il fantasma dell’inedito ed imbarazzante codice non scritto di deontologia professionale che vediamo applicare di questi tempi dagli iscritti all’Ordine con metodicità certosina.

Per carità, non ci illudiamo che in tempi d’emergenza qualche ‘aggiustamento’ in più rispetto alla media, già alta, di quelli a cui siamo abituati non debba finire per imporsi: i «danni collaterali» (morti di civili - tra cui gli esperti in sminamento afgani! -, distruzioni di abitazioni private, depositi di alimenti e di medicinali) li abbiamo però visti finché Kabul non è stata «liberata» (del resto, l’ultimo collateral damage è stato proprio il bombardamento dell’ufficio di «al-Jazîra» nella capitale afgana), i reparti speciali dell’Angloamerica scorrazzano in lungo e in largo ma nessuno è in grado di dirci quali compiti stiano svolgendo[1], i russi li abbiamo visti una mezza giornata camuffati da ‘protezione civile’ e poi basta, la «Garibaldi» solca l’Oceano a nostre spese ma l’abbiamo persa di vista a Suez, i profughi nessuno sa più da che parte siano andati a morire di fame e di freddo. Bei tempi quelli della Guerra del Golfo, quando ci abbeveravamo alle fonti del briefing quotidiano; in quel caso c’era almeno qualcuno che perdeva tempo per darci l’illusione di sapere qualcosa.

Ma da quando mondo è mondo, e soprattutto dal momento in cui l’opinione pubblica ha preso a tiranneggiare le nostre vite, verità e guerra hanno sempre fatto a cazzotti.

La storia degli ultimi due secoli (quella della suddetta tirannia, per intenderci) ci offre un’infinità di motivi addotti per giustificare la reazione armata di chi si ritiene gravemente offeso, specialmente se l’offeso ha poi finito per vincere la guerra. A Pearl Harbour - prescindendo da ogni sostenibile dietrologia - fu chiaro a tutti che gli aerei che fecero colare a picco parte (e non la più importante) della flotta americana nel Pacifico fossero giapponesi. Ogni casus belli presta il fianco a critiche ed obiezioni[2], però un elemento è sempre stato chiaro fin da principio affinché si capisse contro chi si doveva combattere, a torto o a ragione: la responsabilità del nemico nei fatti dai quali prende avvio il conflitto. Ma sull’identità dei registi dell’attacco dell’11 settembre grava ancora il mistero più assoluto.

 

L’avvocato del diavolo e la saga delle videocassette

Nella nuova «guerra al terrorismo» questo buco nero è parso fin dall’inizio di una evidenza talmente inattaccabile che per tutto settembre anche alcuni degli esponenti più irrequieti fra i cosiddetti «no global», facendo eco alle dichiarazioni del 99% dei musulmani interpellati, hanno sollevato leciti dubbi sulle «prove schiaccianti» a carico di Osama Bin Laden che i nostri politici e militari andavano affermando di avere tra le mani. Quando poi, in un impeto d’orgoglio d’altrui patriottismo, si è trattato di «prenderci le nostre responsabilità», a quel punto nessuno - fatto salvo il ‘visionario’ avvocato del diavolo Adel Smith, capace di far trasalire in diretta tv l’imperturbabile Buttiglione - ha più osato insistere su quel tasto, onde non incorrere nelle consuete accuse squalificanti: antiamericanismo preconcetto, favoreggiamento del nemico, disfattismo antipatriottico eccetera.

Le «prove», ci dicono che l’Angloamerica le avrebbe fatte vedere fin dal primo giorno a chi di dovere, in modo da persuadere vassalli, valvassori e valvassini della bontà della Guerra del Bene contro il Male, quest’ultimo incarnato da Bin Laden e «al-Qâ‘ida». Chi aveva da obiettare, facendosi coraggio in un clima del tutto ostile, si sentiva catechizzare con frasi del tipo «le abbiamo visionate ma non possiamo riferirne i contenuti», «renderle note adesso inficerebbe il lavoro dei nostri informatori» (che non avevano avuto il minimo sentore della po’ po’ di sorpresa che si andava preparando per l’11 settembre…), e così la questione della dimostrazione di elementi chiari sulla responsabilità dello sceicco saudita è andata archiviata sulla base di «prove» mai esibite a nessun comune mortale, fatta eccezione per ‘coloro che sanno’. Pian piano dunque, anche gli ultimi scettici hanno dovuto calibrare su altri registri gli obiettivi dei loro strali polemici, lasciando perdere la questione della colpevolezza o meno di Bin Laden.

Talvolta si è avuto il dubbio che le «schiaccianti prove» non fossero altro che quei filmati amatoriali della jihâd dai quali attingono a piene mani gli esperti di persuasione di massa utilizzandone alcuni spezzoni per la propaganda dei vari telegiornali. Di queste videocassette capaci di terrorizzare addirittura un critico cinematografico del calibro di Vincenzo Mollica (avvezzo quindi ai generi horror e splatter) è stato detto tutto e il contrario di tutto. Ad un certo punto si sparse la voce che ne stesse circolando una dal taglio antologico della durata di un’ora e mezzo, recapitata alle redazioni di mezzo mondo. Fatto sta che il presidente dell’«Impero del Bene» ha a disposizione qualche centinaio di emittenti televisive piene zeppe di fautori dell’autocensura patriottica per diffondere ai quattro angoli dell’orbe terracqueo i suoi proclami, mentre il «colpevole» Osama ce lo raccontano a cavallo, a capo di un migliaio di fedelissimi, mentre si fa beffe di una pioggia di bombe che le fortezze volanti dell’Angloamerica scaricano a migliaia di tonnellate sui monti e i cunicoli di Tora Bora, oppure rintanato nella sua Gotham City sotterranea intento a pianificare terrore a non finire.

 

Va in onda il colpo di scena

Ma il 9 dicembre 2001 accade l’imprevedibile. Dopo l’Osama-cavaliere, l’Osama-cecchino, l’Osama-predicatore, l’Osama-padrino dei filmati che ci hanno propinato fino alla nausea, da un’abitazione privata di Jalalabad salta fuori una videocassetta - “non ancora diffusa dalla Casa Bianca” - che ci regala l’ultima puntata della versione binladiana del «Grande Fratello», la quale, per sopravvenuti (è proprio il caso di dirlo) ‘inconvenienti tecnici’, non va più in onda su «al-Jazîra». Il Nostro viene lì ripreso mentre racconta che nel corso della cena del fatidico giorno gli giunse improvvisa la notizia dell’attacco alle torri gemelle e del loro conseguente crollo (di cui, da impresario edile qual’è, si sarebbe dichiarato sorpreso). Scatta allora un allegro brindisi (con il tè?) con i commensali.

Di questo scoop ci ha dato notizia il Tg1 delle 20,30 del 9 dicembre, appunto, il quale ha ripreso una dichiarazione del vicepresidente statunitense Dick Cheney, che a sua volta ha confermato indiscrezioni del «Washington Post». Ma con un candore disarmante, in un delirio di amnesia, ci è stato detto a chiare lettere che “il filmato dimostrerebbe la diretta responsabilità di Osama Bin Laden”. Dunque, dall’11 settembre al 9 dicembre non esisteva alcuna «prova definitiva» e il ‘visionario’ Adel Smith, che agitava da Vespa le sue scartoffie in faccia a Buttiglione, per una volta tanto aveva visto giusto.

Ma fatta eccezione dei vertici dell’alleanza planetaria della «guerra al terrorismo», la notizia del rinvenimento del prezioso nastro non ha fatto che spargere il dubbio e la diffidenza sulla reale consistenza delle accuse rivolte al «principe del terrore».

Dopo alcune esitazioni, il gran giorno della ‘prima mondiale’ viene fissato per il 12 dicembre, e per tre giorni - anzi quattro, per «scrupoli nella traduzione» - è stato tutto un rincorrersi di spifferate, illazioni, congetture intorno a questo concentrato di verità.

Ma com’è «saltata fuori» la videocassetta? Da un’abitazione di Jalalabad, l’abbiamo già detto. Secondo il «Los Angeles Times»[3] l’avrebbe invece trovata un pashtun vicino a Jalalabad e questa sarebbe stata acquisita da Christopher Ross, consigliere speciale del Ministero egli Esteri Usa, per poi passare nelle mani del Pentagono (uno dei bersagli degli attacchi dell’11 settembre), che ne ha curato la traduzione e la diffusione.

Il 13 dicembre 2001 la televisione del Qatar «al-Jazîra»[4] ha intervistato Christopher Ross in merito all’autenticità del video: “Ammetto che ho preso il video una settimana fa, e abbiamo lavorato per tradurlo insieme a un’altra persona. La voce dei parlanti non è chiara, e non ho tradotto tutto quello che hanno detto”. Alla domanda su tempo e luogo di ritrovamento di questo video, Ross ha risposto che lo hanno trovato le forze speciali americane in una casa abbandonata, senza specificare il posto o la città, e se c’era qualcun altro.

Non è neppure chiara la data del «ritrovamento» di quest’autentica reliquia: ufficialmente, una settimana prima della messa in giro dello scoop. E invece no. Il filmato, girato a Kandahar i primi di novembre (forse il 9)[5], pare piuttosto essere rimasto tra le mani di Bush per un mesetto, in attesa di decidere sul da farsi.

Insomma, non si sa né chi l’ha «trovato» né dove e quando è stato «trovato».

E non è tutto. Si è saputo di diverse e più complete traduzioni poi scartate, si è fatta notare la lacunosità dei sottotitoli in inglese a fronte di dialoghi in arabo che a malapena si percepiscono (che fine ha fatto la versione in arabo fatta «per gli arabi»?), di manipolazioni realizzate al computer[6] e altre incongruenze a cui finisce per prestare il fianco l’opera dei confezionatori della versione finale fatta circolare per le redazioni a cura del Pentagono.

Se non fosse tutto tragicamente vero, potremmo credere di assistere ad un tipico film hollywoodiano, ma d’altra parte è l’intera vicenda innescatasi l’11 settembre ad avere tutti i contorni della spettacolarità delle produzioni dell’industria del «sogno americano».

 

La corsa all’interpretazione

Ricostruire le ingarbugliatissime circostanze del «ritrovamento» e del confezionamento della versione finalmente andata in onda appare dunque un’impresa disperata. Sarà forse più utile interrogarsi sul/sui perché della proiezione dell’ormai celebre video, e soprattutto perché su quest’evento si sono coagulate così tante aspettative.

1) Il video come profilassi antifondamentalista

Secondo «The Times»[7], l’obiettivo consisterebbe nell’indurre i leader dei principali gruppi islamici a dissociarsi pubblicamente da Bin Laden e far recedere l’opinione pubblica arabo-islamica dall’idea che gli attentati siano attribuibili ad un fantomatico complotto ispirato da Israele. Un motivo ripreso da Christiane Amanpour, uno dei corrispondenti più noti della Cnn, la quale, provando ad immaginare le reazioni che avrebbero potuto verificarsi nel mondo arabo dopo la diffusione del video, ha auspicato una dura reazione dei musulmani, che a più riprese hanno sottolineato che azioni del genere non sono giustificate perché contrarie all’Islam[8]. Niente di più fuorviante: tra i musulmani (figuriamoci tra quelli più politicizzati), ricondurre qualsiasi sciagura che li tocca alle trame dell’«Entità Sionista» raggiunge in alcuni frangenti livelli da paranoia, mentre è completamente campata in aria l’idea che qualche «autorità islamica» possa «scomunicare» Bin Laden e i suoi.

2) Il video come prova giudiziale

Poiché la Corte Suprema americana, in una recente decisione in linea con il sovvertimento di ogni diritto fin qui noto, avrebbe statuito regole di ammissibilità della prova meno rigide qualora essa venga raccolta fuori dagli Stati Uniti, il «Washington Post»[9] ha ipotizzato che il video possa essere utilizzato in un futuro processo contro i «terroristi». Ce n’è dunque abbastanza per inchiodare Bin Laden alle sue responsabilità davanti ad un costituendo Tribunale Internazionale per crimini contro l'umanità.

