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31.01 Le immagini ufficiali dal paese della libertà

Tortura dei prigionieri afgani
Le immagini ufficiali dal paese della libertà

 

Tradotto dal meritorio sito della Réseau Voltaire (http://www.reseauvoltaire.net/actu/guantanamo.html) asciando tutti i link e la formattazione originali della pagina.

Il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha diffuso, sabato 18 gennaio 2002, alcune fotografie dei detenuti afgani alla base militare di Guantanamo, a Cuba. Il segretario di Stato della Difesa, Donald Rumsfeld ha dichiarato che questi prigionieri sono "combattenti illegali" a cui non si applica "alcuno dei diritti della convenzione di Ginevra". Essi "non saranno considerati come prigionieri di guerra, perché non lo sono", ha precisato. L'Alto Commissario per i Diritti dell'Uomo dell'ONU, Mary Robinson, ha protestato contro l'atteggiamento degli Stati Uniti. L'ex-presidente della Repubblica d'Irlanda ha insistito sugli "obblighi internazionali che vanno rispettati". Rispondendo il 21 gennaio alle vivaci critiche mosse nei paesi alleati contro il trattamento inflitto ai prigionieri, Rumsfeld ha finalmente affermato che esso è conforme "nelle parti essenziali" alla Convenzione di Ginevra. Noi riproduciamo qui le immagini presentate dal Pentagono.

"Questa è la battaglia del Bene contro il Male. Ma non v'ingannate: il Bene trionferà" (George W. Bush, 12 settembre 2001)

"Non si tratta solo di una guerra contro gli Stati Uniti, questa è una guerra contro la civiltà, contro tutti i paesi che credono alla democrazia" (Colin Powell, 12 settembre 2001)

"Questo terrorismo di massa è il nuovo demonio del mondo di oggi. Viene perpetrato da fanatici totalmente indifferenti alla sacralità della vita umana e noi, le democrazie di questo mondo, noi lo dobbiamo combattere insieme e sradicare completamente questo demonio dal nostro mondo" (Tony Blair, 11 settembre 2001)

 

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30.01 I movimenti islamici in Italia visti da Buffa e...dallo ICCII

Breve storia del movimenti islamici in Italia

la mappa delle associazioni che rappresentano la comunità musulmana nel nostro Paese

di Dimitri Buffa

La storia recente dell'Islam in Italia, sia pure limitata al secolo XXesimo, è fatta di incomprensioni tra gli stessi fedeli della medesima. religione. Alcuni moderati, altri decisamente no, oggi li troviamo divisi su tutto e inseriti in almeno quattro o cinque organizzazioni teologico-culturali diverse, che provvederemo di seguito a illustrare. Avvertendo subito il lettore che, per i gusti liberali del nostto giornale riusciarno a concepire come interIocutrice solo l'Associazione dei musulmani italiani al cui segretario, Shaykh Abdul Hadi Massimo Palazzi, dobbiamo l'enorme mole di notizie qui sinteticamente riportate.


La prima organizzazione  musulmana fondata in Italia nell'epoca moderna è l'Associazione Musulmana del Littorio (Aml) - nata a Roma nel 1937. Essa sorge in conseguenza della creazione dell'Impero nell'Africa Orientale Italiana. Ne sono fondatori un gruppo di cittadini italiani di origine somala, per lo più arruolati nel Regio Eercito in qualità di Ascari (truppa) o Buluk-Bash (sottufficiali) come Musa Hajj Hamed, Mohallim Hussen ed Osman Sabtiye. Scopo dell'Associazione è quello di garantire i servizi religiosi essenziali a quei musulmani che giungano in Italia provenendo dai territori dell'Impero. Alcuni dei membri dell'Associazione hanno funzioni di cappellani militari, altri di giudici islamici (Qadi), cui è demandata la soluzione di controversie civili fra gli abitanti dell'Impero di religione islamica, come pure la gestione di matrimoni, divorzi ed altre questioni inerenti allo status personale. Con la dissoluzione dell'Impero, la caduta del regime fascista ed il passaggio alla forma istituzionale repubblicana l'Associazione cade in disuso. Alcuni dei suoi aderenti proseguiranno la carriera militare ed altrettanto faranno anche i loro figli cui, in connessione con la creazione dell'Amministrazione fiduciaria italiana in Somalia (Afis) verranno aperte anche le accademie, con la conseguente possibilità di accedere anche al rango di ufficiali. Saranno proprio alcuni di questi ufficiali a dar vita negli anni ottanta all'Associazione musulmani italiani.

L'Associazione Musulmani Italiani (Ami), venne fondata a Napoli nel 1982 da un gruppo che comprende convertiti italiani ed ufficiali delle forze armate di origine somala, alcuni dei quali, come Duale Musa e Abshir Sabtiye, sono figli dei vecchi fondatori dell'Aml. Sin dalla fondazione, viene chiamato alla presidenza lo Shaykh Ali Hussen, teologo musulmano già abilitato alla funzione di Qadi, che in seguito verrà anche nominato Ambasciatore della Somalia presso la S. Sede. L'orientamento dottrinale dell'Ami è sunnita, e la maggior parte dei suoi soci appartiene altresì alla confraternita Sufi Qadiriyyah.

L'Ami si ispira a principi di integrazione della minoranza islamica nella società italiana, è di orientamento moderato e condanna da sempre l'integralismo e le tendenze che pretendono di strumentaIizzare la religione a fini politici. Ha anzi più volte denunciato, ben prima dell'11 settembre, il rischio rappresentato per l'Occidente dai movimenti fondamentalisti di tipo wahhabita, finanziati e protetti dalla casa reale saudita. In contrasto con l'opinione di quanti sostengono che l'Islam e la cultura occidentale siano in antitesi, l'Ami ritiene invece che la civiltà dell'Occidente sia debitrice all'Islam di molti dei suoi tratti caratteristici, diffusisi in ambito europeo grazie alla traduzione latina degli scritti di Ibn Khaldun, Avicenna ed Averroè. Ritiene inoltre che la nascita del movimento settario dei wahhabiti, la caduta dell'impero Ottomano e l'occupazione dei luoghi santi di Mecca e Medina da parte del regime saudita (di orientamento wahhabita) siano da identificarsi tanto con le cause dell'integralismo, quanto con quelle dell'attuale stato di degrado ed arretratezza che caratterizza vasti settori del mondo islamico contemporaneo. Nel 1993 hanno aderito all'Ami due organizzazioni preesistenti, anch'esse di orientamento sunnita e moderato: la Scuola Islamica di Roma e l'Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana, fondato nel 1991 dallo Shaykh Abdul Hadi Palazzi. Divenuto segretario generale dell'Ami, questi si è impegnato a favore del dialogo interreligioso, ed in particolar modo nel favorire le relazioni d'interscambio fra le minoranze ebraica ed islamica in Italia, e l'instaurazione di normali relazioni diplomatiche fra i paesi islamici ed Israele. Nel 1997, col pieno sostegno del Consiglio direttivo dell'Ami, Palazzi è divenuto co-presidente musulmano della Associazione di Amicizia Islam-Israele, avente sede a Gerusalemme. Nel maggio 2001 l'Ami ha inoltre pubblicato un documento nel quale si esprime solidarietà ad Israele e si condanna il terrorismo contro la popolazione civile israeliana praticato dall'Olp e da Hamas.

Il Centro islamico culturale d'Italia, invece, è un ente morale fondato nel 1969, incaricato dapprima di costruire, quindi di gestire la grande moschea di Monte Antenne, costata oltre sessanta miliardi. E' retta da un Consiglio d'Ammimstrazione in cui siedono gli Ambasciatori presso l'Italia o la S. Sede dei paesi musulmani che hanno finanziato la realizzazione del progetto. Se da un lato l'Arabia Saudita ha senz'altro dato il contributo finanziario più rilevante, dall'altro però esso è venuto a cessare in concomitanza con la guerra del Golfo, cioè nel momento in cui l'edificazione della struttura interna della moschea era completata, ma mancavano ancora i fondi necessari alla decorazione degli interni.

A questo punto, l'allora Re del Marocco Hasan II ha deciso di farsi carico in prima persona di tutte le spese necessarie al completamento dei lavori, ed ha inviato in Italia una squadra di decoratori specializzati, incaricati di decorare gli interni della moschea con mosaici identici nello stile a quelli della nuova grande moschea di Casablanca. Ha però preteso e ottenuto per il suo Ambasciatore la carica di presidente del Cda del centro, e da allora il conflitto fra Marocco ed Arabia Saudita per l'effettivo controllo della moschea non si è mai estinto, ma è passato per fasi alterne. Il Marocco rivendicava infatti una sorta di primato derivante dal fatto che la componente marocchina è maggioritaria fra gli immigrati musulmani, e non gradiva il perdurare di legami fra il governo saudita e i gruppi integralisti presenti ed attivi in Italia. Di fatto però, anche in seguito all'inaugurazione della moschea (1998) essa non ha mai assunto un ruolo primario nella vita quotidiana della comunità islamica romana, vuoi per via del fatto che essa è situata in una zona molto distante da quelle i cui risiedono i musulmani, vuoi perché la necessità di gestire un'organizzazione guidata da ambasciatori di paesi spesso in contrasto fra loro rendeva problematica la realizzazione di progetti ed attività.

L'Unione delle Comunità ed Organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii) fu fondata nel 1990. E' la sigla dietro la quale agisce la filiale italiana dell'organizzazione integralista dei Fratelli Musulmani, chiamata dai suoi membri semplicemenente "la Fratellanza". La stessa organizzazione agiva invece in passato con il nome di Unione degli Studenti Musulmani in Italia (Usmi) e il cambiamento di nome è indice di un tentativo di proporsi sotto veste diversa, di far passare oggi come rappresentanti di non meglio precisate "comunità islamiche" quelli che in passato erano definiti come "rappresentanti studenteschi". Nell'un caso come nell'altro si trattava però sempre e comunque di militanti professionisti della Fratellanza, giunti in Italia allo scopo di costituire delle filiali dell'organizzazione, da inserirsi nella sua potente rete mondiale.

La Fratellanza viene fondata ad Ismailia, in Egitto, nel 1928 da Hasan al-Banna, un maestro elementare che era stato ammesso alla Massoneria britannica, e che ha inteso drenare qualcosa di analogo nei mondo islamico. Sulle prime l'organizzazione non è tanto integralista, quanto carrierista; mira a reclutare in seno al mondo islamico uomini inseriti nei posti-chiave, e a far loro giurare assoluta segretezza e obbedienza al capo. Alla morte di al-Banna però, il suo successore Sayyid Qutb si sposta su posizioni politiche molte estreme, legittima la pratica del terrorismo a fini politici, aderisce alla confessione wahhabita e fa schierare in questo senso l'intera organizzazione. Nel momento in cui scoppia la guerra fra i due Yemen, il mondo arabo diviene terreno di scontro fra il nazionalismo laico rappresentato dal dittatore egiziano Nasser, e l'integralismo wahhabita, guidato dal re Feisal d'Arabia Saudita. La Fratellanza si schiera decisamente a fianco del re Feisal, ne viene ricompensata con ingenti finanziamenti, e diviene uno dei principali strumenti della politica estera saudita. Sarà grazie alla Fratellanza che il regime saudita potrà esportare l'integralismo prima nei paesi arabi, poi in Pakistan, ed infine in Occidente. L'espansione della rete fondamentalista all'Occidente passa attraverso la creazione della "Federazione Internazione degli Studenti Musulmani", una struttura grazie alla quale i figli dei dirigenti della Fratellanza ricevono borse di studio saudite per gli Stati Uniti o I'Europa occidentale, posizione che consentirà loro di aprire centri e moschee, e di radicare la Fratellanza in tutto il mondo. Ciò avviene regolarmente anche in Italia, dapprima con l'Usmi, quindi con l'Ucoii. Sebbene i militanti di professione della Fratellanza presenti in Italia (cioè i membri dell'Ucoii) non siano più di qualche centinaio, pure essi hanno a disposizione fondi che consentono loro di aprire e di gestire moschee in molte città d'Italia. Questo flusso di fondi è garantito soprattutto da una delle principali strutture finanziarie della Fratellanza in Europa, quella Banca Al Taqwa di Lugano che, gestita da due alti dirigenti della Fratellanza (Yusuf Mustafa Nada e di Ali Ghaleb Himmat), verrà successivamente denominata Nada Management Trust, e finirà sotto inchiesta, in quanto finanziatrice non solo dell'Ucoii, ma soprattutto di Al Qaeda. Le-posizioni dell'Ucoii sono molto vicine a quelle dell'ideologo della Fratellanza e teorico del terrorismo suicida Dr. Yusuf Qaradawi, che è stato anche invitato a partecipare ai loro convegni annuali. Dalle pagine del suo organo ufficiale "il Musulmano", l'Ucoii ha apertamente solidarizzato con i terroristi di Hamas (una struttura che del resto fa anch'essa parte della Fratellanza). Il mensile "il messaggero dell'Islam" organo del Centro islamico di Milano (anch'esso legato alla Fratellanza e facente parte dell'Ucoii) ha poi pubblicato un articolo apologetico della figura di Anwar Shaban, il terrorista fondatore dell'Istituto di Viale Jenner, ucciso dalla polizia croata mentre tentava di contrabbandare un carico.

Infine la Lega Mondiale Musulmana - Sezione Italiana (Lmm-si). E' evidente che le posizioni estremiste espresse pubblicamente dall'Ucoii sono tali da rendere questo interlocutore come del tutto inaffidabile per le istituzioni italiane. Non va infatti dimenticato che, a circa un anno dalla fondazione dell'Ucoii, l'allora ministro dell'Interno Nicola Mancino ha decretato l'espulsione dal territorio nazionale di due membri del suo Consiglio direttivo, i palestinesi Omar Tareq e Abu Jafar. Il tutto "per ragioni di sicurezza". Se quindi la struttura della Fratellanza può essere utile ai Sauditi per controllare un certo numero di simpatizzanti e per espandere il controllo sui musulmani residenti in Italia, di certo non può servire a creare un interlocutore islamico in grado di farsi riconoscere dalle istituzioni. E' a questo punto che si attua una delle modalità tipiche della politica estera saudita: utilizzare le strutture estremiste e militanti come elemento di rottura, quindi proporre altre strutture - sempre sotto il loro controllo - ma in grado di presentarsi come affidabili e moderate. E' a tal fine che viene arruolato l'ex ambasciatore italiano in Arabia Saudita il quale, dopo una conversione all'Islam tanto subitanea quanto misteriosa, viene inviato in Italia alfine di crearvi la sezione italiana della Lega Mondiale Musulmana (cioè della struttura ufficiale e internazionale del wahhabismo saudita). Si spera che - mettendo in campo un ex ambasciatore, le istituzioni lo ritengano più affidabile di quanto possano esserlo i militanti dell'Ucoii. A Mario Scialoja viene concesso un ufficio all'interno del complesso della moschea di Roma come sede della Lmm-si, e viene affidato un compito quanto mai arduo: dimostrare che, al fianco del wahhabiti militanti della Fratellanza e dell'Ucoii, esiste un supposto "wahhabismo moderato". Scialoja procede così alla costituzione di un "Consiglio islamico" che dovrebbe diventare il rappresentante ufficiale dei musulmani nei confronti della Stato italiano. Il progetto risulta però essere un fallimento: da un lato i dirigenti dell'Ami rifiutano di sedere ai fianco degli integralisti dell'Ucoii, considerandosi agli antipodi delle posizioni da loro espresse, e dall'altro il Consiglio stesso viene egemonizzato dall'Ucoii, suscitando le proteste di stati quali il Marocco, la Tunisia e l'Egitto, nei quali la Fratellanza è considerata un'organizzazione terrorista e posta al bando. Queste stesse proteste vengono portate a conoscenza dell'allora Presidente della Repubblica Scalfaro dall'allora decano egli ambasciatori della Lega Araba, Zine el-Abidine Sibti. Scalfaro rifiuta di ricevere il "Consiglio" al Quirinale e l'iniziativa si arena. Di fatto, se i Sauditi avevano riposto tanto speranze nell'operato di Scialoja, il suo mandato sembra finora essersi chiuso con un nulla di fatto. Forse è questa la ragione per cui si stanno meditando eventualmente di rimpiazzarlo, e stanno già preparando un sostituto nella persona dell'attuale ambasciatore italiano nel loro paese, quel Torquato Cardelli che il 26 novembre scorso ha anch'egli annunciato di essersi convertito all'Islam wahhabita, e che sembra rappresentare un caso speculare a quello di Scialoja. Che figura possa fare in una circostanza del genere il ministero degli Esteri italiano è facile a desumersi: rischia di apparire come una fiera di ambasciatori, sempre sull'orlo della conversione all'Islam.

