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29.12 |
FORREST GUMP E JEAN SEBERG
La seguente è la mia recensione del film Forrest Gump (1994), regia di Robert Zemeckis, con Tom Hanks (Forrest Gump) e Robin Wright (Jenny Curran). Il film è stato prodotto per la Paramount dai signori Steve Tisch, Steve Starkey e Wendy Finerman. Come si vede è di cinque anni fa ma è talmente " speciale " da meritare una rivisitazione. Due premesse. La prima è la mia solita: io sostengo che la filmografia statunitense ("Hollywood") è una filmografia di Stato, controllata sin nei dettagli dalla United States Information Agency (USIA), un'Agenzia federale pubblica nell'esistenza ma segreta nell'operatività (come la CIA) istituita nel 1953 allo scopo di creare nel pubblico internazionale una precisa ancorché falsa immagine degli Stati Uniti. L'Agenzia, che non si occupa solo di Hollywood, ora conta sui 30.000 dipendenti ed ha sede al 301 IV South West Street di Washington; il direttore si chiama Joseph Duffey. Il fatto che i critici cinematografici di professione abbiano mancato di notare tale collegamento dipende dalla loro visuale limitata, e da una acquiescenza con la Grande Potenza che ha fatto loro reprimere - più o meno consciamente - quei sospetti sull'indipendenza di Hollywood che sicuramente spesso gli affioravano in mente (non si fa carriera nei media italiani dicendo verità sgradite agli Stati Uniti). Io dunque analizzo i film di Hollywood per mostrare al pubblico gli elementi di propaganda politica e culturale di cui sono stati caricati dall'USIA. Mi pare la prima cosa che si debba dire di questi film. La seconda premessa è una rapida biografia di Jean Seberg, necessaria perché pochi ricordano questa attrice eppure grande diva degli anni Sessanta. La Seberg nacque il 13 novembre 1938 a Marshalltown (Iowa). Giovane bellissima e assai fine, che portava i capelli biondi tagliati un po' corti, debuttò nel 1957 con Saint Joan (Santa Giovanna) di O. Preminger e quindi lavorò regolarmente. Fra gli altri film ricordiamo Bonjour Tristesse (Idem, 1958) sempre di Preminger; The Mouse That Roared (Il ruggito del topo, 1958) di J. Arnold, con P. Sellers; A bout de souffle (Fino all'ultimo respiro, 1960) di J.L. Godard, con J.P. Belmondo; A Fine Madness (Una splendida canaglia, 1967) di I. Kershner, con S. Connery; Pendulum (Idem, 1969) di G. Schaefer, con G. Peppard. Per la fine dei Sessanta era una diva conclamata, al livello di Jane Fonda, e arrivò all'apice nel 1970, quando uscirono ben quattro film che la vedevano protagonista: il grande successo Airport (Idem) di G. Seaton, con B. Lancaster, D. Martin, V. Heflin, J. Bisset e G. Kennedy; Paint Your Wagon (La ballata della città senza nome) di J. Logan, con C. Eastwood e L. Marvin; Macho Callaghan (Idem) di B. Kowalski, con L.J. Cobb; e la produzione italiana Ondata di calore di Nelo Risi. Erano però gli anni del movimento per i diritti civili dei neri e delle Pantere Nere. L'FBI era stato incaricato dal Congresso di eliminare tali movimenti, usando i mezzi repressivi consueti per il regime statunitense: false accuse giudiziarie; persecuzioni dell'IRS (Internal Revenue Service, il fisco americano) e della DEA (Drug Enforcement Agency, l'antinarcotici); licenziamenti da parte dei datori di lavoro; diffamazioni; omicidi anonimi per strada compiuti da agenti travestiti. Il programma preparato dall'FBI in merito era stato chiamato COINTELPRO, e in base ad esso erano stati fatti assassinare Malcom X nel 1965 e Martin Luther King nel 1968, mentre entro i primi anni Settanta tutti gli elementi trainanti - per un totale di alcune decine - venivano soppressi con agguati in strada (Huey Newton sfuggì sino al 1983, quando fu ucciso a Los Angeles; Abbie Hofmann riparò all'estero ma nel 1989 tornò e fu ucciso con una iniezione che provoca un arresto cardiaco senza lasciare tracce; Bobby Seale fu incarcerato sino al 1997; Ira Einhorn, latitante all'estero dal 1979 perché accusato di aver ucciso la sua ragazza Holly Maddox, uccisa invece si sa da chi, è stato fermato in Francia nel gennaio del 1999 e attende l'esame della richiesta di estradizione degli Stati Uniti). La tecnica della diffamazione veniva usata con larghezza. Nel 1967 il produttore Robert Maheu fabbricò per conto dell'FBI, di cui era informatore abituale, uno spezzone porno apparentemente ripreso da una telecamera nascosta, dove protagonista era un sosia di King. Si era trattato di una operazione del tutto analoga a quella compiuta nel 1957 nei confronti del presidente dell'Indonesia Sukarno, sempre realizzata tramite Maheu. Anche la cantante Eartha Kitt subì trattamenti del genere nell'ambito di COINTELPRO. La Seberg in privato era sempre stata simpatizzante del movimento dei neri e raggiunta la grande notorietà nel 1970 pensò di usarla per pubblicizzare la causa. L'FBI la inserì nelle liste di COINTELPRO, e poco dopo venne da sé una occasione di diffamazione: la Seberg era incinta e al momento adatto l'FBI concertò una campagna di stampa insinuando che il padre era un leader delle Pantere Nere. Appresa la notizia la Seberg entrò nelle doglie e diede alla luce un bambino prematuro che morì tre giorni dopo, l'8 settembre 1970. La donna, sgomenta per tanta malvagità, non riuscì mai a superare il trauma; tentò subito il suicidio, e di lì in poi avrebbe ripetuto il rito ad ogni anniversario della morte del piccolo. Intanto tutti in America l'avevano abbandonata; nessun produttore poteva offrirle parti, nessuno dei colleghi di ieri - Eastwood, Lancaster, Marvin, Peppard, Connery, Sellers e così via - si azzardò ad offrirle sostegno, anche solo morale. La Seberg fu portata in Europa, dove alcuni cercarono di aiutarla facendola lavorare. Girò così l'italiano Questa specie d'amore (1971) di A. Bevilacqua, con U. Tognazzi e F. Rey; il francese Kill (1971) di R. Gary, con J. Mason e S. Boyd; lo spagnolo L'altra casa ai margini del bosco (1973) di J.A. Bardem; il francese L'attentato (1973) di Y. Boisset, con J.L. Trintignant, M. Piccoli, P. Noiret, G.M. Volontè; il nominalmente anglo-americano Il gatto e il topo (1974) di D. Petrie, prodotto per la TV dall'amica Aida Young; il francese Prossima apertura casa di piacere (1974) di D. Berry. Il suo ultimo film, il trentesimo della carriera, fu Bianchi cavalli d'agosto (1975) di R. Del Balzo. L'8 settembre 1979, a Parigi, il suo decimo tentativo riusciva e moriva suicida. Da allora l'USIA ostacolò la riprogrammazione dei suoi film ovunque potè, certo in Italia, perché la gente non doveva focalizzare sulla donna e la sua vicenda. Ecco perché pochi ora ricordano Jean Seberg. Si può anche notare che Paolo Limiti, un adoratore di Hollywood e delle sue bionde star del passato, nella sua trasmissione su Rete 2 " Ci vediamo in TV " non nomina mai questa attrice. Siamo pronti per Forrest Gump. E' un film inquietante e pericolosissimo, perché non solo oltremodo carico di propaganda politica e culturale, ma anche costruito con tecniche subliminali sopraffine e atte a danneggiare. Racconta la singolare vita di un americano di nome Forrest Gump, semi ritardato e da bambino poliomielitico, cui capita di avere contatti pure fugaci con molti grandi personaggi e di partecipare agli eventi storici nodali del suo tempo. In pratica tramite Forrest si fa una carrellata di trenta anni di storia americana, diciamo dal 1955 al 1985, dandone senza farsi accorgere una valutazione precisa. Il film è del 1994 ed è anche stato trasmesso dalla televisione di Stato italiana, per cui non è necessario dilungarsi sulla trama. Ecco gli elementi di propaganda intenzionale che sono presenti nel film: 1 - Forrest è descritto come gli USA vorrebbero che il mondo credesse l'americano tipico: forse poco intelligente ma onesto e ben intenzionato, candido sino all'ingenuità; uno che se fa il male lo fa per stupidità o per eccesso di zelo. E' propaganda culturale, perché l'americano tipico è l'opposto; è astuto, cinico e mal intenzionato, e quando fa il male - pur ridendo, come in genere - sa di farlo. Serve perché gli americani amano fare gli sprovveduti per "non pagare il dazio", come si dice qui: dopo avere compiuto una nefandezza, mettiamo un colpo di Stato o una strage di civili, sono dispostissimi ad attribuirla al loro "zelo anticomunista" forse eccessivo, a "informazioni incomplete o sbagliate", a "bombe intelligenti" che con falsa ritrosia ammettono qualche volta difettose, anche a pura e semplice dabbenaggine. Tutto pur di non dire: Abbiamo sovvertito e abbiamo ucciso perché così avevamo programmato per la nostra convenienza. Non dico che non esistano americani come il Forrest del film. Esistono in verità, e si possono anche prendere a modello per un film. Frank Capra lo ha fatto molte volte. Ma averne inserito uno come protagonista di un film come questo non può che essere una scelta precisa e maliziosa. 2 - Attraverso l'abile montaggio di
filmati d'epoca vediamo Forrest in contatto con i presidenti Kennedy,
Johnson e Nixon. Ci sono più strati di falsità. Sono presentati come
incontri di un uomo comune con il Potere incarnato e così si dice
implicitamente che i presidenti americani comandano. I
presidenti americani invece non contano proprio niente. Il Potere
negli Stati Uniti è detenuto dall'establishment
imprenditoriale, in particolare dalle Multinazionali, e il presidente
è solo un impiegato incaricato di fare i loro precisi interessi nel
mondo, il che è la definizione di sempre della politica estera
americana. Gli Stati Uniti in effetti non sono una repubblica
presidenziale; sono una dittatura dell'imprenditoriato. Dire o
suggerire che i presidenti americani comandano è propaganda. 3 - La sensazione della democraticità del sistema americano pervade tutto il film. Lo fa in maniera indiretta, dandola per talmente scontata da non meritare evidenziazioni. Come detto gli USA non sono affatto una democrazia. Sono un sistema totalitario, che si regge sull'esclusione dal voto di più della metà della popolazione e sulla repressione del dissenso. Sopra l'ho chiamata una dittatura dell'imprenditoriato, e dire o suggerire che sono una democrazia è propaganda. 4 - Durante una manifestazione di "hippies" e di neri a Washington un uomo un po' anziano e in divisa stacca goffamente la spina del megafono dell'oratore di turno. E' una inserzione di propaganda subliminale: suggerisce che eventuali boicottaggi alle manifestazioni progressiste degli anni Sessanta - dei pacifisti, dei figli dei fiori, dei neri - furono dovute ad iniziative estemporanee e personali di singoli benpensanti, sia pure magari appartenenti a qualche corpo statale o federale. Noi abbiamo invece avuto modo di vedere a proposito del movimento per i diritti civili dei neri che si trattò di ben altro, che si trattò di una repressione ufficiale, e violentissima benché surrettizia, ordinata dal Congresso. 5 - Nel film i movimenti degli hippies pacifisti e dei neri per i diritti civili sono potentemente diffamati. I loro happenings sono disordine, schiamazzi, ubriachezza, droga e intemperanze sessuali. Non è certo la parte "buona" dell'America. La parte buona è evidenziata da Forrest, che casualmente capita in una di queste manifestazioni vestito in alta uniforme (è in licenza dal Vietnam, dove faceva il suo dovere; mantiene la divisa perché - ci suggerisce la regia - ne è orgoglioso). E' proposto un party delle Pantere Nere, cui partecipa Jenny, l'amata di Forrest: alcool e droga e tutto il resto. Un giovane presentato come comunista, segretario della tal cellula, picchia senza apparente motivo Jenny; si sa come sono i comunisti. La salva Forrest, nella sua divisa. Non sono le opinioni del regista o dei produttori; è la propaganda dell'USIA. 6 - L'USIA ha stabilito nel 1978 con
molta precisione come Hollywood deve rappresentare la guerra del
Vietnam, sia dal punto di vista politico che militare tecnico. Non
posso dilungarmi e mi limito all'essenziale. Politicamente va detto, o
dato per sottinteso, che gli USA intervennero per difendere il Sud
dalla minaccia comunista. Dal punto di vista militare non andavano
assolutamente mostrati i bombardamenti di civili e tutta la guerra
andava ridotta a una guerriglia nella foresta, con piccole pattuglie
americane che si difendevano da proditori attacchi di elementi non in
divisa. Panzane naturalmente, propaganda. Gli USA intervennero per
assicurare alle loro Multinazionali le risorse del paese e
dell'Indocina tutta; interessavano particolarmente le foreste di
alberi della gomma, buoni per fare i pneumatici. I bombardamenti di
civili erano quotidiani, e così per anni. E la guerra fu una classica
guerra moderna, risolta non dai guerriglieri Viet Cong ma dalle
artiglierie e dalle divisioni corazzate, meccanizzate e di fanteria
dell'esercito regolare del Vietnam del Nord. E' importante invece fare
credere che si sia trattato unicamente di guerriglia: si giustifica in
qualche modo l'esito del conflitto. 7 - A parte come un cammeo va trattata una scena di Forrest in Vietnam. In una sequenza di pochi secondi si vede la pattuglia di Forrest avanzare in perlustrazione col fucile spianato in una risaia, fra i contadini sud vietnamiti che rimangono chini a lavorare sulle loro piantine tranquilli, come se niente fosse. E' una scena di propaganda subliminale. Sembra innocua e invece trasmette un messaggio preciso: che i contadini sud vietnamiti - e i sud vietnamiti in generale - si fidavano degli americani, li consideravano alleati e amici. Una falsità: i sud vietnamiti, e i contadini in particolare, erano terrorizzati dai soldati americani. Basti ricordare l'episodio di My Lai, una frazione del grosso villaggio sud vietnamita di Song My, dove nel novembre del 1968 la Compagnia "Charlie" dell'Americal Division sterminò tutti gli abitanti perché nei pressi erano attivi guerriglieri Viet Cong; le vittime furono 500, ed erano vecchi, donne e bambini perché gli uomini erano alla pesca. Esiste un filmato dell'operazione, girato da uno dei soldati americani. Da notare che Hollywood non ha mai tratto un film da tale episodio, che pure si presterebbe. 8 - Analoga la scena in cui il reduce tenente Dan presenta la nuova moglie a Forrest: nel doppiaggio italiano è definita una latino americana, ma ha tratti somatici indocinesi, addirittura vietnamiti (messaggio subliminale: i vietnamiti non ci tengono rancore, perché non abbiamo fatto loro nulla di male). Probabilmente, poi, nell'originale inglese la donna è proprio definita " vietnamita " e così è il doppiaggio nei paesi meno evoluti. 9 - Una sottile propaganda culturale è propinata da Forrest podista. Forrest corre a piedi per gli States senza mai dire nulla. La gente pensa che abbia un qualche messaggio da comunicare e diversi giovani cominciano a trotterellargli dietro in attesa. Dopo tre anni e due mesi Forrest finalmente si ferma ed i giovani pendono dalle sue labbra, ma lui dice: "Sono un po' stanchino. Penso che tornerò a casa". E' una irrisione per coloro che attendono qualcosa dai pensatori, dagli ideologi, da tutti quelli che non ritengono soddisfacente il sistema americano e continuano a cercare. Per l'USIA il sistema americano è perfetto e chi spera di trovare alternative è un illuso. Occorre ricordare che un funzionario dell'USIA - uomini e donne culturalmente preparatissimi, veri intellettuali di regime - partecipa alla messa a punto finale della sceneggiatura di ogni film di Hollywood. 10 - Nel film c'è un chiaro elogio del capitalismo americano. Dopo il Vietnam Forrest e il tenente Dan, uno semi ritardato e l'altro senza gambe, diventano miliardari con la Bubba Shrimp Company. Messaggio subliminale: sono due meritevoli e il sistema - che è giusto - immancabilmente li premia, sia pure dopo averli fatti penare un po'. Si fa di più. Si suggerisce infatti - sempre per via subliminale - che è Dio stesso a guidare tale sistema: provoca una tempesta che elimina la flotta peschereccia della concorrenza. E' l'idea fondamentale del Calvinismo, la religione americana: Dio fa arricchire i meritevoli, o gli insondabilmente prediletti, e manda a ramengo gli altri. Segue un po' di propaganda subliminale a favore della Apple Computers: Forrest e il tenente Dan arricchiscono ulteriormente investendo in azioni di questa Multinazionale, che diventa veicolo di positività e quindi positiva anch'essa. Diventati capitalisti consolidati i due fanno beneficenza: donano alla parrocchia Protestante locale, alla madre dell'amico nero Bubba morto in Vietnam, e fondano un ospedale a Bayoula, il paesino di pescatori di gamberi rovinati dalla tempesta divina. Nella vicenda è contenuta - di nuovo per via subliminale - una diffamazione dei neri: i pescatori di gamberi di Bayoula (paesino della Louisiana nel delta del Mississippi) sono tutti neri e sempre stati in miseria ma ecco, arrivano due bianchi a fare il loro mestiere e diventano miliardari. 11 - Come si vede il film fa grande uso delle tecniche subliminali per convogliare propaganda. Evidentemente un esperto in materia ha collaborato alla realizzazione dell'opera. Una tecnica subliminale sopraffina in effetti è anche usata per la "normale" costruzione della vicenda. Forrest ha una vita punteggiata da contatti personali, pure fugaci, con grandi personaggi pubblici: conosce Elvis Presley (cui addirittura ispira le caratteristiche movenze); incontra i presidenti John Kennedy, Lyndon Johnson e Richard Nixon (e ne innesca la caduta); partecipa casualmente ad una intervista televisiva di John Lennon; assiste all'attentato al governatore Wallace. Occorre in qualche modo rendere verosimile tale sequela di eventi pubblici e si ricorre ad altri collegamenti più sotterranei, che riguardano accettabili concatenazioni di eventi sul piano privato e predispongono ad accettare anche quelle a livello pubblico. Il filo conduttore sono gli arti inferiori del corpo umano. Forrest bambino guarisce dalla poliomielite e diventa valido maratoneta. In Vietnam il tenente Dan lo ammonisce come prima cosa a tenere i piedi asciutti (le risaie). Lo stesso tenente Dan perde proprio le gambe. Il collegamento con la sfera pubblica avviene col governatore Wallace, rimasto paralizzato nell'attentato, e su di una sedia a rotelle come il tenente Dan. Il tenente Dan alla fine cammina con delle protesi che richiamano gli apparecchi portati da Forrest bambino. 12 - E vengo al motivo per cui ho inserito nelle premesse una biografia di Jean Seberg. Perché la figura di Jenny Curran, l'amata di Forrest, è stata costruita in modo da evocare proprio lei. La vicenda di Jenny non è esattamente uguale a quella della Seberg, perché sarebbe troppo scoperto, e quindi inefficace se non controproducente (non sarebbe un'operazione subliminale...). I punti di contatto però sono molti e qualificanti. Chi è la Jenny proposta nel film ? E' una giovane bionda e bella, sensibile e con propensioni artistiche, tendenzialmente una brava ragazza. Si mette però con gli hippies e i contestatori, e in particolare frequenta le Pantere Nere. Finisce così nella promiscuità e nella droga, e contrae l'AIDS. L'idea del suicidio comincia a farsi strada nella sua mente (la passeggiata sul balcone del grattacielo). Partorisce da single un figlio, che è di Forrest. Dopo qualche anno sposa Forrest e quindi muore. I collegamenti sono: la collocazione temporale negli anni Sessanta/Settanta; il nome " Jenny " analogo a " Jean "; la somiglianza fisica di Jenny con la Seberg; le sue propensioni artistiche; la sua frequentazione delle Pantere Nere; il tema del suicidio; la gravidanza, e da single; la durata annosa di una angosciosa parabola conclusa con la morte. Questi collegamenti nel subconscio dello spettatore che in un angolo della memoria conserva qualche vaga nozione di Jean Seberg e della sua vicenda provocano con sicurezza l'identificazione, anche se a livello di coscienza non se ne accorge. Perché è stata compiuta tale
operazione ? L'obiettivo propagandistico del film è di proporre gli
anni Sessanta/Settanta americani nel senso voluto dal regime; di riabilitarli.
Se ci pensiamo sono gli anni peggiori per l'immagine americana
dell'intero Novecento: movimento dei diritti civili e sua repressione;
contestazione giovanile e sua repressione; Pantere Nere e loro
sterminio; guerra del Vietnam e relative bibliche stragi di innocenti.
La vicenda di Jean Seberg fu all'epoca un avvenimento clamoroso, e
negativo per il regime quasi come quelli accennati: era opportuno,
dato che si faceva un film per riabilitare tutto il periodo,
riabilitare anche gli aguzzini della Seberg. Povera Jean Seberg. Le diffamazioni dell'FBI l'uccisero. Ora anche le diffamazioni di Hollywood, sulla sua tomba. Il personaggio di Jenny in Forrest
Gump costituisce la prova provata, inoppugnabile, delle
interferenze del governo statunitense nei prodotti finiti di
Hollywood. In questo caso infatti è esclusa ogni altra ipotesi. Non
può essersi trattato delle opinioni personali del regista o dei
produttori: che interesse potevano avere Zemeckis, Tisch, Starkey o
Finerman a falsificare, e in tale modo subliminale e premeditato - da
specialisti della propaganda - la vicenda di Jean Seberg? Solo l'USIA,
per conto del governo statunitense, poteva avere interesse in una tale
operazione. E' la prima volta nella storia di Hollywood che l'attività
dell'USIA viene dimostrata. Ciò è stato dovuto a un colpo di
fortuna nostro: lo specialista in tecniche subliminali dell'USIA che
ha lavorato sul film era troppo bravo ed ha ecceduto nei virtuosismi.
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28.12 |
Omelia di Natale del Patriarca latino di Gerusalemme Patriarcato Latino di Gerusalemme
HOMILIA Dl NATALE
2001 Fratelli
e sorelle, Signor
presidente Yasser Arafat, 1.
L'augurio di un Buon Natale a voi tutti.
In questa notte santa, chiedo a Dio per voi tutti in questa Terra
Santa e per tutti i nostri fedeli in ogni parte della nostra diocesi, in
Palestina, Giordania, Israele e Cipro, e per tutti i cristiani, i
musulmani e gli ebrei, ogni bene e ogni benedizione. 2.
Vorrei rivolgere un saluto speciale al presidente Yasser Arafat impedito
da una decisione politica a partecipare come di consueto a questa
preghiera in questa notte. Chiediamo a Dio per te,
presidente Arafat, la pace del cuore, la forza della pace e della
speranza e la fermezza per reclamare la libertà del popolo di cui sei
responsabile finché la libertà non sia ristabilita. La limitazione
imposta alla tua libertà è la stessa imposta al tuo popolo. Il cammino
verso Betlemme, il giorno di Natale soprattutto, è un cammino di pace.
Con ciò noi diciamo pure ai governanti di Israele: pace e sicurezza.
Anche per voi preghiamo e chiediamo saggezza e luce, perché vediate che
la strada per Betlemme non può che essere una strada di pace: e in modo
particolare con la presenza del presidente Arafat. Signor presidente, tu
mai sei stato tanto presente in questa città e in questa festa nella
quale tu veneri il mistero di Dio. 3.