3) Il video come testamento di Osama

Alcuni sostengono che il video altro non sarebbe che l’estrema confessione di un uomo disperato, malato, che ormai con il fiato sul collo non riterrebbe di avere più nulla da perdere, addossandosi perciò ogni responsabilità se questo servisse a renderlo agli occhi dei suoi fans un martire, il cui ricordo fungerebbe da sprono per i suoi epigoni.

 

Una delusione? No, un fallimento

 Materializzatosi effettivamente proprio per «provare» il «già provato», questo video ha mirato semmai a convincere un’opinione pubblica «mondiale» (in realtà occidentale) ancora scettica sulla genesi, gli sviluppi e gli obiettivi di questa «guerra al terrorismo».

Un fatto che anche gli irriducibili dell’Occidente dovrebbero riconoscere per onestà intellettuale è che Osama Bin Laden ha sì mostrato ampia soddisfazione per quanto accaduto a New York e Washington, ma mai ha rivendicato la paternità degli attacchi. Al limite si può parlare di una reticente ammissione d’indiretta corresponsabilità, che è una cosa diversa da una confessione o una “devastante ammissione di colpevolezza” come ha sentenziato il presidente degli Usa.

Chi al contrario non si è sintonizzato sulla lunghezza d’onda dell’occidentalismo vincente, in vario modo dubitando dell’autenticità di quanto diffuso dal Pentagono, dalla vicenda dell’ormai celebre filmato può intanto trarre alcune lezioni.

Malgrado il crollo del regime dei Talebani, i bombardamenti sull’Afganistan - forse anche per far capire al neo-insediato governo chi comanda - stanno continuando imperterriti con la loro scia di ‘indesiderati’ effetti, e riproporre periodicamente ad un’opinione pubblica che potrebbe mostrare segni di cedimento lo spauracchio del «genio del Male» rende accettabile come male necessario la morte di qualche altro afgano.

Per di più, se il capo di «al-Qâ‘ida» fosse perito sotto le bombe, le somministrazioni di suoi proclami giustificherebbero il proseguimento dell’operazione «Libertà duratura». In effetti, che sia morto o no, Osama vive come paurosa entità oleografica attivabile a piacimento. Non è da scartare infine l’ipotesi secondo cui i comandi angloamericani stiano prendendo tempo con artifici utili a tenere alta la tensione emotiva, in attesa di scegliere la prossima ‘canaglia’ da ridurre all’impotenza.

Con il ricorso allo strumento delle videocassette l’Angloamerica ha in pratica dichiarato di non essere stata abbastanza convincente: a ben vedere è proprio questa l’unica «ammissione» di colpevolezza a cui abbiamo assistito.

 


[1] Con l’eccezione dello spezzone della «Reuters» sull’assedio al carcere-fortezza di Mazar-i-Sharif in mano a prigionieri «rivoltosi», i marines li abbiamo visti raramente, ma in quel caso non se ne poteva fare a meno perché tra le loro fila c’era scappato il morto. Al limite li riprendono intenti a svolgere tranquille mansioni in previsione del ritorno dell’Afganistan alla vita «normale», come ad esempio spianare la pista dell’aeroporto di Kandahar per trasformarla in un campo di prigionia.

[2] Gli Stati Uniti, per una strana coincidenza, vengono sempre «attaccati»: il Maine, il Lusitania, Pearl Harbour, il Tonchino, solo per citare gli «incidenti» più noti.

[3] Citato da «Televideo Rai» del 14 dicembre 2001.

[4] http://www.al-jazeera.net

[5] Oman Bakri, considerato il portavoce ufficioso di Bin Laden in Europa, sostiene che il video sarebbe stato girato quattro anni fa in occasione delle nozze della figlia di Ayman al-Zawahiri, il suo luogotenente egiziano. Cfr. l’articolo di Magdi Allam su «La Repubblica» del 14 dicembre 2001.

[6] Cfr. Steven Morris, US urged to detail origin of tape, «The Guardian», 15 dicembre 2001: “Sean Broughton, director of the London-based production company Smoke and Mirrors and one of Britain’s leading experts on visual effects, said it would be relatively easy for a skilled professional to fake a video of Bin Laden”. Ricordiamo che per le intercettazioni telefoniche gli Usa utilizzano anche le «impronte vocali» di Osama Bin Laden in loro possesso. Ad aumentare la confusione ci si è messo poi il video mandato in onda da «al-Jazîra» il 26 dicembre, sulla cui autenticità il portavoce della Difesa Usa ha sollevato ampie riserve.

[7] Bin Laden laughs in video confession, http://www.thetimes.co.uk/article/0,,2001570007-2001575526,00.html.

[8] Cfr. Arab world reaction, http://asia.cnn.com/2001/WORLD/asiapcf/central/12/13/ret.amanpour.otsc/index.html

10.12

L'Islam di fronte agli attacchi suicidi

Qual'è la posizione ufficiale dell'Islam di fronte agli attentati suicidi nella Palestina occupata-Israele? Esiste un'unica posizione dei dotti musulmani? E' vero oppure no che alcuni condannano e altri giustificano o approvano? E perchè? Leggeto su http://www.aljazeera.net/news/arabic/2001/12/12-10-6.htm

Marco 

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9.12

 
Valerio Evangelisti, il più noto autore italiano di fantascienza (e uno dei pochi a essere stato pubblicato anche all'estero) ci parla del rapporto tra la guerra, questa guerra, e la fantascienza. Regalandoci anche un racconto che, a modo suo, spiega tutto.   
L'articolo è uscito nel numero di ottobre di Carmilla 4, che raccoglie riflessioni, racconti e saggi liberamente collegati dall'interesse per la fantascienza. Per saperne di più, potete visitare il sito di Valerio Evangelisti (www.eymerich.com)
 
 
La guerra dei mondi

Una frase ricorrente sulla stampa e nei commenti giornalistici, dopo gli attentati che hanno colpito gli Stati Uniti l'11 settembre 2001, era che la fantascienza fosse stata superata dalla realtà, o non avesse potuto prevedere nulla di altrettanto grave. Sarebbe stupido, anche se facile, tentare qui di dimostrare il contrario: si tratta di un primato che può interessare solo gli imbecilli. Semmai, si può osservare malevolmente che se la fantascienza ha quanto meno abbozzato eventi simili, il grosso della letteratura italiana mid-cult fatta passare per "seria", "alta", "vera" o quant'altro, con il suo insistito disinteresse per il presente, non li ha né ipotizzati, né sfiorati, né ha mai descritto i quadri che potessero generarli. Ma insistere su questa verità sarebbe ancora una volta impegnarsi in una competizione idiota, e conviene limitarsi a registrare il dato. 

In realtà, nella narrativa popolare, e nella fantascienza in primo luogo, si trovano descrizioni di guerre spettacolari combattute contro un nemico malvagio e incomprensibile, dotato di determinazione fredda e spietata. Già La guerra dei mondi di Wells metteva in scena stragi apocalittiche attuate da creature-macchina votate alla pura distruzione, e capaci di mettere in crisi tutte le strutture di una società. In anni molto più recenti, il film Independence Day ha poi volgarizzato il concetto, facendo scontrare gli Stati Uniti, investiti del comando dell'intero pianeta, con mostri omicidi piombati dal cielo. 

Nell'un caso e nell'altro, però, non esisteva alcuna connessione, alcuna somiglianza nemmeno biologica tra aggrediti e aggressori. L'innocenza dei primi era pacifica, come in fondo anche quella dei secondi, vista la differente appartenenza di specie. Ebbene, è proprio qui, e non nelle dimensioni e nell'orrore dei massacri, che la fantascienza si è rivelata davvero carente nella sua ipotetica vocazione alla previsione. Non ha saputo, cioè, essere tanto sottile da sospettare un rapporto di filiazione tra vittime e aguzzini, tanto da ipotizzare un retroterra di intercambiabilità. Quale storia comune potrebbe legare gli uomini a creature di Marte o di mondi ancora più ignoti? 

Ovviamente, a questo punto qualcuno dirà che ciò si applica anche alla distruzione delle Twin Towers di New York e di un'ala del Pentagono. In effetti, così sembrerebbe: fanatici integralisti contro gente civile, assassini votati al suicidio contro cittadini incolpevoli. Bene, anche se le grandezze e i valori sono effettivamente quelli, la loro interazione cambia. Cercherò di dimostrarlo in maniera inconsueta, abbozzando un racconto di fantascienza che lascerò ad altri sviluppare (oppure lo farò io, quando ne avrò tempo e voglia). 

E' l'11 settembre 2001. Dopo il primo aereo, anche un secondo si è schiantato contro le Twin Towers. In volo sull'Air Force One il presidente degli Stati Uniti, in piedi davanti a uno schermo, assiste inorridito alla scena. Ma non si lascia prendere dal panico. Da pochi mesi è stata inventata la macchina definitiva antiterrorismo, stupendo gioiello di tecnologia. Subito chiama le sale più profonde e segrete del Pentagono, rimaste intatte, e ordina che sia attivata. 

Si tratta di un congegno totalmente automatico, capace di riportare il mondo a qualche ora prima (come e perché dovrà essere il futuro scrittore a descriverlo: la cosa avrà probabilmente a che fare col tempo e con lo spazio). Mentre ciò avviene, la macchina rimane fuori dal tessuto temporale e i due elaboratori di cui si compone entrano in azione. Uno, per motivi tecnici leggermente più veloce dell'altro, analizza tutti i dati in suo possesso fino a individuare in dettaglio il mandante e responsabile principale dell'atto terroristico. Il secondo elaboratore, dal canto proprio, è un centro operativo capace, sulla base di raffronti con una massa di precedenti, di decidere l'azione più efficace per colpire i terroristi, impartendo gli ordini del caso – indiscutibili e precisi – agli organi militari statunitensi del tempo precedente l'azione. Questi possono così colpire tempestivamente e nel modo più adeguato i mandanti, prevenendo l'attentato. 

Tutto funziona per il meglio. La macchina scompare in una bolla fuori dal tempo e inizia a operare. Gonfio di dati, l'elaboratore 1 non ci mette molto a individuare il responsabile della distruzione delle Twin Towers. Si tratta di Osama Bin Laden, noto leader terrorista. Una memoria segnala che fino a pochi anni prima era registrato dagli USA quale “Combattente della libertà”, ma la qualifica era stata corretta da tempo. L'elaboratore trasmette l'informazione al computer gemello. 

L'elaboratore 2 subito classifica il caso. Bin Laden. Tipologia: individuo isolato, a capo di una rete ostile agli Stati Uniti. Nella memoria del computer scorrono rapidissime le soluzioni a un caso del genere trovate in passato dagli USA o dai loro alleati. Ricchissimo in tal senso l'archivio elettronico israeliano, colmo di uccisioni individuali: da intellettuali palestinesi come i coniugi Khader o Ghassan Kanafani, fino al caso recentissimo di Abu Ali Mustafa, passando per centinaia d'altri. 

L'elaboratore 2, trovata una tecnica conveniente di uccisione, sta per trasmettere l'ordine quando il suo confratello lo blocca. Un ulteriore vaglio dei dati ha fatto emergere un responsabile più importante. Si tratta dell'Afghanistan, in cui Bin Laden e le sue bande hanno trovato rifugio. In alcune memorie il paese è registrato come alleato degli USA fino a due anni prima (nel tempo), ma l'informazione è stata rettificata. 

Scatta l'elaboratore 2. Afghanistan. Tipologia: paese povero, dotato di armi convenzionali. Possibili reazioni: invasione diretta come a Grenada o a Panama (soluzione scartata: il territorio è troppo grande), logorio tramite creazione di presunto esercito guerrigliero, come in Nicaragua, nel Kossovo o in Macedonia (soluzione scartata: troppo lento), colpo di Stato militare come in Cile, in Argentina o in altri paesi latinoamericani (soluzione scartata: troppo macchinoso), acquisizione della fedeltà tramite benefici economici, come in Birmania, in Turchia, nelle Filippine di Marcos o in altri paesi totalitari (soluzione scartata: trattasi di dittatura imbevuta di ideologia), e così via.  