Oltre a quelle summenzionate, esistono poi altre organizzazioni minori, limitate a qualche decima di aderenti, ma in taluni casi molto attive, quali ad esempio la "Associazione AhI al-Bayt", estremisti di destra dell'area Rauti, guidati da Ammar Luigi De Martino e convertiti all'Islam sciita al tempo della rivoluzione khomeinista, oppure la "Comunità Religiosa Islamica" (in precedenza denominata "Associazione per l'Informazione sull'Islam in Italia") che però più che un'organizzazione islamica è una scuola esoterica-sincretista, basata sul culto della personalità del suo fondatore, il Sig. Felicino Pallavicini. Questi si è a suo tempo proclamato discepolo dello Shaykh Sufi di Singapore Abdur-Rashid al-Linqi, ed ha preteso che la sua personale ideologia ispirata al sincretismo del pensatore francese René Guénon derivasse dalla confraternita Sufi Ahmadiyyah-Idrisiyyah. Informato di questa circostanza, al-Linqi è però giunto in visita in Italia, e ha puntualmente smentito il Sig. Pallavicini, negando che egli avesse titolo ad agire in nome e per conto della confraternita da lui guidata.

Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana
http://islam.italia.too.it
mailto:islam@spqr.net 

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30.01 Aggiornamento dal conflitto in Israele/Palestina

30 Gennaio 2002: Raids nei villaggi della Cisgiordania

Le forze di occupazione israeliane hanno effettuato raids nei villaggi della Cisgiordania durante la giornata di ieri ed in parte di questa notte. Nel villaggio di Irtas, presso Betlemme, tre sospetti militanti della resistenza sono stati bendati e portati via dai servizi segreti israeliani, mentre quattro palestinesi sono rimasti feriti durante il raid. I carriarmati dell'esercito d'occupazione, intanto, bloccano ancora ogni via d'accesso per Nablus, mentre la striscia di Gaza continua ad essere praticamente isolata dal mondo, senza alcuna possibilita' di entrata per rifornimenti e carburante. E', ancora, dopo oltre 20 mesi d'assedio, il piu' grande campo di concentramento a cielo aperto al mondo.

Durante la notte, la polizia di Frontiera e l'esercito d'occupazione hanno effettuato altri raids nei pressi di Gerusalemme, in particolare nei villaggi di Abu Dis, Zaatra e Awarta, presso Nablus.

 

Arresti, perquisizioni, vittime: l'ultima, un giovane della resitenza ucciso ad un checkpoint, riceve l'ultimo saluto da suo nonno

30 Gennaio 2002: Aveva 28 anni

E' stata identificata la giovane ragazza che qualche giorno fa era stata protagonista del primo attacco kamikaze condotto da una donna nel corso di quest'ultima intifada: si tratta di Wafa Idris, del campo profughi di al-Amari, presso Ramallah, a nord di Gerusalemme. La giovane apparteneva al gruppo di resistenza Tanzim, del movimento Fatah.

In un primo momento si era detto che la giovane militante fosse una studentessa universitaria di Nablus, Shinaz Amuri. Le ricerche fatte all'interno dell'Universita' di Al-Najah, Nablus, avevano dato esito negativo. Gli studenti di Nablus, altamente politicizzati, avevano indetto manifestazioni contro l'occupazione israeliana e in memoria della giovane nonostante, fino ad oggi, la sua identita' non fosse nota e nessun gruppo di resistenza avesse rivendicato l'operazione da lei condotta.

Molti studenti di al-Najah hanno ritenuto importante l'atto compiuto a Wafa Idris. "Esso testimonia che davvero tutta la societa' palestinese e' risoluta a lottare per i suoi diritti umiliati e calpestati. Per la nostra patria, noi versiamo il sangue", hanno urlato i giovani di Nablus.

 

 Wafa Idris - All'Universita' di al-Najah, gli studenti sono commossi e sorpresi

30 Gennaio 2002: Autobomba contro membri dello Shin Bet

Presso il villaggio di Taybeh, a ridosso della linea verde creata alla costituzione dello stato d'Israele, nel 1948, un giovane palestinese si e' lanciato con il suo carico d'esplosivo presso una jeep militare israeliana. A bordo del blindato vi erano due militari, con ogni probabilita' membri dello Shin-Bet, il servizio segreto israeliano, sinistramente noto per le torture inflitte ai prigionieri palestinesi allo scopo di estorcere informazioni da essi. I due militari d'occupazione sono rimasti feriti dallo scoppio che ha ucciso il giovane militante palestinese.

 30 Gennaio 2002: Nuove mosse di Sharon contro la legalita' internazionale

Il primo ministro israeliano Ariel Sharon ha rifiutato il permesso ad Arafat di partecipare al Consiglio dei ministri degli esteri dell'Unione Europea di Bruxelles, chiedendo al leader palestinese di adoperarsi in tutti modi per mettere fine alla resistenza palestinese contro l'occupazione israeliana. Sharon ha comunque reso chiaro che, nonostante le tregue chieste da Arafat , il regime israeliano continuera' la sua politica di assassinii mirati, di apartheid e di colonizzazione della terra palestinese, in spregio di tutte le risoluzioni ONU e di tutti gli appelli internazionali. L'ultimo, giunto da Bruxelles, imponeva al governo israeliano di mettere fine all'arresto arbitrario ed illegale di Arafat, minacciando al contempo di chiedere il risarcimento ad Israele per la demolizione e la distruzione di tutte le infrastrutture palestinesi, costruite con i finanziamenti dell'Unione Europea e scientificamente portate avanti da Israele in oltre un anno emezzo di bombardamenti su Cisgiordania e Gaza.Il criminale di guerra alla guida di Israele va oltre nella sua sfida alla legalita' internazionale: Sharon ha appena approvato il controverso piano predisposto dal ministro Landau e che prevede la costruzione di un muro vero e proprio che isoli Gerusalemme dalla Cisgiordania, inglobando nell'area le colonie illegali di Gilo, Ma'aleh Adumim e Givat Ze'ev e, annettendo di fatto allo stato d'Israele l'intera citta' di Gerusalemme.Ricordiamo che, secondo le risoluzioni ONU, Gerusalemme e' citta' sottoposta a statuto speciale e l'occupazione della sua parte orientale, il nucleo della citta' vecchia, da parte di Israele, e' illegale, come illegale e' l'annessione delle colonie costituite su territorio palestinese.

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29.01 L'antrace veniva dai laboratori della Cia

L'antrace veniva dai laboratori della Cia

di Ennio Carretto da Il Corriere della Sera del lunedì 17 dicembre 2001

Nelle indagini dell'Fbi sugli attentati con l'antrace negli Stati Uniti a ottobre è emersa una pista inattesa: quella della Cia. La polizia federale ha scoperto che i servizi segreti americani hanno sperimentato nei loro laboratori il carbonchio di tipo Ames usato dagli attentatori.
Il carbonchio proveniva dal deposito di antrace delle forze armate, nascosto dall'80 a Fort Frederick nel Maryland presso Washington. Nel corso degli anni, le forze armate, che possiedono un arsenale batteriologico «in sonno», ne hanno fornite piccole quantità a cinque laboratori militari o dell' intelligence , quattro negli Stati Uniti uno in Inghilterra. La Cia lo ha usato per cercare di neutralizzare un tipo di antrace resistente ai vaccini prodotti nell'ex Urss. Non si conosce il risultato delle ricerche.

La clamorosa rivelazione è del Washington Post . Il giornale ha spiegato che i laboratori della Cia non figurano tra i 91 registrati al Centro di controllo e di prevenzione delle malattie infettive di Atlanta e che l'Fbi ne è venuta a conoscenza solo a indagini inoltrate. Il Washington Post ha anche precisato che i servizi segreti non sarebbero sospettati degli attentati, ma lo sarebbe qualche tecnico o scienziato di una ditta di consulenza da esso impiegata, di cui s'ignora il nome. Citando «fonti dell'ordine pubblico», il giornale ha aggiunto che «il programma della Cia ha destato grande interesse nella polizia federale» e che «attualmente la pista è la migliore di quelle sinora seguite». Gli 007 - ha concluso il giornale -, dopo avere taciuto per due mesi, «stanno collaborando pienamente alle indagini».

La Cia si è difesa affermando che la quantità di carbonchio a sua disposizione è modesta, e che comunque non ne coltiva i batteri nei laboratori. «Escludiamo assolutamente che l'antrace contenuta nelle lettere spedite dagli attentatori al Congresso e altrove fosse nostra», ha detto un portavoce. Stando al Washington Post , tuttavia, un consulente di servizi segreti potrebbe avere asportato e coltivato alcune spore. L'Fbi starebbe prendendo in considerazione tre moventi per gli attentati: una vendetta nei confronti di alcuni politici e giornalisti; un tentativo di fare guadagnare ingenti somme alle ditte specializzate nella lotta contro l'antrace; il
desiderio di addossare la colpa degli attacchi all'Iraq e causarne il bombardamento.
Le indagini avrebbero puntato sulla Cia anche in seguito alla trasmissione del video di Bin Laden la settimana scorsa. Il video fu girato il 9 novembre, in piena emergenza antrace, ma non contiene alcuna allusione al carbonchio. E' sembrato all'Fbi la conferma che gli attacchi all'antrace furono «terrorismo interno», come l'attentato a Oklahoma City del '95, compiuto da un estremista di destra.

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29.01 L’informazione corretta secondo Israele e i suoi difensori italiani

Esempio di corretta informazione israeliana: bombardamento della televisione palestinese a Ramallah

Riceviamo da Marco stralci di un articolo da "Prima Comunicazione", un mensile sull'informazione che già aveva pubblicato un editoriale di Carlo Rossella che denunciava le censure e le manipolazioni dell'informazione fatte...dall'ANP!

"Un sito per l'informazione corretta [sic]

Pezzana e Nirenstein contro il pregiudizio antisraeliano "... creare anche in Italia un sito capace di monitorare l'informazione su Israele e il Medioriente, di segnalare ai suoi visitatori le più evidenti manifestazioni di quella tendenza filopalestinese che attraversa tutti i media del nostro Paese e di invitarli a unirsi alla protesta qualora l'avessero condivisa..."

... un gruppo di 15 tra giornalisti, esperti e giovani di buona volontà hanno dato vita a un esperimento inedito in Italia (...) Chiunque può prenderne visione in Rete, all'indirizzo www.informazionecorretta.com, un marchio registrato dal gruppo in questione che ha scelto per sé il nome di tikshoret.watch (occhio sui media).
..."Monitoriamo i principali quotidiani, con l'esclusione del Manifesto e di Liberazione, perché sarebbe inutile... la loro pregiudiziale antisraeliana è tale che ogni giorno disperderemmo energie solo per loro."

... chi visita il sito e legge uno degli articoli 'commentatì, alla fine

può inviare una mail di protesta alla testata che l'ha pubblicato. Quelli di www.informazionecorretta.com si limitano a fornire in automatico l'indirizzo e a creare il messaggio, quanto ai contenuti e al tono essi

restano a discrezione del mittente

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Il sito è pieno di analisi di articoli, e Marco commenta:

...merita un clic, non foss'altro che per divertirsi con alcune perle come 'Igormania, la rubrica che il sarcastico Pezzana dedica interamente a Igor Man, forse il più autorevole 'esperto di cose arabe della stampa italiana, certamente un grande quanto dichiarato amico di Yasser Arafat.

Insomma, un'operazione per ora piccola, ma certamente condotta con uno stile tale da far pensare a una controinformazione degna della miglior tradizione di Israele e dei suoi servizi. Ma, al contrario, Israele e i suoi servizi se ne fregano, e anzi quelli di 'informazione corretta vogliono diventare il pungolo di un Paese che ha da tempo rinunciato a curare la propria immagine all'estero... Per questo Pezzana e soci (si inizia il 17 gennaio a Milano, il 5 febbraio a Torino), presenteranno la loro creatura alle comunità ebraiche delle principali città italiane, e chiedono ai loro simpatizzanti o anche solo ai curiosi e interessati di iscriversi al sito e di segnalare gli indirizzi mail dei propri amici e potenziali visitatori del sito.

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nota: noi di Politicamente scorretti abbiamo da tempo chiesto alla redazione di informazione corretta di mandarci i loro aggiornamenti. Aspettiamo e speriamo di poterli diffondere quanto prima. PS.

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29.01 Il capitalismo selvaggio negli USA - novità Arianna editrice

Marianne Debouzy
Il capitalismo selvaggio negli Stati Uniti (1860-1900)
Pp 224
E. 13 (L. 25.172)
ISBN 88-87307-23-7


"Perché dovrei pagare un macchinista sei dollari al giorno per fare un lavoro, che un cinese farebbe per cinquanta centesimi?". Questa frase, che riassume la "filosofia" padronale del magnate James Hill, uno dei costruttori del capitalismo americano, non è certo passata di moda in un'epoca di "flessibilità" come la nostra. In effetti, la storia del capitalismo americano è anche la storia dei suoi fondatori: Vanderbilt, Carnegie, Rockefeller, Morgan e molti altri. Creatori di vasti imperi economici e finanziari la cui potenza si è estesa su scala universale, non sono certo stati quegli eroi, che una certa storiografia americana ha voluto presentare come filantropi divorati dall'amore per il bene pubblico. Marianne Debouzy ce li descrive senza retorica, restituendoci i lineamenti originali di una società e di una "visione del mondo".


Marianne Debouzy, specialista di letteratura e civiltà americana, insegna storia degli Stati Uniti all'università di Paris-VIII. Tra le sue opere, ricordiamo La genèse de l'esprit de révolte dans le roman américain.

Gli altri titoli pubblicati:
C. Champetier, HOMO CONSUMANS. Morte e rinascita del dono
E. Goldsmith - J. Mander, GLOCALISMO. L'alternativa strategica alla globalizzazione
K. Sale, RIBELLI AL FUTURO. I luddisti e la loro guerra alla rivoluzione industriale
P.A. Sorokin. LA CRISI del NOSTRO TEMPO
K. Hamsun, LA VITA CULTURALE DELL'AMERICA MODERNA
A. Etzioni (a cura di), NUOVI COMUNITARI, Persone,virtù e bene comune
L. Bonesio (a cura di), ORIZZONTI della GEOFILOSOFIA, terra e luoghi nell'epoca della mondializzazione
A. Segrè, ALBANIA, BALCANI e DINTORNI, Viaggio nei paesi post-comunisti dopo la caduta del muro
G. Marano, LA DEMOCRAZIA E L'ARCAICO. Il destino poetico dell'uomo contemporaneo
E. Zarelli, UN MONDO DI DIFFERENZE. Il localismo tra comunità e società
Autori Vari, VERSO CASA. Una prospettiva bioregionalista
A. de Benoist, COMUNISMO e NAZISMO. 25 riflessioni sul totalitarismo nel XX secolo (1917-1989)
H. Norberg-Hodge, FUTURO ARCAICO. Lezioni dal Ladakh
B. Charbonneau, IL SISTEMA E IL CAOS
M. Veto, LA METAFISICA RELIGIOSA DI SIMONE WEIL

G. Snyder, RI-ABITARE nel GRANDE FLUSSO

S. Latouche, L'INVENZIONE dell'ECONOMIA

Aldo Sacchetti, SCIENZA e COSCIENZA. L'armonia del vivente

Di prossima pubblicazione

A. de Benoist, LA NUOVA EVANGELIZZAZIONE. La strategia di Giovanni Paolo II 

P. Coluccia, La CULTURA della RECIPROCITA'. I sistemi di scambio locale non monetari

..................................................................................................
Arianna Editrice
Via Caravaggio 34 - 40033 Casalecchio (BO) Italy
tel/fax 00.39.051.560452
cellulare 335.5846937

..............................................
arianed@tin.it
www.ariannaeditrice.it

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29.01 Con Ciampi siamo tutti più amerikani e più schiavi