Fratelli e sorelle, abbiamo ascoltato la parola di Dio nelle letture di
questo giorno. La prima lettura del profeta Isaia comincia con questo
versetto: "II popolo che camminava nelle tenebre vide una grande
luce" (Is 9,1). Questa luce ci si è manifestata in questo giorno
della natività di Nostro Signore Gesù Cristo, Verbo di Dio, fattosi
uomo, come dice san Giovanni: "In principio era il Verbo e il Verbo
era presso Dio e il Verbo era Dio" (Gv 1,1). Queste parole sono il
tema della nostra meditazione della nostra preghiera e del nostro sforzo
costante ad vvicinarci a Dio che ha
voluto prendere dimora tra noi, come dice san Paolo:
“Cristo
Gesù pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la
sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione
di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò
se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di
croce" (Fil 2, 6-7). E' lui il bambino annunciato dal profeta Isaia
quando dice: " Un bambino è nato per noi, ci e stato dato un
figlio... ed è chiamato
Dio potente. Padre per
sempre, Principe della pace" (Is 9,5). 4.
Nella seconda lettura San Paolo ci dice: "E' apparsa la grazia di
Die), apportatrice di salvezza per tutti gli uomini" (Tt 2: 11) Poi
instaura un legame una seconda volta tra il Natale e il mistero della
croce e dice: "Ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni
iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle
opere buone" (Tt 2,14). Nella
terza lettura, dal vangelo di san Luca, abbiamo ascoltato il racconto
dell'evento: Giuseppe e Maria venivano da Nazaret a Betlemme, ubbidendo
a un ordine dei poteri politici del tempo che erano romani: il
governatore della Siria, dal quale dipendeva Betlemme, aveva in effetti
dato ordine che ciascuno tornasse a casa sua per un censimento generale.
Maria e Giuseppe dunque tornavano a Betlemme come tutti coloro che erano
interessati dal censimento. E il vangelo racconta l'evento in termini
semplici e concisi: "Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si
compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio
primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché
non c'era posto per loro nell'albergo" (Lc 2,6-7). Tornarono nella
loco città come degli stranieri e nella sala degli stranieri non c'era
più posto. Dovettero rifugiarsi in una grotta vicina e il mistero di
Dio si compi nell’umiltà. Davanti
al Verbo di Dio noi ci prostriamo nell'adorazione e meditiamo, chiediamo
a Dio di accrescere la nostra fede, perché la nostra intelligenza fino
ad oggi resta impotente a comprendere tutto il mistero della bontà di
Dio verso l’umanità. 5.
E,
nella nostra meditazione del mistero della bontà divina, torniamo alla
nostra realtà umana, per constatare il male e il peccato, in noi come
persone e nel comportamento di chi governa questa terra, per ritrovare
la nostra lacerazione tra gli appelli della bontà divina e le sfide del
male dell'uomo in noi e in coloro con i quali lottiamo. Presi in questo
male, preghiamo perché la bontà di Dio si manifesti in noi e nella
nostra terra e riempia i cuori dei due popoli, il palestinese e
l'israeliano. La nostra situazione odierna e simile a quella descritta
dal profeta Geremia : "Se esco in aperta campagna. ecco i trafitti
di spada: se percorro la città, ecco gli orrori della fame. Anche il
profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa
fare. . . Aspettavamo la pace ma non c'è alcun bene, I 'ora della
salvezza ed ecco il terrore" (Ger 14, 18-19). Si, lo spavento e il
terrore riempiono il cuore degli israeliani e dei palestinesi. Si paria
di terrorismo e con questa parola si pensa di trovare il pretesto per
non fare la pace. Si paria di terrorismo e ci si rifiuta di vedere e di
ascoltare degli innocenti, uomini e donne come tutti gli uomini e tutte
le donne che reclamano la loro libertà e la loro terra. E' tempo che il
popolo israeliano si interroghi con coraggio: cosa chiedono i
palestinesi ? E comprenda che non vogliono ucciderlo o odiarlo, ma gli
chiede libertà per se stessi: la sicurezza per gli israeliani sarà il
frutto di questa libertà. 6.
II conflitto che viviamo ha anche una dimensione cristiana, si svolge
infatti attorno ai luoghi santi della Redenzione del mondo, dove la
misericordia di Dio si è manifestata. E minaccia la sopravvivenza dei
cristiani in questa terra. Per questo noi diciamo a ogni palestinese
cristiano alla ricerca della sua identità e della sua missione in
questa terra messa alla prova: tu sei cristiano testimone di Gesù nella
sua terra e tu sei palestinese private della tua libertà. Occorre
dunque che tu sia cristiano e che reclami la tua libertà. La tua
libertà è un dono di Dio, tu non hai il diritto, per alcuna ragione,
di rinunciarvi nemmeno dinanzi al più grande e al più forte di questo
mondo. La tua identità
consiste nel testimoniare Gesù, il suo amore,
la sua pace, il
perdono: nel vedere Dio in ogni persona umana, nel fratello come nell’avversario,
e con questa visione e con la forza dello spirito reclama la tua
libertà, senza dimenticare e senza deformare l'immagine di Dio in te o
nell'anima dell’avversario al quale stai reclamando la tua libertà. Papa
Giovanni Paolo II ha invitato il 13 dicembre i vescovi cattolici di
Gerusalemme, il Custode di Terra Santa e dei vescovi rappresentanti le
Chiese del mondo, per riflettere insieme sulla pace in Terra Santa e
sull’avvenire dei cristiani che in essa vivono. Già di per se
l'invito e un segno dell'amore e della sollecitudine del Santo Padre. La
pace? E' condizionata dalla fine dell'occupazione. L'avvenire dei
cristiani? E' nelle nostre mani, si tratta di accettare la nostra
vocazione a essere cristiani in questa terra e non dispersi nel mondo.
In questa terra vuol dire nella nostra società palestinese araba e
musulmana. Se accettiamo la nostra vocazione e se scopriamo il cammino
da compiere, tutto il mondo e pronto ad aiutarci a vivere una vita di
testimonianza, onorevole ancorché difficile, nella nostra terra.
Perché l'avvenire dei cristiani
preoccupa le Chiese: e
anche il mondo arabo e musulmano ha questa preoccupazione, interessato
alla nostra sopravvivenza. Perché insieme musulmani e cristiani
portiamo la responsabilità di una sola società, di uno stesso destino
e di una medesima pace in questa terra santa, con la società israeliana
invitata a porre fine all'occupazione, per ricominciare la comune marcia
verso la pace. 8.
L'angelo dice ai pastori: Vi annuncio una grande gioia,
vi e nato un salvatore. Si, al di sopra delle case demolite, al
di sopra dei cuori affranti sotto l'occupazione, al di sopra delle
famiglie in lutto, a Betlemme e in tutti i villaggi e le città
palestinesi e israeliane, al di sopra dei cuori pieni di terrore, ai di
sopra della forza ingiusta, la voce degli angeli si innalza: Gloria a
Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama. 8.
Proseguendo la meditazione del primo capitolo del vangelo di san
Giovanni, leggiamo questi versetti: "II Verbo era la luce vera,
quella che illumina ogni uomo. Egli era nel mondo... eppure il mondo non
lo riconobbe" (Gv 1, 9-10). II mondo rifiuta la luce che viene da
Dio; alla luce che promana
da Dio viene impedito di penetrare nei consessi di guerra,
nel consesso di coloro che pianificano su scala mondiale, di
coloro che si permettono di opprimere dei popoli per la sola ragione che
sono poveri, a profitto di
altri popoli, per la sola ragione che sono forti. II mistero di Dio e la
luce di Dio dicono: non e consentito opprimere dei popoli perché sono
deboli e poveri, non e permesso che altri popoli esercitino
l'ingiustizia solo perché sono' forti. Tutto questo e peccato. Ed e un
peccato che fa nascere e nutre il terrorismo nel peccato dei
forti. La sua
sparizione e
la tranquillità dell’umanità intera sono egualmente nelle
mani dei forti, ma dei forti che sono umili e che accettano la luce
della saggezza di Dio e praticano la giustizia. 9.
Fratelli e
sorelle, da
Betlemme noi
preghiamo con voi
ovunque siate in questa notte santa.
Preghiamo per il nostro presidente Arafat, presente ugualmente
fra noi. Preghiamo per i prigionieri e poniamo le loro sofferenze
dinanzi a Dio. Preghiamo per la giustizia e la pace nei cuori degli
israeliani e del palestinesi. Preghiamo per coloro che governano in
questo mondo, affinché Dio li guidi e siano capaci di ascoltare il
grido di tutti gli oppressi. Preghiamo perché Dio riempia i nostri
cuori del suo amore e della sua pace. Amen. +
Michel Sabbah Patriarca
Latino di Gerusalemme
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27.12 |
Buon
Natale Sharon
Con estrema coerenza, l'Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana dello "sceicco Palazzi" (ma anche del Sismi, dei Somali "liberi", forse di qualche influente prelato, di altre cose che per ora non citiamo, ma soprattutto della destra israeliana) plaude all'esito della vicenda natalizia di cui è stato involontario protagonista Yasser Arafat, il quale, è bene ricordarlo, è pur sempre il presidente di un'Autorità nazionale riconosciuta internazionalmente, dai connotati curiosamente simili - come osserva un nostro corrispondente - ad un'altra, assurta nei libri di storia a simbolo della prevaricazione e della discriminazione:
"Per quale ragione,
l'autorizzazione ad esercitare un Governo Autonomo Israelita
all'interno del "Ghetto di Varsavia" nel contesto del III
Reich sarebbe degradante ed inaccettabile per la dignita' degli
israeliti che vi erano racchiusi, mentre l'analoga situazione vigente
all'interno dei "Territori Autonomi" concessi (e, per di
piu', costantemente rimessi in discussione da Tel Aviv) alla
Palestinan National Autority, nel contesto della sovranita'
territoriale israeliana, e' senz'altro nobilitante e
accettabile?".
Karim Elayoun P.S. e poi chi è questo Davide di
Porto? Mi date l'indirizzo?
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As-salamu `alaykum wa rahmat-Ullahi wa
barakatuH.
Dear Brothers and Sisters, The Majlis al-Ulema of the Italian Muslim Association heartily approves and congratulates for a decision sending an uncompromising message of hope for the future. After years of thwe Oslo fraud and of compromise with PLO thugs, the Prime Minister of Israel Ariel Sharon finally grants Bethlehem a Xmas mass which is not profaned by the presence of the terrorist Yasser Arafat ----------------------------------------------------------------------- Prime Minister Ariel Sharon's Greetings To The Christian Communities For The Holiday Season (Communicated by the Prime Minister's Media Adviser) Jerusalem Monday, December 24, 2001 12:08 AM On behalf of the Government of Israel, I extend warm greetings to the people of the Christian faith in Israel and worldwide at this holiday season. In the spirit of our Declaration of Independence and as a democratic nation, the State of Israel has always championed religious freedom and guaranteed free access to its holy sites for members of all religions. The State of Israel always has - and always will - adhere to these principles. The Government of Israel welcomes all those who have come here to celebrate Christmas. As the 4000 year-old People of the Book who have again returned to their homeland, we recognize the sanctity of this land to members of other religions, and will do everything in our power to ensure freedom of worship for all visitors to Israel. During this festive season, symbolizing the yearning of the Christian world for peace, we hope that the new year will bring the victory of light and freedom, over the forces of darkness and terror, which threaten the free world today. From Jerusalem, the eternal and united capital of the Jewish people, the city of peace, I pray that the coming year will be one of peace, prosperity and security for all nations the world over. Gen. Ariel Sharon ----------------------------------------------------------------------- Cultural Institute of the Italian Islamic Community
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27.12 |
Articoli interessanti dalla newsletter dello ICCII Un saluto a tutti, Davide di Porto da IL TEMPO - Quotidiano
del mattino - Anno LVIII N.354 - Lunedì 24 dicembre 2001 In una riunione tenutasi a Roma i sensitivi hanno indicato ai servizi segreti la presunta ubicazione del rifugio SEI MEDIUM PER TROVARE BIN LADEN L'Fbi sulle traccce di Osama a Omar, interrogato l'ex ministro della Difesa dei talebani. Tra i presenti c'era anche Lidia Gambuti, fondatrice dell'associazione "Gente in Armonia" di Rimini di Fabio di Chio PER STANARE lo sceicco del terrore Osama Bin Laden gli americani sono disposti davvero a tutto, anche ad usare ogni arma. Anche il potere della mente. Venerdì scorso, a Roma, due ufficiali dell'intelligence italiana al servizio del Comando centrale (Centcom) di Tampa, in Florida, diretto dal generate Franks, si sono dati appuntamento in un'abitazione nei pressi del giardino zoologico. Insieme con altre sei persone, cinque uomini a una donna: un francese, un americano, un egiziano, un israelita, uno sceicco somalo ed una italiana, Lidia Gambuti, fondatrice del gruppo «Gente in armonia» di Rimini che riunisce circa quattrocento persone. Sono sensitivi, "medium", e chiaroveggenti, persone in grado di raggiungere uno stato di trance o di concentrazione tale da superare le barriere del tempo e dello spazio e rintracciare cose o persone, sia in questo che nell'altro mondo. Almeno così assicuravano le credenziali dei sei "cacciatori paranormali". Tutti sono rimasti in quell'appartamento per ventiquattr'ore: chi ha sbirciato nella sfera di cristallo, chi ha interpellato gli spiriti, sbarrato il terzo occhio sui cieli e nelle grotte dell'Afghanistan, cercato di intercettare l'onda mentale di Osama e scovarlo accucciato e dolente nel suo nascondiglio di roccia. Alla fine della full immersion nel metafisico i sei hanno fornito ai due ufficiali i loro responsi. Uno diverso dall'altro. Hanno dato Bin Laden ancora in Afghanistan, al riparo in Pakistan, fuggito nello Yemen, salvo in Somalia, scampato in Cina, tornato in Arabia Saudita. Insomma, il viaggio astrale partito da Roma non ha portato ad una meta univoca. Il generale Franks lo ha saputo, ma pare non si sia affatto scoraggiato più di tanto, e che non abbia affatto smesso di cercare in astrale. Stando all'intelligence, infatti, gli americani una consulenza esoterica l'avevano già sollecitata a margine del convegno degli occultisti che si è tenuto qualche mese fa a San Marino. Anche in quell'occasione l'esito non era stato favorevole. La visione fornita dalla signora Gambuti sul covo di Bin Laden è risultata la piu suggestiva e la più attuale quasi. Secondo la medium il ricercato numero uno si troverebbe nelle grotte di Tora Bora. La stessa cosa nei giorni scorsi l'hanno sostenuta alcuni capi tribù e lo stesso presidente del Pakistan Musharraf, secondo il quale però, piccola differenza, Osama sarebbe ancora lì ma da morto, rimasto vittima dei massicci bombardamenti aerei americani. Una squadra di agenti dell'Fbi sta interrogando il mullah Mohamad Fazil, ex vice ministro della Difesa dei talebani, nella speranza di ottenere informazioni utili alla cattura del mullah Mohamad Omar, leader supremo dei talebani. Khalid Pashtun, portavoce del nuovo governatore di Kandahar, ha detto che otto funzionari dell'Fbi sono arrivati nell'antica capitale afghana per mettere Fazil sotto torchio. L'ex vice ministro è stato arrestato un mese fa dalle milizie del signore della guerra uzbeko Abdul Rashid Dostum al momento della resa dei talebani nel nord dell'Afghanistan. Pashtun ha detto che I'Fbi sta cercando di avere notizie sul mullah Omar e anche su Osama Bin Laden, gli uomini su cui gli Stati Uniti non vedono l'ora di mettere le mani. Nell'immagine del nascondiglio fornita dalla signora Gambuti ci sono particolari precisi e non difficili da verificare. Secondo la medium per accedere al rifugio di Osama bisogna attraversare a nuoto il fume Helmand - che bagna l'interno dell"Afghanistan - immergersi ad un tratto, imboccare il passaggio sommerso per poi ritrovarsi nel cuore di una grotta: il nascondoglio introvabile di Osama. Fantasia o realtà? Il mistero continua. ____________________ IL PIANO OPERATIVO ____________________ di Fabio di Chio e Anna Maria Turi PER I SOMALI in Italia è scattata la chiamata alle armi. O almeno per quelli che una divisa da militare I'hanno già indossata in passato. II generate Massimo Pizza e il colonnello Antonio D'Andrea, entrambi vicepresidenti dell'Associazione musulmani italiani (Ami), posti dal governo italiano a disposizione della struttura internazionale di intelligence sotto l'egida dell'Onu, nei giorni scorsi si sono incontrati con ex generali dell'esercito e funzionari di polizia somali. Lo scopo è quello di creare una sorta di Alleanza somala antifondamentalista - così come già accaduto in Afghanistan - di militari "in sonno", attuamente residenti in Occidente - dove lavorano e si sono rifatti una vita - ma che potrebbero tornare in azione al fianco delle forze militari occidentali nel momento in cui l'America darà il via all'operazione militare in Somalia contro Al Qaeda. Gli ufficiali incontrati dai due inviati
Onu erano circa una decina. Tra questi: il Qadi Ali Hussein, presidente
dell'Ami e colonnello a riposo della Guardia di Finanza, poi
ambasciatore di Somalia presso Ia S. Sede; Osman Falco, generale
candidato a capo di stato maggiore delle forze somale, già vice
comandante della polizia all'epoca di Siad Barre, Osman Iyò, ex leader
dei servizi segreti somali, ora avvocato; Abdullah Yussuf, comandante
dell'Esercito del Putland, rifugiatosi in Italia a partire dal 2000. Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana http://shell.spqr.net/islam/ mailto:islam@spqr.net
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27.12 |
AIDS:
l'altra guerra. 10000 morti al giorno di ACTUP Paris Il Gruppo Traduttori di ATTAC vi augura
un 2002 di pace e giustizia.
GRANELLO DI SABBIA (n°26) |
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27.12 |
In
tempo di guerra chi paga? di Doug Henwood "la guerra che verrà non è la prima. prima ci sono state altre guerre. alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti. fra i vinti la povera gente faceva la fame. fra i vincitori faceva la fame la povera gente ugualmente" Bertold Brecht I ricchi in pista per la riduzione delle tasse. C'è un vecchio detto degli economisti secondo il quale, in tempo di guerra, i governi attuano politiche egualitarie per ottenere il favore popolare. Ad esempio, nel corso delle prime due guerre mondiali e della guerra di Corea, il governo ha imposto una tassa supplementare sugli utili delle imprese - in parte perché gli serviva questo gettito, ma anche perché la popolazione non pensasse che le aziende ricavavano profitto dallo sforzo bellico. Alla fine delle guerre, erano state aumentate anche le imposte personali sui redditi più alti. Stavolta no. Nella sua grande lotta contro il terrorismo, una lotta che ci è stato detto dal governo Bush che potrebbe durare quaranta o cinquant'anni, sembrerebbe che a dirigere le danze ci sia Papà Warbucks (antico personaggio dei fumetti USA - vedi "Little Orphan Annie" -, precursore del più famoso Zio Paperone, NdT). L'ostentazione di egoismo e opportunismo è scioccante anche per chi è abituato a seguire la vita del Congresso USA. Pochi giorni dopo l'attentato al WTC il Congresso aveva già stanziato un aiuto di 15 miliardi di dollari per le compagnie aeree. Non un centesimo per i 100.000 e più dipendenti licenziati. E in questo momento, quando il Congresso discute di misure destinate a stimolare l'economia, i maiali si affollano davanti al truogolo, e i nostri legislatori non hanno altri pensieri che sfamarli. Il problema non è ridiscutere la necessità di un forte aiuto fiscale. L'economia americana perdeva colpi già prima dell'11 settembre. Non è facile capire se si trattava di una vera recessione, ma comunque era finito l'aumento dell'occupazione e l'industria aveva iniziato a declinare da più di un anno. Tra marzo 2000 e settembre 2001 nell'industria erano svaniti più di un milione di posti di lavoro. Una parte era stata assorbita dal settore dei servizi, che però non godeva buona salute neanche lui. La causa vera di questo rallentamento è l'esplosione della bolla finanziaria che si era creata attorno all'high-tech. Quando saltano bolle speculative di queste dimensioni, generalmente si lasciano dietro economia in gravi difficoltà, e ci vogliono anni per superarle. E' proprio quello che è successo negli USA nel corso degli anni '90, e in Giappone in questi ultimi 12 anni. Gli attentati dell'11 settembre hanno inferto un grave colpo economico e psicologico a un'economia già dissestata, cosa che ha quasi certamente innescato una vera recessione. CONGRESSO RETROGRADO Il rimedio classico alla recessione sarebbe l'uso di una forte leva fiscale - riduzione delle tasse per i redditi medio-bassi - e un aumento delle spese statali. La motivazione è semplice: in tempi difficili, chi ha soldi è restio a spenderli, e chi ne ha già pochi di solito se ne trova ancora meno a causa dei licenziamenti, della riduzione d'orario e di salario. Le aziende, di fronte alla riduzione di vendite e di utili, tagliano gli investimenti e ricorrono a massicci licenziamenti. E che cosa fa il Congresso? Taglia le tasse ai più ricchi e alle imprese: azioni economicamente inefficaci - anzi, l'esatto contrario di quello che si dovrebbe fare - ma molto gradite a coloro che finanziano i congressisti. In ottobre la Camera ha adottato un pacchetto di 100 miliardi di dollari destinato a detassare tutti gli investimenti delle aziende, facilitando così l'occultamento in paradisi fiscali dei profitti di gruppi come General Electric o General Motors, e offrendo miliardi di dollari in aiuto a compagnie tutt'altro che in crisi. Il pretesto era che queste misure avrebbero spinto le imprese a investire, a crescere e ad assumere; ma non c'è nessuna prova che la riduzione delle imposte abbia questi effetti. Le aziende investono, crescono e assumono quando aumentano le vendite, e le considerazioni fiscali sono marginali. L'emendamento approvato dalla Camera dei Deputati accelererebbe anche le riduzioni di imposta a favore dei redditi più alti, anticipandole dal 2006 al 2002, e riducendo l'imposizione sulle plusvalenze. Secondo i calcoli di CTJ (Cittadini per la Giustizia Fiscale) il 41% della riduzione di imposte finirebbe in tasca all'1% dei più ricchi, e quasi il 75% andrebbe al 10% più ricco. L'amministrazione Bush è molto soddisfatta per questo approccio. Ma i ricchi non saranno in grado di spendere tanto da avere un significativo effetto stimolante sull'economia. LA LOTTA DI CLASSE DEL PARTITO REPUBBLICANO Al Senato, la situazione è un po' più complessa. I repubblicani hanno proposto riduzioni di imposta ancora più sostanziose per i più ricchi - CTJ stima che più del 50% andrebbe all'1% più ricco. Però, diversamente da quello che è successo alla Camera, i repubblicani non hanno avuto abbastanza voti per far passare l'emendamento. I democratici, contrariamente alle loro abitudini, sono stati molto critici. Jim Jordan, direttore della Campagna democratica al Senato, ha dichiarato al New York Times che era rimasto stupefatto nel constatare "a che punto possono arrivare i repubblicani per dimostrare che sono il partito dei ricchi e delle imprese". I repubblicani classificano questi discorsi come "lotta di classe", come se i loro schemi mentali non entrassero a pieno titolo in questo concetto. I RICCHI PAGHERANNO UNA QUOTA MINORE DELLE ENTRATE STATALI, E TUTTI GLI ALTRI NE PAGHERANNO DI PIÙ. I democratici hanno proposto sinora di aumentare le spese per la sicurezza interna, per la copertura mutualistica dei licenziati e per i sussidi ai disoccupati, ma nulla che assomigli lontanamente ad una lotta di classe, e - probabilmente - nemmeno a uno stimolo per l'economia. E sarebbero d'accordo a ridurre le imposte per le aziende. Se il "piano repubblicano" andrà a buon fine, i ricchi pagheranno una parte ridotta delle spese governative - comprese quelle di guerra - e tutti gli altri vedranno aumentata la loro quota. Evidentemente non è sufficiente che i dipendenti perdano il posto di lavoro, a centinaia di migliaia per volta. L'unica buona notizia è che i due partiti sono d'accordo per versare ai più poveri - coloro che nell'estate scorsa non erano riusciti a raggiungere un imponibile fiscale di 300 dollari - un assegno di pari importo. Ma questi fondi non hanno avuto alcun effetto sull'economia: a quanto sembra, i beneficiari li hanno usati per saldare vecchi debiti o per metterli da parte. E' proprio per questa tendenza al risparmio in tempi difficili che le spese statali dovrebbero comporre una parte importante nel pacchetto di misure destinato a rivitalizzare l'economia. Cosa dovrebbe esserci in questo pacchetto? Ecco qualche elemento: estensione e prolungamento del sussidio di disoccupazione (oggi ne beneficiano solo il 47% dei disoccupati, contro il 75% degli anni '70); rilancio della politica di redistribuzione delle ricchezza, abbandonata da Reagan in poi, per accordare aiuti agli stati che a causa della recessione vedono fortemente decrescere le entrate; aiuti alla compagnia ferroviaria Amtrak per promuovere trasporti economici e alternativi all'aereo; e riduzioni di imposte (più generosi di 300 dollari!) per i nuclei famigliari a medio e basso reddito. Purtroppo, le organizzazioni che dovrebbero battersi per queste misure, come l'AFL-CIO, hanno abbandonato la lotta quasi tutte. Doug Henwood è editore di "The Left Business Observer" www.leftbusobserver.com, un periodico di politica ed economia. Articolo pubblicato in collaborazione con Labor Notes, un mensile di Detroit. Possibilità di abbonarsi a http://www.labornotes.org. Traduzione a cura di Umberto G.B. Bardella Il Gruppo Traduttori di ATTAC vi augura
un 2002 di pace e giustizia.