 
L'elaboratore 2 sta cominciando a ideare la contromisura ideale quando l'altro computer lo blocca di nuovo. L'ulteriore vaglio dei dati dice che l'Afghanistan dei Talebani è una creazione diretta del Pakistan, che d'altronde ha con Bin Laden eccellenti rapporti. E' il Pakistan al vertice della piramide di responsabilità. Vero è che tutte le memorie segnalano il Pakistan come fedelissimo alleato degli USA, ma l'indicatore principale, chiamato INA (Interesse Nazionale Americano, conosciuto all'esterno col nomignolo paravento di D, Democrazia), dice che si può prescindere, data la pesantissima responsabilità oggettiva. 

L'elaboratore 2 si rimette al lavoro. Pakistan. Tipologia: Stato con esercito ad armamento progredito e in possesso di testate nucleari. Possibili reazioni, scartate invasione o confronto al suolo: deterrenza tramite bombardamenti mirati con effetto collaterale di vittime umane, come in Serbia (scartato: troppo costoso), inquinamento permanente del suolo con danni genetici ai nascituri, come in Vietnam (scartato: richiederebbe preventiva guerra dispiegata), diffusione di miseria e malattie tramite blocco economico, come in Iraq, a Cuba, in Nicaragua (scartato: troppo lungo), azione dissuasiva esemplare attraverso abbattimento di aerei civili, come nel caso delle Bahamas (scartato, poco significativo), stragi minatorie come in Italia (scartato: di ambigua attribuzione e privo di valore di monito) e via dicendo. 

L'elaboratore 2, sia pure faticosamente, sta però per giungere a formulare un piano d'azione soddisfacente, e anzi per trasmettere l'ordine d'attacco, quando il gemello lo interrompe ancora una volta. Tutti i dati disponibili dicono che il Pakistan non è solo alleato degli Stati Uniti d'America, ma ne è finanziato, sorretto nel sistema politico, incoraggiato nelle pretese espansive. I circuiti dell'INA si arroventano, ma non c'è memoria che non trasmetta una verità inconfutabile: al vertice della catena di responsabilità ci sono gli USA stessi. 

Il lavoro dell'elaboratore 2 si fa difficilissimo. Stati Uniti d'America. Tipologia: unica. Si tratta del paese più potente della terra. Possibili reazioni da adottare: scartate quasi tutte. Tra le poche degne di nota, resta l'ipotesi di un'azione non determinante ma altamente spettacolare (scorrono nelle memorie del computer le immagini del grattacielo della tv di Belgrado sforacchiato dai missili), meglio se affidata a uomini pronti alla morte in nome di una causa qualsiasi. 

L'elaboratore 2 trasmette per verifica l'ipotesi all'altro computer. L'unico dato contrastante che ne riceve riguarda le vittime umane, dette anche “effetti collaterali”, ma non è tale da bloccare un'azione di guerra. Non vi sono precedenti recenti in tal senso. 

L'elaboratore 2 comunica l'ordine. L'elaboratore 1 non interviene a impedirlo. 

Il tutto si è svolto nello spazio di pochi istanti, se fuori del tempo esistessero gli istanti. Nella scena finale, il presidente degli Stati Uniti osserva allibito sullo schermo un secondo aereo che si schianta contro le Twin Towers. Chiama i sotterranei del Pentagono e ordina che sia attivata la macchina antiterrorismo. Gli rispondono preoccupati che non riescono più a trovarla. 

Non vorrei che questa piccola parabola fosse male interpretata. Non sto dicendo che gli Stati Uniti abbiano commesso un attentato contro se stessi. Sto invece affermando che possiamo esimerci dall'attribuire cause, premesse e brodi di coltura a mostri venuti dallo spazio. Non possiamo invece farlo, se non per deliberata censura od omertà, quando i mostri provengono dal nostro stesso globo terracqueo. 

C'è però chi si diverte a farlo, e arriva a descrivere “le masse arabe e le popolazioni musulmane dell'Asia centrale, dell'India, dell'Indonesia” con parole che meritano di essere riportate: “Queste masse di straccioni, di ammalati, di analfabeti non hanno la forza di sollevarsi al di sopra del piatto di minestra che gli offre la missione o il volontariato senza frontiere quando può o come può. Queste masse sono separate tra loro e indifferenti a quanto di simile accade al loro vicino. Vivono per sopravvivere.” (Eugenio Scalfari, in La Repubblica, 16 settembre 2001). Starebbero in questa subumanità – e probabilmente è vero – le radici del terrorismo integralista. 

Dalla premessa dovrebbe scaturire una conseguenza ovvia: operare per fare in modo che straccioni, ammalati e analfabeti non siano più tali, cosa che probabilmente smorzerebbe la loro rabbia cieca. Ma all'illustre editorialista (“di sinistra”, ma sarebbe meglio dire sinistro) ciò sfugge, e passa immediatamente a vagliare il tipo di guerra più adatto per schiacciare quelle plebi. Così malattia, povertà e analfabetismo si trasformano, da sciagure, in caratteristiche genetiche, supportate, a livello psicologico, “da una divorante invidia esistenziale: invidiano e quindi odiano l'Occidente e in specialissimo modo gli Stati Uniti d'America, cioè l'impero del benessere, della forza, del potere e in particolare il centro dell'impero”.  

I marziani di Wells erano in fondo più umani di questa marmaglia formicolante, famelica per natura, invidiosa per cultura e ignorante per scelta. Tanto più che, nella penna dell'ineffabile Scalfari, resta chissà perché la circostanza dell'uso che “l'impero del benessere, della forza, del potere” ha fatto delle orde di cavallette a due zampe tutte le volte che gli ha fatto comodo, e specialmente quando si trattava di combattere regimi socialisti o governi anche solo progressisti (a proposito di Indonesia, la strage di centinaia di migliaia di contadini sospetti comunisti, torturati, mutilati, gettati vivi nelle caldaie delle locomotive, non la ricorda nessuno; altrimenti bisognerebbe ricordare anche il mandante). 

Contro il terrorismo umano potrebbero esistere l'equità degli scambi, lo spegnimento dei focolai di conflitto (Palestina in primo luogo), la fine delle rapine economiche, la correzione degli squilibri. Ma contro il terrorismo marziano non c'è che il ricorso alla violenza, base di ogni impero. E l'uso di una macchina antiterrorismo che funziona molto meglio dell'elaboratore 1 e dell'elaboratore 2 del raccontino: la cancellazione della memoria. Meccanismo che, una volta attivato, scongiura eventi calamitosi, tipo cercare una genealogia ai marziani. Oppure scenari assurdi: se dedicassimo tre minuti di silenzio a ognuno dei massacri di vittime innocenti attuati, incoraggiati, ispirati o tollerati dagli Stati Uniti negli ultimi decenni, dovremmo probabilmente starcene zitti per parecchi mesi (ecco il tema per un altro raccontino di fantascienza). 

Sia benedetta l'assenza di memoria: lievito di guerre giuste, sostegno di governi infami (quello italiano, per citarne uno a caso), premessa di consenso a qualsiasi porcheria. Oggi la sua forma scientifica si chiama revisionismo storico. Molto più di una scuola di pensiero: una filosofia di vita, di cui si cerca di fare una componente genetica come l' “invidia” dei miserabili individuata dal buon Eugenio. 

Gira e rigira si torna a Orwell e a 1984. Sono lì, a ben vedere, le vere chiavi di lettura del nostro tristissimo presente.

Valerio Evangelisti

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7.12

Padroni del mondo e dittatori del pensiero

Diorama Letterario, n. 248, ottobre-novembre 2001

I. Le guerre, nuove prove di egemonia culturale

Qualcuno dei nostri lettori ricorderà le repliche infastidite, i sarcasmi, l’indignato stracciar di vesti con cui un certo numero di esponenti dell’intellettualità italiana – Marcello Pera, Angelo Panebianco, Pierluigi Battista, Ferdinando Adornato, Dino Cofrancesco, Raimondo Cubeddu… – accolsero, nell’estate di cinque anni fa, il nostro timore che in Italia si andassero accumulando le premesse di una nuova egemonia culturale, di segno diverso da quella marxista che l’aveva preceduta, ma non meno pericolosa per quella libertà di espressione che è l’irrinunciabile presupposto di una democrazia. Come osava, il “buontempone” che aveva avanzato quel sospetto sulle colonne di una rivistina impertinente e marginale come “Diorama”, paventare il rischio di una dittatura del pensiero in democrazia? E, per giunta, di una dittatura di segno ideologico liberale, messa in atto cioè da quanti fanno dei diritti di Libertà la loro bandiera? E in Occidente, poi, che di quei diritti è patria, terra promessa, culla, simbolo? No, non si poteva dare nessun credito alla denuncia. Anzi: i quindici giorni di buriana giornalistica che coinvolse parecchie fra le maggiori testate (agosto è un mese parco di argomenti…) servirono solo a un’archiviazione senza indagini, accompagnata da una messa in guardia per i calunniatori: chi dice male del liberalismo non può che farlo per inconfessabili nostalgie dei Gulag o dei Lager – così, più o meno testualmente, il “moderato” Pera – e va dunque messo all’indice. Scomunica applicata, giacché da quel momento gli spazi di attenzione della grande stampa per le tesi espressa da “Diorama” e da chi lo dirige si sono ridotti ai minimi termini.

Lasciamo ai lettori giudicare se i fatti abbiano confermato o meno la diagnosi che avevamo precocemente emesso sullo stato di salute della libertà di espressione nel nostro paese e, più in generale, in quell’Europa che smania per sentirsi parte di un “Occidente”. Ovvero se, per dirla con parole più precise, le prove che gli intellettuali e gli operatori dei media hanno dato di sé negli ultimi cinque anni abbiano rassicurato circa la tenuta di quei due requisiti – il pluralismo delle opinioni e il policentrismo delle informazioni – che assicurano l’effettivo godimento dei diritti di libertà. Va da sé che noi ne abbiamo seri dubbi in proposito e seguiamo con apprensione crescente l’ampliarsi della censura dei circuiti comunicativi di massa (in primo luogo quelli televisivi, di gran lunga oggi i più efficaci, ma non solo) verso qualunque manifestazione di dissenso dai valori e dai giudizi che la vulgata politico-culturale ufficiale consacra e legittima come buoni e giusti. La constatazione che Aleksandr Solzenycin fece nel discorso tenuto ad Harvard poco dopo l’inizio del suo esilio americano – in Urss per privare della voce i dissidenti è necessario incarcerarli, in Occidente basta privarli di un microfono – ha ormai verifiche quotidiane. Ma il processo non si è stabilizzato; tende semmai ad inasprirsi, a configurarsi come un’opera di rimozione preventiva dei germi del malpensare dalle menti degli individui, a farsi pianificazione di un’educazione civica che è allevamento al culto di princìpi unici, obbligatori e inevitabili perché, per una sorta di legge naturale non scritta, universalmente migliori e dunque non rifiutabili se non da animi perversi e bisognosi di cura o punizione.

Intendiamoci. Chi conosce un po’ la storia del mondo e del pensiero e coltiva la virtù del realismo non trova grandi novità in questo fenomeno. Ogni epoca ha prodotto le proprie vocazioni all’egemonia politica e gli strumenti intellettuali per cercare di imporle dissimulandole. Quel che appare inedito nell’odierno scenario è il prefigurarsi di una sola egemonia e, nel contempo, la capacità degli apparati culturali di porre da soli fuori gioco le potenziali insidie al suo dispiegarsi, senza che vi sia bisogno di ricorrere, se non in casi eccezionali,

all’impiego di mezzi coercitivi basati sulla forza fisica. Il sogno di un dominio perfetto basato sull’adesione costante e convinta dei governati alle decisioni dei governanti, coltivato con accanimento ma senza gli esiti sperati dai regimi totalitari, si approssima alla realtà. Perché possa fare ulteriori progressi sono necessarie però altre sperimentazioni; la fine della storia preconizzata da Fukuyama non è ancora dietro l’angolo e un certo numero di fattori di resistenza sono tuttora attivi. In epoca di globalizzazione delle comunicazioni e di contatti in tempo reale in ogni angolo della Terra, l’autentica egemonia non può che essere planetaria; le mentalità collettive devono essere influenzate ovunque dai medesimi paradigmi. È questa la filosofia su cui si fonda la predicazione dei “diritti dell’uomo”: un’unica specie, un unico modo di pensare e di comportarsi, un’unica religione civile senza una ben individuabile divinità ma con Tavole della Legge la cui infrazione destina ai più atroci castighi. Mosè regna in Occidente, il suo Dio è l’Occidente, e sinché qualcuno lo aiuta a tenere le braccia alte e ben tese, come ci assicurano i testi biblici, i suoi nemici saranno sterminati.