Con Ciampi siamo tutti più amerikani e più schiavi

di Mario Consoli

 Tra i tanti commenti che hanno fatto eco alla fulminea elezione di Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale non ve n’è stato uno che abbia osato affondare il bisturi nell’indagine in profondità, alla ricerca del reale significato del fatto. L’elezione di un candidato presidente al primo scrutinio, quando sono necessari i due terzi dei voti, indica intanto una schiacciante maggioranza trasversale che spazia disinvoltamente da destra a sinistra. E questa volta il personaggio non è un politico di professione, ma, come è stato sottolineato "con soddisfazione", un "tecnico prestato alla politica". E tecnico il Ciampi effettivamente lo è, così come appare "elegante", "pacato" e "affidabile"; e, come ogni politico ha una casa, un partito, un’idea cui si ricollega, anche ogni tecnico ha una casa, un modo di ragionare, è portatore di una particolare concezione delle cose e del mondo. E la casa di Ciampi qual è? Fino al ’92 è stata la Banca d’Italia della quale era Governatore, poi, contemporaneamente agli incarichi governativi che lo vedono prima al Tesoro, poi a Palazzo Chigi, poi ancora al Tesoro, si intensifica la sua attività al Fondo Monetario Internazionale e - riferisce Marco Dolcetta nel suo libro "Politica occulta. Logge, lobbies, sette e politiche trasversali nel mondo" (Castelvecchi, 1998) - "è passato al completo servizio della Trilaterale, grazie all’interessamento di Lamberto Dini e signora". Certo è che nelle occasioni ufficiali nelle quali i grandi banchieri del mondo, i big boss del Mondialismo, si riuniscono per decidere le sorti dell’economia, della politica, delle leggi, del destino di ogni nazione, il sornione faccione dell’Azeglio si è visto sempre più spesso; ed anche in quelle occasioni meno formali, ma proprio per questo ben più importanti, come al Nasfika Astir Palace Hotel di Vouliagmeni in Grecia, nell’aprile del ’93, dove era presente assieme a Dini, Agnelli, Maccanico, Monti e tutti i reggifili della Finanza internazionale a decidere sulle privatizzazioni del patrimonio pubblico in Italia. Una casa, anche il tecnico Ciampi, dunque ce l’ha e si chiama Fondo Monetario Internazionale, Trilateral, lobbies internazionali, in una parola sola: Mondialismo. D’altronde le felicitazioni giunte da quegli ambienti sono state unanimi. Due particolarmente si sono distinte per tempestività ed entusiasmo; quella del Gran Maestro del grande Oriente d’Italia, avvocato Gustavo Raffi, e quella del caporabbino Elio Toaff, peraltro suo amico col cui padre il nostro si laureò. Nei tempi antichi gli uomini del denaro vivevano ai bordi della società, mal sopportati per le loro ruberie commerciali e per le loro usure; la Chiesa non perdeva occasione per condannarli. A partire dalle grandi rivoluzioni - industriale, americana e francese - hanno alzato la testa, acquisito potere, condizionato progressivamente tutto e tutti, ma rimanendo sempre dietro le quinte, a manovrare fili e mafiosi ricatti. L’elezione di Ciampi segna una nuova era: il Mondialismo (che altro non è se non il potere planetario del denaro e, per il momento, del suo braccio secolare, gli Usa) manda a governare le singole nazioni direttamente i suoi uomini, i suoi "tecnici". Rifiutando anche gli intermediari; senza più sottoporsi al filtro della politica, persino di quella compromessa e corrotta dei regimi partitocratici. Quanto perentori siano gli ordini che giungono dai "poteri forti" è dimostrato dalla loro veloce e unanime esecuzione. Un’ultima considerazione: è significativo che tutto questo avvenga dopo il viaggio americano di D’Alema, primo presidente del Consiglio italiano comunista. Evidentemente più si ha smanie di essere bene accetti, più si è disposti a concedere. Riuscirà questo governo a farci rimpiangere persino i Craxi e gli Andreotti? Ed eccoci dunque qui, tra centinaia di bombe disinvoltamente scaricate nel Garda e nell’Adriatico, tra funivie spazzate via impunemente da quei giocherelloni dei piloti yankee, ora anche con un presidente del Fondo. Sempre più amerikani, e sempre meno liberi.

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28.01 Riflessioni di un sasso a margine della sua esperienza

Non tutte le fiabe finiscono bene, con un intrepido principe che uccide l’orco. Questa è una di quelle, ma essa è ancor di più sfortunata perché nessuno la vuol mai raccontare. Noi del salmone siamo invece qui per farvela conoscere.

C’era una volta un piccolo sasso che si trovava lungo il ciglio della strada che da Betlemme portava a Hebron; passava le sue giornate scaldato dal sole e solleticato dalla sua amica polvere. I divertimenti di tutti i giorni erano pochi, per lo più le chiacchiere con i sassi più grandi di lui e le corse trascinato dai piccoli rivoli formati dalla pioggia. In quei giorni, si raccontava però di un nuovo divertimento: alcuni sassi come lui erano stati presi da alcuni bambini e fatti volare contro dei grossi automezzi verdi. Il gioco del volo era divertente, ma che dolore quando si sbatteva contro quelle corazze di ferro! Nei giorni seguenti le voci si moltiplicarono. Sempre più sassi avevano fatto quel lungo volo per poi scontrarsi contro quelle strane macchine o contro i corpi di quelli che si chiamano uomini. Un caldo pomeriggio di settembre però la sua strada, che il piccolo sasso chiamava semplicemente casa, fu percorsa in continuazione da strane macchine con ruote che facevano un rumore infernale. Anche la sua amica polvere, abituata a tutte le intemperie, quel giorno svolazzava con aria preoccupata. Verso il pomeriggio quel via vai finì, le macchine si erano fermate a circa duecento metri dal piccolo sasso. Un sasso più alto di lui gli aveva detto che le strane macchine erano guidate da uomini in divisa che ora armeggiavano con tubi di ferro lunghi e corti. La calma però durò poco; qualche cosa stava per giungere, anticipata dall’alzarsi della polvere in lontananza. La curiosità del piccolo sasso fu felicemente sopita quando vide che quella polvere era alzata dalla corsa di una trentina di giovani uomini. Al sasso piacevano tanto i giovani; era soprattutto con loro che aveva spesso avuto a che fare nei giochi degli uomini. Il sasso più alto però con una voce preoccupata disse "gli uomini in divisa si stanno agitando". Il piccolo sasso era ora frastornato, che stava accadendo? Quando i giovani arrivarono verso di lui incominciarono a prendere i sassi sul ciglio di casa sua, e con le mani e con degli strani elastici li iniziarono a far volare verso le grandi macchine e gli uomini in divisa. Vedeva gli amici d’infanzia che sfrecciavano da tutte le parti senza sapere però dove sarebbero andati a finire. Il sasso più alto aveva anche esso fatto un bel volo per mano di un giovane bambino. Impaurito capì che stava per arrivare il suo turno! Un ragazzo con una strana tovaglia bianca e nera sul viso lo prese in mano, allora fu buio; dopo poco il piccolo sasso si trovò a volare ad una velocità che non aveva mai raggiunto, divertente sì, ma che paura! Il volo durò poco, ma sembrò un’eternità. L’atterraggio fu dolorosissimo. Il piccolo sasso prese un vetro delle grandi macchine verdi e lo ruppe cadendo rovinosamente lungo il pendio della collina e iniziò a rotolare verso valle. Polvere, buio, mal di testa, il piccolo sasso era terrorizzato, sapeva che la materia di cui era fatto non moriva, ma quel giorno gli sembrò veramente giunta la fine, chiuse gli occhi stremato e si addormentò. "Ehi tu!" una voce rauca e con uno strano accento rimbombò nelle orecchie del piccolo sasso, "ehi tu, non sarai mica morto?". Il piccolo sasso era tutto dolorante, i suoi ricordi erano appannati dal mal di testa, "ehi dico a te, sei mica morto?", la voce rauca si fece più insistente, ma ora il piccolo sasso riconobbe quell’accento, era inglese, l’aveva imparato quando la pioggia lo trascinò vicino alla scuola del villaggio. "Chi è che mi parla?" chiese il sasso facendo ruotare lo sguardo. "Sono qui, non mi vedi?", il sasso vide sulla sua destra uno strano oggetto di metallo fatto a forma di dito di uomo. "Chi sei tu?" chiese con un po’ di timore. "Sono un proiettile americano" disse quello strano coso irrobustendo il petto. "Proiettile e americano, non ho mai sentito pronunciare queste parole" disse il sasso corrucciando il volto. "Non starai mica scherzando?" disse il proiettile meravigliato e aggiunse "io sono l’espressione più alta della tecnologia del mio paese, io sono un’arma temuta da tutti, e l’America mio caro ignorantone è il paese più potente al mondo, paladino della giustizia e della pace". Il piccolo sasso per niente intimorito chiese "ma che ci fai qui?". Il proiettile sconsolato rispose "sono qui perché alcuni miei compaesani mi hanno venduto agli uomini in divisa, scusa ma non mi ricordo come si chiamano, so solo che loro mi sparano con dei potenti fucili contro dei giovani terroristi". Il piccolo sasso vide aumentare il mal di testa. Quanti termini che non conosceva, fucili, compaesano, e poi i giovani possono essere già dei terroristi? Per non vedere scoppiare la sua piccola testa fece finta di aver capito tutto e con aria serena chiese al proiettile "scusa ma dopo che ti hanno sparato cosa fai? Il proiettile sbuffò e rispose "primo, si chiama fucile, secondo, io viaggio ad una velocità altissima e nella mia traiettoria buco tutto, addirittura gli uomini. Quando li passo fanno dei versi strani, quasi di sofferenza, un po’ come il tuo mal di testa, ma penso più grave. A volte esco dai loro corpi un po’ sporco e altre rimango dentro di loro al buio e mi tirano fuori solo dopo aver chiamato degli strani uomini in maschera, capito?" Il sasso vedeva aumentare tutti i suoi dubbi ad ogni frase di quello spaccone, ma facendo ordine nelle sue idee disse convinto "scusa proiettile, ma perché i ragazzi che mi tirano non hanno le vostre stesse armi? E perché non hanno quelle strane grosse macchine ? E' perché muoiono tutti questi bambini per mano tua?" Il sasso fece l’ultima domanda indicando un giovane corpo disteso a pochi metri da loro con tanti buchi rossi, e poi riprese, "e perché c’è tutta questa violenza in questa terra, che mio nonno una volte mi disse è stata abitata tanti anni fa da un grande uomo che professava pace e carità, mi sembra venisse da Nazareth?" Prima di riprendere fiato e continuare le domande, il proiettile lo interruppe e sbuffando ancor più forte di prima disse "guarda io so solo che il motivo deve essere per della terra, poi posso solo aggiungere che di questa guerra non gliene frega niente a nessuno, perché quelli della mia parte hanno tanti soldi e conoscono persone influenti che li aiutano anche quando sbagliano, e poi la terra che tutti recriminano non ha ricchezze e per questo nessuno interviene per farli smettere, e poi non mi fare altre domande perché ora sono stanco e voglio riposare!". Il piccolo sasso guardandosi intorno vide cose che i suoi occhi non avevano mai visto, c'erano morti, macerie, fiamme, e dentro la sua testa si domandava come fosse possibile usare tutta quella violenza solo per avere un po’ di terra. Solo allora nella sua mente ammaccata balenò un'idea "scusa proiettile, ma allora quelli in divisa sono dei contadini?", ma il proiettile non rispose, si era addormentato. Il piccolo sasso deluso chiuse gli occhi e si addormentò anche lui scaldato dal sole di settembre…nero. E tutti vissero felici e contenti…..tutti chi non si sa!

http://www.il-salmone.com/

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28.01 La morte di Hobeika secondo Buffa e lo ICCII

I misteri d Elie Hobeika

Ucciso a Beirut l'uomo che (forse) incastrò Sharon

di Dimitri Buffa

 

(da L'OPINIONE delle Libertà del 25.01.02, p. 1)

E' morto così come è vissuto: travolto e dilaniato dagli stessi esplosivi
che nella sua carriera di terrorista e di killer al soldo dei siriani aveva
sempre dimostrato di sapere maneggiare.

Ebe Hobeika, già comandante delle milizie cristiano maronite coinvolte
nelle stragi di inermi palestinesi nei campi profughi di Sabra e Chatila il
16 settembre del 1982, è stato dilaniato da una carica di esplosivo (che ha
provocato anche altri tre morti e quattro feriti) nella notte di martedì a
Beirut nella propria abitazione, iperprotetta dai servizi segreti siriani,
nel quartiere Hazmiyeh.

Hobeika stranamente non era stato citate neppure come testimone nel
processo farsa che i soliti belgi politically correct con gli altri (ma non
con sé stessi, specie quando si tratta di pedofilia) stanno cercando di
fare celebrare a carico di un responsabile di repertorio, Ariel Sharon,
coinvolto in quel massacro dalla trappola che i servizi segreti siriani gli
tesero all'epoca.

Come sarebbero andate veramente le cose chi vuole può leggerselo nei
capitoli 7 e 8 del libro "From Israel to Damascus", scritto dalla ex
guardia del corpo di Hobeikah, Robert Hatem, in codice "Cobra", pubblicato
integralmente su internet nel sito "fromisraeltodamascus.com". II tutto su
licenza dell'editore Pride international publications di La Mesa in
California.

Tale libro fu infatti bandito in Libano e lo stesso Hobeikah è riuscito a
non farlo pubblicare nemmeno in Francia pagandosi i migliori avvocati con i
soldi dell'attuale governo fantoccio del Libano, legato a doppio filo al
sanguinario dittatore di Damasco Assad.

Naturalmente nessuno si è mai chiesto come mai colui che avrebbe perpetrato
la strage di Sabra e Chatila per conto degli israeliani avesse potuto
vivere fino a ieri tranquillamente in un Libano ormai filosiriano,
esercitando per anni anche la funzione di ministro.
Più precisamente è stato a capo dei dicasteri dell'elettricità, della
sistemazione dei profughi (lui se ne intendeva molto su come sistemarli) e
persino dell'aiuto agli handicappati.

Tragicomico il modo con cui i media telematici hanno dato la notizia questa
mattina: secondo CNN news era morto ammazzato un ex ministro libanese,
secondo la repubblica.it delle 9,31 era saltato in aria un ex leader della
milizia cristiana.

Nessuno dei due redattori a quell'ora aveva in funzione il cervello per
associare il nome di Hobeikah alla strage di Sabra e Chatila cui invece era
e rimarrà indissolubilmente legato.

Secondo il suo ex braccio destro che adesso vive rifugiato chissà dove, le
cose quel maledetto 16 settembre 1982, praticamente all'indomani
dell'attentato che aveva fatto secco il presidente Bashir Gemayel, uno che
doveva durare 6 anni e che invece restò in carica 20 giorni, sarebbero
andate così: "erano stati gli uomini di Maroun Mashaalani, sconvolti dal
loro uso regolare e non modico di eroina e cocaina, quella mattina a
perpetrare uno dei peggiori macelli che la storia ricordi nel campo sul
confine dell'ospeale di Gaza, all'entrata di Sabra."

L'ordine sarebbe partito per iniziativa di Hobeika, che faceva il doppio
gioco tra Israele e la Siria. Hobeikah aveva convinto Sharon che in quei
campi profughi ci fossero "almeno 2000 terroristi dell'Olp".
Sharon aveva dato ordine di evacuare i civili e di arrestare i terroristi,
se del caso ricorrendo alla forza. Lui invece trasmise al suo sicario e
alla banda di miliziani drogati che quest'ultimo comandava un altro
comando: "cancellare tutti dalla faccia della terra.
Quando Sharon ebbe coscienza di quello che era successo, alle 6 del mattino
seguente, "convocò immediatamente me e Hobeikah al quartiere generale".

'"Lo raggiungemmo - dice oggi Hatem - sul terrazzo di quell'alto edificio
prospiciente l'ambasciata del Kuwait... gli ufficiali israeliani intorno a
Sharon erano furiosi con Hobeikah, attribuendogli l'iniziativa della
strage. Lui rispose che tutto era successo per via dell'oscurità. Sharon
urlò: nessuno ti aveva d'etto di fare questa carneficina, se avessi voluto
potevo procedere da solo con i miei carri armati... qualche minuto dopo,
Hobeika ebbe un messaggio sul proprio walkie talkie da uno che disse di
essere Paul. Gli chiedeva istruzioni: ci sono donne e bambini che devo
fare? E Hobeika rispose, senza sapere che potevo sentirlo, è un problema
tuo, non mi chiamare più."

"Vista la mala parata e le insignificanti scuse di Hobeikah, Sharon mangiò
la foglia e ordinò agli israeliani di aprire il fuoco da quel momento fino
alle 4 del mattino successivo su chiunque si fosse avvicinato a quei campi
profughi, ma ormai era troppo tardi."