GRANELLO DI SABBIA (n°26) |
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27.12 |
La
guerra dell'acqua
di Thierry Adam Il Gruppo Traduttori di ATTAC vi augura
un 2002 di pace e giustizia.
GRANELLO DI SABBIA (n°26) |
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27.12 |
Il
settore dei servizi è soddisfatto da Doha di Daniel Pruzin I rappresentanti delle associazioni del settore dei servizi hanno espresso la loro soddisfazione al termine della conferenza ministeriale dell' Organizzazione Mondiale del Commercio, che si è tenuta a Doha, in Qatar, dal 9 al 14 novembre, malgrado il rinvio dei negoziati sui servizi al 2003, formulato nella dichiarazione finale. L'OMC ha iniziato i negoziati prescritti sull'agricoltura e i servizi all' inizio del 2000 e i lavori preparatori sui servizi sono stati abbozzati all' epoca. Ma le discussioni si sono arrestate, nell'attesa del lancio di un nuovo ciclo di negoziati, più ampio e nel quale l'introduzione di nuovi settori di negoziazione avrebbe offerto ai membri dell'OMC carta bianca per negoziare delle concessioni tra i differenti settori. I ministri del commercio si sono risolti a lanciare questo ciclo alla conferenza di Doha, scrivendo all'ordine del giorno i nuovi settori, quali le tariffe doganali dei prodotti dell'industria, le regole antidumping e compensatorie, così come l'ambiente, campi ai quali si aggiunge la possibilità di introdurre nel giro di due anni questioni nuove, quali quelle della politica degli investimenti e della concorrenza. I ministri hanno riconosciuto il lavoro già svolto sui negoziati relativi ai servizi, così come il numero importante delle proposte presentate dai membri dell'OMC su numerose questioni. Hanno altresì riaffermato la linea di condotta e le procedure adottate nel marzo 2001 dal Consiglio sul Commercio e i Servizi dell'OMC per il proseguimento dei negoziati. I ministri hanno aggiunto che i paesi partecipanti ai negoziati dovrebbero sottoporre le loro richieste iniziali di accesso al mercato dei servizi entro il 30 giugno 2002. In seguito, le offerte iniziali dovrebbero essere presentate dai partecipanti al più tardi il 31 marzo 2003, data in cui la fase di negoziazione potrebbe partire. Capisaldi e scadenze certe: le due chiavi per la riuscita. J. Robert Vastine, il presidente della Coalizione americana delle imprese di servizi (US Coalition of Services Industries), ha dichiarato che il suo gruppo era soddisfatto degli esiti di Doha. "l'essenziale, per noi è di avere ottenuto capisaldi e scadenze certe per la presentazione delle offerte", ha confessato il 19 novembre al Bureau of National Affairs (BNA). Ha aggiunto che il rinvio di parte dei negoziati, per l'esattezza, non era una cosa malvagia. «Il settore dei servizi e i governi hanno bisogno di tempo per diffondere l'informazione su questioni quali la trasparenza e la regolamentazione nazionale», ha precisato. « Molte persone non comprendono questi problemi. Avremo bisogno di tutto questo tempo per informare i cittadini, e potrebbe portare ad offerte più considerevoli» "Perché correre?", ha concluso, sottolineando il fatto che il ciclo di Doha non dovrebbe concludersi prima del 1° gennaio 2005. Questo ciclo è condotto come un tutt'uno, ciò significa che, anche se l'accordo sui servizi fosse concluso prima della data di scadenza , bisognerebbe aspettare che i negoziati relativi agli altri settori, siano terminati per concludere l' accordo globale. La dichiarazione di Doha non precisa se gli accordi conclusi prima entreranno in vigore, provvisoriamente o definitivamente, nell'attesa della fine del ciclo di negoziati. Il Comitato europeo delle assicurazioni, una federazione che rappresenta le associazioni di compagnie assicuratrici di 29 paesi europei, ha ugualmente accolto in maniera positiva la conclusione della conferenza di Doha il 19 novembre. "Ciò che c'è di nuovo e di importante nel settore assicurativo, è che delle reali negoziazioni sui servizi stanno per essere iniziate, dopo un periodo di quasi stagnazione di questi due ultimi anni", ha dichiarato. Christopher Roberts, del Forum europeo dei servizi, che raggruppa i rappresentanti di più di 30 settori di servizi in Europa, ha aggiunto che la sua associazione era "nel complesso soddisfatta dal risultato di Doha. Noi sapevamo che se i negoziati sui servizi avessero portato a dei risultati significativi, avremmo indetto un nuovo ciclo." « Preferiremmo infatti, che il processo di domanda e di offerta ai servizi iniziasse prima », ha riconosciuto, « ma è più importante avere un calendario preciso. La parte della dichiarazione dei ministri relativa ai servizi non è stata materia controversa a Doha. Siamo contenti di iniziare, dall'anno prossimo, dei negoziati seri ed approfonditi." L'ottimismo di Mr. Moore. Mike Moore, direttore generale dell'OMC, ha dichiarato il 19 novembre, che il rinvio dell'inizio dei negoziati, relativi alla fase di domanda ed offerta di servizi, tendeva ad assicurare un certo equilibrio tra i servizi e gli altri settori. « Vogliamo evitare che qualche settore sia troppo in anticipo rispetto agli altri », ha precisato. I paesi interessati dai commerci agricoli, come i 18 membri del gruppo di Cairns, hanno insistito perché le discussioni previste per i servizi e l' agricoltura, siano condotte contemporaneamente, al fine di garantire una buona riuscita di quest'ultima, per la quale la posta politica è molto più elevata. La dichiarazione di Doha esige membri dell'OMC che sottoscrivano una proposta completa di scadenze per l'accesso al mercato agricolo da ora fino alla quinta conferenza ministeriale dell'OMC, prevista per il 2003. Daniel Pruzin. Bureau of National Affairs, Inc., Washington (editore di servizi di informazione specializzati negli affari, la legislazione, la giustizia e la regolamentazione). Traduzione a cura di Simone Bocchi Il Gruppo Traduttori di ATTAC vi augura
un 2002 di pace e giustizia.
GRANELLO DI SABBIA (n°26) |
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26.12 |
Occhi
puntati sulla Somalia
Per chi ancora non lo abbia fatto, si legga le pagine del 13.12 "Dossier: Somalia prossimo obiettivo"
Teniamo d'occhio il fantomantico istituto
islamico di 'Abdul-Hadi Massimo Palazzi, l'Istituto Culturale della
Comunità Islamica Italiana (Via Muzio Scevola 81/25 00181 Roma; tel.
e fax 06/7825036), connesso all'AMI (http://shell.spqr.net/islam/
mailto:islam@spqr.net) perchè un
inaudito fronte d'interessi sta premendo affinché la "guerra al
terrorismo" prenda una 'piega somala'.
Se le cose andranno come vogliono queste persone, la candidatura a "Papa dell'Islam italiano" dello "sceicco Palazzi" (pubblicamente filosionista: quello della sceneggiata davanti alla Comunità di S. Egidio in occasione della visita di al-Qaradawi, per intenderci), che ha trovato nei quotidiani "Libero" e "L'Opinione" (ma anche "Il Tempo" e "Il Messaggero" non lesinano gli spazi) delle puntuali casse di risonanza, ne uscirà rafforzata. Seguiranno aggiornamenti in merito.
Davide di Porto
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25.12 |
La
fine del pensiero unico e le guerre future
Dal sito www.wumingfoundation.com. Questo che segue è un articolo del 23 agosto 2001,scritto da Sbancor, che è un noto personaggio dell'alta finanza italiana, che annuncia con largo margine lo scenario che ha cominciato a profilarsi dall' 11 settembre. Il sito è curato dagli ex Luther Blisset all'interno del link Giap (una mailing-news a cui è possibile iscriversi). Vai anche su www.yndimedia.org dove trovertere novità sulla morte di Carlo Giuliani, se è di vostro interesse. Giuliana Una riflessione e un contributo
importante, in attesa di riprendere con /Giap/ e con tutto il resto.
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22.12 |
Danni
collaterali
Una notiziola da nulla, da inserire tra i particolari della dura "giornata di guerra" dei marines: leggete come la propone burocraticamente il sito del 'moderato' "Corriere". da www.corriere.it, 21 dicembre 2001 La situazione dopo la caduta di Tora Bora Rumsfled: "Abbiamo attaccato un convoglio" Il ministro: "Le operazioni militari proseguono". Molti morti civili colpiti mentre andavano a celebrare il nuovo governo WASHINGTON - Le operazioni militari
americane in Afghanistan "continuano senza pause": lo ha
detto il ministro della difesa americano Donald Rumsfeld. Rumsfeld,
durante la conferenza stampa che si è svolta al Pentagono, ha poi
raccontato che, nelle ultime ore, è stato attaccato un convoglio:
"Abbiamo fatto molte vittime", ha detto. E, rispondendo a
una domanda sulla mancanza di bombardamenti negli ultimi giorni, ha
aggiunto: "Quando abbiamo un obiettivo, attacchiamo. Quando non
lo abbiamo, non attacchiamo". |
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22.12 |
Nessuno
tocchi il Natale della Fallaci Un gruppo di hacker avrebbe lanciato un'indegna campagna per sabotare il nuovo libro di Oriana Fallaci. L'ultima catena su Internet rischia infatti di far fallire il lancio di *La rabbia e l'orgoglio*, che con la sua bella copertina rossa sta riempiendo le vetrine di tutte le librerie sotto Natale. Il testo che segue viene pubblicato puramente a scopo di documentazione; non sappiamo nulla della veridicità di questo curioso scritto, pervenutoci a firma di Fedele Lepanto. Silvia |
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20.12 |
Falso
il video di bin Laden
Secondo il quotidiano egiziano ash-Sha'b (http://www.alshaab.com) l'Amministrazione americana avrebbe ammesso sotto voce di aver fabbricato il video di Bin Laden con un sosia. Il giornale stesso mostra una foto del Bin Laden originale e una del Bin Laden "contraffatto". Pare che il padre di Muhammad 'Ata, al quale Bin Laden avrebbe attribuito nel video l'esecuzione del piano (confermando dunque i sospetti del presidente Bush e dei suoi scagnozzi), si sia rifutato di credere alla veridicità del video. "L'America è la terra della corruzione e dell'inganno.", ha affermato. Se la notizia verrà confermata (anche se non verra confermata a mio modesto modo di vedere), a non avere più alcun dubbio sarà quello sparuto gruppo di persone che ha cercato di riflettere sugli avvenimenti degli ultimi mesi al di là di tutte le falsità mandate in onda dai telegiornali e pubblicate dai giornali nazionali.
Per ulteriori dettagli si leggano i
seguenti articoli:
"Il video di Bin Laden trasmesso
dall'America è fabbricato" http://www.alshaab.com/GIF/14-12-2001/n7.htm
"Il padre di Muhammad 'Ata non crede al video e parla di America come terra della corruzione e dell'inganno" http://www.alshaab.com/GIF/14-12-2001/n15.htm "L'amministrazione Bush e la contraffazione del video" http://www.alshaab.com/GIF/14-12-2001/n16.htm "Un gruppo di 'ulama': se l'America ha la prove della colpevolezza di Bin Laden, le porti ad un tribunale internazione e non le sbandieri in tv" http://www.alshaab.com/GIF/14-12-2001/n17.htm |
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19.12 |
Un
dattero per l'Iraq
Questo fine settimana, banchetti con datteri iracheni per rompere simbolicamente l'embargo
IN IRAQ LA VITA DI UN BAMBINO VALE UN
DATTERO.
Datteri iracheni "contrabbandati" dalla associazione "Un ponte per..." come atto di disobbedienza civile alla legge italiana sull'embargo all'Iraq sono in vendita in tutta Italia per protestare contro l'embargo e come atto di solidarietà verso la popolazione irachena colpita con oltre un milione di vittime. Da 11 anni continuano a morire 4.500 bambini al mese. Facciamo che la vita di un bambino valga una vita. I datteri sono in vendita nelle Botteghe del Commercio Equo e Solidale e nelle piazze. Il 22 dicembre giornata nazionale di disobbedienza civile con tavoli di vendita publica in tutt'Italia. COMUNICATO STAMPA Per la seconda volta l'embargo all'Iraq è stato apertamente e pubblicamente violato con una iniziativa di "disobbedienza civile" alla legge 298/90 promossa dalla associazione di volontariato "Un ponte per.". L'iniziativa, consistente nella importazione "illegale" di 20 tonnellate di datteri iracheni, intende essere una ulteriore forma di pressione sul governo italiano perché dia attuazione alla risoluzione approvata il 21 giugno 2000 dalla Camera dei deputati che lo impegnava, anche sotto la pressione di 30.000 firme di una petizione popolare, a "prendere una posizione ufficiale nelle sedi internazionali per la revoca delle sanzioni all'Iraq", "sbloccare i fondi iracheni congelati nelle banche italiane e promuovere iniziative umanitarie. "Siamo stufi di aspettare che il governo si muova - hanno detto gli organizzatori - non riconosciamo più validità ad una legge con la quale anche il nostro paese partecipa al genocidio della popolazione irachena, che ha pagato già con oltre un milione di morti." I datteri sono stati acquistati direttamente da contadini del sud dell'Iraq, sono stati sterilizzati, essiccati e confezionati in Iraq ed importati in Italia, dopo aver passato due frontiere ed aver cambiato due volte identità. Prima della importazione il prodotto è stato fatto analizzare sia da un laboratorio iracheno che da uno italiano per verificare la conformità alle norme sanitarie italiane e per verificare la assenza di uranio impoverito. I proventi della iniziativa verranno utilizzati in un progetto di riabilitazione di un centro di salute nella zona di provenienza dei datteri. Iniziative analoghe avverranno in Canada, Gran Bretagna e Francia ove i datteri iracheni sono stati riesportati dall'Italia. I datteri (di cui l'Iraq era il primo esportatore mondiale) erano, prima della guerra del Golfo la seconda voce nelle esportazioni irachene. L'embargo, chiudendo i mercati esteri, ha colpito molto duramente i contadini e tutte le attività connesse alla lavorazione e alla trasformazione del prodotto.
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18.12 |
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15.12 |
Indice
di Diario della settimana
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14.12 |
Osservatorio
sullo stato della democrazia in Italia
E' online il sito dell'osservatorio
sullo stato della democrazia in Italia |
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13.12 |
A voi tutti la newsletter dello ICCII Davide di Porto salamu `alaykum wa rahmat-Ullahi wa
barakatuH. DD: nell'articolo del sito http://www.opinione.it/ si scrive che alcuni dell'Ami sarebbero inseriti nelle strutture dei "servizi"... |
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13.12 |
Vi rigiro alcune notizie dallo ICCII
Davide di Porto
"Libero"
LIBERO
quotidiano diretto da Vittorio Feltri Domenica 2 dicembre 2001, p. 1. Le rivelazioni di Abdul Hadi Palazzi: E a Roma arrestato un terrorista egiziano della cellula di Al Qaeda TUTTA LA VERITA' SULLA MOSCHEA Milano, un capo islamico confessa: «Sapevamo che il Centro di viale Jenner era di Bin Laden, ma il goveno dell'Ulivo non voleva grane» ROMA - Era noto a tutti che il centro di viale Jenner aveva stretto alleanza con Bin Laden. L'avevamo denunciato più volte. Parla Abdu Hadi Palazzi, direttore dell'Istituto culturale della comunità islamica italiana. Racconta di aver segnalato alla commissione affari per i culti non cattolici degli ultimi quattro governi che il centro islamico di Milano intratteneva legami finanziari - e non solo - con la rete terrostica. «Sapevano tutti che in viale Jenner venivano arruolate persone che poi andavano in Bosnia e in Pakistan». Gli venne risposto che «non si poteva fare niente, finché gli attentati riguardavano Paesi all'estero». La prima denuncia risale al 1996, all'epoca del governo Dini. ----------------------------------------------------------------------- Le rivelazioni di Abdul Hadi Palazzi, direttore dell'Istituto culturale della comunità musulmana in Italia. Che lancia accuse all'ex presidente del Consiglio Dini «QUEL CENTRO E' DI BIN LADEN E TUTTI LO SAPEVANO» Viale Jenner finanziata dallo sceicco saudita. Lo denunciammo, ma il governo dell'Ulivo non voleva grane. ROMA - «Era noto a tutti che il centro di viale Jenner aveva stretto alleanza con Al Qaeda». Era noto, scopriamo più tardi, alla Commissione affari per i culti non cattolici degli ultimi quattro governi: Dini, Prodi, D'Alema e Amato. Sono le 16 di venerdì. Ai microfoni di Radio Rai, per la trasmissione Baobab notizie in corso, parla il direttore dell'Istituto culturale della comunità islamica italiana. Lo intervista Maria Teresa Lamberti. Il tema è questo: fino a che punto si può parlare di «infiltrazioni» negli ambienti delle moschee? Trattandosi di un esponente della comunità islamica, meglio misurare i termini. Infiltrazioni, dunque, vale a dire collegamenti sporadici. «Il centro di viale Jenner» , comincia Abdu Hadi Palazzi, «è preesistente ad Al Qaeda ma a un certo punto ha stretto un'alleanza, prima di tutto finanziaria, con la rete terroristica». Il presidente del centro culturale, replica l'intervistatrice, nega alcun legame. «Era noto a tutti», risponde Palazzi, «l'abbiamo denunciato da diversi anni». Denunciato? Silenzio in studio. Palazzi racconta di aver «denunciato» che in viale Jenner si stava progettando la creazione di una scuola. «Avvertimmo le autorità che ci pareva pericoloso, visto quel che avveniva in quel centro». Si sapeva, prosegue, che lì si «arruolavano i volontari per la Bosnia, il Pakistan, l'Afghanistan». Vista la disponibilità economica di cui il centro godeva, si attiravano gli immigrati «dando loro una mano per il permesso di soggiorno, la ricerca della casa...». In questo modo «venivano selezionati i candidati pronti per essere arruolati». Perché prima di proporre a uno di partire per il Pakistan «bisogna testarne centinaia, migliaia». II metodo era scientifico, il collegamento con Al Qaeda sistematico. Ma soprattutto «lo sapevano tutti». Chi sapeva? Lo cerchiamo. E' nella sede dell'Associazione Musulmani Italiani, a Roma. Abdu Hadi Palazzi appartiene all'ala moderata della comunità islamica italiana, quella parte che da anni, ci racconta, «ha denunciato alle istituzioni italiane che le infiltrazioni terroristiche ci sono». Parla al presente, Palazzi. «Abbiamo fatto nomi e cognomi, abbiamo parlato tante volte del centro di viale Jenner, mettendo in guardia da quello che succedeva là dentro». La prima volta che denunciò la cosa fu cinque anni fa, all'epoca del governo Dini, davanti all'ufficio per gli affari dei culti, presso la Presidenza del Consiglio. Ricorda: «La delega era stata affidata al sottosegretario alla presidenza Guglielmo Negri». In quell'occasione, dice, «facemmo presente al sottosegretario qual era la situazione». A lui, come a quelli che seguirono, precisa. «La risposta era sempre la stessa: "Sappiamo che alcuni centri islamici hanno legami con organizzazioni terroristiche e raccolgono fondi per finanziare attentati." Ma finché le azioni terroristiche avvengono all'estero non possiamo farci niente». Non solo, «ci hanno sempre detto che se il governo italiano fosse intervenuto, avrebbe messo a rischio la sicurezza del Paese, diventando un bersaglio terroristico». L'ultima commissione incaricata del dialogo con i musulmani, durante il governo D'Alema, non li ha più interpellati. «Solo contatti telefonici». Abdul Hadi Palazzi conosce bene il fondamentalismo islamico: «Dal punto di vista finanziario», spiega, «è un'unica struttura; verso Al Qaeda confluiscono i fondi raccolti da tanti centri anche in Italia». C'è un livello superficiale di propaganda ideologica, che mira a ottenere consenso utilizzando strutture culturali o religiose, è un livello militare. «Ma sono connessi l'uno all'altro e sostenuti da una capillare struttura finanziaria». Racconta di aver segnalato alle autorità giudiziarie italiane la presenza di riviste dove era scritto che «i fondi per la pubblicazione» erano stati ottenuti «grazie alle donazioni della Banca Al Taqwa», poi diventata Nada Management Organization, oggi sospettata di essere uno dei principali canali finanziari di Bin Laden. Abdul Hadi conosce il fondamentalismo. Il 12 aprile del 2000 è stato assassinato a Roma Mohamed Shawky, 52 anni, direttore della scuola islamica legata al movimento di Palazzi. «L'hanno ucciso perché era un moderato e contrastava la propaganda fondamentalista». L'assassino non ha ancora un nome. Elisa Calessi
LIBERO