Il clima psicologico dell’emergenza è il terreno ideale per sperimentare le nuove capacità di espansione del progetto di occidentalizzazione del mondo, che dell’egemonia ideologica liberale è il veicolo; si spiega così perché dal 1989 in poi si siano moltiplicate le avventure belliche giustificate in nome dei valori occidentali e condotte con grandi sforzi di contenimento delle opinioni dissenzienti. Il crollo dell’impero sovietico, che per decenni aveva svolto egregiamente una funzione di legittimazione a contrario delle pretese di superiorità del modello di società liberale, rischiava di liberare le opinioni pubbliche dei paesi “occidentali” dai vincoli imposti dalla minaccia del Nemico e di indurle a chieder conto ai rispettivi regimi delle insufficienze, delle scelte errate, delle promesse tradite. C’era perciò bisogno di altre emozioni che ricompattassero e sviassero l’attenzion;, e nulla meglio di una guerra può assolvere a questo scopo. Da quando, in epoca moderna, si sono affacciati interrogativi sulla moralità dei conflitti bellici, le classi politiche che intendevano servirsene hanno sempre trovato validi argomenti per giustificarli, richiamando sempre in qualche maniera quell’idea di bene comune o di interesse nazionale che in politica interna ormai latita. Così è stato con le guerre del Golfo e del Kosovo, entrambe camuffate da operazioni di polizia internazionale per meglio assegnare all’avversario il ruolo del criminale e a se stessi quello dello sceriffo e organizzate in modo da rafforzare vecchie alleanze, promuoverne di nuove e ribadire al di là di ogni dubbio le gerarchie già stabilite in tempo di guerra fredda. In ambedue i casi, alle azioni militari – è difficile definirle scontri sul terreno, perché l’asettico diluvio aereo di bombe e missili evita la sgradevole sensazione di contatto fisico con le Forze del Male – si sono accompagnate massicce campagne di propaganda interna che hanno riproposto il compito dell’intellettuale come fiancheggiatore della politica, propalatore del Verbo e manipolatore delle coscienze.

II. Temi e registri della propaganda

Gli eventi scatenati dagli attacchi al World Trade Center e al Pentagono hanno proposto, con connotati ancor più marcati, lo stesso scenario. Sebbene in questo caso la guerra comunicativa non potesse essere predisposta in anticipo, la ben oliata macchina dell’informazione orientata al servizio degli interessi egemonici dell’unica superpotenza esistente ha funzionato, da subito, alla perfezione. Nessuna delle sconcertanti carenze messe in mostra da servizi segreti e apparati di sicurezza militare in occasione dei dirottamenti si è verificata in questo settore. Il nuovo episodio bellico è stato preparato, giustificato e gestito con competenza dai media dei paesi “occidentali”, che hanno dimostrato di avere ormai interiorizzato e automatizzato i codici che caratterizzano la propaganda atlantista: convergenza di temi e toni, sincronia nell’uso delle immagini ad effetto disponibili, insistenza martellante su alcune parole d’ordine. Il tutto, ovviamente, senza bisogno di direttive specifiche, il che fa capire quanto in profondità sia ormai giunta l’omologazione di contenuti e stili espressivi della stampa e dei circuiti adiovisivi di questa area del mondo: salvo debite, preventivate e tutto sommato utili eccezioni – che possono essere sbandierate per rivendicare il pluralismo dell’uno per cento contro il novantanove e dare maggiore forza all’effetto-plebiscito che impressiona il pubblico – i commentatori sospettabili di eterodossia erano stati preventivamente estirpati dalla scena pubblica e le “personalità” da invitare ai talk shows erano già selezionate, così come gli inviati nei luoghi caldi dell’attualità.

Questa efficienza degli strumenti deputati ad orientare e controllare l’opinione del pubblico, capaci di offrire un’immagine di compattezza che alimenta l’autocensura di chi pure coltiva dentro di sé qualche dubbio, ha tuttavia un risvolto che contrasta con le intenzioni di chi la assicura: producendo comportamenti seriali, ne consente facilmente l’individuazione e la catalogazione. Se ci fossero dosi sufficienti di anticonformismo in giro, permetterebbe critiche dei meccanismi di manipolazione delle coscienze attivi in contesti democratici ben più documentate e serie di quelle condotte in altri occasioni da sociologi e giornalisti d’inchiesta. Anche se c’è da dubitare che questa occasione verrà colta, una ricognizione degli argomenti impiegati dall’11 settembre in poi dai mezzi di comunicazione di massa per inquadrare gli eventi nella cornice gradita ai custodi dell’ideologia oggi egemone, accompagnata da una simmetrica confutazione di ciascuno di essi, può almeno aiutare a sgombrare il campo dagli equivoci e a mantenere in vita una prospettiva antagonista nei confronti di chi gestisce gli apparati di propaganda oggi dominanti e di chi riscuote i frutti della loro azione.

È dunque a quest’opera di individuazione e discussione che qui ci dedicheremo.

 

II.1 La psicosi.

Era inevitabile che gli attacchi sanguinosi dell’11 settembre sollevassero un’ondata di forti emozioni, estese dall’orrore alla pietà. Questi spontanei ed ovvi stati d’animo sono stati però da subito indirizzati verso una psicosi collettiva da estrapolazioni e giudizi privi di fondamento oggettivo. Il primo Leitmotiv usato a tale scopo è stato quello del “nulla sarà mai più come prima”[i]. Le cose non stanno ovviamente così: il duro colpo psicologico subìto dagli Usa, mai prima di allora seriamente attaccati sul proprio territorio e perciò convinti di essere destinati al dominio anche perché invulnerabili, non ha cambiato il mondo, così come non l’hanno stravolto gli innumerevoli precedenti di stragi, attentati e genocidi – incluso il colossale massacro della popolazione autoctona compiuto dai coloni immigrati negli odierni States. Ma è opportuno regolare sui toni più alti il registro dell’indignazione. Ecco allora l’enfasi sulle proporzioni della perdita di vite umane dovuta alla distruzione delle Twin Towers: nei primi giorni si avanzano cifre valutabili in decine di migliaia, poi ci si stabilizza sulle 6-7.000 e il bilancio più realistico del “New York Times” che le dimezza è riportato con la minima evidenza dagli organi di stampa[ii]. Ecco le pagine dei giornali riempirsi, ogni giorno, di fotografie a colori delle vittime e dei soccorritori – privilegio mai toccato in passato alle vittime dell’odio e del terrore di cui le cronache abbondano. Ecco i continui interventi di psicologi e psichiatri per mettere in guardia sui traumi che potrebbero scuotere i bambini alla ripetuta visione dell’impatto degli aerei con le torri (che invece è da molti di loro percepito come una bizzarra scena da videogame) Ed ecco soprattutto l’insistenza su una presunta – e falsa – debolezza del paese “sotto attacco”, l’incitamento ad aiutare il gigante ferito, quasi che non fosse il paese più potente della Terra da ogni punto di vista, la sottolineatura di una sua fantasmatica debolezza volta a celebrarne qualche giorno dopo la “miracolosa” resurrezione, frutto non già, come è nei fatti, dell’enorme disponibilità di risorse d’ogni genere, praticamente intaccate dagli aerei omicidi, ma di una ineguagliabile granitica forza d’animo, inarrivabile per i comuni mortali che abitano le flaccide periferie dell’Occidente.

Nell’operazione massmediale hanno naturalmente un ruolo di primo piano le vittime. Tante, non c’è dubbio. Ma, orwellianamente, “più uguali” delle moltissime altre che guerre e attentati seminano in altri paesi: sono, in questo caso, “bambini, mamme, lavoratori, casalinghe” (Gianni Riotta, “Cds”, 13.9.), non “palestinesi” o “iracheni” o “cingalesi” e “tamil” come d’abitudine. Chi non si commuove a sufficienza davanti alla loro morte e non ne trae pubblicamente le dovute conseguenze politiche è fustigato dai conduttori dei programmi televisivi con parole di fuoco; ma è uno spettacolo ipocrita. Gli addolorati intellettuali del fronte occidentale non provano eguale tristezza per i morti altrui e fanno passare per vittime del bellicismo del dittatore di Baghdad i bambini uccisi in Iraq dall’embargo statunitense o le decine e decine di migliaia di caduti, spesso civili, prodotti dai raids aerei Usa nei più disparati angoli del mondo (Grenada, Panama., Iraq, Jugoslavia, Somalia, Sudan…). Meglio, allora, il cinismo di chi ammette senza tanti fronzoli che le vittime fatte in nome delle cause Giuste sono tutt’altra cosa rispetto alle altre, scrivendo che “Durante la seconda guerra mondiale le città di Germania e Italia furono colpite per giorni, mesi, anni: l’obiettivo era di sconfiggere i regimi di Mussolini e Hitler. Il prezzo sono state centinaia di migliaia di vittime civili. Ma i dittatori sono caduti e le ferite si sono rimarginate grazie alla democrazia”[iii]. Questo sì è un bel parlare da liberali: ad obiettivi e ruoli invertiti, non c’è dubbio che Hitler e Stalin avrebbero sottoscritto il ragionamento. Del resto, per giungere allo scopo non ci si possono fare troppi casi di coscienza. Si può sostenere, come fa Paolo Mieli nelle sue risposte ai lettori del “Corriere della Sera”, che è illecito condannare lo sterminio di civili di Dresda, perché ha prodotto salutari effetti bellico-politici, o stravolgere il senso della misura come fa Giovanni Sartori, che giudica lo schianto delle Twin Towers “Hiroshima due; ancora un inedito, e un inedito ancora più terrorizzante di Hiroshima”[iv]. E sono, si badi, le voci di due intellettuali liberali solitamente equilibrati…

 

II.2 Il travisamento delle cause e la manipolazione degli effetti

La decontestualizzazione dei tragici eventi dell’11 settembre ha un ruolo essenziale nella strategia dei media acquisiti alla causa dell’“Occidente”. I piloti degli aerei del terrore non vengono dal nulla. I loro non sono gesti terroristici, ma azioni di guerra. Di una guerra non convenzionale, che comporta costi elevati fra i civili, come sanno molto bene gli inventori dell’espressione “danni collaterali” applicata a iosa in Iraq e in Kosovo. Dell’unico tipo di guerra – disumanizzata – che è possibile condurre contro paesi la cui potenza tecnologica militare è sproporzionata rispetto alle possibilità degli avversari. Gli attentati e le congiure hanno sempre fatto parte delle guerre di liberazione e di indipendenza, e un paese che celebra nelle cerimonie pubbliche e sui libri di testo la Carboneria e il Risorgimento non dovrebbe dimenticarlo troppo in fretta. Nel caso di cui ci occupiamo, la causa dell’esplosione di violenza “terrorista” è il ruolo che gli Stati Uniti svolgono da decenni in Medio Oriente a difesa non della libertà (il Kuwait è uno dei paesi meno democratici al mondo, privo di libere elezioni e di istituzioni rappresentative) ma dei propri interessi politici ed economici, senza riguardo per le aspirazioni alla giustizia e all’indipendenza dei popoli della zona, palestinesi in testa.

Sono in pochissimi a ricordarlo, nel clima di oscuramento massmediale delle opinioni controcorrente, ma le loro parole sono davvero pietre. “Le azioni di questi uomini sono atroci, ma non sono gratuite, sono atti di guerra, una guerra che da tempo non è più quella cavalleresca”, scrive Tiziano Terzani, aggiungendo: “Da tempo ormai si combattono con mezzi e metodi nuovi guerre non dichiarate, lontano dagli occhi del mondo che si illude oggi di vedere e capire tutto solo perché assiste in diretta al crollo delle Torri Gemelle. Dal 1983 gli Stati Uniti hanno bombardato a più riprese nel Medio Oriente paesi come il Libano, la Libia, l’Iran e l’Irak. Dal 1991 l’embargo imposto dagli Stati Uniti all’Irak di Saddam Hussein dopo la guerra del Golfo ha fatto, secondo stime americane, circa mezzo milione di morti, molti dei quali bambini a causa della malnutrizione. Cinquantamila morti all’anno sono uno stillicidio che certo genera in Irak e in chi si identifica con l’Irak una rabbia simile a quella che l’ecatombe di New York ha generato nell’America e di conseguenza anche in Europa. Importante è capire che fra queste due rabbie esiste un legame”[v].