Così finisce il racconto di "Cobra", il guardaspalle di Hobeikah.

Che poi non può fare a meno di collegare l'omicidio di Bashir Gemayel con
il massacro di Sabra e Chatila, delitti tutti consumatisi a distanza di
poche ore.

"Non posso provarlo - dice oggi "Cobra" - ma per me il piano diabolico era
stato concepito dai siriani per fare cadere il governo di Begin in cui
Sharon era ministro della difesa". Cosa che puntualmente accadde.

Oggi il mondo conosce la verità in kafiah, quella politically correct,
secondo cui il massacro sarebbe stato ordinato da Sharon. Senza domandarsi
se un simile atto nefando gli potesse in qualche modo giovare.

Qualcuno in Belgio vorrebbe processarlo per questo. Senza però degnarsi di
citare come teste questo Robert Hatem, che dice di potere giurare davanti a
un giudice la verità contenuta nel proprio libro che circola solo su
Internet, Di convocare anche Hobeikah, se non come imputato, almeno come
teste d'accusa nessuno dei pm belgi ci ha maipensato. Adesso qualcuno gli
ha chiuso la bocca per sempre. Casomai avesse avuto qualche scrupolo di
vuotare il sacco.

Resta il comodo bersaglio Sharon, una specie di Berlusconi d'Israele,
odiato anche dalla lobby ebraica di sinistra dentro e fuori dai confini
mediorientali, e sicuramente meno imbarazzante da processare della rete di
pedofili altolocati, molto vicini alla corona di Bruxelles, e probabilmente
molto abili nel fare ritardare con tempi da giustizia all'italiana lo
stesso dibattimento contro Dutroux.

 

LIBANO, UCCISO IL LEADER CRISTIANO MARONITA

Elie Hobeika, che guidò le stragi di Sabra e Chatila, ammazzato insieme ad altre 4 persone
di Dimitri Buffa

(da Libero del 25.01.02, p. 13)

Gli hanno chiuso la bocca per sempre usando il metodo che lui stesso aveva
brevettato in Libano. Elie Hobeika, l'uomo che guidò le stragi di inermi
palestinesi nei campi profughi di Sabra e Chatila il 16 settembre del 1982,
è stato dilaniato da una carica di esplosivo (che ha provocato anche altri
tre morti e quattro feriti) nella notte di martedì a Beirut nella propria
abitazione, iperprotetta dai servizi segreti siriani, nel quartiere
Hazmiyeh. Hobeika stranamente non era stato citato neppure come testimone
nel processo farsa che i soliti belgi politically correct con gli altri
stanno cercando di fare celebrare a carico di Ariel Sharon, coinvolto in
quel massacro dalla trappola che i servizi segreti siriani gli tesero
all'epoca.

Come sarebbero andate veramente le cose chi vuole può leggerselo nei
capitoli 7 e 8 del libro "From Israel to Damascus", scritto dalla ex
guardia del corpo di Hobeika, Robert Hatem, in codice "Cobra", publicato
integralmente su Internet nel sito "fromisraeltodamascus.com". Tale libro
fu infatti bandito in Libano, e lo stesso Hobeika è riuscito a non farlo
pubblicare nemmeno in Francia, pagandosi i migliori avvocati con i soldi
dell'attuale governo fantoccio di Beirut, telecomandato dal sanguinario
dittatore di Damasco Assad. Nesuno lo sa, o magari fa finta, ma Hobeika in
Libano è stato fino a due anni orsono un ministro molto stimato: prima a
capo del dicastero dell'elettricità, poi di quello per la sistemazione dei
profughi, infine responsabile dell'aiuto agli handicappati. Secondo il suo
ex braccio destro, che adesso vive rifugiato chissà dove, gli eventi quel
maledetto 16 settembre 1982, all'indomani dell'attentato che aveva fatto
secco il presidente Bashir Gemayel, «uno che doveva durare 6 anni e che
invece restò in carica 20 giorni», sarebbero andate così: «erano stati gli
uomini di Maroun Mashaalani, sconvolti dal loro uso regolare e non modico
di eroina e cocaina, quella mattina a perpetrare uno dei peggiori macelli
che la storia ricordi nel campo al confine dell'ospedale di Gaza,
all'entrata di Sabra». L'ordine sarebbe partito per iniziativa di Hobeika,
che faceva il doppio gioco tra Israele e la Siria. Hobeika aveva convinto
Sharon che in quei campi profughi ci fossero «almeno 2000 terroristi
dell'Olp». Sharon aveva dato ordine di evacuare i civili e di arrestare i
terroristi, se del caso ricorrendo alla forza. Lui invece trasmise al suo
sicario e alla banda di miliziani drogati che quest'ultimo impartiva un
altro comando: «Cancellare tutti dalla faccia della terra». Sharon, avuta
notizia della strage, alle 6 del mattino «convocò immediatamente me e
Hobeikah al quartiere generale». Ma la storia, si sa, si può leggere come
si vuole...


Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana
http://shell.spqr.net/islam/
mailto:islam@spqr.net

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28.01 Aggiornamento dalla Palestina

(Arabcomint)

27 Gennaio 2002: Missili e bombe su Gaza

Continuano da stanotte i bombardamenti dell'aeronautica israeliana sulle citta' della striscia di Gaza, ancora assediata dai carriarmati e spaccata in tre aree separate. Almeno 12 persone sono rimaste ferite da due missili caduti nei dintorni di Gaza city.

27 Gennaio 2002: Un palestinese si fa esplodere a Gerusalemme

Un palestinese imbottito di esplosivo si e' fatto esplodere a Gerusalemme ovest, uccidendo, oltre a se' stesso, un colono e ferendo piu' di 70 altre persone, tre delle quali gravemente. La potente esplosione, che ha letteralmente polverizzato il corpo del giovane, ha danneggiato numerosi negozi dell'area. E' stata subito chiusa da cordoni l'area dell'incidente, mentre la polizia da' la caccia ad altri presunti attentatori. Il capo della polizia Mekki Levy ha ammesso che e' impossibile prevenire tali attacchi. "Come si fa a fermare qualcuno che va a morire?", ha detto Levy.

Nessun gruppo di resistenza palestinese ha, sinora, rivendicato l'attacco.

Ricordiamo che la tregua mantenuta unilateralmente dai palestinesi per oltre tre settimane, nonostante l'assedio di tutte le citta', i bombardamenti continui e gli arresti indiscriminati tra la popolazione da parte dell'esercito di occupazione, era stata considerata finita dopo l'ultimo omicidio mirato perpetrato dal criminale governo israeliano, quello del giovane militante palestinese Ra'ed Karmi. Il coraggioso giornalista israeliano Gideon Levi ha scritto pochi giorni fa una lettera aperta a Shimon Peres, denunciando le terribili violazioni, crimini e provocazioni che il popolo palestinese e' costretto a subire per mano di un governo di criminali di guerra, col silenzio-assenso del mondo cosiddetto "civile". Gli attacchi suicidi non sono altro che la risposta estrema di un popolo disperato, a cui Israele ha tolto qualsiasi diritto umano, civile e nazionale grazie al supporto incondizionato degli USA.

La storia della lotta nazionale palestinese testimonia che fin quando il popolo palestinese ha avuto una benche' minima speranza di poter mettere fine alle sue sofferenze pacificamente, e fino a che ha potuto vedere assicurata la sua esistenza nazionale con mezzi pacifici, non ha mai fatto ricorso alla violenza, ne' alle armi.

 

Arresti dopo l'esplosione a Gerusalemme occupata

27 Gennaio 2002: Era una donna!

E' una donna il kamikaze palestinese che questa mattina si è fatto saltare in aria a a Gerusalemme Ovest, causando la morte di un israeliano e il ferimento di altri 149. Lo hanno riferito fonti ufficiali.

E' la prima volta dalla ripresa dell'Intifada, nel settembre 2000, che una donna compie un attentato suicida in territorio israeliano. Sul luogo dell'esplosione sono stati trovati i cadaveri di una donna e di un uomo. Quest'ultimo, secondo fonti della polizia, era un israeliano di 81 anni.

Non è ancora chiara l'identità della donna kamikaze, identificata in un primo tempo come una studentessa universitaria di nome Shainaz al-Amuri. Ma il nome si è scoperto poi corrispondere a quello di una donna di 48 anni che si trova a Nablus con la sua famiglia. Fonti palestinesi aggiungono che all'Università al-Najah di Nablus non è registrata alcuna studentessa con questo nome.

La palestinese indossava un corpetto imbottito di esplosivo che ha fatto detonare, alle 12:25 ora locale, all'incrocio tra le vie Jaffa e King George, davanti a un negozio di scarpe; non tutto l'esplosivo indossato dalla donna era deflagrato; la parte intatta è stata fatta brillare dagli artificieri.

 

27 Gennaio 2002: Manifestazione per Arafat

Centinaia di palestinesi hanno dato vita ad una manifestazione a Betlemme per la liberazione del presidente Arafat, illegalmente trattenuto da Israele dal mese di dicembre. La manifestazione e' proseguita fino agli uffici di Ramallah in cui e' tenuto prigioniero il leader dell'Ap, e ad essa hanno partecipato i membri di tutte le fazioni palestinesi, del parlamento, del Consiglio Nazionale palestinese e autorita' cristiane ed islamiche di Betlemme e dei villaggi circostanti. Le Forze nazionali ed islamiche - una coalizione di 13 gruppi islamici e laici - hanno distribuito un comunicato che chiede "la continuazione dell'intifada, la necessita' di affermare l'unita' nazionale messa ultimamente in pericolo dal tentativo israeliano di mettere palestinesi contro palestinesi ed il rilascio di tutti i prigionieri politici, arrestati dall'Ap su pressioni israeliane ed americane".

Circa 700 palestinesi - rappresentanti di delegazioni di funzionari pubblici, civili di Hebron e medici - si sono riuniti sotto gli uffici di Ramallah del presidente Arafat, che li ha ringraziati dicendo: " Se i carrarmati israeliani non ci hanno intimiditi a Beirut, come possono pensare di spaventarci in Palestina?"

I soldati d'occupazione, intanto, hanno ucciso un altro civile ad un checkpoint presso Ramallah.

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28.01 "Che sia degna dei giusti" appello di Martinez per la Giornata della Memoria

GIORNATA DELLA MEMORIA
Che sia degna dei giusti

di Miguel Martinez (del 26 gennaio)

Non crediamo si possa celebrare il 27 gennaio quest'anno solo come giornata della memoria. E' anche giornata dell'onta, onta che il governo Sharon arreca al ricordo della Shoa, aggredendo e tentando di distruggere un altro popolo vittima della storia. E' di fronte a noi la distruzione dei valori etici che l'atrocità dello sterminio addita come necessario e salvifico contraltare. La politica dello Stato israeliano è in questo momento la negazione dei valori che vogliamo celebrare: la convivenza, la tolleranza, l'accettazione dell'altro da sé, il diritto di ogni popolo ad avere una terra in cui vivere senza oppressori. L'annientamento del popolo palestinese perseguito lucidamente dal governo Sharon è un'offesa alla memoria della Shoa. Nessuna giustificazione si può addurre per il terrorismo di uno Stato occupante che accusa l'occupato di terrorismo, cieco e sordo di fronte alle proprie responsabilità. Come ebrei italiani che rifiutano totalmente l'attuale politica di Israele come omicida e suicida, vogliamo denunciare questa orrenda contraddizione, ed essere vicino a quegli israeliani e palestinesi che si battono insieme per dimostrare che la convivenza e la pace sono possibili.
Il nostro silenzio oggi sarebbe complice.

Stefania Sinigaglia, Paolo Amati, Francesca Polito, Michele Luzzati, Sveva Haertter, Rebecca Zanuso, Marina Ascoli, Paola Canarutto, Valeria Klein, Stefano Sarfati-Nammad, Sergio Sinigaglia, Claudio Treves, Daniela Calef. 

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28.01 Il suicidio economico della Serbia

IL SUICIDIO ECONOMICO DELLA SERBIA

Quel che è avvenuto e che continua ad avvenire a tutt'oggi nell'ex Jugoslavia rappresenta l'ennesima azione statunitense contro il principio fondamentale della Sovranità nazionale. Il "dopo Milosevic", tanto sperato dagli antinazionalisti e filoatlantisti, va sempre più svelando la propria vera fattura con il beneplacito delle diplomazie internazionali. La politica statunitense oramai non conosce più freni di nessun genere, e di questo ne giovano i suoi fedeli sudditi europei. Ed ecco allora la svendita di tutte e tre le fabbriche di cemento della Serbia a ditte straniere. La fabbrica della settentrionale Beocin è stata venduta alla francese Lafarge, quella della centrale Novi Popovac alla  impresa svizzera Holzim, e quella della occidentale Kosjeric è andata alla ditta greca Titan. Il realizzo complessivo delle vendite è stato di 138,9 milioni di dollari Usa, inferiore persino al gettito fiscale annuo delle tre imprese! La svendita della economia serba è stata voluta e sostenuta dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale e dagli Usa, secondo il modello noto in Bulgaria, Romania ed Ucraina (per non parlare dell'Italia, dove, in nome del totem liberista, sono state privatizzate le aziende strategiche) si comincia con la cessione al capitale straniero, a prezzi stracciati, dei settori economici in grado di produrre lavoro e di importanza strategica per il paese, per arrivare così ad una vera e propria sudditanza economica e politica del paese "svenduto". A favorire questa azione dall'interno ci hanno pensato quei filoatlantisti anti-Milosevic che come fantocci hanno eseguito gli ordini di Washington. Il vero "regista" del suicidio economico della Serbia, a lungo collaboratore della Banca Mondiale ed oggi ministro delle Finanze, è stato Bozidar Djelic, il quale fu annoverato tra i "cento leader mondiali" al summit economico di Davos.
Mentre procedono le operazioni di spartizione e svendita del paese, l'impegno americano si rivolge anche all'eliminazione di qualunque e chiunque voglia difendere la propria nazione e la sua sovranità. La tecnica applicata, tanto cara agli yankees è quella dell'infamia, della "confidenza", e per agevolare l'operazione Washington usa il ricatto. L'America infatti ha legato la concessione di nuovi prestiti al governo serbo alla cooperazione con il tribunale dell'Aja. Una tranche di aiuti consistente in 115 milioni di dollari Usa sarà predisposta solamente se il governo della Serbia rispetterà tutte le richieste del tribunale entro il prossiíno 31 maggio.
Con una simile tattica gli Usa avevano già ottenuto la consegna dell'ex presidente Milosevic. Un metodo che invece di far indignare qualunque "retto individuo" trova subito disponibilità da - e l'appellativo non è fuori luogo - veri e propri traditori della patria.
E così il ministro degli esteri jugoslavo Goran Svilanovic, appartenente alla formazione filoocciderítale "Alleanza Civica (GSS)", ha definito la "collaborazione con il Tribunale dell'Aia" e la consegna di serbi a questa istituzione come "la più grande priorità" della politica estera jugoslava per quest'anno. Sicuramente il ministro Svilanovic godrà di lunga vita al servizio degli americani. Diversamente, per chi si oppone al tradimento e all'umiliazione, la vita non sarà certo facile. E' un fatto che il presidente jugoslavo Vojisiav Kostunica ha firmato l'autorizzazione per il prepensionamento di 21 generali jugoslavi. Si tratta di alti ufficiali che si erano impegnati per l'indipendenza militare e politica della Jugoslavia, e contro l'ingresso nel programma "Partnership for Peace" della NATO. Il pensionamento di queste  persone è stato, subito dopo la fine dell'era Milosevic, una delle principali richieste degli Usa al governo jugoslavo.
Ma di tutto questo il mondo occidentale non fa parola o forse non vuole sapere, considerando finita la questione balcanica con l'arresto di Milosevic.
Della stessa opinione però - dato importante per comprendere un possibile riaccendersi della tensione - non è il 70% dei cittadini della Serbia. Questi ritengono che l'Occidente "tuttora minaccia ed opprime la Serbia". Nonostante l'abnorme campagna filooccidentale di tutti i media, che perdura da più di un anno, la popolazione della Serbia non condivide l'opinione del governo fantoccio sulla necessità della "cooperazione con l'Occidente".