quotidiano diretto da Vittorio Feltri martedì 4 dicembre 2001 p. 6 Agenti del Sismi in missione a Mogadiscio per creare un fronte moderato antiterrorismo LA SOMALIA CHIEDE AIUTO AGLI 007 ITALIANI L'exambasciatore Hussen: «In cambio, faremo i noni dei finanziatori di Osama» di Dimitri Buffa L'ultima partita con Al Qaeda si giocherà quasi sicuramente in Somalia, dove buona parte del territorio del Somaliland sta nelle mani dei fiancheggiatori di Bin Laden. Per questo motivo l'attuale presidente somalo Hassan Abulkassim chiede l'intervento dell'intelligence italiana. E in prospettiva quello militare. Per questo usa il suo portavoce Ali Hussen, un Tempo ambasciatore presso la Santa Sede, prima che lo stato di cui è capitale Mogadiscio si dissolvesse. Hussen a "Libero" ha indicato i nomi di quegli elementi della struttura finanziaria Al Barakaat (quella che attraverso le rimesse degli ignari somali finanziava Al Qaeda) che operano in Italia e che ancora non sono stati messi nel mirino della magistratura. Dietro questa sortita del governo somalo che "Libero" è in grado di anticipare in esclusiva, c'è la missione compiuta nei giomi scorsi nel massimo segreto da una delegazione dell'intelligence militare italiana, guidata dal generale Massimo Pizza e dal colonnello Antonio D'Andrea, già responsabili dell'Ufficio K del Sismi, una struttura che era stata specificamente creata per la Somalia tra il 1985 e il 1992 dall'ammiraglio Fulvio Martini. Tale missione consisteva nel mettere d'accordo tutti i capi tribù della Somalia che fanno riferimento all'Islam moderato e che combattono disperatamente l'attuale strapotere dei miliziani della Jiamaat al-Ikhwan legati alla struttura di Al-Qaeda. Chi sono questi somali moderati? I nomi più importanti sono quello del governatore di Benadir, Hiran Abukar Muhammad, quello di Ugas Hajj Musa, capo-clan degli Shikal, e quello dell'avvocato Hassan Elai che guida l'omonima tribù. Che chiede quindi all'Italia il presidente somalo? In primo luogo che venga rimessa in funzione la struttura del Sismi e che venga coordinata dai due suddetti ufficiali che godono la massima fiducia dello stesso Abulkassim, tanto da i essere diventati entrambi vicepresidenti della Associazione Musulmani Italiani, una delle più moderate, in buoni rapporti anche con Israele. In secondo luogo, come ha spiegato a "Libero" il suo portavoce Ali Hussen, «piuttosto che fare un bis del fallimento di Restore Hope, tanto vale che sia l'Italia, con il consenso della comunità internazionale, a intervenire militarmente contro gli scherani somali di Bin Laden». E che possono offrire in cambio le fazioni somale moderate all'Italia? «Dopo viale Jenner, gli inquirenti non devono dimenticare il centro in cui avveniva la raccolta crediti per il Somaliland, "Il Fondaco dei Mori", nel cuore della Milano bene» «Come prova di buona volontà - dice sempre Hussen - siamo disposti a fare i nomi di tutti quei referenti della struttura finanziaria somala di Al Barakaat che ancora non sono finiti nel mirino della magistratura». Ecco qualche esempio: «ora che l'attenzione degli inquirenti si è spostata sull'Istituto dei Salafiti di Viale Jenner, fondato dal trafficante d'anni egiziano Anwar Shaban, non bisogna scordarsi del banchiere siriano Hassan Tubba'i, latitante e già direttore della filiale di al Taqwa alle Bahamas». Non basta: «anche il suo amico e referente per l'Italia, Baha El Din Ghrewati,residente nella provincia di Imperia, non è ancora stato oggetto dell'attenzione degli inquirenti, così come non lo sono stati i responsabili del centro milanese in cui avveniva la raccolta dei crediti per la Somalia, quel circolo culturale "Il Fondaco dei Mori", nel centro della Milano bene». «A dirigere il centro raccolta fondi erano sin da allora - spiega Hussen a"Libero" - tre responsabili: il convertito svizzero Ali Federico Francesco Schultz, sua moglie somala Aisha Shams, figlia di un Mukhtar del clan degli Habar-Ghadir alleato della "Jamaat al-Ikhwan", e l'uomo d'affari sudanese Muhammad Tahir, esponente di primo piano del Partito di Unità Popolare Arabo-Islamica, guidato da Hasan Turabi. Il matrimonio fra Schultz e Aisha Shams ha suggellato di fatto un'alleanza politica fra al Taqwa, il Sudan di Turabi e gli Habar-Ghadir pro Bin Laden». Non è finita: «le rimesse per la struttura di propaganda degli alleati della Fratellanza in Italia provvedeva a farle Ghrewati per il tramite del palestinese Muhammad Afsa, al presente latitante, e dei convertiti italiani Ahmad Ferrario e Abdul Jalil Umberto Randellini, entrambi membri assieme a Schultz della "organizzazione caritatevole" Human Appeal Intemational, messa fuorilegge dal Regno Unito per il suo ruolo nel finanziamento di strutture terroriste antibritanniche nello Yemen». Quanto ai referenti somali in altre città, da Roma il cassiere di Barakaat, Abdullah Shueb è sparito «nei primi giorni del settembre 2001...». Neanche il governo di transizione del presidente Hassan è esente da ombre: è di ieri la denuncia delle autorità della Regione Autonoma del Puntland al Parlamento europeo sulle complicità di molte figure di spicco dell'esecutivo con i fiancheggiatori di Osama Bin Laden. ----------------------------------------------------------------------- La Somalia dice all'Italia: cattura i complici di Bin Laden Per evitare l'intervento militare degli Usa il presidente Abulkassim chiama in aiuto le strutture investigative del Sismi Ormai tutti sanno che l'ultima partita con Al Qaeda si giocherà quasi sicuramente in Somalia, dove buon parte del territorio del Somaliland sta nelle mani dei fiancheggiatori di Bin Laden. Per questo motivo l'attuale presidente somalo Hassan Abulkassim chiede l'intervento dell'intelligence italiana. E in prospettiva quello militare. Anche per evitare interventi militari massicci dal cielo degli Usa, AbuIkassim chiede ufficialmente attraverso il suo portavoce Ali Hussen, un tempo ambasciatore presso la Santa Sede, prima che lo stato di cui è capitale Mogadiscio si dissolvesse, un intervento internazionale da appaltare all'Italia. Perchè proprio noi? "Perchè in Italia buon parte della popolazione non vi ha dimenticato e vi vuole bene considerandovi fratelli, mentre un intervento militare anglo-americano rischierebbe di compattare l'odio dei terroristi contro l'Occidente". Per fare vedere che le richieste della Somalia hanno anche una contropartita, Hussen all`Opinione ha indicato i nomi di quegli elementi della struttura finanziaria Al Barakaat (quella che attraverso le rimesse degli ignari somali finanziava Al Qaeda) che operano in Italia e che ancora non sono stati messi nel mirino della magistratura. Dietro questa sortita del governo somalo c'è la missione compiuta nei giorni scorsi nel massimo segreto da una delegazione dell'intelligence militare italiana, guidata dal gen. Massimo Pizza e dal col. Antonio D'Andrea, già responsabili dell'Ufficio K del Sismi, una struttura che era stata specificamente creata per la Somalia tra il 1985 e il 1992 dall'ammiraglio Fulvio Martini. Tale missione consisteva nel mettere d'accordo tutti i capi tribù della Somalia che fanno riferimento all'Islam moderato e che combattono disperatamente l'attuale strapotere dei miliziani della Jamaaat al-Ikhwan legati alla struttura di al-Qaeda. Chi sono questi somali moderati? I nomi più importanti sono quello del governatore di Benadir, Hiran Abukar Muhammad, quello di Ugas Hajj Musa capo-clan degli Shikal, e quello dell'avvocato Hassan Elai che guida l'omonima tribù. Che chiede quindi all'Italia il presidente somalo? In primo luogo che venga rimessa in funzione la struttura del Sismi e che venga coordinata dai due suddetti ufficiali che godono la massima fiducia dello stesso Abulkassim, tanto da essere diventati entrambi vicepresidenti della Associazione musulmani italiani, una delle più moderate che esistono in Italia, in buoni rapporti anche con Israele. In secondo luogo, come spiega il suo portavoce Ali Hussen, "piuttosto che fare un bis del fallimento di Restore Hope, tanto vale che sia l'Italia in prima persona e con il consenso della comunità internazionale a intervenire militarmente contro gli scherani somali di Bin Laden". E che possono offrire in cambio le fazioni somale moderate all'Italia? "Come prova di buona volontà - dice sempre Hussen - siamo disposti a fare i nomi di tutti quei referenti della struttura finanziaria somala di Al Barakaat che ancora non sono finiti nel mirino della magistratura". Ecco qualche esempio: "ora che l'attenzione degli inquirenti si è spostata sull'Istituto dei Salafiti di Viale Jenner, fondato dal trafficante d'armi egiziano Anwar Shaban, non bisogna scordarsi del banchiere siriano Hassan Tubba'i, latitante e già direttore della filiale di al Taqwa alle Bahamas." ...Non basta: " anche il suo amico e referente per l'Italia, il dott. Baha El Din Ghrewati, residente nella provincia di Imperia, non è ancora stato oggetto dell'attenzione degli inquirenti, così come non lo sono stati i responsabili del centro milanese in cui avveniva la raccolta dei crediti per la Somalia, quel circolo culturale "Il Fondaco dei Mori", nel centro della Milano bene." A dirigere il centro raccolta fondi erano sin da allora - spiega Hussen - tre responsabili: il convertito svizzero Ali Federico Francesco Schultz, sua moglie somala Aisha Shams, figlia di un Mukhtar del clan degli Habar-Ghadir alleato della "Jamaat al-Ikhwan", e l'uomo d'affari sudanese Muhammad Tahir, esponente di primo piano del Partito di Unità Popolare Arabo-Islamica, guidato da Hasan Turabi. Il matrimonio fra Schultz e Aisha Shams ha suggellato di fatto un'alleanza politica fra al Taqwa, il Sudan di Turabi e gli Habar-Ghadir pro Bin Laden." Non è finita: "le rimesse per la struttura di propaganda degli alleati della Fratellanza in Italia provvedeva a farle Ghrewati per il tramite del palestinese Muhammad Afsa, al presente latitante, e dei convertiti italiani Ahmad Ferrario e Abdul Jalil Umberto Randellini, entrambi membri assieme a Schultz della "organizzazione caritatevole" Human Appeal International, messa fuorilegge dal Regno Unito per il suo ruolo nel finanziamento di strutture terroriste antibritanniche nello Yemen. Quanto ai referenti somali in altre città, da Roma il cassiere di Barakaat, Abdullah Shueb è sparito nei primi giorni del settembre 2001..." Sono notizie più o meno inedite su cui gli inquirenti e l'intelligence italiana potranno lavorare a lungo, in cambio la Somalia chiede solo che l'Italia si ricordi della sua ex amata colonia. Dimitri Buffa La Somalia, oggi piu' che mai, è un Paese dal futuro incerto. L'ultima notizia è quella chiusura della Barakat, la banca di Osama bin Laden che gestiva i flussi del denaro degli immigrati somali verso le famiglie restate in patria, per un totale complessivo di circa 450 milioni di dollari l'anno. La banca, organizzata sul modello Western Union e basata sul principio del più completo anonimato, aveva 114 sportelli in tutto il mondo, concentrati soprattutto negli Stati Uniti, in Europa e nel Golfo. La chiusura è stata effettuata su richiesta del Presidente USA George W. Bush, nell'ambito del programma finalizzato al congelamento delle rete finanziaria del terrorismo internazionale. Secondo l'amministrazione USA, l'anomala banca di Al Qaeda avrebbe assicurato agli uomini di bin Laden una commissione del 6% su ogni singola rimessa. Tutto il sistema di invio e di ricezione di fondi in Somalia risultava essere anomino, al di fuori dei normali sistemi di controllobancario, ed Al Qaeda ne traeva un profitto pari a circa il 6 % complessivo. Senza più Barakat in attività, la Somalia si è vista privata della sua più importante fonte di afflusso di capitali esteri. Oltretutto, il governo provvisorio è paralizzato anche dalla guerriglia interna: deve far fronte alla presenza di bande armate nelle varie regioni, soprattutto nelle campagne e addirittura tutt'attorno alla capitale Mogadiscio, il cui porto e il cui aeroporto inernazionali sono tuttora chiusi. Massimo Pizza e Antonio D'Andrea, responsabili dell'Associazione di Amicizia Italo-Somala hanno intervistato Sua Eccellenza Ali Hussen, già incaricato d'affari presso la S. Sede all'epoca della presidenza di Siad Barre, ed attuale portavoce del Presidente Abdikassim Hassan presso l'Unione Europea. - Eccellenza, tra i vostri problemi c'è anche quello della forte presenza nel vostro Paese di sostenitori di Osama Bin Laden. Lei ha notizie dalla Somalia riguardanti il capo del terrorismo internazionale? - Il Presidente della Repubblica Somala ha in questi giorni ordinato l'arresto di undici somali provenienti dall'estero, e legati al gruppo Jamaat al-Ikhwan, una diramazioen dei Fratelli Musulmani che si è alleata con Al Qaeda. Cercavano di convincere i tremila militanti armati asserragliati nelle campagne a prepararsi ad acccogliere bin Laden nel caso in cui una evacuazione dell'Afghanistan si rendesse necessaria. Questa fazione comprendeva anche un gruppo di mille volontari somali, già addestrati in Afghanistan, e se si aggiungono i cosiddetti Fratelli Musulmani di altre aree del paese si arriva ad un totale di una decina di migliaia di militanti su cui la rete di bin Laden può fare affidamento. Buona parte dei capi locali sono però già stati incarcerati dal governo locale del Punt Land di Bosaso. I restanti finacheggiatori del terrorismo si troverebbero sparpagliati nel Somaliland con capitale Argeisa, ex colonia britannica poi unificata alla Repubblica somala. Sappiamo anche che, non appena le forze anglo-americane hanno deciso di bombardare l'Afghanistan, si e' avuta notizia della partenza dei sosia di Osama bin Laden dalla Somalia verso il Pakistan, e di là nello Yemen. - Di cosa si sta occupando l'intelligence militare italiana? - Sta spianando la strada perche' gli Americani siano pronti ad intervenire in Somalia nel caso in cui bin Laden decidesse di rifugiarvisi, o comunque di trasferirvi parte delle sue strutture. - Osama bin Laden avebbe previsto quindi come inevitabile la sconfitta dei Talebani. La sua fuga come sarebbe proseguita? - Secondo le confessioni di alcuni degli arrestati, erano pronti diversi piani di fuga all'estero nel momento in cui l'Afghanistan risultasse indifendibile. Fra questi vi era un piano secondo cui Osama bin Laden avrebbe attraversato il Mar Rosso su una barca a vela abitualmente usata dai pescatori yemeniti, che la chiamano 'sambuca', approdando sulle coste desertiche del Punt Land, dove lo avrebbero accolto i Fratelli Musulmani da lui finanziati, per poi nascondersi in una baracca, o tenda, o tukul come a migliaia ne sorgono in queste terre desolate. L'arresto degli undici emissari dell'organizzazione da parte del governo centrale sembra però avere sventato proprio la fattibilità di questo progetto di fuga. - Cosa puo' fare il governo somalo in questa situazione tragica di guerra portata in casa propria dal terrorismo internazionale e di presenza di alleati di Osama bin Laden sul suo territorio? - Il governo provvisorio somalo in più occasioni ha lanciato appelli sia all'ONU sia agli USA, affinché intervengano con forze internazionali al fine di bonificare il territorio in mano agli alleati del terrorista saudita. Finora non c'è stata una risposta positiva, visto lo sforzo immane rivolto contro il terrorismo internazionale e la priorità dell'impegno sul fronte afghano. Quel che il governo somalo può fare oggi è seguire l'esempio dell'Egitto: incarcerare i capi dei Fratelli Musulmani, con un occhio di riguardo a coloro che già in passato hanno avuto rapporti con gli emissari stranieri di bin Laden, e quelli fra loro che operavano direttamente a contatto con la banca Barakat. La Somalia spera in un successivo intervento delle forze internazionali per spegnere i tentativi della Jamaat al-Ikhwan di stringere alleanze con i signori della guerra locali. - Il Prsidente Abulkassim non è dunque spaventato dall'idea che gli Americani intervengano militarmente? - Niente affatto: siamo circondati da fazioni armate che possono ricevere crediti che il governo provvisorio non ha i mezzi per controllare. Il tentativo di fare della Somalia un secondo Afghanistan è comunque documentato, anche se al momento il governo provorio somalo non ha i mezzi per contrastarlo.
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12.12 |
Lettera aperta a Silvio Berlusconi On.le Dott. Silvio Berlusconi - Palazzo Chigi - 00100 Roma Egregio Onorevole, apprendo dalla stampa che ella si é recato alle veglia in Sinagoga e dopo aver indossato la "kippah" ha esternato i suoi sentimenti affermando che si é sentito "sconvolto, come padre, per la strage". (la strage dell'autobus in Israele della scorsa settimana, n.d.r.) Non mi risulta che ella si sia mai recato alla Moschea o ad altri luoghi di culto rappresentativi di altre civiltà ed altre culture, per esternare gli stessi sentimenti per le stragi compiute dai suoi amici nord americani e israeliani, stragi che perdurano da oltre cinquanta anni senza che la sensibilità degli "atlantici", ai quali ella appartiene di diritto, abbia mai mostrato segni di comprensione e di solidarietà. Questa sua "commozione" partigiana la colloca automaticamente nell'ambito di un terrorismo senza rischi e senza ideali, un tipo di terrorismo ancora più devastante di quello che é motivato dalla disperazione, perché nasce soltanto da un ignobile servilismo che, oltre tutto, é offensivo della dignità nazionale che, per l'incarico istituzionale che si trova - pro tempore - a rivestire, dovrebbe portarla a comportamenti diversi. Lei ispira le sue azioni a quella morale puritana e calvinista che confonde volentieri l'utile contingente con il bene universale, e ciò spiega molte cose. I suoi amici nord americani credono in perfetta incoscienza e malafede che - per esempio - il petrolio del mondo intero sia destinato ad assicurare benessere ad ogni loro cittadino di serie A, mentre miliardi di esseri umani non dispongono di risorse sufficienti ad assicurarsi un tetto ed il pane quotidiano. Le cronache rosa di questi giorni ci hanno ripetutamente segnalato che una delle sue figliole ha partecipato al ballo delle debuttanti. Tanti auguri ! A questo punto immagino però che per lei sia impossibile, proprio come padre, comprendere i problemi ed i sentimenti dei genitori palestinesi, iracheni, afgani, argentini, brasiliani, africani dei vari paesi sfruttati dalle multinazionali e di tante altre nazioni che hanno il cappio al collo dell'usura internazionale. Io padre di quattro figli, le dichiaro apertamente che nelle condizioni di questi genitori sarei un terrorista a tempo pieno. Per chiarirle meglio le idee le riporto le parole conclusive di una intervista rilasciata alla stampa da Mohamed Ghazwan, palestinese e funzionario di Arafat, un uomo di pace ma disperato: "Per me é terrorismo ogni atto che minaccia la libertà degli altri. E non solo quello che minaccia gli interessi americani. Se le due torri fossero state in un paese del terzo mondo la reazione sarebbe stata la stessa ? Il nostro sangue ha lo stesso colore di quello degli americani" e aggiungo io - anche di quello degli israeliani, che in Palestina altro non sono che degli invasori e degli usurpatori. Stelvio Dal Piaz - Arezzo
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12.12 |
Forse questa segnalazione che ho inviato ai curatori dell'ottima newsletter delle Edizioni Asefi/Terziaria (programma.asefi@asefi.it ) può interessare qualche amico. Gentili Signori, in margine alla segnalazione libraria contenuta nella Vostra ultima "lettera" Vi segnalo un brano che ritengo emblematico della piega autoritaria che il nostro "mondo libero" ha intrapreso lentamente dalla dissoluzione dell'Urss e a tappe forzate a partire da quest'anno, con il G8 di Genova e il fatidico 11 settembre. Si tratta di una perla del generale Fabio Mini, capo di stato maggiore del comando Forze alleate del Sud Europa e curatore dell'edizione italiana di "Guerra senza limiti - L'arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione" (Libreria Editrice Goriziana), che è il volume da Voi segnalato. Sono certo che i curatori della "lettera" Asefi sapranno cogliere in ciò che scrive questo signore la sintesi perfetta della dittatura liberale in atto, totalitaria, fanatica e intollerante: "... c'è il rischio che vecchi movimenti ideologici e rivoluzionari condannati dalla storia, ma mai debellati, traggano profitto da questa instabilità generalizzata e fomentino disordini, ribellioni e ulteriori destabilizzazioni. La questione dell'antrace negli Usa appartiene chiaramente a questa tipologia, ma anche la spazzatura propagandistica e di disinformazione che ci viene propinata sotto le nobili vesti del diritto al dissenso fa parte di questo rischio. E non importa se la matrice sia bianca, nera o rossa. La lotta istituzionale si deve rivolgere anche in questo campo e non sarà né semplice né indolore. Il mondo è cambiato, la guerra globale si è spostata su di un piano completamente nuovo. Il modo di combattere deve cambiare e le priorità per cui lottare devono cambiare. La visione di un mondo globalizzato, piacevolmente impegnato nella beneficienza e legato da stessi bisogni e da stessi consumi, omogeneizzato nelle aspettative e nelle istanze come nelle risposte, si è infranta l'11 settembre. Se avevamo bisogno di un attacco terroristico di proporzioni immani e di una guerra bizzarra e asimmetrica per acquistare coscienza del mondo a-lineare in cui viviamo, i cinquemila di New York non sono morti invano e la guerra al terrorismo in Afghanistan e altrove è giusta e doverosa". da Fabio Mini, Perché combattiamo ancora, "LiMes", quaderno speciale n. 4, nov. 2001, pp. 19-20. Coi migliori saluti Andrea Cenci
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11.12 |
"PROVE" PROVATE O GRANDE MISTIFICAZIONE? «PROVE»
PROVATE O GRANDE MISTIFICAZIONE? di
Enrico Galoppini Guerra
vs verità: l’ennesima
conferma In
guerra, la prima e più illustre vittima è, come spesso si ripete, la
verità. Ma
in questa «guerra contro il terrorismo», alla quale dà il suo
contributo anche l’Italia, il black-out informativo è stato eretto a sistema, al punto che
sentendosi investita di un alto dovere patriottico la quasi totalità
dei giornalisti occidentali si è imposta un’autocensura che, dal
punto di vista di chi patrocina questa «guerra», ha l’indubbio
pregio di evitare un particolare dispendio di energie in attività
censorie. E la morte della povera Cutuli, strumentalizzata oltre ogni
decenza nella speranza che salvasse la faccia all’intera categoria,
non è servita a scacciare il fantasma dell’inedito ed imbarazzante
codice non scritto di deontologia professionale che vediamo applicare
di questi tempi dagli iscritti all’Ordine con metodicità certosina. Per
carità, non ci illudiamo che in tempi d’emergenza qualche
‘aggiustamento’ in più rispetto alla media, già alta, di quelli
a cui siamo abituati non debba finire per imporsi: i «danni
collaterali» (morti di civili - tra cui gli esperti in sminamento
afgani! -, distruzioni di abitazioni private, depositi di alimenti e
di medicinali) li abbiamo però visti finché Kabul non è stata «liberata»
(del resto, l’ultimo collateral damage è stato proprio il bombardamento dell’ufficio
di «al-Jazîra» nella capitale afgana), i reparti speciali
dell’Angloamerica scorrazzano in lungo e in largo ma nessuno è in
grado di dirci quali compiti stiano svolgendo[1],
i russi li abbiamo visti una mezza giornata camuffati da ‘protezione
civile’ e poi basta, la «Garibaldi» solca l’Oceano a nostre
spese ma l’abbiamo persa di vista a Suez, i profughi nessuno sa più
da che parte siano andati a morire di fame e di freddo. Bei tempi
quelli della Guerra del Golfo, quando ci abbeveravamo alle fonti del briefing
quotidiano; in quel caso c’era almeno qualcuno che perdeva tempo per
darci l’illusione di sapere qualcosa. Ma
da quando mondo è mondo, e soprattutto dal momento in cui
l’opinione pubblica ha preso a tiranneggiare le nostre vite, verità
e guerra hanno sempre fatto a cazzotti. La
storia degli ultimi due secoli (quella della suddetta tirannia, per
intenderci) ci offre un’infinità di motivi addotti per giustificare
la reazione armata di chi si ritiene gravemente offeso, specialmente
se l’offeso ha poi finito per vincere la guerra. A Pearl Harbour -
prescindendo da ogni sostenibile dietrologia - fu chiaro a tutti che
gli aerei che fecero colare a picco parte (e non la più importante)
della flotta americana nel Pacifico fossero giapponesi. Ogni casus belli presta il fianco a critiche ed obiezioni[2],
però un elemento è sempre stato chiaro fin da principio affinché si
capisse contro chi si doveva combattere, a torto o a ragione: la
responsabilità del nemico nei fatti dai quali prende avvio il
conflitto. Ma sull’identità dei registi dell’attacco dell’11
settembre grava ancora il mistero più assoluto. L’avvocato
del diavolo e la saga delle videocassette Nella
nuova «guerra al terrorismo» questo buco nero è parso fin
dall’inizio di una evidenza talmente inattaccabile che per tutto
settembre anche alcuni degli esponenti più irrequieti fra i
cosiddetti «no global», facendo eco alle dichiarazioni del 99% dei
musulmani interpellati, hanno sollevato leciti dubbi sulle «prove
schiaccianti» a carico di Osama Bin Laden che i nostri politici e
militari andavano affermando di avere tra le mani. Quando poi, in un
impeto d’orgoglio d’altrui patriottismo, si è trattato di «prenderci
le nostre responsabilità», a quel punto nessuno - fatto salvo il
‘visionario’ avvocato del diavolo Adel Smith, capace di far
trasalire in diretta tv l’imperturbabile Buttiglione - ha più osato
insistere su quel tasto, onde non incorrere nelle consuete accuse
squalificanti: antiamericanismo preconcetto, favoreggiamento del
nemico, disfattismo antipatriottico eccetera. Le
«prove», ci dicono che l’Angloamerica le avrebbe fatte vedere fin
dal primo giorno a chi di dovere, in modo da persuadere vassalli,
valvassori e valvassini della bontà della Guerra del Bene contro il
Male, quest’ultimo incarnato da Bin Laden e «al-Qâ‘ida». Chi
aveva da obiettare, facendosi coraggio in un clima del tutto ostile,
si sentiva catechizzare con frasi del tipo «le abbiamo visionate ma
non possiamo riferirne i contenuti», «renderle note adesso
inficerebbe il lavoro dei nostri informatori» (che non avevano avuto
il minimo sentore della po’ po’ di sorpresa che si andava
preparando per l’11 settembre…), e così la questione della
dimostrazione di elementi chiari sulla responsabilità dello sceicco
saudita è andata archiviata sulla base di «prove» mai esibite a
nessun comune mortale, fatta eccezione per ‘coloro che sanno’.