Sì, sarebbe importante capirlo. Ma gli intellettuali liberali non lo capiscono perché non lo vogliono capire, e i mezzi di comunicazione da loro influenzati propongono, spesso con toni da cinegiornali Luce, tutt’altro scenario. Ha un bello scrivere, l’islamista Bruno Etienne, che “gli americani hanno prodotto nel mondo un notevole capitale di odio da quando sono soli, cioè dopo la fine della bipolarizzazione” e che “quest’odio si è sviluppato soprattutto – ma non solo – nel mondo arabo-musulmano” giacché gli statunitensi sono “aborriti e detestati a causa del loro appoggio ad Israele e della loro presenza nei luoghi dell’Islam dopo la guerra nel Golfo”[vi]. Nessuno, nelle redazioni giornalistiche, lo ascolta. Sulle prime pagine dei quotidiani di più paesi, con spettacolare simmetria, domina il titolo “Siamo tutti americani”, che dà il là ad un monocorde concerto propagandistico di proporzioni senza precedenti.

Ogni argomento, ma anche ogni sotterfugio, è buono per cancellare il rapporto causa-effetto esistente tra la sanguinosa oppressione dei palestinesi e l’altrettanto cruento 11 settembre (un altro “settembre nero”). Si specula sulle “inqualificabili manifestazioni di giubilo” nelle strade di Ramallah, senza che sia mai stata profferita una parola sull’entusiasmo da yankee stadium con cui negli Usa vennero accolte nel 1991 le immagini televisive dell’ecatombe provocata dai good guys con le bombe scaricate a tonnellate sul corteo di soldati e civili iracheni in ritirata sull’autostrada per Bassora. I Lerner che fremono di sdegno nel pensare ai profughi disperati che gioiscono per il danno inflitto al potente protettore del loro nemico si guardano bene dal commentare con gli stessi toni le parole dell’“esperto di sicurezza” israeliano che pubblicamente si pente “di non aver ucciso Arafat” o quelle del pilota di aereo che confessa di sentirsi, quando sgancia il suo carico di ordigni mortali, “come un giocatore di football durante la finale del Superbowl”. Questi sono sfoghi di amici, di alleati. Da biasimare sono gli altri, quelli che per il solo fatto di ricordare le colpe di cui gli Usa si sono macchiati agli occhi delle popolazioni arabe entusiaste di Bin Laden vengono accusati di mettere terroristi e vittime sullo stesso piano[vii]. Fa parte della medesima strategia l’ossessivo concentrarsi dei media sull’attacco alle Twin Towers piuttosto che su quello, simbolicamente non meno rilevante, al Pentagono. La ferita inferta al centro simbolico del loro strapotere militare brucia molto di più agli States perché è la sferzante prova di un’impreparazione militare insospettabile, e va richiusa in fretta, tanto più che l’opinione pubblica internazionale non appare propensa ad esprimere la medesima simpatia provata per i morti “innocenti”[viii] dei due grattacieli verso chi è rimasto ucciso nella Mecca dei “falchi” di Washington, indefessi pianificatori di operazioni belliche.

L’occultamento delle reali motivazioni dell’attacco serve tuttavia soprattutto a un altro scopo: far circolare l’idea che esso non sia un atto ostile specificamente diretto – per ben individuabili ragioni – contro gli Stati Uniti d’America, che ovviamente sono legittimati a rispondergli con contromisure adeguate senza però aver titolo a coinvolgere nella loro guerra paesi terzi, bensì una dichiarazione di guerra ad un aggregato più vasto di cui gli Usa sarebbero la punta avanzata ed emergente. Dalla distorsione dello scenario in cui gli attentati sono avvenuti si passa quindi alla manipolazione dei loro effetti.

 

II. 3 Dagli Usa all’Occidente

È un “non addetto ai lavori”, il cantautore Franco Battiato, ad indicare con maggiore chiarezza i contorni di questa operazione fuorviante. “Vedo un’equivoca rincorsa a disinformare”, dichiara in un’intervista. Lo fanno i talebani “e lo fanno gli Usa, con l’efficienza dei loro uffici-stampa, per cui è passata la tesi di un attacco all’Occidente. No, questo è stato un attacco all’America. Che doveva aspettarselo […] Tutti i morti ci riguardano, purché non si usi il criterio dei due pesi e due misure […] Vorrei che le vittime innocenti degli attentati di New York valessero quanto le innocenti vittime irachene di un embargo ormai insensato. […] Perché [c’è] l’America nel mirino? Chi ha fatto crescere a proprio vantaggio le immense riserve di miseria e odio etnico o pseudoreligioso, che sono esplose l’11 settembre?”[ix]. Battiato ha ragione, ma i bambini iracheni uccisi non possono valere, per la cultura liberale, quanto quelli statunitensi. I primi possono essere presentati dal direttore del più venduto quotidiano italiano, con disprezzo della verità, come “affamati sì, ma per colpa di Bagdad e del suo tiranno”[x] a una platea condizionata da lustri di educazione al pregiudizio filoamericano. I secondi diventano strumento della strategia che sta a cuore alle classi dirigenti atlantiste: lo sfruttamento degli eventi per un ennesimo giro di vite nel rapporto di sudditanza che l’Europa ha nei confronti della potenza d’oltreoceano.

Date le premesse politiche e culturali di questa dipendenza, cementate da anni, la traduzione in una linea di commento comune all’immediato indomani dell’11 settembre non richiede sforzi particolari: è il frutto di un riflesso condizionato. Lo spartito è quello della solidarietà incondizionata. Dimenticato l’imbarazzo che non più di due giorni prima aveva colto il Parlamento e la Commissione dell’Unione Europea alle prese con la rete spionistica Echelon, dimostrazione lampante di come gli Usa siano consapevoli di avere interessi in prospettiva divergenti da quelli del Vecchio Continente e non esitino ad utilizzare qualunque metodo pur di nuocere ai potenziali rivali, editorialisti e conduttori televisivi fanno a gare per convincere chi li legge o li ascolta che il “siamo tutti americani” va inteso nel senso più letterale: spetta a noi combattere anche le loro guerre e farci carico dei problemi da loro sollevati. Il complesso di colpa tenacemente coltivato da decenni (“sono stati gli americani a salvarci dallo spettro delle dittature nere e rosse”) ha libero sfogo e la retorica del “mondo libero”, smentita da una lunga tradizione statunitense di sostegno a tutti i tiranni compiacenti sparsi nel globo, torna ad avere ampio corso.

L’offensiva è immediata. Già il 12 settembre si legge che “nel mirino di menti diaboliche siamo anche noi con i nostri valori”. Ancora non si sa chi abbia dirottato e lanciato sui bersagli gli aerei; rivendicazioni non ce ne sono state e il sospetto di larghe complicità interne è perlomeno plausibile, ma si parla senza cenni di dubbio di “un attacco a tutto l’Occidente”, spingendosi a sostenere addirittura che “non è retorico George Bush quando parla di “guerra alla libertà””[xi]. Si taccia il “nuovo nemico dell’Occidente” di nichilismo e si afferma che il suo “unico obiettivo” è “la nientificazione di una civiltà da cui si sente umiliato e che gli sta davanti, con la forza della sua ricchezza, del suo progresso tecnico, economico, politico”[xii]. “Vogliono indebolire quella comunità etica e politica chiamata Occidente”[xiii], scrive un editorialista che da subito ha tirato fuori le tesi di Huntington per interpretare lo scenario che si è appena delineato. Sono le avvisaglie del tema della “superiorità occidentale”, che non serve tanto ad umiliare gli arabi o il Terzo Mondo quanto a tenere in riga gli europei e a farli sentire infinitamente piccoli di fronte ai grandiosi States e dunque obbligati a seguirli per trarre esempi e benefici dal loro orgoglio, riscattandosi almeno in parte dal peccato di non averne saputo seguire degnamente le orme. Argomentazione espressa efficacemente sul registro nevrotico dell’invettiva viscerale da Oriana Fallaci e su quello furbesco del “dico e non dico” da Berlusconi, secondo le rispettive inclinazioni caratteriali dei due personaggi. Per perseguire il risultato, anche in questo ambito non si risparmia sulle esagerazioni. Sono passate poche ore dagli attacchi ma già l’“esperto antiterrorismo” di Fbi e Cia paventa attacchi all’Europa diretti contro il Colosseo o la Tour Eiffel e parla di armi chimiche o batteriologiche[xiv].

Nei giorni successivi, con il sostegno della potenza suggestiva dell’immagine, l’idea di un’inevitabile fusione dei destini europei e nordamericani viene diffusa a ritmi martellanti. L’alzabandiera dei pompieri davanti alle macerie del Wtc si trasforma nella replica aggiornata della classica icona dell’invincibilità americana, la plastica infissione della bandiera a stelle e strisce nel suolo di Iwojima. La sindrome alla Giuliano Ferrara del trapianto in un patriottismo altrui per dimenticare l’incapacità di coltivarne uno proprio – che comporterebbe per forza di cose almeno un senso di alterità, se non di contrapposizione, rispetto agli Usa – affonda qui le sue radici. L’isolazionismo americano, che dovrebbe essere auspicato di tutto cuore da cittadini europei che abbiano a cuore il proprio futuro di indipendenza e benessere in tempi in cui non esiste più traccia di guerra fredda e la Russia si profila sempre più come un potenziale alleato e non certo come un nemico, viene agitato come uno spauracchio. L’insopportabile infantile retorica di cui sono tradizionalmente infarciti i discorsi dei presidenti americani nelle occasioni solenni è spacciata per virile attestato di forza e saggezza. I cori “Usa! Usa!” che risuonano di continuano attorno a una qualunque arena sportiva in cui un american boy affronta i rappresentanti del resto del mondo vengono trasfigurati in prove di uno stato d’animo indomito e – chissà poi perché – solidale con i fratelli sperduti sull’altra costa dell’Atlantico. E sullo sfondo si profilano, infami e minacciosi, i volti dei nuovi Barbari.

 

II. 4 Scontro di civiltà?

A chi ne avesse mai dubitato, l’atteggiamento dei media “occidentali” dopo l’11 settembre offre la riprova che per i liberali, né più né meno che per gli adepti delle ideologie concorrenti alla loro, la politica, quando viene presa nella sua essenza, si riduce alla contrapposizione tra Amico e Nemico. Poche volte si è sentito parlare di inimicizie assolute risolubili solo con la forza, di forze del Bene in lotta contro quelle del Male, di civiltà minacciata dalla barbarie come è avvenuto dopo gli eventi di Washington e New York. Ad onta delle prescrizioni dei manuali di scienza politica, la democrazia statunitense, spalleggiata dagli alleati, ha scelto di parlare il linguaggio tipico dei regimi totalitari: propaganda a cascata, autoincensamento e designazione di un nemico sempre meno specifico e sempre più oggettivo, mobilitazione dall’alto delle masse, denigrazione degli antipatriottici seminatori di dubbi, istigazione a moltiplicare i controlli degli atti della vita privata. Il segretario alla difesa Rumsfeld non si è fatto scrupolo di richiamare in più occasioni l’ipotesi dell’uso della bomba atomica. Contando sullo spartito dello “scontro tra le civiltà” fornitole anni fa da Samuel Huntington – politologo acuto ma da sempre portato ad accordare le proprie riflessioni con gli interessi dei centri di potere strategico statunitensi, al punto da farsi difensore alcuni decenni orsono dei regimi comunisti del Terzo Mondo in quanto elementi di stabilizzazione di un quadro internazionale in cui gli Usa potevano meglio coltivare i propri interessi – la fanfara della superiorità occidentale ha suonato a pieno ritmo.