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28.01 Città chiuse all'ultimo paradosso

CITTA' CHIUSE ALLE AUTO L'ULTIMO PARADOSSO
di Massimo Fini

Su Internet una signora milanese, che ha acquistato mesi fa un'automobile a rate per usarla durante i weekend, dato che per andare al lavoro si serve dei mezzi pubblici, nota che, col divieto di circolare la domenica che sta ormai entrando nella consuetudine anche al di là dell'emergenza di questi giorni ed è sempre più auspicato come permanente da amministratori ed ecologisti, lei ha in realtà comprato, pagato e continua a pagare qualcosa che non può utilizzare. E centra così il culmine di una serie di paradossi, di circoli viziosi, di assurdità in cui ci ha cacciato il modello di sviluppo industriale.

Tali assurdità sono già abbondantemente realizzate nell'inversione che si è avuta nel rapporto fra produzione e consumo. Il lettore avrà sentito dire spesso, da economisti, da imprenditori, da sindacalisti, che «bisogna stimolare i consumi per aumentare la produzione». 

Se la analizziamo attentamente questa frase è folle. Perché vuol dire che noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre, cioè per mantenere in piedi il meccanismo che abbiamo innescato. Questo meccanismo non è più al nostro servizio, ma siamo noi al suo.

Tale inversione fra produzione e consumo in realtà non è nuova ma data dall'inizio della Rivoluzione industriale se era già stata notata da Adam Smith che è pur uno dei fondatori e fautori dell'economia moderna e di mercato.

Osserva Smith: «Il consumo è unico fine e scopo di ogni produzione, e l'interesse del produttore dovrebbe essere considerato solo nella misura in cui esso può essere necessario a promuovere l'interesse del consumatore.

Questa massima è così chiaramente evidente di per se stessa che sarebbe assurdo cercare di spiegarla. Ma nel sistema mercantile l'interesse del consumatore è quasi costantemente sacrificato a quello del produttore e tale sistema sembra considerare la produzione, e non il consumo, come il fine e lo scopo definitivo di ogni attività e di ogni commercio» (La ricchezza delle nazioni, IV, VIII).

Tale inversione fra produzione e consumo, latente agli albori della Rivoluzione industriale, è diventata oggi prassi.

Ma il divieto di usare la macchina nei giorni festivi mentre le resistenze ad estenderlo a quelli feriali e lavorativi, sono fortissime aggiunge un tocco in più al paradosso. 

Adesso noi non dobbiamo più nemmeno consumare per produrre, ma dobbiamo solo acquistare perché si producano cose che però non dobbiamo consumare. 

L'automobile ci deve servire nei giorni feriali per andare a lavorare e quindi produrre automobili che però non dobbiamo usare per il nostro piacere. Produciamo quindi cose che ci servono solo per continuare a produrle.

E così il circolo vizioso si chiude, si completa e si affina rendendoci evidente la nostra follia.

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28.01 Addio libertà

ADDIO LIBERTA'
di Ignacio Ramonet
Le Monde diplomatique n.1, anno XI - gennaio 2002
www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/

Poiché si ammette che i tragici eventi dell'11 settembre 2001 hanno aperto un nuovo periodo della storia contemporanea, chiediamoci a quale altro ciclo questo evento abbia posto fine, e con quali conseguenze.
L'epoca ora conclusa era iniziata il 9 novembre 1989 con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell'Unione sovietica, il 25 dicembre 19991. Celebrate con grande insistenza, le principali caratteristiche di questa fase - che ha visto tra l'altro il trionfo della globalizzazione liberista - sono l'esaltazione dei regimi democratici, la celebrazione dello stato di diritto e la glorificazione dei diritti umani. In politica interna ed estera, questa Trinità era considerata una sorta d'imperativo categorico, invocato ad ogni piè sospinto. Benché non priva d'ambiguità (come conciliare la globalizzazione liberista con la democrazia planetaria?) questa Trinità contava sull'adesione dei cittadini che la vedevano come un progresso del diritto contro la barbarie.
In nome della "giusta guerra" contro il terrorismo, tutte queste belle idee sono state improvvisamente dimenticate. Da un giorno all'altro, per intraprendere la guerra in Afghanistan, Washington non ha esitato a stringere alleanze con i dirigenti fino a ieri infrequentabili, come il generale golpista Pervez Musharraf in Pakistan, o il dittatore uzbeko Islam Karimov. La voce del legittimo presidente del Pakistan Nawaz Sharif, così come le grida dei difensori uzbeki delle libertà, non riescono ad oltrepassare le mura delle galere in cui sono rinchiusi. I valori considerati fino a ieri "fondamentali" abbandonano alla chetichella la scena politica, e sul piano del diritto gli stati democratici subiscono un brusco regresso, come testimonia la bufera di misure liberticide che si è abbattuta sugli Stati uniti.
L'indomani degli attentati sono state adottate misure giudiziarie eccezionali. Il ministro della giustizia John Ashcroft ha fatto approvare una legge anti-terrorismo, definita "legge patriottica", che consente alle autorità di arrestare persone sospettate di terrorismo quasi senza limiti di tempo e di deportarle, chiuderle in celle d'isolamento, sorvegliare la loro corrispondenza e le loro comunicazioni via telefono e via Internet, perquisire i loro alloggi senza autorizzazione giudiziaria… Non meno di 1200 stranieri sono stati così arrestati in segreto, e più di 600 sono tuttora trattenuti in carcere senza giudizio, e in molti casi senza essere stati neppure presentati ai giudici, né avere avuto la possibilità di essere assistiti da un avvocato (1). Inoltre, il governo ha intenzione di far interrogare circa 5000 uomini stranieri, di età compresa tra i 16 e i 45 anni, che soggiornano negli Stati uniti con visto turistico, divenuti sospetti per il solo fatto di essere di origine medio - orientale (2) …
Sebbene negli Stati uniti i tribunali ordinari dispongano di tutta la necessaria competenza in materia (3), il presidente George W. Bush ha deciso, il 14 novembre scorso, di creare tribunali militari con procedure speciali per giudicare gli stranieri accusati di terrorismo. I processi potranno essere tenuti in segreto, a bordo di navi da guerra o all'interno di basi delle forze armate; le sentenze saranno pronunciate da commissioni militari costituite da ufficiali; non sarà richiesta l'unanimità per pronunciare la condanna a morte dell'imputato; le sentenze saranno senza appello; le conversazioni degli accusati con i loro avvocati potranno essere ascoltate clandestinamente; le procedure giudiziarie saranno coperte dal segreto, e i dettagli dei processi saranno resi pubblici solo a distanza di decenni…
C'è stata persino, da parte di responsabili del Federal Bureau of Investigation (Fbi), la proposta di estradare alcuni imputati verso paesi amici a regime dittatoriale, affinché le polizie locali possano interrogarli usando metodi "duri ed efficaci". Il ricorso alla tortura è stato chiesto apertamente dalle colonne di importanti riviste (4). Sulla Cnn, il commentatore repubblicano Tucker Carlson è stato esplicito: " La tortura non è una buona cosa, ma il terrorismo è peggio. Perciò, in talune circostanze, la tortura è il male minore". Sul Chicago Tribune, Steve Chapman ha ricordato che uno stato democratico come Israele non ha esitato ad applicare la tortura all'85% dei detenuti palestinesi (5) …
Abrogando una decisione del 1974, che vietava alla Central Intelligence Agency (Cia) di assassinare dirigenti stranieri, Bush ha dato carta bianca ai suoi servizi segreti per condurre tutte le operazioni necessarie all'eliminazione fisica dei capi di Al Queda.La guerra in Afghanistan è stata condotta nello stesso spirito: dimenticando le convenzioni di Ginevra, i membri di Al Queda vengono liquidati anche quando si arrendono. Il segretario americano alla difesa Donald Rumsfeld si è mostrato inflessibile: respingendo ogni idea di soluzione negoziata o di resa, ha chiaramente invitato a uccidere i prigionieri arabi che hanno combattuto con i taliban. Ne sono stati massacrati oltre 400 dopo la sollevazione nella fortezza di Qala-e-Jhangi, e sicuramente molti di più durante la presa di Tora Bora.
Per evitare che i militari americani possano essere perseguiti per le operazioni condotte all'estero, Washington si mostra ostile al progetto di Tribunale penale internazionale (Tpi). Perciò il Senato ha recentemente approvato in prima lettura, la legge Aspa (American Service-members Protection Act), che consente agli Stati uniti di adottare misure estreme - compresa l'invasione militare di un paese! - per recuperare qualsiasi cittadino americano minacciato di essere tradotto davanti al futuro Tpi.
In nome della "guerra mondiale contro il terrorismo", altri stati - il Regno unito, la Germania, l'Italia, la Spagna, la Francia, ecc. - hanno a loro volta rafforzato o si accingono a rafforzare le proprie leggi repressive. I difensori dei diritti pubblici hanno di che preoccuparsi: il moto generale delle nostre società, già orientato verso un rispetto sempre maggiore dell'individuo e delle sue libertà, è stato bruscamente bloccato. E tutto sta ad indicare una deriva verso forme sempre più vicine allo stato di polizia.

1)     El Pais, Madrid 10 novembre 2001

2)     Le Monde, 30 novembre 2001

3)     International Herald Tribune, 1 dicembre 2001

4)     Cfr. Newsweek, New York 5 novembre 2001 

5)   Citato da El Pais 7 novembre 2001

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28.01 Croncache dagli inferni di guerra

CRONACHE DAGLI INFERNI DI GUERRA

Il cMc - Centro Culturale Milanese di via Zebedia, 2
ha organizzato per giovedì 31 gennaio, alle ore 18
la presentazione del volume delle edizioni Ares

IL PARADISO VIOLATO
di Lucio Lami

che nell'occasione parlerà anche dell'ultimo suo libro MORIRE PER KABUL delle edizioni Asefi.

Alla tavola rotonda intitolata CRONACHE DAGLI INFERNI DI GUERRA - La Storia in presa diretta: gli inviati raccontano
interverranno, oltre a Lucio Lami, Fausto Biloslavo, Fernando Mezzetti e Giorgio Torelli.
Faranno gli onori di casa Cesare Cavalleri, direttore delle edizioni Ares e Camillo Fornasieri, direttore del cMc.

 

Riflessione con Lucio Lami e Fausto Biloslavo sul ruolo dei Media durante i conflitti
GIORNALISMO DI GUERRA E DI CONTRADDIZIONI

Durante l'ultimo conflitto mondiale Indro Montanelli, corrispondente di guerra in Norvegia ai tempi dell'invasione tedesca, con tutte le sue forze negava la notizia di una battaglia aereonavale, "lanciata" invece con enfasi dall'agenzia di stampa Stefani. Un fatto inventato di sana pianta, ma per il direttore del Corriere della Sera era stato l'inviato Montanelli ad aver preso un "buco". Sono passati cinquant'anni, eppure il giornalismo di guerra continua a portarsi dietro le proprie contraddizioni e gli scoop inventati di sana pianta. L'hanno rimarcato Lucio Lami e Fausto Biloslavo nel corso della conferenza "Guerra e informazione, il ruolo dei media nei conflitti", organizzata all'Università di Trieste dall'Associazione italiana sviluppo scienze della comunicazione (Aiscom). Due diverse generazioni di giornalisti che hanno seguito al fronte le varie fasi della guerra in Afghanistan, dall'invasione sovietica del '79 all'attuale conflitto contro il terrorismo internazionale. Per Biloslavo quella terra martoriata è diventata "una seconda patria" e per Lami un libro, "Morire per Kabul" (edizioni Asefi-Terziaria). Una lezione sull'Afghanistan, con ampi riferimenti all'aneddotica e la difficile definizione delle fazioni in causa, raccontando le proprie esperienze personali e lavorative. "La città di Kunduz per le agenzie occidentali è caduta cinque volte - ha raccontato Biloslavo - ma il sottoscritto, a costo di fare una figuraccia, non ha mai voluto prendere in considerazione quelle notizie". Spazio dunque al reportage fatto alla vecchia maniera, sviluppato nel proprio intervento da Lami, soffermatosi anche sulle ragioni di quest'ultima guerra. "L'intervento contro il terrorismo è stato tardivo perché l'Occidente non ha mai cercato di comprendere l'Islam della ribellione - ha spiegato Lami -, saputo leggere i segnali della rivolta e capire quel che comportava la politica del petrolio".

Pietro Comelli
(Il Piccolo - Trieste - Domenica 27 gennaio 2001)

Lucio Lami - "Morire per Kabul"
Terziaria Testimoni 10

I edizione dicembre 2001 - Pag. 140- € 12,40 (£. 24.000) - ISBN 88-86818-77-7

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28.01 Un Istantanea dal conflitto in Israele/Palestina

 

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28.01 Il debito esterno e la lacerazione dello Stato nazione

Il debito esterno e la lacerazione dello Stato nazione

di Salvador Maria Lozada

(estratto)

Il debito esterno e la dottrina internazionale dell'Argentina.

Ricordarsi di Carlos Calvo e di Luis Maria Drago, insieme, in questo
contesto, non è un esercizio di vana erudizione.

Il benessere dei popoli ed anche gli aspetti economici dei diritti umani, o
quelli che sono condizionati dalla macro-economia, sono talmente influenzati
dal problema del debito esterno che conviene insistere su questi grandi
compatrioti che, in un'altra epoca, hanno affrontato una sfida analoga
rispondendovi con una soluzione audace.

Questo ricorso alla storia pretende dimostrare che c'era, con altri uomini,
con altri temperamenti ed immaginazioni politiche, con un'altra profondità
di cultura giuridica, la possibilità di un'altra forma, di un altro stile,
di un'altra forza, di un altro livello di grandezza, per affrontare il
problema.

Tre anni prima di morire, durante tutto il 1903, Carlos Calvo portò un
contributo specifico al problema del debito esterno. Una volta avvenuta l'
aggressione anglo-tedesca contro il Venezuela a causa del non pagamento dei
servizi delle obbligazioni estere, il ministro delle Relazioni estere dell'
Argentina, espose, il 29 dicembre 1902, la dottrina che oggi porta il suo
nome, la dottrina Drago, che dichiara inammissibile nell'America
ispano-americana la riscossione del debito con la forza.

In quel periodo, Calvo era capo della missione del nostro paese davanti al
governo francese. Tradusse la nota di Drago e la fece circolare tra gli
internazionalisti più eminenti dell'Europa, chiedendo loro l'appoggio
intellettuale necessario al consolidamento di quello che oggi è uno degli
elementi più onorevoli della tradizione giuridica ed internazionale degli
argentini.

Ripeteva alla fine della sua carriere a quello che aveva fatto arrivando a
Londra per la prima volta all'inizio degli anni '60 del secolo scorso,
disponendo adesso dell'enorme considerazione dei suoi colleghi delle
università europee e soprattutto di quella dei suoi vecchi colleghi dell'
Istituto di Diritto Internazionale. I destinatari della lettera circolare
erano Fréderic Passy, membro dell'Istituto e Presidente della Società
Francese per l'arbitraggio tra le nazioni; F. Moynier, presidente della
Croce Rossa e membro onorario del già citato Istituto di Diritto
Internazionale; J. Westlake, consigliere reale, professore a Cambridge e
membro dell' Istituto di Diritto Internazionale; L.V. Bar "consigliere
privato", professore all'Università di Gottingen e membro dell' Istituto di
Diritto Internazionale; Manuel Torres Campos, membro dell' Istituto di
Diritto Internazionale, delegato spagnolo alla Corte Permanente di
Arbitraggio dell'Aia e professore a Granada; Féraud Giraud, membro onorario
dell' Istituto di Diritto Internazionale e presidente onorario della Corte
di Cassazione di Francia; André Weiss, membro dell' Istituto di Diritto
Internazionale e professore alla Sorbona; J.E. Holland, consigliere reale,
professore a Oxford e membro dell' Istituto di Diritto Internazionale; K.
Olivecrona, associato straniero all'Istituto di Francia, membro onorario
della Corte Suprema della Svezia e membro onorario dell' Istituto di Diritto
Internazionale; F.M. Asser, consigliere di stato, membro della Corte
Permanente di Arbitraggio dell'Aia e membro dell' Istituto di Diritto
Internazionale; Francis Charmes, membro dell'Istituto di Francia e Pasquale
Fiore, professore all'Università di Napoli e membro dell' Istituto di
Diritto Internazionale.