Pian piano dunque, anche gli ultimi scettici hanno dovuto calibrare su
altri registri gli obiettivi dei loro strali polemici, lasciando
perdere la questione della colpevolezza o meno di Bin Laden. Talvolta
si è avuto il dubbio che le «schiaccianti prove» non fossero altro
che quei filmati amatoriali della jihâd dai quali attingono a piene mani gli esperti di persuasione
di massa utilizzandone alcuni spezzoni per la propaganda dei vari
telegiornali. Di queste videocassette capaci di terrorizzare
addirittura un critico cinematografico del calibro di Vincenzo Mollica
(avvezzo quindi ai generi horror
e splatter) è stato detto tutto e il contrario di tutto. Ad un certo
punto si sparse la voce che ne stesse circolando una dal taglio
antologico della durata di un’ora e mezzo, recapitata alle redazioni
di mezzo mondo. Fatto sta che il presidente dell’«Impero del Bene»
ha a disposizione qualche centinaio di emittenti televisive piene
zeppe di fautori dell’autocensura patriottica per diffondere ai
quattro angoli dell’orbe terracqueo i suoi proclami, mentre il «colpevole»
Osama ce lo raccontano a cavallo, a capo di un migliaio di
fedelissimi, mentre si fa beffe di una pioggia di bombe che le
fortezze volanti dell’Angloamerica scaricano a migliaia di
tonnellate sui monti e i cunicoli di Tora Bora, oppure rintanato nella
sua Gotham City sotterranea intento a pianificare terrore a non
finire. Va
in onda il colpo di scena Ma
il 9 dicembre 2001 accade l’imprevedibile. Dopo l’Osama-cavaliere,
l’Osama-cecchino, l’Osama-predicatore, l’Osama-padrino dei
filmati che ci hanno propinato fino alla nausea, da un’abitazione
privata di Jalalabad salta fuori una videocassetta - “non ancora
diffusa dalla Casa Bianca” - che ci regala l’ultima puntata della
versione binladiana del «Grande Fratello», la quale, per
sopravvenuti (è proprio il caso di dirlo) ‘inconvenienti
tecnici’, non va più in onda su «al-Jazîra». Il Nostro viene lì
ripreso mentre racconta che nel corso della cena del fatidico giorno
gli giunse improvvisa la notizia dell’attacco alle torri gemelle e
del loro conseguente crollo (di cui, da impresario edile qual’è, si
sarebbe dichiarato sorpreso). Scatta allora un allegro brindisi (con
il tè?) con i commensali. Di
questo scoop ci ha dato
notizia il Tg1 delle 20,30 del 9 dicembre, appunto, il quale ha
ripreso una dichiarazione del vicepresidente statunitense Dick Cheney,
che a sua volta ha confermato indiscrezioni del «Washington Post».
Ma con un candore disarmante, in un delirio di amnesia, ci è stato
detto a chiare lettere che “il filmato dimostrerebbe la diretta
responsabilità di Osama Bin Laden”. Dunque, dall’11 settembre al
9 dicembre non esisteva alcuna «prova definitiva» e il
‘visionario’ Adel Smith, che agitava da Vespa le sue scartoffie in
faccia a Buttiglione, per una volta tanto aveva visto giusto. Ma
fatta eccezione dei vertici dell’alleanza planetaria della «guerra
al terrorismo», la notizia del rinvenimento del prezioso nastro non
ha fatto che spargere il dubbio e la diffidenza sulla reale
consistenza delle accuse rivolte al «principe del terrore». Dopo
alcune esitazioni, il gran giorno della ‘prima mondiale’ viene
fissato per il 12 dicembre, e per tre giorni - anzi quattro, per «scrupoli
nella traduzione» - è stato tutto un rincorrersi di spifferate,
illazioni, congetture intorno a questo concentrato di verità. Ma
com’è «saltata fuori» la videocassetta? Da un’abitazione di
Jalalabad, l’abbiamo già detto. Secondo il «Los Angeles Times»[3]
l’avrebbe invece trovata un pashtun vicino
a Jalalabad e questa sarebbe stata acquisita da Christopher Ross,
consigliere speciale del Ministero egli Esteri Usa, per poi passare
nelle mani del Pentagono (uno dei bersagli degli attacchi dell’11
settembre), che ne ha curato la traduzione e la diffusione. Il
13 dicembre 2001 la televisione del Qatar «al-Jazîra»[4] ha intervistato
Christopher Ross in merito all’autenticità del video: “Ammetto
che ho preso il video una settimana fa, e abbiamo lavorato per
tradurlo insieme a un’altra persona. La voce dei parlanti non è
chiara, e non ho tradotto tutto quello che hanno detto”. Alla
domanda su tempo e luogo di ritrovamento di questo video, Ross ha
risposto che lo hanno trovato le
forze speciali americane in una casa abbandonata, senza
specificare il posto o la città, e se c’era qualcun altro. Non
è neppure chiara la data del «ritrovamento» di quest’autentica
reliquia: ufficialmente, una settimana prima della messa in giro dello
scoop. E invece no. Il
filmato, girato a Kandahar i primi di novembre (forse il 9)[5],
pare piuttosto essere rimasto tra le mani di Bush per un mesetto, in
attesa di decidere sul da farsi. Insomma,
non si sa né chi l’ha «trovato» né dove e quando è stato «trovato». E
non è tutto. Si è saputo di diverse e più complete traduzioni poi
scartate, si è fatta notare la lacunosità dei sottotitoli in inglese
a fronte di dialoghi in arabo che a malapena si percepiscono (che fine
ha fatto la versione in arabo fatta «per gli arabi»?), di
manipolazioni realizzate al computer[6]
e altre incongruenze a cui finisce per prestare il fianco l’opera
dei confezionatori della versione finale fatta circolare per le
redazioni a cura del Pentagono. Se
non fosse tutto tragicamente vero, potremmo credere di assistere ad un
tipico film hollywoodiano, ma d’altra parte è l’intera vicenda
innescatasi l’11 settembre ad avere tutti i contorni della
spettacolarità delle produzioni dell’industria del «sogno
americano». La
corsa all’interpretazione Ricostruire
le ingarbugliatissime circostanze del «ritrovamento» e del
confezionamento della versione finalmente andata in onda appare dunque
un’impresa disperata. Sarà forse più utile interrogarsi sul/sui
perché della proiezione dell’ormai celebre video, e soprattutto
perché su quest’evento si sono coagulate così tante aspettative. 1)
Il video come profilassi antifondamentalista Secondo
«The Times»[7],
l’obiettivo consisterebbe nell’indurre i leader
dei principali gruppi islamici a dissociarsi pubblicamente da Bin
Laden e far recedere l’opinione pubblica arabo-islamica dall’idea
che gli attentati siano attribuibili ad un fantomatico complotto
ispirato da Israele. Un motivo ripreso da Christiane Amanpour, uno dei
corrispondenti più noti della Cnn, la quale, provando ad immaginare
le reazioni che avrebbero potuto verificarsi nel mondo arabo dopo la
diffusione del video, ha auspicato una dura reazione dei musulmani,
che a più riprese hanno sottolineato che azioni del genere non sono
giustificate perché contrarie all’Islam[8].
Niente di più fuorviante: tra i musulmani (figuriamoci tra quelli più
politicizzati), ricondurre qualsiasi sciagura che li tocca alle trame
dell’«Entità Sionista» raggiunge in alcuni frangenti livelli da
paranoia, mentre è completamente campata in aria l’idea che qualche
«autorità islamica» possa «scomunicare» Bin Laden e i suoi. 2)
Il video come prova giudiziale Poiché
la Corte Suprema americana, in una recente decisione in linea con il
sovvertimento di ogni diritto fin qui noto, avrebbe statuito regole di
ammissibilità della prova meno rigide qualora essa venga raccolta
fuori dagli Stati Uniti, il «Washington Post»[9]
ha ipotizzato che il video possa essere utilizzato in un futuro
processo contro i «terroristi». Ce n’è dunque abbastanza per
inchiodare Bin Laden alle sue responsabilità davanti ad un
costituendo Tribunale Internazionale per crimini contro l'umanità. 3)
Il video come testamento di Osama Alcuni
sostengono che il video altro non sarebbe che l’estrema confessione
di un uomo disperato, malato, che ormai con il fiato sul collo non
riterrebbe di avere più nulla da perdere, addossandosi perciò ogni
responsabilità se questo servisse a renderlo agli occhi dei suoi fans
un martire, il cui ricordo fungerebbe da sprono per i suoi epigoni. Una
delusione? No, un fallimento Materializzatosi
effettivamente proprio per «provare» il «già provato», questo
video ha mirato semmai a convincere un’opinione pubblica «mondiale»
(in realtà occidentale) ancora scettica sulla genesi, gli sviluppi e
gli obiettivi di questa «guerra al terrorismo». Un
fatto che anche gli irriducibili dell’Occidente dovrebbero
riconoscere per onestà intellettuale è che Osama Bin Laden ha sì
mostrato ampia soddisfazione per quanto accaduto a New York e
Washington, ma mai ha rivendicato la paternità degli attacchi. Al
limite si può parlare di una reticente ammissione d’indiretta
corresponsabilità, che è una cosa diversa da una confessione o una
“devastante ammissione di colpevolezza” come ha sentenziato il
presidente degli Usa. Chi
al contrario non si è sintonizzato sulla lunghezza d’onda
dell’occidentalismo vincente, in vario modo dubitando
dell’autenticità di quanto diffuso dal Pentagono, dalla vicenda
dell’ormai celebre filmato può intanto trarre alcune lezioni. Malgrado
il crollo del regime dei Talebani, i bombardamenti sull’Afganistan -
forse anche per far capire al neo-insediato governo chi comanda -
stanno continuando imperterriti con la loro scia di ‘indesiderati’
effetti, e riproporre periodicamente ad un’opinione pubblica che
potrebbe mostrare segni di cedimento lo spauracchio del «genio del
Male» rende accettabile come male necessario la morte di qualche
altro afgano. Per
di più, se il capo di «al-Qâ‘ida» fosse perito sotto le bombe,
le somministrazioni di suoi proclami giustificherebbero il
proseguimento dell’operazione «Libertà duratura». In effetti, che
sia morto o no, Osama vive come paurosa entità oleografica attivabile
a piacimento. Non è da scartare infine l’ipotesi secondo cui i
comandi angloamericani stiano prendendo tempo con artifici utili a
tenere alta la tensione emotiva, in attesa di scegliere la prossima
‘canaglia’ da ridurre all’impotenza. Con
il ricorso allo strumento delle videocassette l’Angloamerica ha in
pratica dichiarato di non essere stata abbastanza convincente: a ben
vedere è proprio questa l’unica «ammissione» di colpevolezza a
cui abbiamo assistito.
[1] Con l’eccezione dello spezzone della «Reuters» sull’assedio al carcere-fortezza di Mazar-i-Sharif in mano a prigionieri «rivoltosi», i marines li abbiamo visti raramente, ma in quel caso non se ne poteva fare a meno perché tra le loro fila c’era scappato il morto. Al limite li riprendono intenti a svolgere tranquille mansioni in previsione del ritorno dell’Afganistan alla vita «normale», come ad esempio spianare la pista dell’aeroporto di Kandahar per trasformarla in un campo di prigionia. [2] Gli Stati Uniti, per una strana coincidenza, vengono sempre «attaccati»: il Maine, il Lusitania, Pearl Harbour, il Tonchino, solo per citare gli «incidenti» più noti. [3] Citato da «Televideo Rai» del 14 dicembre 2001. [4] http://www.al-jazeera.net [5] Oman Bakri, considerato il portavoce ufficioso di Bin Laden in Europa, sostiene che il video sarebbe stato girato quattro anni fa in occasione delle nozze della figlia di Ayman al-Zawahiri, il suo luogotenente egiziano. Cfr. l’articolo di Magdi Allam su «La Repubblica» del 14 dicembre 2001. [6] Cfr. Steven Morris, US urged to detail origin of tape, «The Guardian», 15 dicembre 2001: “Sean Broughton, director of the London-based production company Smoke and Mirrors and one of Britain’s leading experts on visual effects, said it would be relatively easy for a skilled professional to fake a video of Bin Laden”. Ricordiamo che per le intercettazioni telefoniche gli Usa utilizzano anche le «impronte vocali» di Osama Bin Laden in loro possesso. Ad aumentare la confusione ci si è messo poi il video mandato in onda da «al-Jazîra» il 26 dicembre, sulla cui autenticità il portavoce della Difesa Usa ha sollevato ampie riserve. [7]
Bin Laden laughs in video
confession,
http://www.thetimes.co.uk/article/0,,2001570007-2001575526,00.html. [8] Cfr. Arab world reaction, http://asia.cnn.com/2001/WORLD/asiapcf/central/12/13/ret.amanpour.otsc/index.html [9] Cfr. Tape could be evidence in a trial, http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/articles/A40898-2001Dec13.html
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10.12 |
L'Islam
di fronte agli attacchi suicidi
Qual'è la posizione ufficiale dell'Islam di fronte agli attentati suicidi nella Palestina occupata-Israele? Esiste un'unica posizione dei dotti musulmani? E' vero oppure no che alcuni condannano e altri giustificano o approvano? E perchè? Leggeto su http://www.aljazeera.net/news/arabic/2001/12/12-10-6.htm Marco
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9.12 |
Valerio Evangelisti, il più noto
autore italiano di fantascienza (e uno dei pochi a essere stato
pubblicato anche all'estero) ci parla del rapporto tra la guerra,
questa guerra, e la fantascienza. Regalandoci anche un racconto che, a
modo suo, spiega tutto.
L'articolo è uscito nel numero di
ottobre di Carmilla 4, che raccoglie riflessioni, racconti e saggi
liberamente collegati dall'interesse per la fantascienza. Per saperne
di più, potete visitare il sito di Valerio Evangelisti (www.eymerich.com)
La guerra dei mondi
Una frase ricorrente sulla stampa e nei commenti giornalistici, dopo gli attentati che hanno colpito gli Stati Uniti l'11 settembre 2001, era che la fantascienza fosse stata superata dalla realtà, o non avesse potuto prevedere nulla di altrettanto grave. Sarebbe stupido, anche se facile, tentare qui di dimostrare il contrario: si tratta di un primato che può interessare solo gli imbecilli. Semmai, si può osservare malevolmente che se la fantascienza ha quanto meno abbozzato eventi simili, il grosso della letteratura italiana mid-cult fatta passare per "seria", "alta", "vera" o quant'altro, con il suo insistito disinteresse per il presente, non li ha né ipotizzati, né sfiorati, né ha mai descritto i quadri che potessero generarli. Ma insistere su questa verità sarebbe ancora una volta impegnarsi in una competizione idiota, e conviene limitarsi a registrare il dato. In realtà, nella narrativa popolare, e nella fantascienza in primo luogo, si trovano descrizioni di guerre spettacolari combattute contro un nemico malvagio e incomprensibile, dotato di determinazione fredda e spietata. Già La guerra dei mondi di Wells metteva in scena stragi apocalittiche attuate da creature-macchina votate alla pura distruzione, e capaci di mettere in crisi tutte le strutture di una società. In anni molto più recenti, il film Independence Day ha poi volgarizzato il concetto, facendo scontrare gli Stati Uniti, investiti del comando dell'intero pianeta, con mostri omicidi piombati dal cielo. Nell'un caso e nell'altro, però, non esisteva alcuna connessione, alcuna somiglianza nemmeno biologica tra aggrediti e aggressori. L'innocenza dei primi era pacifica, come in fondo anche quella dei secondi, vista la differente appartenenza di specie. Ebbene, è proprio qui, e non nelle dimensioni e nell'orrore dei massacri, che la fantascienza si è rivelata davvero carente nella sua ipotetica vocazione alla previsione. Non ha saputo, cioè, essere tanto sottile da sospettare un rapporto di filiazione tra vittime e aguzzini, tanto da ipotizzare un retroterra di intercambiabilità. Quale storia comune potrebbe legare gli uomini a creature di Marte o di mondi ancora più ignoti? Ovviamente, a questo punto qualcuno dirà che ciò si applica anche alla distruzione delle Twin Towers di New York e di un'ala del Pentagono. In effetti, così sembrerebbe: fanatici integralisti contro gente civile, assassini votati al suicidio contro cittadini incolpevoli. Bene, anche se le grandezze e i valori sono effettivamente quelli, la loro interazione cambia. Cercherò di dimostrarlo in maniera inconsueta, abbozzando un racconto di fantascienza che lascerò ad altri sviluppare (oppure lo farò io, quando ne avrò tempo e voglia). E' l'11 settembre 2001. Dopo il primo aereo, anche un secondo si è schiantato contro le Twin Towers. In volo sull'Air Force One il presidente degli Stati Uniti, in piedi davanti a uno schermo, assiste inorridito alla scena. Ma non si lascia prendere dal panico. Da pochi mesi è stata inventata la macchina definitiva antiterrorismo, stupendo gioiello di tecnologia. Subito chiama le sale più profonde e segrete del Pentagono, rimaste intatte, e ordina che sia attivata. Si tratta di un congegno totalmente automatico, capace di riportare il mondo a qualche ora prima (come e perché dovrà essere il futuro scrittore a descriverlo: la cosa avrà probabilmente a che fare col tempo e con lo spazio). Mentre ciò avviene, la macchina rimane fuori dal tessuto temporale e i due elaboratori di cui si compone entrano in azione. Uno, per motivi tecnici leggermente più veloce dell'altro, analizza tutti i dati in suo possesso fino a individuare in dettaglio il mandante e responsabile principale dell'atto terroristico. Il secondo elaboratore, dal canto proprio, è un centro operativo capace, sulla base di raffronti con una massa di precedenti, di decidere l'azione più efficace per colpire i terroristi, impartendo gli ordini del caso – indiscutibili e precisi – agli organi militari statunitensi del tempo precedente l'azione. Questi possono così colpire tempestivamente e nel modo più adeguato i mandanti, prevenendo l'attentato. Tutto funziona per il meglio. La macchina scompare in una bolla fuori dal tempo e inizia a operare. Gonfio di dati, l'elaboratore 1 non ci mette molto a individuare il responsabile della distruzione delle Twin Towers. Si tratta di Osama Bin Laden, noto leader terrorista. Una memoria segnala che fino a pochi anni prima era registrato dagli USA quale “Combattente della libertà”, ma la qualifica era stata corretta da tempo. L'elaboratore trasmette l'informazione al computer gemello. L'elaboratore 2 subito classifica il caso. Bin Laden. Tipologia: individuo isolato, a capo di una rete ostile agli Stati Uniti. Nella memoria del computer scorrono rapidissime le soluzioni a un caso del genere trovate in passato dagli USA o dai loro alleati. Ricchissimo in tal senso l'archivio elettronico israeliano, colmo di uccisioni individuali: da intellettuali palestinesi come i coniugi Khader o Ghassan Kanafani, fino al caso recentissimo di Abu Ali Mustafa, passando per centinaia d'altri. L'elaboratore 2, trovata una tecnica conveniente di uccisione, sta per trasmettere l'ordine quando il suo confratello lo blocca. Un ulteriore vaglio dei dati ha fatto emergere un responsabile più importante. Si tratta dell'Afghanistan, in cui Bin Laden e le sue bande hanno trovato rifugio. In alcune memorie il paese è registrato come alleato degli USA fino a due anni prima (nel tempo), ma l'informazione è stata rettificata. Scatta l'elaboratore 2. Afghanistan. Tipologia: paese povero, dotato di armi convenzionali. Possibili reazioni: invasione diretta come a Grenada o a Panama (soluzione scartata: il territorio è troppo grande), logorio tramite creazione di presunto esercito guerrigliero, come in Nicaragua, nel Kossovo o in Macedonia (soluzione scartata: troppo lento), colpo di Stato militare come in Cile, in Argentina o in altri paesi latinoamericani (soluzione scartata: troppo macchinoso), acquisizione della fedeltà tramite benefici economici, come in Birmania, in Turchia, nelle Filippine di Marcos o in altri paesi totalitari (soluzione scartata: trattasi di dittatura imbevuta di ideologia), e così via. L'elaboratore 2 si rimette al lavoro. Pakistan. Tipologia: Stato con esercito ad armamento progredito e in possesso di testate nucleari. Possibili reazioni, scartate invasione o confronto al suolo: deterrenza tramite bombardamenti mirati con effetto collaterale di vittime umane, come in Serbia (scartato: troppo costoso), inquinamento permanente del suolo con danni genetici ai nascituri, come in Vietnam (scartato: richiederebbe preventiva guerra dispiegata), diffusione di miseria e malattie tramite blocco economico, come in Iraq, a Cuba, in Nicaragua (scartato: troppo lungo), azione dissuasiva esemplare attraverso abbattimento di aerei civili, come nel caso delle Bahamas (scartato, poco significativo), stragi minatorie come in Italia (scartato: di ambigua attribuzione e privo di valore di monito) e via dicendo. L'elaboratore 2, sia pure faticosamente, sta però per giungere a formulare un piano d'azione soddisfacente, e anzi per trasmettere l'ordine d'attacco, quando il gemello lo interrompe ancora una volta. Tutti i dati disponibili dicono che il Pakistan non è solo alleato degli Stati Uniti d'America, ma ne è finanziato, sorretto nel sistema politico, incoraggiato nelle pretese espansive. I circuiti dell'INA si arroventano, ma non c'è memoria che non trasmetta una verità inconfutabile: al vertice della catena di responsabilità ci sono gli USA stessi. Il lavoro dell'elaboratore 2 si fa difficilissimo. Stati Uniti d'America. Tipologia: unica. Si tratta del paese più potente della terra. Possibili reazioni da adottare: scartate quasi tutte. Tra le poche degne di nota, resta l'ipotesi di un'azione non determinante ma altamente spettacolare (scorrono nelle memorie del computer le immagini del grattacielo della tv di Belgrado sforacchiato dai missili), meglio se affidata a uomini pronti alla morte in nome di una causa qualsiasi. L'elaboratore 2 trasmette per verifica l'ipotesi all'altro computer. L'unico dato contrastante che ne riceve riguarda le vittime umane, dette anche “effetti collaterali”, ma non è tale da bloccare un'azione di guerra. Non vi sono precedenti recenti in tal senso. L'elaboratore 2 comunica l'ordine. L'elaboratore 1 non interviene a impedirlo. Il tutto si è svolto nello spazio di pochi istanti, se fuori del tempo esistessero gli istanti. Nella scena finale, il presidente degli Stati Uniti osserva allibito sullo schermo un secondo aereo che si schianta contro le Twin Towers. Chiama i sotterranei del Pentagono e ordina che sia attivata la macchina antiterrorismo. Gli rispondono preoccupati che non riescono più a trovarla. Non vorrei che questa piccola parabola fosse male interpretata. Non sto dicendo che gli Stati Uniti abbiano commesso un attentato contro se stessi. Sto invece affermando che possiamo esimerci dall'attribuire cause, premesse e brodi di coltura a mostri venuti dallo spazio. Non possiamo invece farlo, se non per deliberata censura od omertà, quando i mostri provengono dal nostro stesso globo terracqueo. C'è però chi si diverte a farlo, e arriva a descrivere “le masse arabe e le popolazioni musulmane dell'Asia centrale, dell'India, dell'Indonesia” con parole che meritano di essere riportate: “Queste masse di straccioni, di ammalati, di analfabeti non hanno la forza di sollevarsi al di sopra del piatto di minestra che gli offre la missione o il volontariato senza frontiere quando può o come può. Queste masse sono separate tra loro e indifferenti a quanto di simile accade al loro vicino. Vivono per sopravvivere.” (Eugenio Scalfari, in La Repubblica, 16 settembre 2001). Starebbero in questa subumanità – e probabilmente è vero – le radici del terrorismo integralista. Dalla premessa dovrebbe scaturire una conseguenza ovvia: operare per fare in modo che straccioni, ammalati e analfabeti non siano più tali, cosa che probabilmente smorzerebbe la loro rabbia cieca. Ma all'illustre editorialista (“di sinistra”, ma sarebbe meglio dire sinistro) ciò sfugge, e passa immediatamente a vagliare il tipo di guerra più adatto per schiacciare quelle plebi. Così malattia, povertà e analfabetismo si trasformano, da sciagure, in caratteristiche genetiche, supportate, a livello psicologico, “da una divorante invidia esistenziale: invidiano e quindi odiano l'Occidente e in specialissimo modo gli Stati Uniti d'America, cioè l'impero del benessere, della forza, del potere e in particolare il centro dell'impero”. I marziani di Wells erano in fondo più umani di questa marmaglia formicolante, famelica per natura, invidiosa per cultura e ignorante per scelta. Tanto più che, nella penna dell'ineffabile Scalfari, resta chissà perché la circostanza dell'uso che “l'impero del benessere, della forza, del potere” ha fatto delle orde di cavallette a due zampe tutte le volte che gli ha fatto comodo, e specialmente quando si trattava di combattere regimi socialisti o governi anche solo progressisti (a proposito di Indonesia, la strage di centinaia di migliaia di contadini sospetti comunisti, torturati, mutilati, gettati vivi nelle caldaie delle locomotive, non la ricorda nessuno; altrimenti bisognerebbe ricordare anche il mandante). Contro il terrorismo umano potrebbero esistere l'equità degli scambi, lo spegnimento dei focolai di conflitto (Palestina in primo luogo), la fine delle rapine economiche, la correzione degli squilibri. Ma contro il terrorismo marziano non c'è che il ricorso alla violenza, base di ogni impero. E l'uso di una macchina antiterrorismo che funziona molto meglio dell'elaboratore 1 e dell'elaboratore 2 del raccontino: la cancellazione della memoria. Meccanismo che, una volta attivato, scongiura eventi calamitosi, tipo cercare una genealogia ai marziani. Oppure scenari assurdi: se dedicassimo tre minuti di silenzio a ognuno dei massacri di vittime innocenti attuati, incoraggiati, ispirati o tollerati dagli Stati Uniti negli ultimi decenni, dovremmo probabilmente starcene zitti per parecchi mesi (ecco il tema per un altro raccontino di fantascienza). Sia benedetta l'assenza di memoria: lievito di guerre giuste, sostegno di governi infami (quello italiano, per citarne uno a caso), premessa di consenso a qualsiasi porcheria. Oggi la sua forma scientifica si chiama revisionismo storico. Molto più di una scuola di pensiero: una filosofia di vita, di cui si cerca di fare una componente genetica come l' “invidia” dei miserabili individuata dal buon Eugenio. Gira e rigira si torna a Orwell e a 1984. Sono lì, a ben vedere, le vere chiavi di lettura del nostro tristissimo presente. Valerio Evangelisti
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7.12 |
Padroni
del mondo e dittatori del pensiero Diorama
Letterario, n.