Politici e intellettuali si sono spartiti i compiti. Ai primi è toccato di saldare una coalizione che avallasse la tesi della minaccia terroristica planetaria grazie soprattutto al sostegno dei paesi musulmani – alcuni dei quali sono stati di colpo promossi al ruolo di “moderati”, in un gioco di vorticosi travestimenti in cui golpisti alla Musharraf diventavano governanti oculati e raccomandabili e all’Alleanza del Nord afghana si tagliavano i panni dell’esercito pacificatore. I secondi hanno spianato il terreno all’accettazione della guerra da parte dell’opinione pubblica dei rispettivi paesi proseguendo sulla falsariga della demonizzazione degli avversari che già aveva dato ottimi frutti con Saddam Hussein e Milosevic. Osama Bin Laden e i talebani hanno dunque preso posto accanto alle altre figure di spicco della galleria degli orrori antioccidentale e l’epiteto “barbaro” ha ripreso a risuonare.

L’operazione si sta tuttora svolgendo su più livelli. Per impressionare la massa dei disinteressati alle vicende politiche si punta su argomenti ad effetto, come la responsabilità dei governanti afghani nella coltivazione e nel commercio dell’oppio, dimenticando di dire che queste lucrose occupazioni esistevano ben prima che i Talebani prendessero il potere, che non vi è alcuna prova che Al Quaida ne tragga finanziamenti e che a consumare le droghe derivate dai papaveri sono milioni di giovani che vivono nella paradisiaca società occidentale, prodiga di libertà, diritti, tecnologia e benessere, e non dovrebbero dunque avere motivo alcuno per abbrutirsi con gli stupefacenti diffusi dai nuovi barbari per i loro perfidi scopi. Per i più impegnati ci sono spiegazioni un po’ più raffinate. Una rimane sul piano complottistico e spiega il “terrorismo globale” come manifestazione di un progetto politico destabilizzante che ha menti e braccia negli “Stati canaglia” tanto invisi all’amministrazione di Washington. Fin dall’inizio, gli uomini legati ai servizi segreti americani hanno spinto verso questa lettura dei fatti, senza nasconderne più di tanto le finalità. “Se saltasse fuori che [negli attentati] è coinvolto uno Stato, tutto diverrebbe più sem,plice” ha dichiarato Marvin Cetron, autore per conto di Fbi e Cia del rapporto Terrorismo 2000[xv] Il nome più citato come Grande Vecchio è ovviamente quello di Saddam Hussein, con cui da tempo i nordamericani vorrebbero fare i conti. Già il 13 settembre l’europarlamentare Jas Gawronski, che degli ambienti politici e finanziari legati all’amministrazione statunitense è un frequentatore di lunga data, dà il proprio contributo alla causa scrivendo che “è possibile pensare che Saddam abbia compattato e usato le forze antiUsa per lanciare una Jihad mondiale”[xvi]. Molti, di qua e di là dall’oceano, lo seguiranno: in caso di scarso successo in Afghanistan, il puntamento delle accuse e poi del mirino dei bombardieri sull’Iraq consentirebbe di evitare una brutta figura militare, acquietare i furori dell’uomo della strada e trovare un capro espiatorio ad hoc. Altre figure minori, da Gheddafi in giù, potrebbero in seguito servire a completare l’opera.

La parte del leone in questa strategia la svolge però il tema del conflitto di civiltà, attraverso il quale tutte le pulsioni xenofobe o semplicemente le diffidenze verso l’Altro delle popolazioni toccate dall’immigrazione di massa dal Terzo Mondo, per anni censurate in pubblico e coltivate silenziosamente in privato, scaricandole al massimo in momenti di particolare tensione nel voto per i partiti populisti, sono libere di prendere corpo e di saldarsi con le più colte lezioni degli accademici al servizio permanente, remunerato o gratuito, della causa atlantista. I ragionamenti dei pochi studiosi del mondo islamico disposti a prendere la parola malgrado la dichiarata disapprovazione della “società dei colti” per sostenere che l’islamismo radicale è una reazione all’aggressiva occidentalizzazione dei paesi arabo-musulmani e che sarebbe bene smettere di contrapporre Occidente e Islam perché “gli arabi sono occidentali” e “l’Oriente comincia con l’India”, o per denunciare che gli americani “parlano come Bin Laden” quando sostengono che “Dio è con noi, poiché noi sappiamo quello che è giusto e buono e lottiamo contro il Male. In God we trust”[xvii], restano isolate. La vulgata degli “uomini di idee” recita altri copioni e mira a un bersaglio molto ampio. Distingue sì i fondamentalisti dagli altri seguaci dell’Islam, ma insiste sulla possibilità che i primi contaminino i secondi dando avvio ad un processo che di fatto insidierebbe l’“Occidente” dall’esterno e dall’interno.

La convinzione che la civiltà dell’Occidente sia superiore a tutte le altre, e in particolare a quella islamica, è sottaciuta dall’ala progressista dello schieramento intellettuale filoamericano, ma trova sfogo sul versante conservatore. La esprime ad esempio Giovanni Sartori quando sottolinea che quella occidentale “è la civiltà che ha conseguito più di ogni altra la “buona città”, la città politica più umana, più vivibile, più libera, più aperta di ogni altra”[xviii] (ovviamente, assumendo come parametri di umanità, vivibilità, libertà, apertura i valori dell’Occidente: il che crea una perfetta tautologia: “buona” è, per l’occidentale, la propria civiltà, né più né meno di quello che pensano, con riferimento alle loro, coloro che sono nati e cresciuti in contesti culturali diversi). Ma se ne fa portavoce soprattutto chi, come Angelo Panebianco, definisce la convinzione che non esistano metri unici in base ai quali stabilire gerarchie fra le civiltà – e cioè il relativismo culturale – “il principale alleato di Bin Laden e Soci in Occidente, la loro più preziosa quinta colonna, un malanno di cui l’Occidente soffre da decenni”[xix]. Il ragionamento che sta dietro a una simile affermazione è nitido: se le persone hanno pari dignità (negarlo sarebbe negare uno dei principii formalmente sacri al liberalismo), non così è per le culture, le religioni e le civiltà, cioè per le anime degli aggregati umani. L’ostilità dei seguaci dell’ideologia liberale per tutto ciò che esula dalle coordinate dell’antropologia individualistica è aperta: “l’errore logico consiste nel pensare che quanto vale per gli individui debba necessariamente valere anche per gli aggregati culturali. Il relativismo culturale è una degenerazione del principio di tolleranza inscritto nella democrazia liberale”[xx], un principio che evidentemente autorizza a tollerare soltanto i comportamenti previsti e/o prescritti dalla superiore cultura che lo esprime, creando di fatto discriminazioni fra individui di diversa categoria (da trattare diversamente, proibendo loro – se è il caso – di conservare tradizioni e abitudini non gradite ai custodi della civiltà “superiore”). E, nel contempo, come vedremo se lo stato di tensione e di guerra si protrarrà, normalizzando l’intolleranza verso chi osa attingere alle ricchezze dei paesi “occidentali” trasferendovi domicilio e forza-lavoro ma non è disposto a spogliarsi, in cambio, dell’identità che nascita ed educazione gli hanno trasmesso.

 

II. 5 Come imporre la guerra degli Usa

 Il rifiuto di riconoscere pari dignità alle culture diverse da quella americanomorfa ormai dominante in Europa e i ritorni di fiamma di un orgoglio tardocolonialista hanno una ben precisa finalità: convincere che uno scontro di civiltà è di fatto già in atto e che chi appartiene al mondo che si autodefinisce civile “non può oggi proclamarsi neutrale senza diventare complice della barbarie”[xxi]. E, dunque, fare della guerra che gli Usa combattono, legittimamente, per la difesa della propria sicurezza e dei propri interessi, il conflitto tra il sedicente “mondo libero” e i suoi nemici.

Per ottenere questo risultato, le truppe dell’intendenza intellettuale devono imprimere nella mente del pubblico alcune idee schematiche: a) gli Stati Uniti d’America sono il paese in cui meglio sono coltivati e difesi i valori del Bene e della Giustizia; b) quei valori sono, o dovrebbero essere, anche i nostri valori: degli europei, dei giapponesi, degli australiani, dei latinoamericani, domani – chissà – anche dei cinesi convertiti da Wall Street; c) la civiltà superiore guidata dagli Usa è incompatibile con quella islamica, che dal suo seno ha partorito la grave minaccia fondamentalista; d) tale minaccia è ormai in grado di attentare alla sicurezza di tutti i paesi dell’ecumene occidentale e dunque va estirpata immediatamente.

Almeno tre di queste proposizioni sono, oltre che false, difficili da diffondere universalmente. Molti hanno sotto gli occhi le ingiustizie che caratterizzano la società americana, l’egoismo, il materialismo, l’incosciente e distruttivo consumismo che ne innervano lo stile di vita medio, l’arroganza e il disprezzo per gli interessi e i valori altrui a cui gli Usa ispirano la loro politica estera, e non desiderano che i propri paesi diventino, con un ulteriore atto di sudditanza, dei cloni degli States. Sanno, inoltre, che l’ostilità degli islamisti radicali si è rivolta, sino all’11 settembre ed oltre, contro la politica nordamericana e non contro altri soggetti. Solo con una insistente campagna di suggestione che configuri nell’Islam il potenziale nemico assoluto dell’Occidente gli altri messaggi connessi possono passare, e soprattutto può essere deviata l’attenzione dal nodo centrale della questione: l’assoluta inesistenza di un’identità comune – di valori e di interessi – fra Europa e Usa.

Ciò non significa, ovviamente, che non vengano spesi argomenti anche sugli altri fronti dell’offensiva filoamericana; ma sono armi di scarso impatto, che gli intellettuali della destra conservatrice, nerbo della campagna in difesa degli interessi americani, seminano giusto per accrescere il clamore dell’avanzata. Sergio Romano può scrivere che il “semplice eroismo dei poliziotti e dei pompieri” rende impossibile “parlare, a proposito dell’America, di materialismo, egoismo, edonismo”[xxii]. Galli della Loggia può spingersi persino oltre affermando che “gli Usa sono l’unico Paese cristiano dell’occidente. L’unico che può rispondere alla guerra santa con una guerra santa […] Quando in questi giorni mi capita di accendere la tv e seguire i servizi dagli Stati Uniti vedo folle che pregano con la mano sul cuore e gli occhi bassi”[xxiii]. Ma, se non bastassero le prove offerte quotidianamente da decenni dall’osservazione dell’azione statunitense nel mondo, sarebbe sufficiente una sola frase pronunciata da George W. Bush durante la crisi – “Non lancerò un missile da due milioni di dollari contro una tenda da dieci dollari nel deserto per colpire solo la gobba di un cammello”[xxiv] – per smentire tutte queste fole interessate sul vero “animo” della società nordamericana.

Quel che conta, quindi, per vincere la partita dell’opinione pubblica europea è la creazione di nemici ben identificabili contro cui appuntare l’indignazione e la voglia di reazione dell’uomo comune.

Il Nemico esterno è l’Islam. Ufficialmente non tutto, solo la sua componente integralista, perché il sostegno o la benevola neutralità di regimi islamici sono indispensabili alla buona riuscita della guerra degli Usa. Ma sotto l’apparenza è al bersaglio grosso che si mira, allo sfruttamento dei plurisecolari e non del tutto infondati motivi di diffidenza verso gli Stati mediorientali e le loro popolazioni per convincere che, se scelta ha da essere perché il mondo altrimenti andrà a fuoco, è più sensato stare dalla parte degli ipervitaminizzati e prevalentemente, almeno per ora, bianchi americani che da quella degli arabi brutti, sporchi, infidi e cattivi. Buttare la questione in disputa storico-teologico-culturale, come stanno facendo i pochi difensori che l’Islam ha trovato in Europa, serve a poco o nulla per arginare questa campagna, perché l’immagine che la sorregge non è quella di Avicenna, di Averroè, dei dotti sufi o del Saladino, di cui gli habitués del telecomando nulla sanno, ma quella dello spacciatore di droga maghrebino oppure quella ascetico-fanatica di Bin Laden, capace di indurre persino un Massimo Cacciari a farsi sostenitore dell’adesione italiana alla guerra stars and stripes.