Calvo proponeva una vasta operazione di influenza intellettuale, di autorità
morale, di forza e di effetti dei princìpii. Non era un obiettivo facile.
Come si deduce dalla risposta un po' reticente del Professor Westlake, il
punto posto da Drago - in realtà un prolungamento della dottrina Calvo - era
lontano da essere acquisito dagli europei. Piuttosto portava attentato agli
interessi economici più evidenti, suscitando qualche riserva. Tuttavia, in
generale, le risposte furono altamente soddisfacenti e convergenti con la
posizione argentina. Tra queste due furono particolarmente fruttuose: le
risposte di Féraud Giraud e di Pasquale Fiori, talmente lunghe da essere
equivalenti ad una monografia e che compensavano, in qualche modo, la
brevità e la mancanza di elaborazione dottrinale della lettera del ministro
Drago.
Questi due documenti costituiscono un importante appoggio alla posizione
argentina essendo formulati da persone che avevano solo un interesse
accademico al problema insieme ad un'alta autorità giuridica e
universitaria.

La dottrina Drago presenta oggi un significato eccezionale di fronte ai
problemi del debito estero dei paesi.
Sarà detto - credo in modo superficiale - che quello che la provocava nel
1902, era la riscossione forzata con il ricorso alla violenza militare, cosa
che oggi non esiste più. Si tratta, tuttavia, di una imperfetta osservazione
della realtà, poiché la dottrina Drago tratta della pressione esercitata
contro uno stato sovrano a causa del mancato pagamento del debito. L'azione
militare, il blocco navale, il bombardamento dei porti, l'occupazione
territoriale sono solo delle varianti di genere della pressione, dell'
interferenza, dell'ingerenza.

La dottrina Drago condanna, come risulta chiaramente dalla sua lettera, ogni
specie di pressione. Nella sua lettera, Drago dava a Garcia Merou il compito
di tentare dagli americani del nord la consacrazione del principio secondo
il quale non ci può essere un' espansione territoriale né una "pressione
esercitata contro i popoli del continente solo a causa di una sfortunata
situazione finanziaria che obbliga una delle parti a rinviare il rispetto
dei suoi impegni"

D'altronde, grazie a Calvo, la posizione argentina si è rafforzata con l'
opinione espressa dal professore Pasquale Fiore che affermava testualmente:
"Se è possibile considerare l'ingerenza come un attentato ai diritti della
sovranità interna, anche con l'obiettivo di proteggere gli interessi
statali, con più forza ancora si considererà illegittimo l'intervento
esterno". In questo modo, Fiore creava un legame tra la dottrina Calvo e la
nuova dottrina argentina di Luis Maria Drago.

Così, la semplice ingerenza di uno Stato straniero per ottenere il pagamento
del debito estero di un altro stato, diventa inaccettabile.
Nessuna legittimità perché il segretario del Tesoro degli Stati Uniti o il
ministro delle finanze francese, facciano del debito argentino un tema di
relazione bilaterali con l'Argentina, dal momento che si tratta della
riscossione dei supposti servizi dovuti ai prestatori di ogni nazionalità. E
' un'interferenza in una relazione che comincia e finisce tra lo Stato
supposto debitore e il prestatore, supposto creditore. Questa relazione non
può alterarsi con l'indebita e squilibrante presenza di un terzo
intervenente, cioè un altro stato sovrano, per il quale il legame
debitore-creditore deve essere rigorosamente "res inter alia actos", cioè
"cosa contrattata tra le altre".

Per di più, sia Drago che Féraud Giraud e Pasquale Fiore, fanno notare
qualcosa che in Argentina e in altri paesi del continente, è stata elusa in
modo interessato. Si tratta della particolare personalità giuridica del
supposto debitore. In virtù di questo fine, lo Stato nazionale, il bene
pubblico o bene comune, ha un rango superiore a quello di un'altra persona
della società umana.. Questa superiorità deriva, come è stato appena detto,
dalla natura della sua finalità che è costituita dal bene più elevato, il
bene supremo, quello che mette da parte e subordina tutti gli altri beni
della comunità. Il servizio pubblico, il servizio della totalità dei
cittadini, della totalità della popolazione non è comparabile a nessun fina
particolare, per quanto rispettabile possa apparire e ancora meno in
rapporto ai profitti privati di società commerciali prestatrici, cioè le
banche.

Detto in altro modo, nel concetto di debito pubblico c'è un differenza di
livello essenziale. Creditore e debitore non sono sullo stesso piano, non
hanno la stessa entità né lo stesso potere legale. Da questo principio
deriva qualcosa che è stata dissimulata tutti questi anni.
Lo Stato è un'entità sovrana, e una delle condizioni proprie a questa
sovranità risiede nel fatto che nessun procedimento esecutivo può essere
iniziato o applicato contro di essa, perché metterebbe in essere la sua
stessa esistenza e cancellerebbe l'indipendenza e l'azione del governo in
questione, secondo i termini stessi della lettera firmata da Drago.

Nell'Argentina dei nostri giorni, abbiamo agito - soprattutto negli anni '
0 - come se in ogni momento fossimo stati passibili di essere pignorati,
come se fossimo stati sull'orlo di un collasso al quale ci aveva spinto un
ufficiale giudiziario internazionale. Abbiamo così sacrificato ogni
prospettiva di sviluppo autonomo, ogni indipendenza ed azione del governo,
ogni contenuto economico del bene comune, ogni contenuto economico dei
diritti umani ad un dogma che il presidente della Camera dei Deputati, tra
il 1984 e il 1987, caratteristico portavoce del regime di transizione,
esprimeva qualche volta con un disinvolto ed aggressivo carattere perentorio
che difficilmente avrebbero potuto usare gli avvocati dei creditori: "il
debito deve essere pagato, senza nessuna alternativa".

In virtù della sua condizione di sovrano, lo Stato ha la "facoltà di
scegliere il modo e i tempi di effettuare il pagamento", come ha detto
testualmente Drago e come ha dovuto essere ricordato con accanimento questi
ultimi tempi. Questa conclusione decisiva, che fa parte di una dottrina
internazionale della quale l'Argentina è fiera e che i governi hanno il
dovere di mantenere ed accrescere, è stata marginalizzata dai governi di
transizione, a causa di una auto-costrizione a pagare che è un tratto
inerente al modello o schema di transizione che è stato accettato con
sottomissione.

Per questa ragione, questa auto-costrizione fa sorgere dei dubbi riguardo a
chi siano i suoi reali rappresentanti:  il popolo, vittima della fretta dei
suoi rappresentanti di effettuare una oblazione (come un'offerta al dio dei
creditori), o gli stessi creditori ai quali ha risparmiato qualsiasi sforzo
per la riscossione del debito.

Questa conclusione decisiva ebbe l'appoggio addizionale di Féraud Giraud.
Egli ricordava all'inizio, il fatto che nella maggioranza degli Stati, le
azioni degli abitanti contro i loro governi sono sottoposte a delle regole
eccezionali e restrittive, che hanno per scopo quello di non intralciare il
buon funzionamento dei servizi pubblici e concludeva chiedendosi: "come
sarebbe possibile accettando il principio di questa eccezione, non
applicarla alle persone che legano volontariamente i loro interessi all'
eventualità di operare a favore degli interessi di un governo straniero,
permettendogli di disturbare l'azione pubblica del loro governo tramite i
loro interessi privati?"

Pasquale Fiore afferma qualcosa che sembra essere stata scritta per la
nostra epoca, durante la quale il potere sovrano è molto diminuito, ed è
tollerata come se niente fosse, la condotta delle economie degli Stati da
parte del Fondo Monetario Internazionale, struttura che si arroga un potere
sopranazionale, come lo ha detto Chomsky, diventando, nei fatti, un governo
del mondo, con ancor meno ragioni - facendo precipitare il lato dell'
abdicazione alla sovranità - e ammettendo l'ingerenza degli ambasciatori
stranieri - fino alla liquidazione di una banca privata locale, società
anonima argentina.
Come lo dice Fiore: " Considero l'ingerenza di un governo nella pubblica
amministrazione di uno Stato straniero come un attentato al diritto di
sovranità interna, e riconosco quindi come illegittima ogni azione di un
governo che, avendo l'obiettivo di proteggere gli interessi dei suoi
cittadini residenti all'estero, tenderebbe a stabilire un controllo tale,
sotto qualsiasi forma sia, sugli atti amministrativi di uno Stato straniero"
.

Drago sottolinea un altro aspetto del problema molto pertinente ai nostri
giorni. Il prestatore è, per definizione, uno speculatore, un calcolatore
del rischio, qualcuno che misura, seguendo i rigorosi imperativi del suo
commercio, le eventuali difficoltà di riscossione del capitale e dei suoi
interessi. Per questo, valuta le risorse del debitore, gli impegni da lui
presi con altri prestatori, e tutte le circostanze complementari che
permettono di pesare e di dosare le condizioni dei prestiti futuri. Tra
queste circostanze figura quella che prevede, nel caso di un debitore
insolvibile, l'esistenza di un soggetto di diritto con qualità di sovrano,
sul quale non sarebbe possibile esercitare delle pressioni di alcun tipo.
Come lo scrive Laurent, citato da Féraud Giraud nella sua risposta a Calvo:"
Coloro che trattano con uno Stato straniero sono sottomessi alle lentezze
amministrative e, se è il caso, alle difficoltà finanziarie dello Stato con
il quale negoziano".

Queste considerazioni sono degne di essere ricordate perché uno dei nodi
della discussa legittimità del debito estero contratto durante la dittatura
militare, nasce dall'incredibile e sospetta imprudenza, forse apparente
imprudenza, con la quale hanno agito i banchieri o prestatori e che
suggerisce una collusione fraudolenta tra debitori e prestatori. Finalmente
c'è un altro punto di eccezionale importanza pratica riguardo al debito
estero, come si pone nell'Argentina della transizione. Appare nella risposta
del citato Féraud Giraud come citazione del professor Frantz Despagnet, che
menzionava nel contesto dell'insolvibilità degli obblighi contratti dagli
Stati sovrani: "lo Stato debitore si riserva sempre, in tali casi, in virtù
del suo diritto di conservazione e dei principii che regolano il diritto
pubblico, un beneficio di competenze nel senso romano dell'espressione, e
cioè la facoltà di non pagare se non nella misura permessa dalla sua
situazione finanziaria".

Un intelligente giurista, il Dott. Pedro F. Soria Ojedo Ilo, propose negli
anni '80, senza ottenere nessun ascolto negli ambienti ufficiali, il
beneficio della competenza; supposta la legittimità di una parte del debito
estero, era di stretta pertinenza, nel nostro caso, quando sia il settore
giuridico che veicola nel modo migliore la priorità ontologica ed
assiologica del debitore sui suoi impegni, la priorità del principio dell'
intangibilità della persona umana sul subordinato principio "pacta sunt
servanda", e cioè "rispettare quello che è stato sottoscritto"

Il beneficio di competenza fa parte del diritto argentino.E' incluso nel
nostro Codice Civile. E' trattato nel capitolo IX della sezione I, Libro II,
di questo corpus normativo, che lo definisce come quello accordato ad alcuni
debitori, per non obbligarli a pagare più di quello che possono fare,
lasciandogli, in conseguenza, l'indispensabile per una modesta sussistenza,
secondo il genere e le circostanze, con l'obbligo di farvi fronte non appena
le condizioni siano migliorate. Che questa clausola sia caduta in oblio,
dimostra fino a che punto i governi della transizione, erano assolutamente
obnubilati dalla compulsione a pagare il debito a qualsiasi prezzo, elemento
chiave dello schema di transizione dalla dittatura militare alla democrazia
limitata e condizionata.

Il documento completo si trova in:
« La Dette extérieure et le déchirement de l'état nation »
http://www.attac.org/fra/list/doc/lozadafr.htm

Traduzione a cura di Patrizia Rosa Rosa

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28.01 Lo FMI combatte l'antipovertà

L' FMI combatte i programmi Antipovertà

di Sarah Anderson (Direttore dell'Institute's Global Economy Program) e
di John Cavanagh (Direttore dell'Institute for Policy Studies)

Estratto

All'inizio del 2000, il governo brasiliano annunciò un piano decennale, con
uno stanziamento previsto di più di 22 miliardi di dollari per combattere la
povertà. Benché il FMI avesse, poco tempo prima, proclamato il suo impegno
nell'eliminazione della povertà, le autorità del fondo criticarono il piano
con violenza. Il New York Times riportò le affermazioni del rappresentante
del FMI in Brasile, secondo cui "il piano del governo aveva creato un
precedente che sarebbe potuto diventare pericoloso... quel denaro avrebbe
dovuto essere utilizzato più efficacemente". Benché questo funzionario abbia
successivamente rivisto le sue posizioni, Michel Camdessus, allora direttore
generale del FMI, reagì qualche tempo dopo al piano antipovertà sostenendo
che i Paesi dovrebbero pagare i propri debiti e raggiungere la crescita
economica prima di fare la carità.

2. L'Argentina, colpita dalla sua dipendenza dalle esportazioni verso il
Brasile.

L'Argentina risentì degli effetti collaterali (conosciuti con il nome di
"effetto Samba") della crisi del Brasile, che costituisce il principale
mercato delle esportazioni argentine. Prima della crisi, il 40% delle
esportazioni argentine era diretto verso il Brasile. In presenza di una
svalutazione del real, che ha reso i prodotti argentini più costosi per i
consumatori brasiliani, i settori dell'economia che si basavano sulle
esportazioni verso il Brasile si indebolirono. Il settore automobilistico,
che esporta abitualmente in Brasile il 60% della sua produzione, fu
devastato dai licenziamenti. Ad esempio, Fiat e Renault annunciarono 5200
licenziamenti alla fine del gennaio 1999 e Ford intraprese un programma di
prepensionamenti volti a ridurre la manodopera di 1430 lavoratori. Altri
settori dell'economia argentina che si appoggiano in gran parte al mercato
brasiliano sono l'industria tessile, il commercio di carne di porco e di
volatili, di calzature e di riso.
Immediatamente dopo la crisi brasiliana,l'Argentina soffrì inoltre di
ingenti perdite  di impieghi nell'edilizia, nonché della prima diminuzione
degli impieghi mai registrata nel settore dei servizi.
Un funzionario argentino attribuì le difficoltà in questi settori agli
elevati tassi di interesse determinati dalla crisi brasiliana.
Immediatamente dopo la svalutazione del real, i tassi fondamentali in
Argentina passarono dal 10.62% al 15%, mentre i tassi per le piccole e medie
imprese si avvicinavano al 20%.
Le difficoltà del Brasile continuarono ad influenzare i problemi economici
dell'Argentina alla fine del 1999. Si stimava che il PIL argentino fosse
crollato del 3% circa, mentre il tasso di disoccupazione raggiungeva il
14.5% in agosto per scendere poi al 13.8% durante l'ultimo trimestre
dell'anno.
Gli Argentini sono costernati alla vista di un nuovo aumento del tasso di
disoccupazione, dopo che erano riusciti ad abbassare i tassi di
disoccupazione assai elevati successivi all'"effetto tequila" della crisi
finanziaria messicana del 1994. Dal 18% nel 1995, il tasso era sceso al
12.4% nel 1998. In una data relativamente recente, il 1991, il tasso di
disoccupazione in Argentina ammontava al 6.3%.

Il documento completo può essere trovato su:
"L'impatto della crisi finanziaria sui lavoratori ed i programmi alternativi
per il FMI e le altre istituzioni".
http://www.attac.org/fra/toil/doc/ipsfr.htm

Traduzione a cura di Ester Botta

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28.01 Alle origini della crisi argentina

Alle origini della crisi argentina

di Arnaud Zacharie

L'Argentina è conosciuta come uno degli allievi privilegiati dell'FMI. Fin
dagli anni '80 il paese ha applicato rigorosamente le "lettere d'intenti"
degli esperti di Washington. L'obiettivo di questi programmi è ormai noto:
eliminare il debito estero e "aggiustare strutturalmente" il paese al
mercato mondiale, al fine di rompere con le politiche dirigiste del passato,
responsabili della crisi e del debito dei primi anni '80.
Applicando la teoria liberale,  è stato "dimagrito" il potere pubblico, si
sono vendute le imprese al capitale straniero, sono state aperte le
frontiere ai capitali internazionali e alle multinazionali. Oggi, quando il
90% delle banche e il 40% delle industrie sono nelle mani del capitale
straniero, il debito estero è quasi quadruplicato dal 1983, salute ed
educazione sono al lumicino e il salario medio vale le metà rispetto al
1974. La sconfitta, economica e sociale, è drammatica, e la crisi che sta
esplodendo degraderà ancora la situazione. Il motivo, anche se se ne parla
poco, è evidente: l'FMI e i governi argentini non hanno risposto ai veri
problemi, anzi, le misure da loro applicate li hanno aggravati.