248, ottobre-novembre 2001 I.
Le guerre, nuove prove di egemonia culturale Qualcuno
dei nostri lettori ricorderà le repliche infastidite, i sarcasmi,
l’indignato stracciar di vesti con cui un certo numero di esponenti
dell’intellettualità italiana – Marcello Pera, Angelo Panebianco,
Pierluigi Battista, Ferdinando Adornato, Dino Cofrancesco, Raimondo
Cubeddu… – accolsero, nell’estate di cinque anni fa, il nostro
timore che in Italia si andassero accumulando le premesse di una nuova
egemonia culturale, di segno diverso da quella marxista che l’aveva
preceduta, ma non meno pericolosa per quella libertà di espressione
che è l’irrinunciabile presupposto di una democrazia. Come osava,
il “buontempone” che aveva avanzato quel sospetto sulle colonne di
una rivistina impertinente e marginale come “Diorama”, paventare
il rischio di una dittatura del pensiero in democrazia? E, per giunta,
di una dittatura di segno ideologico liberale, messa in atto cioè da
quanti fanno dei diritti di Libertà la loro bandiera? E in Occidente,
poi, che di quei diritti è patria, terra promessa, culla, simbolo?
No, non si poteva dare nessun credito alla denuncia. Anzi: i quindici
giorni di buriana giornalistica che coinvolse parecchie fra le
maggiori testate (agosto è un mese parco di argomenti…) servirono
solo a un’archiviazione senza indagini, accompagnata da una messa in
guardia per i calunniatori: chi dice male del liberalismo non può che
farlo per inconfessabili nostalgie dei Gulag o dei Lager – così, più
o meno testualmente, il “moderato” Pera – e va dunque messo
all’indice. Scomunica applicata, giacché da quel momento gli spazi
di attenzione della grande stampa per le tesi espressa da
“Diorama” e da chi lo dirige si sono ridotti ai minimi termini. Lasciamo
ai lettori giudicare se i fatti abbiano confermato o meno la diagnosi
che avevamo precocemente emesso sullo stato di salute della libertà
di espressione nel nostro paese e, più in generale, in quell’Europa
che smania per sentirsi parte di un “Occidente”. Ovvero se, per
dirla con parole più precise, le prove che gli intellettuali e gli
operatori dei media hanno
dato di sé negli ultimi cinque anni abbiano rassicurato circa la
tenuta di quei due requisiti – il pluralismo delle opinioni e il
policentrismo delle informazioni – che assicurano l’effettivo
godimento dei diritti di libertà. Va da sé che noi ne abbiamo seri
dubbi in proposito e seguiamo con apprensione crescente l’ampliarsi
della censura dei circuiti comunicativi di massa (in primo luogo
quelli televisivi, di gran lunga oggi i più efficaci, ma non solo)
verso qualunque manifestazione di dissenso dai valori e dai giudizi
che la vulgata politico-culturale ufficiale consacra e legittima come
buoni e giusti. La constatazione che Aleksandr Solzenycin fece nel
discorso tenuto ad Harvard poco dopo l’inizio del suo esilio
americano – in Urss per privare della voce i dissidenti è
necessario incarcerarli, in Occidente basta privarli di un microfono
– ha ormai verifiche quotidiane. Ma il processo non si è
stabilizzato; tende semmai ad inasprirsi, a configurarsi come
un’opera di rimozione preventiva dei germi del malpensare dalle
menti degli individui, a farsi pianificazione di un’educazione
civica che è allevamento al culto di princìpi unici, obbligatori e
inevitabili perché, per una sorta di legge naturale non scritta,
universalmente migliori e dunque non rifiutabili se non da animi
perversi e bisognosi di cura o punizione. Intendiamoci.
Chi conosce un po’ la storia del mondo e del pensiero e coltiva la
virtù del realismo non trova grandi novità in questo fenomeno. Ogni
epoca ha prodotto le proprie vocazioni all’egemonia politica e gli
strumenti intellettuali per cercare di imporle dissimulandole. Quel
che appare inedito nell’odierno scenario è il prefigurarsi di una
sola egemonia e, nel contempo, la capacità degli apparati
culturali di porre da soli fuori gioco le potenziali insidie al suo
dispiegarsi, senza che vi sia bisogno di ricorrere, se non in casi
eccezionali, all’impiego
di mezzi coercitivi basati sulla forza fisica. Il sogno di un dominio
perfetto basato sull’adesione costante e convinta dei governati alle
decisioni dei governanti, coltivato con accanimento ma senza gli esiti
sperati dai regimi totalitari, si approssima alla realtà. Perché
possa fare ulteriori progressi sono necessarie però altre
sperimentazioni; la fine della storia preconizzata da Fukuyama non è
ancora dietro l’angolo e un certo numero di fattori di resistenza
sono tuttora attivi. In epoca di globalizzazione delle comunicazioni e
di contatti in tempo reale in ogni angolo della Terra, l’autentica
egemonia non può che essere planetaria; le mentalità collettive
devono essere influenzate ovunque dai medesimi paradigmi. È questa la
filosofia su cui si fonda la predicazione dei “diritti
dell’uomo”: un’unica specie, un unico modo di pensare e di
comportarsi, un’unica religione civile senza una ben individuabile
divinità ma con Tavole della Legge la cui infrazione destina ai più
atroci castighi. Mosè regna in Occidente, il suo Dio è l’Occidente, e sinché qualcuno lo aiuta a tenere le braccia
alte e ben tese, come ci assicurano i testi biblici, i suoi nemici
saranno sterminati. Il
clima psicologico dell’emergenza è il terreno ideale per
sperimentare le nuove capacità di espansione del progetto di
occidentalizzazione del mondo, che dell’egemonia ideologica liberale
è il veicolo; si spiega così perché dal 1989 in poi si siano
moltiplicate le avventure belliche giustificate in nome dei valori
occidentali e condotte con grandi sforzi di contenimento delle
opinioni dissenzienti. Il crollo dell’impero sovietico, che per
decenni aveva svolto egregiamente una funzione di legittimazione a
contrario delle pretese di superiorità del modello di società
liberale, rischiava di liberare le opinioni pubbliche dei paesi
“occidentali” dai vincoli imposti dalla minaccia del Nemico e di
indurle a chieder conto ai rispettivi regimi delle insufficienze,
delle scelte errate, delle promesse tradite. C’era perciò bisogno
di altre emozioni che ricompattassero e sviassero l’attenzion;, e
nulla meglio di una guerra può assolvere a questo scopo. Da quando,
in epoca moderna, si sono affacciati interrogativi sulla moralità dei
conflitti bellici, le classi politiche che intendevano servirsene
hanno sempre trovato validi argomenti per giustificarli, richiamando
sempre in qualche maniera quell’idea di bene comune o di interesse
nazionale che in politica interna ormai latita. Così è stato con le
guerre del Golfo e del Kosovo, entrambe camuffate da operazioni di
polizia internazionale per meglio assegnare all’avversario il ruolo
del criminale e a se stessi quello dello sceriffo e organizzate in
modo da rafforzare vecchie alleanze, promuoverne di nuove e ribadire
al di là di ogni dubbio le gerarchie già stabilite in tempo di
guerra fredda. In ambedue i casi, alle azioni militari – è
difficile definirle scontri sul terreno, perché l’asettico diluvio
aereo di bombe e missili evita la sgradevole sensazione di contatto
fisico con le Forze del Male – si sono accompagnate massicce
campagne di propaganda interna che hanno riproposto il compito
dell’intellettuale come fiancheggiatore della politica, propalatore
del Verbo e manipolatore delle coscienze. II.
Temi e registri della propaganda Gli
eventi scatenati dagli attacchi al World Trade Center e al Pentagono
hanno proposto, con connotati ancor più marcati, lo stesso scenario.
Sebbene in questo caso la guerra comunicativa non potesse essere
predisposta in anticipo, la ben oliata macchina dell’informazione
orientata al servizio degli interessi egemonici dell’unica
superpotenza esistente ha funzionato, da subito, alla perfezione.
Nessuna delle sconcertanti carenze messe in mostra da servizi segreti
e apparati di sicurezza militare in occasione dei dirottamenti si è
verificata in questo settore. Il nuovo episodio bellico è stato
preparato, giustificato e gestito con competenza dai media
dei paesi “occidentali”, che hanno dimostrato di avere ormai
interiorizzato e automatizzato i codici che caratterizzano la
propaganda atlantista: convergenza di temi e toni, sincronia
nell’uso delle immagini ad effetto disponibili, insistenza
martellante su alcune parole d’ordine. Il tutto, ovviamente, senza
bisogno di direttive specifiche, il che fa capire quanto in profondità
sia ormai giunta l’omologazione di contenuti e stili espressivi
della stampa e dei circuiti adiovisivi di questa area del mondo: salvo
debite, preventivate e tutto sommato utili eccezioni – che possono
essere sbandierate per rivendicare il pluralismo dell’uno per cento
contro il novantanove e dare maggiore forza all’effetto-plebiscito
che impressiona il pubblico – i commentatori sospettabili di
eterodossia erano stati preventivamente estirpati dalla scena pubblica
e le “personalità” da invitare ai talk
shows erano già selezionate, così come gli inviati nei luoghi
caldi dell’attualità. Questa
efficienza degli strumenti deputati ad orientare e controllare
l’opinione del pubblico, capaci di offrire un’immagine di
compattezza che alimenta l’autocensura di chi pure coltiva dentro di
sé qualche dubbio, ha tuttavia un risvolto che contrasta con le
intenzioni di chi la assicura: producendo comportamenti seriali, ne
consente facilmente l’individuazione e la catalogazione. Se ci
fossero dosi sufficienti di anticonformismo in giro, permetterebbe
critiche dei meccanismi di manipolazione delle coscienze attivi in
contesti democratici ben più documentate e serie di quelle condotte
in altri occasioni da sociologi e giornalisti d’inchiesta. Anche se
c’è da dubitare che questa occasione verrà colta, una ricognizione
degli argomenti impiegati dall’11 settembre in poi dai mezzi di
comunicazione di massa per inquadrare gli eventi nella cornice gradita
ai custodi dell’ideologia oggi egemone, accompagnata da una
simmetrica confutazione di ciascuno di essi, può almeno aiutare a
sgombrare il campo dagli equivoci e a mantenere in vita una
prospettiva antagonista nei confronti di chi gestisce gli apparati di
propaganda oggi dominanti e di chi riscuote i frutti della loro
azione. È
dunque a quest’opera di individuazione e discussione che qui ci
dedicheremo. II.1
La psicosi. Era
inevitabile che gli attacchi sanguinosi dell’11 settembre
sollevassero un’ondata di forti emozioni, estese dall’orrore alla
pietà. Questi spontanei ed ovvi stati d’animo sono stati però da
subito indirizzati verso una psicosi collettiva da estrapolazioni e
giudizi privi di fondamento oggettivo. Il primo Leitmotiv
usato a tale scopo è stato quello del “nulla sarà mai più come
prima”[i].
Le cose non stanno ovviamente così: il duro colpo psicologico subìto
dagli Usa, mai prima di allora seriamente attaccati sul proprio
territorio e perciò convinti di essere destinati al dominio anche
perché invulnerabili, non ha cambiato il mondo, così come non
l’hanno stravolto gli innumerevoli precedenti di stragi, attentati e
genocidi – incluso il colossale massacro della popolazione autoctona
compiuto dai coloni immigrati negli odierni States.
Ma è opportuno regolare sui toni più alti il registro
dell’indignazione. Ecco allora l’enfasi sulle proporzioni della
perdita di vite umane dovuta alla distruzione delle Twin Towers: nei
primi giorni si avanzano cifre valutabili in decine di migliaia, poi
ci si stabilizza sulle 6-7.000 e il bilancio più realistico del
“New York Times” che le dimezza è riportato con la minima
evidenza dagli organi di stampa[ii].
Ecco le pagine dei giornali riempirsi, ogni giorno, di fotografie a
colori delle vittime e dei soccorritori – privilegio mai toccato in
passato alle vittime dell’odio e del terrore di cui le cronache
abbondano. Ecco i continui interventi di psicologi e psichiatri per
mettere in guardia sui traumi che potrebbero scuotere i bambini alla
ripetuta visione dell’impatto degli aerei con le torri (che invece
è da molti di loro percepito come una bizzarra scena da videogame)
Ed ecco soprattutto l’insistenza su una presunta – e falsa –
debolezza del paese “sotto attacco”, l’incitamento ad aiutare il
gigante ferito, quasi che non fosse il paese più potente della Terra
da ogni punto di vista, la sottolineatura di una sua fantasmatica
debolezza volta a celebrarne qualche giorno dopo la “miracolosa”
resurrezione, frutto non già, come è nei fatti, dell’enorme
disponibilità di risorse d’ogni genere, praticamente intaccate
dagli aerei omicidi, ma di una ineguagliabile granitica forza
d’animo, inarrivabile per i comuni mortali che abitano le flaccide
periferie dell’Occidente. Nell’operazione
massmediale hanno naturalmente un ruolo di primo piano le vittime.
Tante, non c’è dubbio. Ma, orwellianamente, “più uguali” delle
moltissime altre che guerre e attentati seminano in altri paesi: sono,
in questo caso, “bambini, mamme, lavoratori, casalinghe” (Gianni
Riotta, “Cds”, 13.9.), non “palestinesi” o “iracheni” o
“cingalesi” e “tamil” come d’abitudine. Chi non si commuove
a sufficienza davanti alla loro morte e non ne trae pubblicamente le
dovute conseguenze politiche è fustigato dai conduttori dei programmi
televisivi con parole di fuoco; ma è uno spettacolo ipocrita. Gli
addolorati intellettuali del fronte occidentale non provano eguale
tristezza per i morti altrui e fanno passare per vittime del
bellicismo del dittatore di Baghdad i bambini uccisi in Iraq
dall’embargo statunitense o le decine e decine di migliaia di
caduti, spesso civili, prodotti dai raids aerei Usa nei più disparati
angoli del mondo (Grenada, Panama., Iraq, Jugoslavia, Somalia,
Sudan…). Meglio, allora, il cinismo di chi ammette senza tanti
fronzoli che le vittime fatte in nome delle cause Giuste sono
tutt’altra cosa rispetto alle altre, scrivendo che “Durante la
seconda guerra mondiale le città di Germania e Italia furono colpite
per giorni, mesi, anni: l’obiettivo era di sconfiggere i regimi di
Mussolini e Hitler. Il prezzo sono state centinaia di migliaia di
vittime civili. Ma i dittatori sono caduti e le ferite si sono
rimarginate grazie alla democrazia”[iii].
Questo sì è un bel parlare da liberali: ad obiettivi e ruoli
invertiti, non c’è dubbio che Hitler e Stalin avrebbero
sottoscritto il ragionamento. Del resto, per giungere allo scopo non
ci si possono fare troppi casi di coscienza. Si può sostenere, come
fa Paolo Mieli nelle sue risposte ai lettori del “Corriere della
Sera”, che è illecito condannare lo sterminio di civili di Dresda,
perché ha prodotto salutari effetti bellico-politici, o stravolgere
il senso della misura come fa Giovanni Sartori, che giudica lo
schianto delle Twin Towers “Hiroshima due; ancora un inedito, e un
inedito ancora più terrorizzante di Hiroshima”[iv].
E sono, si badi, le voci di due intellettuali liberali solitamente
equilibrati…
II.2
Il travisamento delle cause e la manipolazione degli effetti La
decontestualizzazione dei tragici eventi dell’11 settembre ha un
ruolo essenziale nella strategia dei media acquisiti alla causa
dell’“Occidente”. I piloti degli aerei del terrore non vengono
dal nulla. I loro non sono gesti terroristici, ma azioni di guerra. Di
una guerra non convenzionale, che comporta costi elevati fra i civili,
come sanno molto bene gli inventori dell’espressione “danni
collaterali” applicata a iosa in Iraq e in Kosovo. Dell’unico tipo
di guerra – disumanizzata – che è possibile condurre contro paesi
la cui potenza tecnologica militare è sproporzionata rispetto alle
possibilità degli avversari. Gli attentati e le congiure hanno sempre
fatto parte delle guerre di liberazione e di indipendenza, e un paese
che celebra nelle cerimonie pubbliche e sui libri di testo la
Carboneria e il Risorgimento non dovrebbe dimenticarlo troppo in
fretta. Nel caso di cui ci occupiamo, la causa dell’esplosione di
violenza “terrorista” è il ruolo che gli Stati Uniti svolgono da
decenni in Medio Oriente a difesa non della libertà (il Kuwait è uno
dei paesi meno democratici al mondo, privo di libere elezioni e di
istituzioni rappresentative) ma dei propri interessi politici ed
economici, senza riguardo per le aspirazioni alla giustizia e
all’indipendenza dei popoli della zona, palestinesi in testa. Sono
in pochissimi a ricordarlo, nel clima di oscuramento massmediale delle
opinioni controcorrente, ma le loro parole sono davvero pietre. “Le
azioni di questi uomini sono atroci, ma non sono gratuite, sono atti
di guerra, una guerra che da tempo non è più quella cavalleresca”,
scrive Tiziano Terzani, aggiungendo: “Da tempo ormai si combattono
con mezzi e metodi nuovi guerre non dichiarate, lontano dagli occhi
del mondo che si illude oggi di vedere e capire tutto solo perché
assiste in diretta al crollo delle Torri Gemelle. Dal 1983 gli Stati
Uniti hanno bombardato a più riprese nel Medio Oriente paesi come il
Libano, la Libia, l’Iran e l’Irak. Dal 1991 l’embargo imposto
dagli Stati Uniti all’Irak di Saddam Hussein dopo la guerra del
Golfo ha fatto, secondo stime americane, circa mezzo milione di morti,
molti dei quali bambini a causa della malnutrizione. Cinquantamila
morti all’anno sono uno stillicidio che certo genera in Irak e in
chi si identifica con l’Irak una rabbia simile a quella che
l’ecatombe di New York ha generato nell’America e di conseguenza
anche in Europa. Importante è capire che fra queste due rabbie esiste
un legame”[v]. Sì,
sarebbe importante capirlo. Ma gli intellettuali liberali non lo
capiscono perché non lo vogliono capire, e i mezzi di comunicazione
da loro influenzati propongono, spesso con toni da cinegiornali Luce,
tutt’altro scenario. Ha un bello scrivere, l’islamista Bruno
Etienne, che “gli americani hanno prodotto nel mondo un notevole
capitale di odio da quando sono soli, cioè dopo la fine della
bipolarizzazione” e che “quest’odio si è sviluppato soprattutto
– ma non solo – nel mondo arabo-musulmano” giacché gli
statunitensi sono “aborriti e detestati a causa del loro appoggio ad
Israele e della loro presenza nei luoghi dell’Islam dopo la guerra
nel Golfo”[vi].