La questione che conta, e che va messa in evidenza per svelarne l’incongruenza con l’interesse dell’Europa, è quella che, ancora una volta, è rivelata con l’abituale cinica franchezza da Huntington. Il politologo non si fa scrupolo di sostenere che a muovere Bin Laden e i suoi è il risentimento contro i governi arabi in carica e gli Stati Uniti, in cui gli Stati europei non sono minimamente coinvolti. Ammette anche che nelle loro guerre gli Usa hanno sempre di mira i loro interessi materiali (“Nella Guerra del Golfo non potevamo consentire all’Iraq di prendere il controllo esclusivo della maggior parte delle riserve mondiali di petrolio”). Ma poi dà una lettura della situazione che rende trasparente l’uso che la superpotenza intende farne: “Prima dell’11 settembre, l’Europa e l’America si muovevano separatamente su una serie di questioni, dai cibi transgenici alla difesa missilistica, all’esercito europeo. Gli avvenimenti dell’11 settembre hanno cambiato totalmente questo stato di cose. Dopo gli attacchi terroristici alcuni quotidiani europei hanno titolato “Siamo tutti americani”. In questo senso, davvero Osama Bin Laden ha restituito all’Occidente un’identità comune”. Su questa base, il processo di egemonia deve raggiungere altre tappe: “Gli Stati Uniti devono incoraggiare l’“occidentalizzazione” dell’America Latina e contenere la lenta deriva del Giappone che si allontana dall’Occidente e tende a un avvicinamento con la Cina […]L’Occidente deve mantenere la propria superiorità tecnologica e militare sulle altre civiltà”[xxv].

La riuscita della strategia dell’occidentalizzazione forzata comporta il ricorso alla guerra contro il nemico esterno ma anche la “ripulitura delle retrovie” con l’annientamento del nemico interno: il dissenso. Bersaglio che può essere meglio colpito se gli si incolla un’etichetta negativa: antiamericanismo. Mai serenamente tollerate dagli intellettuali liberali, le critiche alle scelte politiche degli Stati Uniti, al loro modello di società o ai princìpi che ne definiscono la mentalità collettiva sono diventate negli ultimi tempi una sorta di reato di opinione meritevole dei più severi castighi. “Troppo larga è stata la tolleranza verso un anti-americanismo ideologico che nulla ha in comune con il diritto di critica”, scrive un editorialista del “Corriere della Sera” all’indomani dell’attacco al Pentagono e alle torri gemelle[xxvi]. Che questo “nulla in comune” lo stabilisca in esclusiva il giornalista autore della fatwa pare pacifico. Non è una novità: già il borgomastro antisemita della Vienna d’inizio secolo dichiarava “ebreo è chi dico io”; i suoi eredi liberali applicano il medesimo canone ad altri soggetti: essere (o essere giudicati) antiamericani non è una questione di opinioni, è un reato. Perché? Ce lo spiega Barbara Spinelli: l’anti-americanismo è “l’humus che alimenta i violenti”[xxvii]. Un’idea sovversiva, come quelle messe fuorilegge nei paesi autoritari e totalitari. Peggio: per Panebianco è, come abbiamo visto, la più preziosa quinta colonna di Bin Laden, che “bisognerà attrezzarsi per neutralizzare”, naturalmente “con la parola, con la persuasione”[xxviii]. O non piuttosto con la negazione del diritto alla parola? Questa ipotesi è più probabile, dal momento che, essendo i “sentimenti di rivincita contro gli americani, contro l’Occidente ricco e democratico” estesi ma “cova[ti] sotto la cenere delle parole”, “passioni inconfessabili [che] si tacciono in pubblico, ma si coltivao in privato”[xxix], il processo alle intenzioni e l’attribuzione alle affermazioni dei sospetti di significati occulti non diventa tanto lecito quanto piuttosto doveroso. Il maccarthysmo è sempre in ottima salute.

Di qui alla negazione del diritto di critica, c’è molto meno di un passo. Che negli Usa è già stato fatto. Ne è stato vittima Bill Maher, animatore di un talk show sulla rete Abc, messo al bando per “aver sostenuto che non è “codardo” chi si butta con un aereo contro un grattacielo ma chi sgancia un missile Cruise da duemila metri. […] Come primo risultato, gli sponsor hanno ritirato i contratti pubblicitari e i ripetitori locali hanno oscurato la trasmissione. Ari Fleischer, portavoce di Bush, commentando il caso, ha avvisato “tutti gli americani: attenti a quello che dite e a quello che fate, non è il momento per sortite del genere”[xxx]. Colpiscine uno per educarne cento, scrivevano sui volantini le Brigate Rosse vent’anni orsono. Il paese-faro dei liberali di tutto il pianeta ne ha recepito la lezione. Tanto più che l’accusa di antiamericaismo diventa il pretesto per criticare, in versione conservatrice, l’intero movimento antiglobalizzazione (che si è difatti subito azzittito) e, in versione progressista, gli “stili di vita reazionari” di chi non coltiva giorno e notte con la dovuta intensità l’american dream.

 

II. 6 La pura e semplice mistificazione

Naturalmente, l’esibizione di argomenti, per fallaci che siano, ha preso di mira solo i possibili oppositori provvisti di un retroterra culturale. Al grande pubblico, gli apparati della comunicazione hanno riservato lo spettacolo, il grand guignol, che ha del resto occupato gran parte della programmazione in argomento. È difficile contare tutte le false piste – le “informazioni” di pura fantasia, le illazioni, le controverità – che sono state seminate nella mente della gente comune: una quantità impressionante. Si è cominciato subito con il “complotto svelato”, gli arresti di sospetti arabi trovati in possesso di divise da pilota d’aereo a Boston: tutte notizie rivelatesi infondate. Si è continuato con le veline allarmistiche dei servizi segreti su imminenti e mai verificatisi attacchi ai “centri religiosi” europei. Poi sono venute le piste finanziarie, le quotidiane scoperte di casseforti di Alì Babà Bin Laden sparse per ogni dove, ogni volta discretamente smentite. Quindi si è passati alla previsione di guerre chimico-batteriologiche planetarie con “attacchi chimici dal cielo su Usa ed Europa”[xxxi], avveratasi molto parzialmente negli Usa con la vicenda sconcertante delle lettere all’antrace, così poco efficaci e così tanto probabilmente provenienti da laboratori americani da non poter essere neppure attribuite al nemico pubblico numero uno. Per accreditare la psicosi tatticamente indispensabile dell’attentato islamico in Europa si è persino cercato di sfruttare l’esplosione di una fabbrica di prodotti chimici a Tolosa – ennesimo esempio dei benefici effetti del capitalismo avanzato sull’ambiente e sul benessere dei cittadini – e si sono fatti passare per aspiranti bombaroli muniti di sofisticate piante topografiche cinque immigrati afghani che passeggiavano ad alcune centinaia di metri dal Vaticano, fermati per alcune ore, citati in tutti i telegiornali e le prime pagine dei quotidiani a riprova dell’incombente pericolo fondamentalista islamico e quasi subito rilasciati con tante scuse.

In attesa dei bombardamenti, si è passati ai diversivi edificanti, con il grafologo che sulla base dell’analisi delle rispettive firme giudica Bush “deciso” e Osama “depresso” e una torma di medici disposti a stilare diagnosi di gravi malattie dopo aver visto il video di Bin Laden nella caverna. Ad ostilità iniziate, si sono lette e ascoltate menzogne di tutti i colori: dagli scontri delle Sas britanniche con il nemico allo sfaldamento dell’armata talebana a suon di cinquantamila defezioni al giorno, dai commandos intenti a “setacciare” il territorio dell’Afghanistan al mullah Omar che sfugge “per un cavillo burocratico” alla morte che gli eroici GI’s stanno per comminargli, dal tradimento del ministro degli Esteri Muttawakil a Kandahar “polverizzata”. Il tutto offerto da giornali che un giorno sparano titoli come “Per gli uomini di Omar è l’inferno” e il giorno successivo paventano lo stallo dell’operazione militare angloamericana[xxxii]. Col che anche un altro dei (dubbi) requisiti su cui le società liberali fondano le proprie pretese di superiorità – la trasparenza informativa – si accomiata dalla scena.

 

III. Resistere alla dittatura del pensiero

In quello che rimane a tutt’oggi uno degli interventi più sensati e coraggiosi sugli eventi in corso, Tiziano Terzani ha scritto che “anche qui da noi, specie nel mondo “ufficiale” della politica e dell’establishment mediatico, c’è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l’America ci mettesse già paura”[xxxiii]. Le cose stanno ancora peggio: l’America ci mette in riga non perché ci intimidisca, ma perché può contare sul diffuso senso di inferiorità che affligge il ceto intellettuale di tutta Europa da quando il nostro continente, scosso da due terribili guerre intestine e dalle loro avvilenti conseguenze, ha cessato di credere alle proprie potenzialità e capacità. Le classi politiche dei vari Stati europei si sono oggi volontariamente abbassate al rango di attendenti della superpotenza americana, delegandole il compito di dar loro un destino. Non c’è da stupirsi se uno dei capifila del fronte intellettuale che mira a rendere irrevocabile questa situazione scrive che “l’autorità morale e la credibilità necessarie” per una forza politica che intenda intervenire su questioni di politica estera in Italia dipendono da “una condivisione totale delle scelte di politica estera in situazione di emergenza”[xxxiv]. Siamo tornati ai tempi dell’immediato dopoguerra, al paese vinto e straccione che attendeva di essere beneficiato dal piano Marshall: è a Washington che si impartisce il crisma agli amministratori delle colonie. Non c’è bisogno di aver paura dell’America per obbedire. Basta continuare a soffrire del complesso di impotenza che ha attanagliato l’Europa, con la relativa eccezione britannica, dal 1945 in poi; basta sentirsi eternamente in debito con il Grande Fratello d’oltreoceano e, per questo, scambiare i suoi atti interessati per gesti di magnanima benevolenza.

Eppure, per liberarsi da questi condizionamenti basterebbe trovare il coraggio di riflettere in autonomia di pensiero. Gli argomenti fondati da prendere in considerazione, anche in questo opaco clima di autocensura diffusa, non mancano. Alcuni ce li fornisce ancora Tiziano Terzani. Leggiamoli: “L’attacco alle Torri Gemelle […] non è l’atto di “una guerra di religione” degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia […] Non è neppure “un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale”, come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. “Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana”, scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui […] si tratterebbe di un ennesimo contraccolpo al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuta intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo” per organizzare “imbrogli, complotti, colpi di Stato, persecuzioni, assassinii e interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti” in America Latina, Asia, Africa, Medio Oriente. Prosegue Terzani: “con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi hanno fatto notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare da’Iran […] È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti”.

Così stanno le cose. Ma per impedire all’opinione pubblica di rendersene conto i mezzi di informazione e gli intellettuali liberali che se ne servono la bombardano a tappeto con argomenti senza diritto di replica, notizie false, commenti unilaterali. È una strategia manipolativa indiscutibilmente efficace, che fa passare agli occhi di molti la guerra vigliacca dei bombardieri che massacrano la popolazione civile per un conflitto difensivo e mirato ad estirpare il Male dalla Terra, tace o travisa i motivi di una delle parti in causa creando scandalo se un sondaggio dice che il 30% degli italiani li comprendono (non “li approvano”, si badi!), amplifica e loda ogni mossa americana in Afghanistan per mettere la sordina al calvario che Israele impone ai palestinesi nelle loro terre in una cinica escalation di violenza e fa passare per vili terroristi quanti lì si battono con ogni mezzo di fortuna disponibile per difendere il diritto ad avere una patria contro uno Stato che li opprime grazie ad un’armata ricca di tecnologia militare di prim’ordine e a servizi di sicurezza con licenza illimitata di uccidere spalleggiati apertamente dagli Stati Uniti.

Cosa si può fare contro una simile opera di intossicazione? Sul piano della risposta politica, ben poco. I meccanismi di condizionamento al servizio dell’egemonia liberale monopolizzano risorse e spazi di espressione accessibili alle masse, ottenendo senza bisogno di ricorrere a strumenti coercitivi un controllo delle mentalità collettive che non ha nulla da invidiare ai regimi totalitari di un tempo. Sul piano morale, molto. Si può e si deve resistere mostrando che esiste ancora qualche voce che non intende piegarsi alla legge del conformismo. La diffamazione e un isolamento se possibile ancora maggiore vanno messi in conto, ma è indispensabile tenere in vita un’oasi dove non alligni il pregiudizio filoamericano, dove si combattano i dittatori del pensiero, dove si osi dire “signornò” alla chiamata alla guerra che i padroni del mondo fanno ai loro servi.