Alle origini della crisi del debito argentino: un ben oliato meccanismo di
decapitalizzazione.

Un'inchiesta giudiziaria durata 18 anni, originata dalla denuncia di un
giornalista, Alejandro Olmos, depositata nel 1982, ha portato le prove: la
crisi del debito argentino ha origine da un meccanismo di dilapidazione e di
diversione di fondi che ha come protagonisti il governo argentino, l'FMI, le
banche private del Nord e la Federal Reserve statunitense. E' per questo che
la Corte Federale argentina nel luglio 2000 ha dichiarato "illegittimo" il
debito contratto dal regime Videla perché contrario alla legge e alla
Costituzione. Il Tribunale ha raccomandato al Congresso di utilizzare questa
sentenza per ottenere la cancellazione di questo odioso debito.
Ritorniamo ai fatti. Nel 1976 la giunta Videla prende il potere e instaura
una dittatura che durerà fino al 1983. In questo periodo il debito estero
argentino si moltiplica per cinque (da 8 a 43 miliardi di dollari), mentre
la quota del PIL destinata agli stipendi passa dal 43 al 22%. La dittatura
porta così la crisi del debito estero e di seguito all'ingresso ufficiale
dell'FMI nel comando finanziario del paese.
La sentenza del Tribunale argentino, lunga 195 pagine, traccia la storia del
debito originario.
Entrano in scena diversi attori: per l'Argentina, i protagonisti sono il
presidente Videla, il ministro dell'economia Martinez de la Hoz ("offerto"
dall'associazione degli industriali) e il direttore della Banca Centrale,
Domingo Cavallo (lo stesso che ha rassegnato le dimissioni il 20 dicembre
2001).
C'è poi l'FMI, che nel 1976 eroga un importante prestito, fornendo così alle
banche occidentali la garanzia che il paese è un luogo privilegiato per
riciclare i surplus di petrodollari. Ma il ruolo del Fondo non si ferma qui:
per tutto il periodo della dittatura troviamo un certo Dante Simone,
funzionario dell'FMI, al servizio del regime. L'FMI si giustifica sostenendo
che il Simone era in permesso, e che si era messo spontaneamente a
disposizione della banca centrale del paese (p. 27 della sentenza). La banca
forniva vitto e soggiorno; resta da capire chi versava lo stipendio e se il
permesso era pagato.
Comunque fosse, il Simone ha redatto un rapporto per Domingo Cavallo (ne è
stata trovata copia all'FMI), che garantiva che esistevano importanti
margini di indebitamento prima che si fosse in pericolo (p. 31 della
sentenza). E il ruolo del Simone è stato quello di cercare importanti e
discreti finanziamenti esterni.
Che non erano affatto difficili da trovare: le banche occidentali, strapiene
di petrodollari che non riuscivano a sistemare per la crisi dei paesi ricchi
del Nord, cercavano avidamente nuovi sbocchi. L'inchiesta dimostra così che
la banca centrale argentina ha potuto effettuare dei versamenti riservati su
banche americane, senza passare dal ministro dell'economia ma con la
generosa intermediazione della Federal Reserve USA.
L'intesa tra questi differenti protagonisti ha fatto sì che prestiti bancari
fatti a favore dell'Argentina non hanno mai preso la direzione del paese, ma
sono stati subito dirottati su banche domiciliate in paradisi fiscali, a
nome di società fantasma.
Il debito, così, non ha apportato alcun vantaggio alla popolazione locale me
solo al regime dittatoriale e alle banche del Nord.
Il resto dei fondi sono stati dilapidati in generose sovvenzioni ai grandi
gruppi privati amici del ministro de la Hoz.

Dall'eldorado.

Il governo Alfonsin, succeduto a Videla, non è riuscito a ricostruire il
paese, eroso dall'iperinflazione e dalla corruzione, eredità della
dittatura.
L'arrivo al potere di Carlos Menem nel 1989 e la sottoscrizione del Piano
Brady all'inizio degli anni '90 fanno finalmente uscire il paese dal letargo
economico.
Le riforme del governo Menem sono tra le più radicali dell'intero
continente: privatizzazione delle aziende pubbliche (compreso il settore
petrolifero, contrariamente a quanto fatto dal Messico), rialzo dei tassi di
interesse, liberalizzazione dell'economia - compreso il settore agricolo - e
soprattutto l'emissione di una nuova moneta, il peso, legata al dollaro (1
peso=1 dollaro, come il "real" brasiliano). Al timone del superministero
dell'Economia troviamo di nuovo Domingo Cavallo.
Le riforme abbattono l'inflazione e portano ad una ripresa degli
investimenti stranieri. Dopo anni di marasma finanziario, il PIL cresce del
25% in tre anni!
A fine 1994, l'entusiasmo per questo rapido sviluppo è generale. I mercati
si fidano, i capitali internazionali arrivano e il deficit corrente si
riduce.

. alle crisi finanziarie a ripetizione

Per l'Argentina la seconda metà degli anni '90 è tragica. La crisi messicana
e il conseguente "effetto tequila" precipitano il paese in una brutale crisi
finanziaria, dovuta al massiccio riflusso dei capitali internazionali
iniziato nel 1995.
Il deficit corrente, inesistente prima delle riforme di Menem, aumenta in
parallelo con il debito estero. Il paese è obbligato a sborsare somme sempre
crescenti per rimborsare questo debito (il servizio annuale del debito passa
da 6 a 21 miliardi!), mentre le entrate statali divengono drammaticamente
rare (l'evasione fiscale raggiunge livelli demenziali) e il peso si ritrova
sopravvalutato.
Il problema è nel fatto che la liberalizzazione totale dell'economia
facilita il rimpatrio degli utili e la fuga illegale dei capitali locali: l'
evasione, che arriva nel 1998 a circa 40 miliardi di dollari, priva lo stato
del 50% delle entrate fiscali. Solo il 17% degli altri redditi pagano le
imposte. Anche l'imposizione sugli utili è basso (il 33% contro il 45% degli
USA). Come dappertutto nel Terzo Mondo, è la parte meno abbiente della
popolazione che sopporta la maggior quota della pressione fiscale: l'Iva
passa dal 14 al 21%, ciò che colpisce pesantemente quelli che destinano i
redditi al soddisfacimento dei bisogni fondamentali, cioè i più poveri.

La parentesi De La Rua: il cambiamento nella continuità

Mentre l'attenzione degli analisti è focalizzata sulle crisi asiatiche e su
quella russa, il Brasile piomba in una crisi che arriva al culmine nel
gennaio 1999: il real e l'economia affondano. Ora, il Brasile assorbiva il
30% delle esportazioni argentine. Questi mancati incassi sono un dramma.
Tuttavia - ne abbiamo già parlato - sotto i due mandati di Menem il paese ha
seguito alla lettera i programmi di aggiustamento dell'FMI e della Banca
Mondiale: ha privatizzato il 40% delle imprese e il 90% elle banche, ha
licenziato centinaia di migliaia di dipendenti pubblici, ha sacrificato il
settore scolastico.
Il 24 ottobre 1999 Fernando de la Rua succede a Carlos Menem, ed eredita un
paese in piena recessione. Le finanze pubbliche sono in rovina e su 36
milioni di argentini 14 vivono ufficialmente sotto la soglia di povertà.
Nel corso del 1999 il debito estero aumenta ancora di 12 miliardi di
dollari, e il paese è quello il cui debito aumenta maggiormente. Più dei tre
quarti di questo debito è stato contratto con i mercati finanziari (una
proporzione percentuale analoga a quella di Brasile, Messico, Corea del
Sud).
Ma questa politica di massiccio ricorso ai mercati finanziari non è
sufficiente per il rimborso del debito e allora l'Argentina sottoscrive un
accordo con l'FMI (7,2 miliardi) che la costringe a ridurre il deficit
fiscale da 7,1 a 4,7 miliardi in un anno, cosa che comporta un taglio di 2,5
miliardi nel bilancio del 2000.
Viene sollecitata anche l'assistenza della BM: a fine 1999 l'Argentina
emette una serie di obbligazioni in sei tranches garantite dalla BM Questo
sistema di garanzie permette ai mercati finanziari di evitare ogni rischio
di insolvenza sugli investimenti argentini, perché, in caso di mancato
rimborso da parte dell'Argentina, interverrà la BM (che poi si rivarrà sull'
Argentina per capitale e interessi).
Tuttavia, ancora una volta, tutti questi artifizi creati per creare fiducia
verso mercati instabili si riveleranno altrettanto inefficaci fughe in
avanti.
Nel dicembre 2000 la pressione è al massimo e il governo argentino esaurisce
le riserve nel tentativo di mantenere la parità peso-dollaro. Era stata
stabilita nel 1991, quando
i sui vantaggi erano molteplici: stroncare l'inflazione, evitare rischi di
cambio sui prezzi delle materie prime (fissati per la maggior parte in
dollari) e ispirare fiducia negli investitori stranieri, con la valutazione
in dollari dei loro investimenti argentini.
Quando però importanti vicini come il Brasile hanno svalutato la moneta, l'
Argentina si è ritrovata con una moneta sopravvalutata per la regione. Ciò
che ha reso più care le sue esportazioni in rapporto a molti paesi
latinoamericani ed ha aggravato il suo deficit corrente.
L'alternativa era delicata: svalutare la moneta e rischiare un panico
incontrollabile, facendo precipitare il peso in abissi incontrollabili -
come poco prima era successo in Messico, in Tailandia, in Russia o in
Brasile? Oppure era meglio conservare la parità con il dollaro e fare
assegnamento sulla fiducia degli investitori stranieri, nei quali si
confidava per tappare la falla del deficit corrente?
Alla fine di dicembre 2000 si opta per la seconda soluzione e l'FMI elabora
un pacchetto di aiuti per 39,7 miliardi di dollari. Evidentemente, la nuova
linea di credito non è senza condizioni: liberalizzazione del sistema
sanitario, deregulation di settori chiave come energia e telecomunicazioni,
contrazione delle importazioni, flessibilizzazione del mercato del lavoro,
implementazione delle privatizzazioni, eccetera. Inoltre, nell'estate del
2001 il governo annuncia un taglio del 13% degli stipendi dei dipendenti
pubblici.
Ma la spirale è inesorabile: la liberalizzazione finanziaria e l'iniqua
fiscalità imposte dall'FMI consentono un'evasione fiscale di centinaia di
miliardi di dollari all'anno, tanto che lo stato argentino per arrivare a
fine mese è costretto ad indebitarsi a tassi insostenibili sui mercati
internazionali: alla fine del 2001 il tasso di interesse raggiunge il 40%!
In questo modo, il governo de la Rua vede dipendere il suo destino da un
prestito FMI da 1,2 miliardi di dollari, condizionato a una politica di
"deficit zero". Questo provoca le rivolte per fame, la caduta del governo e
l'affondamento di un paese che possiede importanti ricchezze economiche ed
umane.

Che cosa uscirà dal caos?

Oggi, la crisi del debito argentino fa notizia, mentre il paese è nel caos.
In un paese nel quale praticamente tutte le forze industriali e finanziarie
sono state vendute al capitale internazionale, dove i dipendenti pubblici
sono stati sacrificati in massa, educazione e salute sono riservate alle
poche persone solvibili e povertà e disuguaglianza non finiscono di
crescere, quali proposte faranno gli strateghi dell'FMI a una popolazione
fatta a fette da crisi finanziarie a ripetizione? E, per estensione, che
cosa proporranno i futuri governi argentini ai loro cittadini, con una tale
quantità di debiti da prendere in carico?

Si sa che la n. 2 dell'FMI, Anne Krueger, da poco insediata, propone la
creazione di un sistema di protezione dei fallimenti statali simili alla
legge USA sui fallimenti delle imprese. Vorrebbe così limitare il ruolo dell
'FMI come ultima speranza e lasciare che il settore privato regoli da solo
il problema dei suoi debiti.
Questa misura però è a doppio taglio: mette sullo stesso piano debitori e
creditori e permette ai primi di decretare una moratoria, sospendendo i
rimborsi. Cosa che potrebbe culminare in una procedura di insolvenza  e in
un annullamento almeno parziale del debito argentino. Ora, l'Argentina  è in
possesso si  una sentenza che dichiara illegittimo il debito della dittatura
Videla. Evidentemente, la Krueger non arriva così lontano.

Si pone però un altro problema: l'Argentina trascinerà il Brasile nella sua
caduta, innescando così un aumento generalizzato dei tassi, una specie di
domino nei mercati emergenti, già ora privati dei principali mercati
tradizionali di esportazione (USA e Giappone) in seguito alla crisi del
Nord?

Arnaud Zacharie, ricercatore al CADTM (Comité pour l'Annulation de la Dette
du Tiers Monde, Comitato per 'Annullamento del Debito del Terzo Mondo) e
portavoce di ATTAC Belgio.

Traduzione a cura di Umberto g.b. Bardella -  u.bardella@virgilio.it

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27.01 Televideo-Rai: 25 milioni di ebrei morti!

GAFFE DI TELEVIDEO RAI: "25 MILIONI DI EBREI MORIRONO NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE"

 

Chi ha studiato l’evolversi delle varie fasi che condussero ai processi di Norimberga avrà letto che, dopo la Seconda Guerra mondiale, le valutazioni del numero degli sventurati delle più diverse nazionalità e convinzioni politiche che avevano finito i loro giorni in uno dei vari campi di concentramento istituiti dal regime nazionalsocialista variarono in maniera considerevole.

In alcuni casi vennero ingigantite in maniera inverosimile. Kurt Gerstein, ad esempio, raccontò all’inquirente francese Raymond Cartier che non meno di 40 milioni di internati in campi di concentramento erano stati uccisi nelle camere a gas. Nel primo processo verbale del 26 aprile 1945 ridusse questa cifra a 25 milioni, ma le sue dichiarazioni non vennero considerate minimamente attendibili dalla difesa francese.

Dopo quasi cinquantasette anni da quella data, e soprattutto dopo una mole impressionante di studi (pro e contro la tesi del "genocidio programmato") che anche per quanto concerne la stima del numero delle vittime hanno contribuito a fornirci una cifra quanto più possibile verosimile, Televideo Rai pare invece inspiegabilmente attestato sui numeri forniti quel giorno da Kurt Gerstein.

La pagine dedicate da Televideo Rai alla "Giornata della memoria" sono curate da Germana Lang e Sandro Calice, che il 25 gennaio 2002 a pagina 282 scrivono:

«Una volta un imbianchino di nome Adolf Hitler disse: "Se un giorno andrò al potere, la prima cosa che farò sarà distruggere il popolo ebraico". Si apre con questa frase uno dei mille siti internet dedicati alla Shoah, l’assassinio di massa del popolo ebraico durante la Seconda Guerra mondiale. Circa 25 milioni di ebrei morirono in quella guerra. La Shoah, o Olocausto, (si discute sul termine più corretto), si sviluppò in quattro fasi. La prima prevedeva solo l’emigrazione "forzata" in Madagascar. Con la guerra, l’idea divenne la ghettizzazione in Polonia e poi i campi di sterminio in Russia. Quindi la "soluzione finale" e il genocidio nei lager nazisti».

Qualcuno, nella redazione di Televideo, deve essersi reso conto dell’accaduto, e il giorno seguente dalla stessa pagina 282 viene espunto quell’incredibile riferimento ai 25 milioni di ebrei morti nel corso della Seconda Guerra mondiale.

Il 4 maggio 1945, dunque otto giorni dopo aver sostenuto la tesi dei 25 milioni, Kurt Gerstein sottoscrisse una cifra intorno ai 6 milioni, che è quella che ebbe la preferenza a Norimberga. Televideo Rai ha invece impiegato una sola notte per ravvedersi, attestandosi il 26 gennaio 2002, fin nel titolo della nuova pagina 282, sull’ormai inoppugnabile cifra: "Olocausto: stermino di 6 milioni di ebrei".

Quale sarà invece la cifra ufficiale che proporrà l’istituendo museo della Shoah di Ferrara?

Il Vigilante  

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27.01 Sabra e Chatila, l'incubo infinito
 

LA STORIA/ Ecco alcuni stralci delle terribili testimonianze dei sopravvissuti alla strage voluta nel 1982 da Sharon nei campi profughi palestinesi: torture, abusi sessuali, vilipendio di cadavere.