Nessuno, nelle redazioni giornalistiche, lo ascolta. Sulle prime
pagine dei quotidiani di più paesi, con spettacolare simmetria,
domina il titolo “Siamo tutti americani”, che dà il là ad un
monocorde concerto propagandistico di proporzioni senza precedenti. Ogni
argomento, ma anche ogni sotterfugio, è buono per cancellare il
rapporto causa-effetto esistente tra la sanguinosa oppressione dei
palestinesi e l’altrettanto cruento 11 settembre (un altro
“settembre nero”). Si specula sulle “inqualificabili
manifestazioni di giubilo” nelle strade di Ramallah, senza che sia
mai stata profferita una parola sull’entusiasmo da yankee
stadium con cui negli Usa vennero accolte nel 1991 le immagini
televisive dell’ecatombe provocata dai good
guys con le bombe scaricate a tonnellate sul corteo di soldati e
civili iracheni in ritirata sull’autostrada per Bassora. I Lerner
che fremono di sdegno nel pensare ai profughi disperati che gioiscono
per il danno inflitto al potente protettore del loro nemico si
guardano bene dal commentare con gli stessi toni le parole
dell’“esperto di sicurezza” israeliano che pubblicamente si
pente “di non aver ucciso Arafat” o quelle del pilota di aereo che
confessa di sentirsi, quando sgancia il suo carico di ordigni mortali,
“come un giocatore di football durante la finale del Superbowl”.
Questi sono sfoghi di amici, di alleati. Da biasimare sono gli altri,
quelli che per il solo fatto di ricordare le colpe di cui gli Usa si
sono macchiati agli occhi delle popolazioni arabe entusiaste di Bin
Laden vengono accusati di mettere terroristi e vittime sullo stesso
piano[vii].
Fa parte della medesima strategia l’ossessivo concentrarsi dei media
sull’attacco alle Twin Towers piuttosto che su quello,
simbolicamente non meno rilevante, al Pentagono. La ferita inferta al
centro simbolico del loro strapotere militare brucia molto di più
agli States perché è la
sferzante prova di un’impreparazione militare insospettabile, e va
richiusa in fretta, tanto più che l’opinione pubblica
internazionale non appare propensa ad esprimere la medesima simpatia
provata per i morti “innocenti”[viii]
dei due grattacieli verso chi è rimasto ucciso nella Mecca dei
“falchi” di Washington, indefessi pianificatori di operazioni
belliche. L’occultamento
delle reali motivazioni dell’attacco serve tuttavia soprattutto a un
altro scopo: far circolare l’idea che esso non sia un atto ostile
specificamente diretto – per ben individuabili ragioni – contro
gli Stati Uniti d’America, che ovviamente sono legittimati a
rispondergli con contromisure adeguate senza però aver titolo a
coinvolgere nella loro guerra paesi terzi, bensì una dichiarazione di
guerra ad un aggregato più vasto di cui gli Usa sarebbero la punta
avanzata ed emergente. Dalla distorsione dello scenario in cui gli
attentati sono avvenuti si passa quindi alla manipolazione dei loro
effetti.
II.
3 Dagli Usa all’Occidente È
un “non addetto ai lavori”, il cantautore Franco Battiato, ad
indicare con maggiore chiarezza i contorni di questa operazione
fuorviante. “Vedo un’equivoca rincorsa a disinformare”, dichiara
in un’intervista. Lo fanno i talebani “e lo fanno gli Usa, con
l’efficienza dei loro uffici-stampa, per cui è passata la tesi di
un attacco all’Occidente. No, questo è stato un attacco
all’America. Che doveva aspettarselo […] Tutti i morti ci
riguardano, purché non si usi il criterio dei due pesi e due misure
[…] Vorrei che le vittime innocenti degli attentati di New York
valessero quanto le innocenti vittime irachene di un embargo ormai
insensato. […] Perché [c’è] l’America nel mirino? Chi ha fatto
crescere a proprio vantaggio le immense riserve di miseria e odio
etnico o pseudoreligioso, che sono esplose l’11 settembre?”[ix].
Battiato ha ragione, ma i bambini iracheni uccisi non possono valere,
per la cultura liberale, quanto quelli statunitensi. I primi possono
essere presentati dal direttore del più venduto quotidiano italiano,
con disprezzo della verità, come “affamati sì, ma per colpa di
Bagdad e del suo tiranno”[x]
a una platea condizionata da lustri di educazione al pregiudizio
filoamericano. I secondi diventano strumento della strategia che sta a
cuore alle classi dirigenti atlantiste: lo sfruttamento degli eventi
per un ennesimo giro di vite nel rapporto di sudditanza che l’Europa
ha nei confronti della potenza d’oltreoceano. Date le premesse politiche e culturali di questa dipendenza, cementate da anni, la traduzione in una linea di commento comune all’immediato indomani dell’11 settembre non richiede sforzi particolari: è il frutto di un riflesso condizionato. Lo spartito è quello della solidarietà incondizionata. Dimenticato l’imbarazzo che non più di due giorni prima aveva colto il Parlamento e la Commissione dell’Unione Europea alle prese con la rete spionistica Echelon, dimostrazione lampante di come gli Usa siano consapevoli di avere interessi in prospettiva divergenti da quelli del Vecchio Continente e non esitino ad utilizzare qualunque metodo pur di nuocere ai potenziali rivali, editorialisti e conduttori televisivi fanno a gare per convincere chi li legge o li ascolta che il “siamo tutti americani” va inteso nel senso più letterale: spetta a noi combattere anche le loro guerre e farci carico dei problemi da loro sollevati. Il complesso di colpa tenacemente coltivato da decenni (“sono stati gli americani a salvarci dallo spettro delle dittature nere e rosse”) ha libero sfogo e la retorica del “mondo libero”, smentita da una lunga tradizione statunitense di sostegno a tutti i tiranni compiacenti sparsi nel globo, torna ad avere ampio corso. L’offensiva
è immediata. Già il 12 settembre si legge che “nel mirino di menti
diaboliche siamo anche noi con i nostri valori”. Ancora non si sa
chi abbia dirottato e lanciato sui bersagli gli aerei; rivendicazioni
non ce ne sono state e il sospetto di larghe complicità interne è
perlomeno plausibile, ma si parla senza cenni di dubbio di “un
attacco a tutto l’Occidente”, spingendosi a sostenere addirittura
che “non è retorico George Bush quando parla di “guerra alla
libertà””[xi].
Si taccia il “nuovo nemico dell’Occidente” di nichilismo e si
afferma che il suo “unico obiettivo” è “la nientificazione di
una civiltà da cui si sente umiliato e che gli sta davanti, con la
forza della sua ricchezza, del suo progresso tecnico, economico,
politico”[xii].
“Vogliono indebolire quella comunità etica e politica chiamata
Occidente”[xiii],
scrive un editorialista che da subito ha tirato fuori le tesi di
Huntington per interpretare lo scenario che si è appena delineato.
Sono le avvisaglie del tema della “superiorità occidentale”, che
non serve tanto ad umiliare gli arabi o il Terzo Mondo quanto a tenere
in riga gli europei e a farli sentire infinitamente piccoli di fronte
ai grandiosi States e dunque
obbligati a seguirli per trarre esempi e benefici dal loro orgoglio,
riscattandosi almeno in parte dal peccato di non averne saputo seguire
degnamente le orme. Argomentazione espressa efficacemente sul registro
nevrotico dell’invettiva viscerale da Oriana Fallaci e su quello
furbesco del “dico e non dico” da Berlusconi, secondo le
rispettive inclinazioni caratteriali dei due personaggi. Per
perseguire il risultato, anche in questo ambito non si risparmia sulle
esagerazioni. Sono passate poche ore dagli attacchi ma già
l’“esperto antiterrorismo” di Fbi e Cia paventa attacchi
all’Europa diretti contro il Colosseo o la Tour Eiffel e parla di
armi chimiche o batteriologiche[xiv]. Nei
giorni successivi, con il sostegno della potenza suggestiva
dell’immagine, l’idea di un’inevitabile fusione dei destini
europei e nordamericani viene diffusa a ritmi martellanti.
L’alzabandiera dei pompieri davanti alle macerie del Wtc si
trasforma nella replica aggiornata della classica icona
dell’invincibilità americana, la plastica infissione della bandiera
a stelle e strisce nel suolo di Iwojima. La sindrome alla Giuliano
Ferrara del trapianto in un patriottismo altrui per dimenticare
l’incapacità di coltivarne uno proprio – che comporterebbe per
forza di cose almeno un senso di alterità, se non di
contrapposizione, rispetto agli Usa – affonda qui le sue radici.
L’isolazionismo americano, che dovrebbe essere auspicato di tutto
cuore da cittadini europei che abbiano a cuore il proprio futuro di
indipendenza e benessere in tempi in cui non esiste più traccia di
guerra fredda e la Russia si profila sempre più come un potenziale
alleato e non certo come un nemico, viene agitato come uno
spauracchio. L’insopportabile infantile retorica di cui sono
tradizionalmente infarciti i discorsi dei presidenti americani nelle
occasioni solenni è spacciata per virile attestato di forza e
saggezza. I cori “Usa! Usa!” che risuonano di continuano attorno a
una qualunque arena sportiva in cui un american
boy affronta i rappresentanti del resto del mondo vengono
trasfigurati in prove di uno stato d’animo indomito e – chissà
poi perché – solidale con i fratelli sperduti sull’altra costa
dell’Atlantico. E sullo sfondo si profilano, infami e minacciosi, i
volti dei nuovi Barbari. II.
4 Scontro di civiltà? A
chi ne avesse mai dubitato, l’atteggiamento dei media “occidentali” dopo l’11 settembre offre la riprova che
per i liberali, né più né meno che per gli adepti delle ideologie
concorrenti alla loro, la politica, quando viene presa nella sua
essenza, si riduce alla contrapposizione tra Amico e Nemico. Poche
volte si è sentito parlare di inimicizie assolute risolubili solo con
la forza, di forze del Bene in lotta contro quelle del Male, di civiltà
minacciata dalla barbarie come è avvenuto dopo gli eventi di
Washington e New York. Ad onta delle prescrizioni dei manuali di
scienza politica, la democrazia statunitense, spalleggiata dagli
alleati, ha scelto di parlare il linguaggio tipico dei regimi
totalitari: propaganda a cascata, autoincensamento e designazione di
un nemico sempre meno specifico e sempre più oggettivo, mobilitazione
dall’alto delle masse, denigrazione degli antipatriottici seminatori
di dubbi, istigazione a moltiplicare i controlli degli atti della vita
privata. Il segretario alla difesa Rumsfeld non si è fatto scrupolo
di richiamare in più occasioni l’ipotesi dell’uso della bomba
atomica. Contando sullo spartito dello “scontro tra le civiltà”
fornitole anni fa da Samuel Huntington – politologo acuto ma da
sempre portato ad accordare le proprie riflessioni con gli interessi
dei centri di potere strategico statunitensi, al punto da farsi
difensore alcuni decenni orsono dei regimi comunisti del Terzo Mondo
in quanto elementi di stabilizzazione di un quadro internazionale in
cui gli Usa potevano meglio coltivare i propri interessi – la
fanfara della superiorità occidentale ha suonato a pieno ritmo. Politici
e intellettuali si sono spartiti i compiti. Ai primi è toccato di
saldare una coalizione che avallasse la tesi della minaccia
terroristica planetaria grazie soprattutto al sostegno dei paesi
musulmani – alcuni dei quali sono stati di colpo promossi al ruolo
di “moderati”, in un gioco di vorticosi travestimenti in cui
golpisti alla Musharraf diventavano governanti oculati e
raccomandabili e all’Alleanza del Nord afghana si tagliavano i panni
dell’esercito pacificatore. I secondi hanno spianato il terreno
all’accettazione della guerra da parte dell’opinione pubblica dei
rispettivi paesi proseguendo sulla falsariga della demonizzazione
degli avversari che già aveva dato ottimi frutti con Saddam Hussein e
Milosevic. Osama Bin Laden e i talebani hanno dunque preso posto
accanto alle altre figure di spicco della galleria degli orrori
antioccidentale e l’epiteto “barbaro” ha ripreso a risuonare. L’operazione
si sta tuttora svolgendo su più livelli. Per impressionare la massa
dei disinteressati alle vicende politiche si punta su argomenti ad
effetto, come la responsabilità dei governanti afghani nella
coltivazione e nel commercio dell’oppio, dimenticando di dire che
queste lucrose occupazioni esistevano ben prima che i Talebani
prendessero il potere, che non vi è alcuna prova che Al Quaida ne
tragga finanziamenti e che a consumare le droghe derivate dai papaveri
sono milioni di giovani che vivono nella paradisiaca società
occidentale, prodiga di libertà, diritti, tecnologia e benessere, e
non dovrebbero dunque avere motivo alcuno per abbrutirsi con gli
stupefacenti diffusi dai nuovi barbari per i loro perfidi scopi. Per i
più impegnati ci sono spiegazioni un po’ più raffinate. Una rimane
sul piano complottistico e spiega il “terrorismo globale” come
manifestazione di un progetto politico destabilizzante che ha menti e
braccia negli “Stati canaglia” tanto invisi all’amministrazione
di Washington. Fin dall’inizio, gli uomini legati ai servizi segreti
americani hanno spinto verso questa lettura dei fatti, senza
nasconderne più di tanto le finalità. “Se saltasse fuori che
[negli attentati] è coinvolto uno Stato, tutto diverrebbe più
sem,plice” ha dichiarato Marvin Cetron, autore per conto di Fbi e
Cia del rapporto Terrorismo 2000[xv]
Il nome più citato come Grande Vecchio è ovviamente quello di Saddam
Hussein, con cui da tempo i nordamericani vorrebbero fare i conti. Già
il 13 settembre l’europarlamentare Jas Gawronski, che degli ambienti
politici e finanziari legati all’amministrazione statunitense è un
frequentatore di lunga data, dà il proprio contributo alla causa
scrivendo che “è possibile pensare che Saddam abbia compattato e
usato le forze antiUsa per lanciare una Jihad mondiale”[xvi].
Molti, di qua e di là dall’oceano, lo seguiranno: in caso di scarso
successo in Afghanistan, il puntamento delle accuse e poi del mirino
dei bombardieri sull’Iraq consentirebbe di evitare una brutta figura
militare, acquietare i furori dell’uomo della strada e trovare un
capro espiatorio ad hoc.
Altre figure minori, da Gheddafi in giù, potrebbero in seguito
servire a completare l’opera. La
parte del leone in questa strategia la svolge però il tema del
conflitto di civiltà, attraverso il quale tutte le pulsioni xenofobe
o semplicemente le diffidenze verso l’Altro delle popolazioni
toccate dall’immigrazione di massa dal Terzo Mondo, per anni
censurate in pubblico e coltivate silenziosamente in privato,
scaricandole al massimo in momenti di particolare tensione nel voto
per i partiti populisti, sono libere di prendere corpo e di saldarsi
con le più colte lezioni degli accademici al servizio permanente,
remunerato o gratuito, della causa atlantista. I ragionamenti dei
pochi studiosi del mondo islamico disposti a prendere la parola
malgrado la dichiarata disapprovazione della “società dei colti”
per sostenere che l’islamismo radicale è una reazione
all’aggressiva occidentalizzazione dei paesi arabo-musulmani e che
sarebbe bene smettere di contrapporre Occidente e Islam perché “gli
arabi sono occidentali” e “l’Oriente comincia con l’India”,
o per denunciare che gli americani “parlano come Bin Laden” quando
sostengono che “Dio è con noi, poiché noi sappiamo quello che è
giusto e buono e lottiamo contro il Male. In God we trust”[xvii],
restano isolate. La vulgata degli “uomini di idee” recita altri
copioni e mira a un bersaglio molto ampio. Distingue sì i
fondamentalisti dagli altri seguaci dell’Islam, ma insiste sulla
possibilità che i primi contaminino i secondi dando avvio ad un
processo che di fatto insidierebbe l’“Occidente” dall’esterno
e dall’interno. La
convinzione che la civiltà dell’Occidente sia superiore a tutte le
altre, e in particolare a quella islamica, è sottaciuta dall’ala
progressista dello schieramento intellettuale filoamericano, ma trova
sfogo sul versante conservatore. La esprime ad esempio Giovanni
Sartori quando sottolinea che quella occidentale “è la civiltà che
ha conseguito più di ogni altra la “buona città”, la città
politica più umana, più vivibile, più libera, più aperta di ogni
altra”[xviii] (ovviamente, assumendo
come parametri di umanità, vivibilità, libertà, apertura i valori
dell’Occidente: il che crea una perfetta tautologia: “buona” è,
per l’occidentale, la propria civiltà, né più né meno di quello
che pensano, con riferimento alle loro, coloro che sono nati e
cresciuti in contesti culturali diversi). Ma se ne fa portavoce
soprattutto chi, come Angelo Panebianco, definisce la convinzione che
non esistano metri unici in base ai quali stabilire gerarchie fra le
civiltà – e cioè il relativismo culturale – “il principale
alleato di Bin Laden e Soci in Occidente, la loro più preziosa quinta
colonna, un malanno di cui l’Occidente soffre da decenni”[xix].
Il ragionamento che sta dietro a una simile affermazione è nitido: se
le persone hanno pari dignità (negarlo sarebbe negare uno dei
principii formalmente sacri al liberalismo), non così è per le
culture, le religioni e le civiltà, cioè per le anime degli
aggregati umani. L’ostilità dei seguaci dell’ideologia liberale
per tutto ciò che esula dalle coordinate dell’antropologia
individualistica è aperta: “l’errore logico consiste nel pensare
che quanto vale per gli individui debba necessariamente valere anche
per gli aggregati culturali. Il relativismo culturale è una
degenerazione del principio di tolleranza inscritto nella democrazia
liberale”[xx],
un principio che evidentemente autorizza a tollerare soltanto i
comportamenti previsti e/o prescritti dalla superiore cultura che lo
esprime, creando di fatto discriminazioni fra individui di diversa
categoria (da trattare diversamente, proibendo loro – se è il caso
– di conservare tradizioni e abitudini non gradite ai custodi della
civiltà “superiore”). E, nel contempo, come vedremo se lo stato
di tensione e di guerra si protrarrà, normalizzando l’intolleranza
verso chi osa attingere alle ricchezze dei paesi “occidentali”
trasferendovi domicilio e forza-lavoro ma non è disposto a
spogliarsi, in cambio, dell’identità che nascita ed educazione gli
hanno trasmesso. II.
5 Come imporre la guerra degli Usa Il
rifiuto di riconoscere pari dignità alle culture diverse da quella
americanomorfa ormai dominante in Europa e i ritorni di fiamma di un
orgoglio tardocolonialista hanno una ben precisa finalità: convincere
che uno scontro di civiltà è di fatto già in atto e che chi
appartiene al mondo che si autodefinisce civile “non può oggi
proclamarsi neutrale senza diventare complice della barbarie”[xxi].
E, dunque, fare della guerra che gli Usa combattono, legittimamente,
per la difesa della propria sicurezza e dei propri interessi, il
conflitto tra il sedicente “mondo libero” e i suoi nemici. Per
ottenere questo risultato, le truppe dell’intendenza intellettuale
devono imprimere nella mente del pubblico alcune idee schematiche: a)
gli Stati Uniti d’America sono il paese in cui meglio sono coltivati
e difesi i valori del Bene e della Giustizia; b) quei valori sono, o
dovrebbero essere, anche i nostri valori: degli europei, dei
giapponesi, degli australiani, dei latinoamericani, domani – chissà
– anche dei cinesi convertiti da Wall Street; c) la civiltà
superiore guidata dagli Usa è incompatibile con quella islamica, che
dal suo seno ha partorito la grave minaccia fondamentalista; d) tale
minaccia è ormai in grado di attentare alla sicurezza di tutti i
paesi dell’ecumene occidentale e dunque va estirpata immediatamente. Almeno
tre di queste proposizioni sono, oltre che false, difficili da
diffondere universalmente. Molti hanno sotto gli occhi le ingiustizie
che caratterizzano la società americana, l’egoismo, il
materialismo, l’incosciente e distruttivo consumismo che ne
innervano lo stile di vita medio, l’arroganza e il disprezzo per gli
interessi e i valori altrui a cui gli Usa ispirano la loro politica
estera, e non desiderano che i propri paesi diventino, con un
ulteriore atto di sudditanza, dei cloni degli States.
Sanno, inoltre, che l’ostilità degli islamisti radicali si è
rivolta, sino all’11 settembre ed oltre, contro la politica
nordamericana e non contro altri soggetti. Solo con una insistente
campagna di suggestione che configuri nell’Islam il potenziale
nemico assoluto dell’Occidente gli altri messaggi connessi possono
passare, e soprattutto può essere deviata l’attenzione dal nodo
centrale della questione: l’assoluta
inesistenza di un’identità comune – di valori e di interessi –
fra Europa e Usa. Ciò
non significa, ovviamente, che non vengano spesi argomenti anche sugli
altri fronti dell’offensiva filoamericana; ma sono armi di scarso
impatto, che gli intellettuali della destra conservatrice, nerbo della
campagna in difesa degli interessi americani, seminano giusto per
accrescere il clamore dell’avanzata. Sergio Romano può scrivere che
il “semplice eroismo dei poliziotti e dei pompieri” rende
impossibile “parlare, a proposito dell’America, di materialismo,
egoismo, edonismo”[xxii].
Galli della Loggia può spingersi persino oltre affermando che “gli
Usa sono l’unico Paese cristiano dell’occidente. L’unico che può
rispondere alla guerra santa con una guerra santa […] Quando in
questi giorni mi capita di accendere la tv e seguire i servizi dagli
Stati Uniti vedo folle che pregano con la mano sul cuore e gli occhi
bassi”[xxiii].
Ma, se non bastassero le prove offerte quotidianamente da decenni
dall’osservazione dell’azione statunitense nel mondo, sarebbe
sufficiente una sola frase pronunciata da George W. Bush durante la
crisi – “Non lancerò un missile da due milioni di dollari contro
una tenda da dieci dollari nel deserto per colpire solo la gobba di un
cammello”[xxiv]
– per smentire tutte queste fole interessate sul vero “animo”
della società nordamericana. Quel
che conta, quindi, per vincere la partita dell’opinione pubblica
europea è la creazione di nemici ben identificabili contro cui
appuntare l’indignazione e la voglia di reazione dell’uomo comune. Il Nemico esterno è l’Islam. Ufficialmente non tutto, solo la sua componente integralista, perché il sostegno o la benevola neutralità di regimi islamici sono indispensabili alla buona riuscita della guerra degli Usa. Ma sotto l’apparenza è al bersaglio grosso che si mira, allo sfruttamento dei plurisecolari e non del tutto infondati motivi di diffidenza verso gli Stati mediorientali e le loro popolazioni per convincere che, se scelta ha da essere perché il mondo altrimenti andrà a fuoco, è più sensato stare dalla parte degli ipervitaminizzati e prevalentemente, almeno per ora, bianchi americani che da quella degli arabi brutti, sporchi, infidi e cattivi. Buttare la questione in disputa storico-teologico-culturale, come stanno facendo i pochi difensori che l’Islam ha trovato in Europa, serve a poco o nulla per arginare questa campagna, perché l’immagine che la sorregge non è quella di Avicenna, di Averroè, dei dotti sufi o del Saladino, di cui gli habitués del telecomando nulla sanno, ma quella dello spacciatore di droga maghrebino oppure quella ascetico-fanatica di Bin Laden, capace di indurre persino un Massimo Cacciari a farsi sostenitore dell’adesione italiana alla guerra stars and stripes. La
questione che conta, e che va messa in evidenza per svelarne
l’incongruenza con l’interesse dell’Europa, è quella che,
ancora una volta, è rivelata con l’abituale cinica franchezza da
Huntington. Il politologo non si fa scrupolo di sostenere che a
muovere Bin Laden e i suoi è il risentimento contro i governi arabi
in carica e gli Stati Uniti, in cui gli Stati europei non sono
minimamente coinvolti. Ammette anche che nelle loro guerre gli Usa
hanno sempre di mira i loro interessi materiali (“Nella Guerra del
Golfo non potevamo consentire all’Iraq di prendere il controllo
esclusivo della maggior parte delle riserve mondiali di petrolio”).