Nella caricaturalizzazione degli avversari “antiamericani”, gli intellettuali atlantisti addebitano loro il vizio di imputare agli Usa tutti i mali del mondo e di farlo per scopi inconfessabili. L’accusa non ci tocca. Noi agli Stati Uniti d’America addebitiamo solo i mali che, nella loro storia e nei comportamenti attuali, hanno provocato e si ostinano a provocare. Ce n’è d’avanzo. Quanto ai nostri scopi, nulla hanno a che vedere con quelli dei nostalgici delle dittature del passato, desiderosi di regolare conti vecchi decenni. A muoverci è solo il desiderio di mostrare che siamo e restiamo europei, consapevoli di un’identità che ci differenzia da chi ci vuole negare indipendenza e intende continuare ad usarci al proprio servizio. Non ci sentiamo occidentali, non siamo americani, non proviamo alcuna immedesimazione strumentale nella causa islamica. Vogliamo un universo plurale basato sui diritti dei popoli e sul rispetto della persona. Crediamo che l’Occidente non sia il migliore dei mondi possibili e, dicendolo, sappiamo di difendere il diritto alla libera espressione delle idee in un momento storico in cui chi dice di averlo scoperto e promosso fa tutto ciò che è in suo potere per negarlo ed affossarlo. Per uno di quei paradossi di cui è ricca, oltre alla storia, anche la cronaca, spetta a gente come noi, che non ha mosso i primi passi nel suo seno, difendere la democrazia e preservarne i requisiti pluralistici minacciati da questo nuovo capitolo dell’ascesa liberale all’egemonia. Nei limiti dei nostri esigui mezzi, ci sforzeremo di fare la nostra parte.

Marco Tarchi

[i] “Nelle nostre menti e nelle nostre politiche”, aggiunge Barbara Spinelli, Resistere alla tentazione della moderna apocalisse, in “La Stampa”, 13.9.2001.

[ii] La stima del quotidiano newyorkese è di 2.950 morti. Cfr. D.F., Il giallo del World Trade Center: il numero delle vittime sarebbe molto più basso, in “Corriere della Sera” (di qui in poi “Cds”), 29.10.2001.

[iii] Guido Santevecchi, Obiettivi, errori e democrazia, in “Cds”, 14.10.2001.

[iv] Giovanni Sartori, Uditi i critici ha ragione Oriana, in “Cds”, 15.10.2001.

[v] Tiziano Terzani, Quel giorno, tra i seguaci di Bin Laden, in “Cds”, 16.9.2001.

[vi] Bruno Etienne, Dietro l’odio non c’è solo Bin Laden, in “Cds”, 26.9.2001.

[vii] Emblematico di questo modo di procedere è Pierluigi Battista, “Né con i terroristi, né con gli americani”, in “La Stampa”, 13.9.2001.

[viii] La notizia che nel World Trade Center si trovavano importanti uffici operativi della Cia e della Fbi, pressoché annientati dagli aerei dirottati, è stata data dai media con molta discrezione.

[ix] Marzio Breda, Battiato: né con gli americani né con i terroristi, in “Cds”, 28.9.2001.

[x] f[erruccio] de b[ortoli], Il terrore e la democrazia, in “Cds”, 8.10.2001.

[xi] Franco Venturini, Il nemico invisibile e lo scontro con l’Islam, in “Cds”, 12.9.2001.

[xii] Barbara Spinelli, Resistere alla tentazione della moderna apocalisse, cit.

[xiii] Franco Venturini, Diritti umani e mani libere, in “CdS”, 30.9.2001.

[xiv] E[nnio] C[aretto], “Se attaccassero l’Europa colpirebbero il Colosseo” (intervista a Marvin Cetron), in “Cds”, 12.9.2001.

[xv] Ibidem.

[xvi] Jas Gawronski, L’ombra di Saddam il grande burattinaio, in “La Stampa”, 13.9.2001.

[xvii] Bruno Etienne, Dietro l’odio non c’è solo Bin Laden, cit.

[xviii] Giovanni Sartori, Uditi i critici ha ragione Oriana, cit.

[xix] Angelo Panebianco, Smemorati tra noi, in “Cds”, 26.9.2001.

[xx] Ibidem.

[xxi] Franco Venturini, Quattro incognite, in “Cds”, 8.10.2001.

[xxii] Sergio Romano, Emozioni e ragione, in “Cds”, 16.9.2001.

[xxiii] Occidentali & cristiani. Galli della Loggia: un errore nascondere le radici, intervista in “Avvenire”, 27.9.2001.

[xxiv] George W. Bush a un deputato del Congresso Usa, in “CdS”, 26.9.2001.

[xxv] Samuel P. Huntington, “Osama ha reso all’Occidente l’identità comune”, intervista a Nathan Gardels, in “Cds”, 1.11.2001.

[xxvi] Franco Venturini, Il nemico invisibile e lo scontro con l’Islam, cit.

[xxvii] Barbara Spinelli, Resistere alla tentazione della moderna apocalisse, cit.

[xxviii] Angelo Panebianco, Smemorati tra noi, cit.

[xxix] Giuliano Zincone, Quelli contro (solo un po’), in “Cds”, 14.9.2001.

[xxx] Goffredo Buccini, La bandiera bruciata e quel “bisogno” di autocensura, in “Cds”, 1.10.2001.

[xxxi] Titolo del “Corriere della Sera”, 24.9.2001.

[xxxii] Si vedano, a titolo d’esempio, titoli e articoli del “Corriere della sera” del 17 e 18.10.2001.

[xxxiii] Tiziano Terzani, Il sultano e San Francesco, in “Cds”, 8.10.2001.

[xxxiv] Angelo Panebianco, Governo incerto opposizione spenta, in “Cds”, 24.10.2001.

_________________

Padroni del mondo e dittatori del pensiero di Marco Tarchi è contenuto nel numero 248 (ott.-nov. 2001, £. 4.000) di "Diorama Letterario", mensile di attualità culturali e metapolitiche distribuito anche nel circuito delle librerie Feltrinelli.
 

4.12

In piazza per la Palestina
 

Perché contro la guerra in Afghanistan si mobilitano organizzazioni politiche o della società civile con un grande seguito di massa, come il Genoa Social Forum o le varie anime del movimento NoGlobal, e lo stesso non accade contro i crimini orrendi che Israele sta perpetrando non da oggi (ma con crescente gravità) nei territori palestinesi da esso illegalmente occupati ? Perché alla fine degli anni '80, ai tempi della prima Intifada, ricordo oceaniche manifestazioni nazionali in sostegno della causa palestinese, e ora che la situazione è mille volte più grave l'iniziativa viene lasciata a gruppuscoli pur rispettabilissimi ma non in grado di trascinare un grande seguito né di attrarre l'attenzione dei media ? Perché persino le tessere della moderatissima FGCI nell'89 recavano la scritta "con la Palestina nel cuore" mentre oggi ci si cela dietro un'ipocrita quanto ingiustificata equidistanza ? Personalmente credo che parte della responsabilità sia da attribuire anche alla retorica buonista che ha accompagnato gli accordi di Oslo addormentando la coscienza critica e la capacità di mobilitazione di molta parte della sinistra occidentale (e italiana in particolare), anche di quella radicale, nonostante l'evidenza dell'impraticabilità di quegli accordi e della non volontà israeliana di giungere a una pace giusta. Ma questo sarebbe un lungo discorso.

Ma a prescindere dalle valutazioni di ampio respiro, ora, nell'estrema tragicità del dramma che si sta consumando, credo sia urgente una manifestazione nazionale il più possibile massiccia per il rispetto dei diritti legittimi di tutti i palestinesi, che vivano sotto l'occupazione israeliana o in esilio, nonché degli arabi che vivono nel Golan occupato ; per l'applicazione incondizionata di tutte le risoluzioni ONU; per un'opposizione "senza se e senza ma" alla attuale politica israeliana e alle complicità dei nostri paesi occidentali. Per questo mi appello a voi del Manifesto, ai NoGlobal, a tutta quella parte organizzata della sinistra radicale capace di far sentire la sua voce meglio di un privato cittadino, perché siate voi a indire una grande manifestazione, ma grande davvero. So bene che la manifestazione è un'arma spuntata quando sono in ballo grandi interessi geopolitici, e non mi faccio illusioni sulla sua efficacia... ma questo era vero anche quando si manifestava contro il G8 o la guerra in Afghanistan. Intanto è importante contarci e far sentire la nostra voce. Il mondo fa già due pesi e due misure, non facciamolo anche noi !

 

2.12

Dietro lo specchio. Verità e menzogne dopo l'11 settembre 2001

comitato Scienziate e Scienziati contro la Guerra

Dietro lo specchio. Verità e menzogne dopo l'11 settembre 2001

ROMA   –   sede centrale CNR   –   Sala Arangio Ruiz

3 dicembre 2001

L'11 settembre 2001 è certamente una di quelle date che "fanno la storia". Se su questo punto il consenso è unanime sono invece diversificate le analisi di quanto è accaduto, delle motivazioni e delle modalità della "nuova guerra" cui partecipa anche il nostro Paese, delle prospettive che si aprono.

Il seminario nasce da alcune domande che riteniamo cruciali. È vero che tutto è cambiato dopo l'11 settembre? Quali sono le armi della "nuova guerra"? La crisi economica registrabile in "Occidente" già prima degli attentati di Washington e New York è una crisi "ciclica" o è invece strutturale? Si può affrontare questa crisi ricorrendo alle "ricette classiche"? Quella cui il nostro Paese partecipa in questi giorni è la prima fase della "guerra al terrorismo" o un nuovo capitolo della vecchia guerra per la gestione delle risorse energetiche e la salvaguardia di specifici interessi economici? Il concetto di Islam con cui ci chiedono di confrontarci è così monolitico e "fondamentalista" come a volte viene presentato? Soprattutto: fondamentalismo e anti-occidentalismo coincidono? Infine, la lotta al terrorismo giustifica la limitazione dei diritti civili e l'uso dello strumento bellico?

 

Il comitato "Scienziate/i contro la guerra" è nato dalla convinzione di studiose/i delle più diverse discipline che la guerra sia un prodotto storico, una strategia intenzionale e un disegno razionale nello scontro di potere tra sistemi politici in lotta per la supremazia; mentre oggi è possibile e necessario elaborare altri strumenti per la gestione dei conflitti ed è necessario sostenere lo sviluppo di una conoscenza critica che favorisca la ricerca di alternative alla guerra e sia un deterrente ad una soluzione armata dei conflitti esistenti.

PROGRAMMA

 9.30 Introduzione:
G. Barone, " “..Nulla sarà più come prima!”: scenari possibili ed impossibili per il futuro"

10.00 - 11.30  Sezione 1 - Bersagli militari / obiettivi economici   -  Coordina: Chiara Cavallaro
G. Chiesa, "Afghanistan: la guerra infinita"
L. Vasapollo, " Crisi recessiva: keynesismo di guerra e le vie del petrolio"
R. Schiattarella, "Crisi ciclica o crisi strutturale? "
Dibattito

11.45 - 13.15   Sezione 2 - Una guerra asimmetrica  -  Coordina: Mauro Cristaldi
F. Polcaro, "Dagli aerei/bomba alle atomiche tattiche"
E  Magnone, "Le armi chimiche e batteriologiche: loro pericolosità e le Convenzioni che hanno tentato di limitarne produzione ed uso"
Dibattito

14.15 - 16.15  Sezione 3 - L'Occidente e il mondo  -  Coordina: Alberto Tarozzi
B.Scarcia Amoretti, "Realtà e rappresentazione dell'integralismo islamico"
Zouhir Louassini, "L'Occidente visto dall'Islam"
E. Zerbino, "Asimmetria della paura"
D. Archibugi, "Terrorismo o cosmopolitismo?"
Dibattito

16.30 - 17.45  Sezione 4 - "..Voglio Bin Laden vivo o morto!"  -  Coordina: Silvia Macchi

D. Gallo, "Coercizione del terrorismo, diritto internazionale e guerra"
R. La Valle, "L'intervento militare italiano tra fedeltà atlantica e nuove alleanze"
Dibattito
CONCLUSIONI

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