Ma poi dà una lettura della situazione che rende trasparente l’uso
che la superpotenza intende farne: “Prima dell’11 settembre,
l’Europa e l’America si muovevano separatamente su una serie di
questioni, dai cibi transgenici alla difesa missilistica,
all’esercito europeo. Gli avvenimenti dell’11 settembre hanno
cambiato totalmente questo stato di cose. Dopo gli attacchi
terroristici alcuni quotidiani europei hanno titolato “Siamo tutti
americani”. In questo senso, davvero Osama Bin Laden ha restituito
all’Occidente un’identità comune”. Su questa base, il processo
di egemonia deve raggiungere altre tappe: “Gli Stati Uniti devono
incoraggiare l’“occidentalizzazione” dell’America Latina e
contenere la lenta deriva del Giappone che si allontana
dall’Occidente e tende a un avvicinamento con la Cina
[…]L’Occidente deve mantenere la propria superiorità tecnologica
e militare sulle altre civiltà”[xxv]. La
riuscita della strategia dell’occidentalizzazione forzata comporta
il ricorso alla guerra contro il nemico esterno ma anche la
“ripulitura delle retrovie” con l’annientamento del nemico
interno: il dissenso. Bersaglio che può essere meglio colpito se gli
si incolla un’etichetta negativa: antiamericanismo. Mai serenamente
tollerate dagli intellettuali liberali, le critiche alle scelte
politiche degli Stati Uniti, al loro modello di società o ai princìpi
che ne definiscono la mentalità collettiva sono diventate negli
ultimi tempi una sorta di reato di opinione meritevole dei più severi
castighi. “Troppo larga è stata la tolleranza verso un
anti-americanismo ideologico che nulla ha in comune con il diritto di
critica”, scrive un editorialista del “Corriere della Sera”
all’indomani dell’attacco al Pentagono e alle torri gemelle[xxvi].
Che questo “nulla in comune” lo stabilisca in esclusiva il
giornalista autore della fatwa
pare pacifico. Non è una novità: già il borgomastro antisemita
della Vienna d’inizio secolo dichiarava “ebreo è chi dico io”;
i suoi eredi liberali applicano il medesimo canone ad altri soggetti:
essere (o essere giudicati) antiamericani non è una questione di
opinioni, è un reato. Perché? Ce lo spiega Barbara Spinelli:
l’anti-americanismo è “l’humus che alimenta i violenti”[xxvii].
Un’idea sovversiva, come quelle messe fuorilegge nei paesi
autoritari e totalitari. Peggio: per Panebianco è, come abbiamo
visto, la più preziosa quinta colonna di Bin Laden, che “bisognerà
attrezzarsi per neutralizzare”, naturalmente “con la parola, con
la persuasione”[xxviii].
O non piuttosto con la negazione
del diritto alla parola? Questa ipotesi è più probabile, dal momento
che, essendo i “sentimenti di rivincita contro gli americani, contro
l’Occidente ricco e democratico” estesi ma “cova[ti] sotto la
cenere delle parole”, “passioni inconfessabili [che] si tacciono
in pubblico, ma si coltivao in privato”[xxix],
il processo alle intenzioni e l’attribuzione alle affermazioni dei
sospetti di significati occulti non diventa tanto lecito quanto
piuttosto doveroso. Il maccarthysmo è sempre in ottima salute. Di
qui alla negazione del diritto di critica, c’è molto meno di un
passo. Che negli Usa è già stato fatto. Ne è stato vittima Bill
Maher, animatore di un talk show
sulla rete Abc, messo al bando per “aver sostenuto che non è
“codardo” chi si butta con un aereo contro un grattacielo ma chi
sgancia un missile Cruise da duemila metri. […] Come primo
risultato, gli sponsor hanno ritirato i contratti pubblicitari e i
ripetitori locali hanno oscurato la trasmissione. Ari Fleischer,
portavoce di Bush, commentando il caso, ha avvisato “tutti gli
americani: attenti a quello che dite e a quello che fate, non è il
momento per sortite del genere”[xxx].
Colpiscine uno per educarne cento, scrivevano sui volantini le Brigate
Rosse vent’anni orsono. Il paese-faro dei liberali di tutto il
pianeta ne ha recepito la lezione. Tanto più che l’accusa di
antiamericaismo diventa il pretesto per criticare, in versione
conservatrice, l’intero movimento antiglobalizzazione (che si è
difatti subito azzittito) e, in versione progressista, gli “stili di
vita reazionari” di chi non coltiva giorno e notte con la dovuta
intensità l’american dream. II.
6 La pura e semplice mistificazione Naturalmente,
l’esibizione di argomenti, per fallaci che siano, ha preso di mira
solo i possibili oppositori provvisti di un retroterra culturale. Al
grande pubblico, gli apparati della comunicazione hanno riservato lo
spettacolo, il grand guignol,
che ha del resto occupato gran parte della programmazione in
argomento. È difficile contare tutte le false piste – le
“informazioni” di pura fantasia, le illazioni, le controverità
– che sono state seminate nella mente della gente comune: una
quantità impressionante. Si è cominciato subito con il “complotto
svelato”, gli arresti di sospetti arabi trovati in possesso di
divise da pilota d’aereo a Boston: tutte notizie rivelatesi
infondate. Si è continuato con le veline allarmistiche dei servizi
segreti su imminenti e mai verificatisi attacchi ai “centri
religiosi” europei. Poi sono venute le piste finanziarie, le
quotidiane scoperte di casseforti di Alì Babà Bin Laden sparse per
ogni dove, ogni volta discretamente smentite. Quindi si è passati
alla previsione di guerre chimico-batteriologiche planetarie con
“attacchi chimici dal cielo su Usa ed Europa”[xxxi],
avveratasi molto parzialmente negli Usa con la vicenda sconcertante
delle lettere all’antrace, così poco efficaci e così tanto
probabilmente provenienti da laboratori americani da non poter essere
neppure attribuite al nemico pubblico numero uno. Per accreditare la
psicosi tatticamente indispensabile dell’attentato islamico in
Europa si è persino cercato di sfruttare l’esplosione di una
fabbrica di prodotti chimici a Tolosa – ennesimo esempio dei
benefici effetti del capitalismo avanzato sull’ambiente e sul
benessere dei cittadini – e si sono fatti passare per aspiranti
bombaroli muniti di sofisticate piante topografiche cinque immigrati
afghani che passeggiavano ad alcune centinaia di metri dal Vaticano,
fermati per alcune ore, citati in tutti i telegiornali e le prime
pagine dei quotidiani a riprova dell’incombente pericolo
fondamentalista islamico e quasi subito rilasciati con tante scuse. In
attesa dei bombardamenti, si è passati ai diversivi edificanti, con
il grafologo che sulla base dell’analisi delle rispettive firme
giudica Bush “deciso” e Osama “depresso” e una torma di medici
disposti a stilare diagnosi di gravi malattie dopo aver visto il video
di Bin Laden nella caverna. Ad ostilità iniziate, si sono lette e
ascoltate menzogne di tutti i colori: dagli scontri delle Sas
britanniche con il nemico allo sfaldamento dell’armata talebana a
suon di cinquantamila defezioni al giorno, dai commandos intenti a
“setacciare” il territorio dell’Afghanistan al mullah Omar che
sfugge “per un cavillo burocratico” alla morte che gli eroici
GI’s stanno per comminargli, dal tradimento del ministro degli
Esteri Muttawakil a Kandahar “polverizzata”. Il tutto offerto da
giornali che un giorno sparano titoli come “Per gli uomini di Omar
è l’inferno” e il giorno successivo paventano lo stallo
dell’operazione militare angloamericana[xxxii]. Col che anche un altro
dei (dubbi) requisiti su cui le società liberali fondano le proprie
pretese di superiorità – la trasparenza informativa – si
accomiata dalla scena. III.
Resistere alla dittatura del pensiero In
quello che rimane a tutt’oggi uno degli interventi più sensati e
coraggiosi sugli eventi in corso, Tiziano Terzani ha scritto che
“anche qui da noi, specie nel mondo “ufficiale” della politica e
dell’establishment mediatico, c’è stata una disperante corsa alla
ortodossia. È come se l’America ci mettesse già paura”[xxxiii].
Le cose stanno ancora peggio: l’America ci mette in riga non perché
ci intimidisca, ma perché può contare sul diffuso senso di
inferiorità che affligge il ceto intellettuale di tutta Europa da
quando il nostro continente, scosso da due terribili guerre intestine
e dalle loro avvilenti conseguenze, ha cessato di credere alle proprie
potenzialità e capacità. Le classi politiche dei vari Stati europei
si sono oggi volontariamente abbassate al rango di attendenti della
superpotenza americana, delegandole il compito di dar loro un destino.
Non c’è da stupirsi se uno dei capifila del fronte intellettuale
che mira a rendere irrevocabile questa situazione scrive che
“l’autorità morale e la credibilità necessarie” per una forza
politica che intenda intervenire su questioni di politica estera in
Italia dipendono da “una condivisione totale
delle scelte di politica estera in situazione di emergenza”[xxxiv].
Siamo tornati ai tempi dell’immediato dopoguerra, al paese vinto e
straccione che attendeva di essere beneficiato dal piano Marshall: è
a Washington che si impartisce il crisma agli amministratori delle
colonie. Non c’è bisogno di aver paura dell’America per obbedire.
Basta continuare a soffrire del complesso di impotenza che ha
attanagliato l’Europa, con la relativa eccezione britannica, dal
1945 in poi; basta sentirsi eternamente in debito con il Grande
Fratello d’oltreoceano e, per questo, scambiare i suoi atti
interessati per gesti di magnanima benevolenza. Eppure,
per liberarsi da questi condizionamenti basterebbe trovare il coraggio
di riflettere in autonomia di pensiero. Gli argomenti fondati da
prendere in considerazione, anche in questo opaco clima di autocensura
diffusa, non mancano. Alcuni ce li fornisce ancora Tiziano Terzani.
Leggiamoli: “L’attacco alle Torri Gemelle […] non è l’atto di
“una guerra di religione” degli estremisti musulmani per la
conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia […] Non è
neppure “un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale”,
come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un
vecchio accademico dell’Università di Berkeley, un uomo certo non
sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa
storia una interpretazione completamente diversa. “Gli assassini
suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno
attaccato la politica estera americana”, scrive Chalmers Johnson nel
numero di The Nation del 15
ottobre. Per lui […] si tratterebbe di un ennesimo contraccolpo al
fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi
dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuta intatta la
loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo”
per organizzare “imbrogli, complotti, colpi di Stato, persecuzioni,
assassinii e interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti”
in America Latina, Asia, Africa, Medio Oriente. Prosegue Terzani:
“con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan,
pochissimi hanno fatto notare che il grande interesse per questo paese
è legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi
conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio
dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche
ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il
Pakistan, l’India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto
senza dover passare da’Iran […] È dunque possibile che, dietro i
discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia,
l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre
considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti”. Così
stanno le cose. Ma per impedire all’opinione pubblica di rendersene
conto i mezzi di informazione e gli intellettuali liberali che se ne
servono la bombardano a tappeto con argomenti senza diritto di
replica, notizie false, commenti unilaterali. È una strategia
manipolativa indiscutibilmente efficace, che fa passare agli occhi di
molti la guerra vigliacca dei bombardieri che massacrano la
popolazione civile per un conflitto difensivo e mirato ad estirpare il
Male dalla Terra, tace o travisa i motivi di una delle parti in causa
creando scandalo se un sondaggio dice che il 30% degli italiani li
comprendono (non “li approvano”, si badi!), amplifica e loda ogni
mossa americana in Afghanistan per mettere la sordina al calvario che
Israele impone ai palestinesi nelle loro terre in una cinica escalation
di violenza e fa passare per vili terroristi quanti lì si battono con
ogni mezzo di fortuna disponibile per difendere il diritto ad avere
una patria contro uno Stato che li opprime grazie ad un’armata ricca
di tecnologia militare di prim’ordine e a servizi di sicurezza con
licenza illimitata di uccidere spalleggiati apertamente dagli Stati
Uniti. Cosa
si può fare contro una simile opera di intossicazione? Sul piano
della risposta politica, ben poco. I meccanismi di condizionamento al
servizio dell’egemonia liberale monopolizzano risorse e spazi di
espressione accessibili alle masse, ottenendo senza bisogno di
ricorrere a strumenti coercitivi un controllo delle mentalità
collettive che non ha nulla da invidiare ai regimi totalitari di un
tempo. Sul piano morale, molto. Si può e si deve resistere mostrando
che esiste ancora qualche voce che non intende piegarsi alla legge del
conformismo. La diffamazione e un isolamento se possibile ancora
maggiore vanno messi in conto, ma è indispensabile tenere in vita
un’oasi dove non alligni il pregiudizio filoamericano, dove si
combattano i dittatori del pensiero, dove si osi dire “signornò”
alla chiamata alla guerra che i padroni del mondo fanno ai loro servi. Nella
caricaturalizzazione degli avversari “antiamericani”, gli
intellettuali atlantisti addebitano loro il vizio di imputare agli Usa
tutti i mali del mondo e di farlo per scopi inconfessabili. L’accusa
non ci tocca. Noi agli Stati Uniti d’America addebitiamo solo i mali
che, nella loro storia e nei comportamenti attuali, hanno provocato e
si ostinano a provocare. Ce n’è d’avanzo. Quanto ai nostri scopi,
nulla hanno a che vedere con quelli dei nostalgici delle dittature del
passato, desiderosi di regolare conti vecchi decenni. A muoverci è
solo il desiderio di mostrare che siamo e restiamo europei,
consapevoli di un’identità che ci differenzia da chi ci vuole
negare indipendenza e intende continuare ad usarci al proprio
servizio. Non ci sentiamo occidentali, non siamo americani, non
proviamo alcuna immedesimazione strumentale nella causa islamica.
Vogliamo un universo plurale basato sui diritti dei popoli e sul
rispetto della persona. Crediamo che l’Occidente non sia il migliore
dei mondi possibili e, dicendolo, sappiamo di difendere il diritto
alla libera espressione delle idee in un momento storico in cui chi
dice di averlo scoperto e promosso fa tutto ciò che è in suo potere
per negarlo ed affossarlo. Per uno di quei paradossi di cui è ricca,
oltre alla storia, anche la cronaca, spetta a gente come noi, che non
ha mosso i primi passi nel suo seno, difendere la democrazia e
preservarne i requisiti pluralistici minacciati da questo nuovo
capitolo dell’ascesa liberale all’egemonia. Nei limiti dei nostri
esigui mezzi, ci sforzeremo di fare la nostra parte. Marco Tarchi[i] “Nelle nostre menti e nelle nostre politiche”, aggiunge Barbara Spinelli, Resistere alla tentazione della moderna apocalisse, in “La Stampa”, 13.9.2001. [ii] La stima del quotidiano newyorkese è di 2.950 morti. Cfr. D.F., Il giallo del World Trade Center: il numero delle vittime sarebbe molto più basso, in “Corriere della Sera” (di qui in poi “Cds”), 29.10.2001. [iii] Guido Santevecchi, Obiettivi, errori e democrazia, in “Cds”, 14.10.2001. [iv] Giovanni Sartori, Uditi i critici ha ragione Oriana, in “Cds”, 15.10.2001. [v] Tiziano Terzani, Quel giorno, tra i seguaci di Bin Laden, in “Cds”, 16.9.2001. [vi] Bruno Etienne, Dietro l’odio non c’è solo Bin Laden, in “Cds”, 26.9.2001. [vii] Emblematico di questo modo di procedere è Pierluigi Battista, “Né con i terroristi, né con gli americani”, in “La Stampa”, 13.9.2001. [viii] La notizia che nel World Trade Center si trovavano importanti uffici operativi della Cia e della Fbi, pressoché annientati dagli aerei dirottati, è stata data dai media con molta discrezione. [ix] Marzio Breda, Battiato: né con gli americani né con i terroristi, in “Cds”, 28.9.2001. [x] f[erruccio] de b[ortoli], Il terrore e la democrazia, in “Cds”, 8.10.2001. [xi] Franco Venturini, Il nemico invisibile e lo scontro con l’Islam, in “Cds”, 12.9.2001. [xii] Barbara Spinelli, Resistere alla tentazione della moderna apocalisse, cit. [xiii] Franco Venturini, Diritti umani e mani libere, in “CdS”, 30.9.2001. [xiv] E[nnio] C[aretto], “Se attaccassero l’Europa colpirebbero il Colosseo” (intervista a Marvin Cetron), in “Cds”, 12.9.2001. [xv] Ibidem. [xvi] Jas Gawronski, L’ombra di Saddam il grande burattinaio, in “La Stampa”, 13.9.2001. [xvii] Bruno Etienne, Dietro l’odio non c’è solo Bin Laden, cit. [xviii] Giovanni Sartori, Uditi i critici ha ragione Oriana, cit. [xix] Angelo Panebianco, Smemorati tra noi, in “Cds”, 26.9.2001. [xx] Ibidem. [xxi] Franco Venturini, Quattro incognite, in “Cds”, 8.10.2001. [xxii] Sergio Romano, Emozioni e ragione, in “Cds”, 16.9.2001. [xxiii] Occidentali & cristiani. Galli della Loggia: un errore nascondere le radici, intervista in “Avvenire”, 27.9.2001. [xxiv] George W. Bush a un deputato del Congresso Usa, in “CdS”, 26.9.2001. [xxv] Samuel P. Huntington, “Osama ha reso all’Occidente l’identità comune”, intervista a Nathan Gardels, in “Cds”, 1.11.2001. [xxvi] Franco Venturini, Il nemico invisibile e lo scontro con l’Islam, cit. [xxvii] Barbara Spinelli, Resistere alla tentazione della moderna apocalisse, cit. [xxviii] Angelo Panebianco, Smemorati tra noi, cit. [xxix] Giuliano Zincone, Quelli contro (solo un po’), in “Cds”, 14.9.2001. [xxx] Goffredo Buccini, La bandiera bruciata e quel “bisogno” di autocensura, in “Cds”, 1.10.2001. [xxxi] Titolo del “Corriere della Sera”, 24.9.2001. [xxxii] Si vedano, a titolo d’esempio, titoli e articoli del “Corriere della sera” del 17 e 18.10.2001. [xxxiii] Tiziano Terzani, Il sultano e San Francesco, in “Cds”, 8.10.2001. [xxxiv] Angelo Panebianco, Governo incerto opposizione spenta, in “Cds”, 24.10.2001. _________________
Padroni del mondo e dittatori del
pensiero di Marco Tarchi è contenuto nel numero 248
(ott.-nov. 2001, £. 4.000) di "Diorama Letterario", mensile
di attualità culturali e metapolitiche distribuito anche nel circuito
delle librerie Feltrinelli.
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4.12 |
In
piazza per la Palestina
Perché contro la guerra in Afghanistan si mobilitano organizzazioni politiche o della società civile con un grande seguito di massa, come il Genoa Social Forum o le varie anime del movimento NoGlobal, e lo stesso non accade contro i crimini orrendi che Israele sta perpetrando non da oggi (ma con crescente gravità) nei territori palestinesi da esso illegalmente occupati ? Perché alla fine degli anni '80, ai tempi della prima Intifada, ricordo oceaniche manifestazioni nazionali in sostegno della causa palestinese, e ora che la situazione è mille volte più grave l'iniziativa viene lasciata a gruppuscoli pur rispettabilissimi ma non in grado di trascinare un grande seguito né di attrarre l'attenzione dei media ? Perché persino le tessere della moderatissima FGCI nell'89 recavano la scritta "con la Palestina nel cuore" mentre oggi ci si cela dietro un'ipocrita quanto ingiustificata equidistanza ? Personalmente credo che parte della responsabilità sia da attribuire anche alla retorica buonista che ha accompagnato gli accordi di Oslo addormentando la coscienza critica e la capacità di mobilitazione di molta parte della sinistra occidentale (e italiana in particolare), anche di quella radicale, nonostante l'evidenza dell'impraticabilità di quegli accordi e della non volontà israeliana di giungere a una pace giusta. Ma questo sarebbe un lungo discorso.
Ma a prescindere dalle valutazioni di
ampio respiro, ora, nell'estrema tragicità del dramma che si sta
consumando, credo sia urgente una manifestazione nazionale il più
possibile massiccia per il rispetto dei diritti legittimi di tutti i
palestinesi, che vivano sotto l'occupazione israeliana o in esilio,
nonché degli arabi che vivono nel Golan occupato ; per l'applicazione
incondizionata di tutte le risoluzioni ONU; per un'opposizione
"senza se e senza ma" alla attuale politica israeliana e
alle complicità dei nostri paesi occidentali. Per questo mi appello a
voi del Manifesto, ai NoGlobal, a tutta quella parte organizzata della
sinistra radicale capace di far sentire la sua voce meglio di un
privato cittadino, perché siate voi a indire una grande
manifestazione, ma grande davvero. So bene che la manifestazione è
un'arma spuntata quando sono in ballo grandi interessi geopolitici, e
non mi faccio illusioni sulla sua efficacia... ma questo era vero
anche quando si manifestava contro il G8 o la guerra in Afghanistan.
Intanto è importante contarci e far sentire la nostra voce. Il mondo
fa già due pesi e due misure, non facciamolo anche noi !
Francesco
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2.12 |
Dietro lo specchio. Verità e menzogne dopo l'11 settembre 2001 comitato
Scienziate e Scienziati contro la Guerra Dietro
lo specchio. Verità e menzogne dopo l'11 settembre 2001 ROMA
– sede centrale CNR – Sala Arangio
Ruiz 3
dicembre 2001 L'11 settembre 2001 è certamente una di quelle date che "fanno la storia". Se su questo punto il consenso è unanime sono invece diversificate le analisi di quanto è accaduto, delle motivazioni e delle modalità della "nuova guerra" cui partecipa anche il nostro Paese, delle prospettive che si aprono. Il seminario nasce da alcune domande che riteniamo cruciali. È vero che tutto è cambiato dopo l'11 settembre? Quali sono le armi della "nuova guerra"? La crisi economica registrabile in "Occidente" già prima degli attentati di Washington e New York è una crisi "ciclica" o è invece strutturale? Si può affrontare questa crisi ricorrendo alle "ricette classiche"? Quella cui il nostro Paese partecipa in questi giorni è la prima fase della "guerra al terrorismo" o un nuovo capitolo della vecchia guerra per la gestione delle risorse energetiche e la salvaguardia di specifici interessi economici? Il concetto di Islam con cui ci chiedono di confrontarci è così monolitico e "fondamentalista" come a volte viene presentato? Soprattutto: fondamentalismo e anti-occidentalismo coincidono? Infine, la lotta al terrorismo giustifica la limitazione dei diritti civili e l'uso dello strumento bellico? Il
comitato "Scienziate/i contro la guerra" è nato dalla
convinzione di studiose/i delle più diverse discipline che la guerra
sia un prodotto storico, una strategia intenzionale e un disegno
razionale nello scontro di potere tra sistemi politici in lotta per la
supremazia; mentre oggi è possibile e necessario elaborare altri
strumenti per la gestione dei conflitti ed è necessario sostenere lo
sviluppo di una conoscenza critica che favorisca la ricerca di
alternative alla guerra e sia un deterrente ad una soluzione armata
dei conflitti esistenti. PROGRAMMA 9.30
Introduzione: 11.45
- 13.15 Sezione
2 - Una guerra asimmetrica -
Coordina: Mauro Cristaldi 16.30 - 17.45 Sezione 4 - "..Voglio Bin Laden vivo o morto!" - Coordina: Silvia Macchi D.
Gallo, "Coercizione del terrorismo, diritto internazionale e
guerra"
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