Un viaggio all'inferno. Chiamato Sabra e Chatila. Un viaggio agghiacciante dentro una delle pagine più raccapriccianti della storia mediorientale. E al centro di questo viaggio nel tempo c'è lui, Ariel Sharon, attuale primo ministro israeliano, che ai tempi delle stragi nei campi profughi palestinesi ricopriva l'incarico di ministro della Difesa e quindi era il massimo responsabile sul terreno delle operazioni militari in Libano.
Diciannove anni dopo, quei massacri diventano oggetto d'indagine per il Tribunale di Bruxelles al quale si sono rivolte 28 persone vittime di violenze, o parenti di vittime di quella mattanza di vite umane perpetrata dalle milizie cristiane libanesi. In 48 ore, dal 16 al 18 settembre 1982, i falangisti massacrarono fra 800 e 1500 palestinesi. L'intervento dei miliziani, una verità acclarata anche dalla commissione d'inchiesta istituita allora da Israele, era stato accompagnato da un dispiegamento attorno ai due campi di "Tsahal", l'esercito dello Stato ebraico, che aveva occupato Beirut Ovest dopo l'assassinio del presidente libanese Bashir Gemayel, avvenuto il 14 settembre.
Fin qui la storia. Che ricostruisce un evento, tragico, ma non restituisce un volto, un nome, alle donne violentate e poi squartate, ai bambini fatti oggetto di tiro al bersaglio, agli anziani sgozzati e poi ricoperti di sterco.

La storia di Souad: un incubo che non si cancella. Diciannove anni dopo, alcune di queste storie individuali ritornano alla luce e con esse una ferita mai rimarginata, anche nella coscienza democratica di Israele. Sono passati 19 anni da quei giorni maledetti, ma per Souad Srour Al Mar'eh è come se le lancette del tempo si fossero fermate a quelle ore che segnano una vita. Souad aveva allora 14 anni ed era un'adolescente gioisa, piena di vita.
Ma la "vita" si è spenta nei suoi occhi che ancora oggi si velano di lacrime quando ricostruisce ciò che accade la sera del 17 settembre 1982. "Hanno bussato alla porta di casa - racconta Souad -: erano 13 soldati armati. Non abbiamo fatto in tempo a pronunciare una parola che subito hanno iniziato a sparare".
Souad fa fatica a proseguire. "Ciò che non dimenticherò mai - dice - è il sorriso sulle labbra di quegli assassini. Godevano nel dare la morte, ci chiamavano animali, cagne maledette...". La prima a cadere, prosegue il racconto di Souad, "è stata la mia sorellina, colpita alla testa, mio padre al petto, ma respirava ancora". Souad resta sola, in balià dei suoi aguzzini. Ciò che ha visto basterebbe per segnare la sua vita.
Ma ciò che sta per accaderle è, se possibile, ancor più agghiacciante. Ogni notte, da quella notte, Souad Srour Al-Mareh è visitata da quell'incubo. Non può dimenticare, non vuole dimenticare. Perché da quella notte, dice, "avverto il dovere morale di parlare, di gridare anche per le centinaia di donne palestinesi che non possono più farlo". E allora Souad si fa forza, e ritorna a quella notte di inferno. "Smisero di sparare - ricorda -. Le loro attenzioni si rivolsero contro di me, la loro preda. Li supplicai di non farmi del male, lo stesso fece mio padre ancora in vita. E quelli continuavano a ridere. Poi mi violentarono. A turno, ripetutamente. E continuavano a ripetere: sporca cagna palestinese, è quello che ti meriti". Poi se ne andarono. Non prima di aver orinato e defecato sul suo corpo. Ma l'inferno non è ancora finito.
Perché uno dei tredici falangisti torna sui suoi passi e spara alla schiena di Souad. Da allora Souad trascina le gambe, e il ricordo dell'orrore è ancora più indelebile. A farle forza è un desiderio di giustizia che riempie le sue giornate, che dà senso alla sua esistenza: "Spero che Sharon sia processato e impiccato", dice.

Denunce e inchieste Senza emozione, senza più lacrime. Le 28 denunce presentate alla Procura di Bruxelles contro Ariel  Sharon sono secretate. Ma le due associazioni filo-palestinesi che hanno garantito l'assistenza legale alle vittime o ai parenti delle vittime di Sabra e Chatila hanno fatto trapelare frammenti delle 28 denunce. Raccapriccianti i particolari descritti, segno di un odio disumano.
Se "è un uomo" il falangista che deflora una bimba di sette anni e poi squarta il suo corpo una baionetta. Se è un uomo quello che per sommo sfregio accatasta i corpi dei vecchi uccisi vicino a quello dei maiali, simbolo di impurità per i musulmani. Nel 1983 una commissione d'inchiesta israeliana, la commissione Kahan, concluse il suo lavoro riconoscendo una "responsabilità indiretta" di Sharon per aver trascurato "il pericolo di atti di vendetta e di un bagno di sangue" se i falangisti entravano nei campi. Sharon fu costretto a dimettersi.
Il rapporto Kahan sottolineava che le atrocità “furono perpetrate dai falangisti" ed escludeva  "assolutamente qualsiasi responsabilità diretta di Israele". Dello stesso avviso non è l'ex procuratore  dei Tribunali per l'ex Jugoslavia e il Rwanda Richard Goldstone: "Ogni persona ragionevole - afferma - può solo deplorare che nessuna incriminazione sia seguita" alla commissione d'inchiesta Kahan sulle stragi, la quale aveva concluso che "gravi crimini erano stati commessi". Richard Goldstone non nomina mai Ariel Sharon. Ma i suoi riferimenti non lasciano margine di equivoco: "Se la persona che dà gli ordina sa che civili innocenti possono essere uccisi o feriti in una data situazione, allora ne è responsabile".    

Umberto de Giovannelli (da www.ilnuovo.it)

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26.01 Somalia colonia di al-Qaida

L'OPINIONE delle Libertà (Quotidiano diretto da Arturo Diaconale)

Mercoledì 23 gennaio 2002 - anno VII - numero 17, p. 3.

Gli ispettori Onu italiani:

LA SOMALIA E' DA ANNI UNA COLONIA DI AL QAEDA

di Dimitri Buffa


"E' inutile continuare a nascondere la realtà dietro un dito. Ormai è stata
raccolta una documentazione sufficiente a dimostrare che - a partire dal
fallimento dell'operazione "Restore Hope" - la Somalia è ormai di fatto un
protettorato di Al Qaeda, l'organizzazione terroristica di Osama Bin Laden.
Il presidentE ad interim Hasan Abulkassim è risultato essere null'altro che
una marionetta nelle mani della struttura terroristica saudita, ed è da
anni sul libro-paga di Bin Laden."

A parlare in modo così franco ed esplicito sono Massimo Pizza ed Antonio
d'Andrea, gli ispettori italiani delle Nazioni Unite che negli ultimi mesi
hanno coordinato le attività delle forze di intelligence dell'operazione
"Enduring Freedom", alle dipendenza del comando alleato di Tampa.

Secondo i due funzionari delle Nazioni Unite, "la scelta di non voler
ristabilire un'autorità statale in Somalia, di lasciar prevalere l'anarchia
- con larghe aree del territorio controllate dai locali signori della
guerra, da trafficanti d'armi e di droga - di creare un
presidente-fantoccio che di fatto non controlla nemmeno l'intera area
urbana della capitale e che rappresenta poco più che se stesso risponde ad
un disegno strategico ben congegnato, frutto di una raffinata strategia."

Rifiutando di sedere allo stesso tavolo e costituire un governo provvisorio
che rappresenti tutte le etnie, di fatto i vari capifazione sembrerebbero
aver danneggiato soprattutto i loro stessi interessi, in quanto così
facendo hanno paralizzato gli scambi con l'estero, le relazioni
diplomatiche e perso anche la possibilità di accedere ai prestiti agevolati
del Fondo monetario internazionale.

Le cose però non stanno in questo modo.

"Se è stata fatta questa scelta apparentemente autolesionista - spiegano
Pizza e d'Andrea - ciò è avvenuto perché tutti i personaggi coinvolti ne
hanno avuto il loro tornaconto, tanto Abulkassim, quanto Hussein Aidid,
Atto, Abdullahi Yusuf e gli altri signori della guerra".

L'organizzazione di Bin Laden aveva infatti bisogno proprio di una nazione
che fosse ridotta a "terra di nessuno", chiusa alle relazioni con
l'esterno, e nel cui ambito potessero muoversi e mobilitarsi soltanto
strutture ben precise: Al Qaeda, i suoi alleati locali di Ittihad
al-Islamiyyah (ramo locale della setta estremista dei "Fratelli
Musulmani"),la finanziaria saudita Barakaat, legata a doppio filo ad
Abulkassim e nella cui amministrazione giocavano un ruolo fondamentale le
alleanze sancite con i matrimoni fra figlie dei capiclan degli Habar-ghidir
e dirigenti dei "Fratelli Musulmani".

"La politica di Al Qaeda - dicono gli ispettori dell'Onu - risulterebbe
dunque ben più complessa di quanto possa apparire a prima vista. In un
paese come l'Afghanistan - dove il senso dell'unità nazionale è molto forte
- per occultare che la direzione del paese era di fatto in mano ad una
struttura saudita è stato necessario creare a tavolino un personaggio
fittizio come il cosiddetto Mullah Omar, la cui "immagine" non è altro che
una foto elaborata al computer, e che è assai probabile non sia mai
esistito. In Somalia - dov'è invece il senso dell'appartenenza tribale ad
essere prevalente - i Sauditi legati alla struttura fondamentalista del
principe Abdullah hanno dapprima comprato ad uno ad uno i vari signori
della guerra, quindi hanno ordinato loro di inventare sempre nuovi pretesti
in base ai quali rifiutare di accordarsi, impedendo così la rinascita di
uno stato somalo dopo la caduta del regime di Siad Barre".

Le accuse di collusione con la rete di Bin Laden lanciate contro Abulkassim
dal signore della guerra Hussein Aidid risultano pertanto pienamente
fondate, ma gli ispettori dell'Onu ritengono che lo stesso Aidid non sia
affatto immune da un coinvolgimento nella rete finanziaria del terrorista
saudita. Al pari di quelle di Abulkassim, anche le connessioni di Aidid
sono state appieno indagate, ed un dirigente dell'Associazione musulmani
italiani (Ami), Taher Scarelli, ha avuto modo di appurare come gli stessi
portavoce di Aidid in Italia siano direttamente coinvolti in Barakaat e
legati strettamente alle banche saudite, come risulterebbe provato dalle
testimonianze che egli ha raccolto presso personaggi che ruotano attorno al
mondo dell'immigrazione somala in Italia, e che sono contenute in un
dossier sottoposto all'attenzione dei funzionari dell'Onu.

Nel frattempo, per bocca del suo coordinatore Shaykh Ali Hussen, l'Alleanza
nazionale somala (Ans) - fondata da dieci generali somali addestrati nelle
accademie italiane al tempo dell'amminostrazione fiduciaria italiana - ha
lanciato per il tramite di Pizza e d'Andrea un appello al comando di
"Enduring Freedom", affinché si proceda senza indugio allo smantellamento
di tanto del regime filo-saudita, quanto dei signori della guerra che
formalmente lo contrastano, ma che di fatto dipendono dalle stesse fonti di
finanziamento. Hussen - che oltre a coordinare l'Ans è un capo religioso
islamico antifondamentalista ed il presidente dell'Ami - ha chiarito come -
ad eccezione del capo della tribù dei Rahawein, il comandante Shar Ghadud -
i signori della guerra che oggi si fanno avanti come alleati dell'Occidente
nella lotta contro Abulkassim potrebbero benissimo celare una trappola
micidiale contro le forze dell'alleanza antiterrorismo.

"Che Bin Laden - dice Hussen - abbia materialmente trovato rifugio in
Somalia dopo essere fuggito da Tora Bora è ancora non dimostrato, ma
probabile. Che la maggior parte degli armamenti che Al Qaeda possiede siano
stati in tutta fretta spostati dall'Afghanistan alla Somalia per fare del
mio martoriato paese l'estremo rifugio del terrorismo fondamentalista è
invece certo. A questo punto, ritengo che l'eventualità di uno sbarco di
truppe possa essere estremamente rischioso, e che è invece necessario
provvedere in sede preliminare a preparare il terreno con bombardamenti
aerei massicci sui rifugi di Al Qaeda già localizzati. Se di fatto la tribù
degli Habar-ghidir ed i Migiurtini di Abulkassim sono diventati i Talebani
della Somalia, l'Alleanza nazionale somala è pronta ad agire in prima linea
al fine di far rientrare il nostro paese nella legalità internazionale,
giocando così un ruolo analogo a quello svolto dall'Alleanza del Nord in
Afghanistan."

Nel frattempo, il comando di "Enduring Freedom" ha imposto ad Abulkassim ed
alle fazioni dei signori della guerra di accettare la nomina di Osman Haji
Falco - uno dei leader dell'Ans - a comandante generale della polizia, e
questa stessa notizia è stata da sola sufficiente ad indurre molti residui
sostenitori di Abulkassim a lasciare Mogadiscio per darsi alla macchia,
mentre le bande paramilitari che infestavano la periferia della città sono
già allo sbando.

Falco però ha dichiarato senza mezzi termini che "la lotta contro gli
alleati di Bin Laden non sarà una passeggiata, giacché essi contano su ben
50.000 uomini, ben addestrati ed armati". Prima di procedere all'intervento
militare, Falco ritiene necessario che l'Ans si costituisca come governo
prevvisorio, formato da personalità somale che da tempo risiedono
all'estero, che non hanno mai avuto simpatie fondamentaliste o legami con
il regime saudita, e che risultino completamente estranei alle faide
tribali che hanno funestato il paese durante l'ultimo decennio.

Questo governo provvisorio - nell'ambito del quale, secondo Falco, Hussen
dovrà in ogni caso ricoprire un ruolo primario - dovrà agire col supporto
della comunità internazionale al fine di ristabilire l'ordine nel paese, di
censire la popolazione (stabilendo così la consistenza effettiva delle
diverse etnie) e di indire libere elezioni democratiche.

"Come musulmani da sempre contrari al fondamentalismo della setta wahhabita
al potere in Arabia Saudita - dice Hussen - rivendichiamo anche noi quel
diritto alla riconquista della libertà e dell'indipendenza nazionale che i
nostri fratelli in Afghanistan hanno già fatto valere."


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26.01

 

"Ridate voce a RadioPalestina" ma lo ICCII si scaglia contro Serventi Longhi 


As-salamu `alaykum wa rahmat-Ullahi wa barakatuH.

Carissimi Fratelli e Sorelle,

Rendiamoci un poco conto di quale razza di stampa gli Italiani sono
costretti a subire (e pagare)!

Pensavamo che per i media italiani il fondo dell'abiezione fosse stato
raggiunto da quel giornalista Cristiani, pronto a scusarsi con i banditi di
Arafat per il fatto che l'Italia aveva osato trasmettere il video del
linciaggio dei due soldati israeliani, e addiruttura pronto - da vero
sciacallo - a puntare il dito contro Mediaset, e a dire: "ecco chi sono i
cattivi che non accettano la censura di Arafat. Noi della RAI invece siamo
al cento per cento asserviti al dittatore-terrorista. Trasmettiamo solo ed
esclusivamente quel che vuole lui!"

Invece l'Italia continua ad essere un paese davvero surreale. Alla
vergognosa iniziativa di Cristiani vengono oggi ad aggiungersi le
sciagurate prese di posizione del segretario della Federazione Nazionale
della Stampa Italiana e di quello del sindacato giornalisti  RAI
(profumatamente pagati coi soldi del contribuente per veicolare la
propaganda genocida di Arafat suoi nostri teleschermi!). Questi
inqualificabili individui dimostrano di considerare il diritto ad esortare
allo sterminio degli ebrei e ad educare i bambini al terrorismo suicida
come "aspetto irrinunciabile della libertà di stampa".

Ci fanno fare una bella figura nel mondo: dimostrano che la "stampa libera"
che essi prendono a modello è quella di Joseph Goebells.

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L'OPINIONE delle Libertà (Quotidiano diretto da Arturo Diaconale)

Mercoledì 23 gennaio 2002 - anno VII - numero 17, p. 1.

L'iniziativa di Serventi e Natale

FNSI E USIGRAI VOGLIONO RIDARE VOCE A RADIO PALESTINA

di Dimitri Buffa

Per non piangere, in Israele adesso tutti ridono leggendo le allucinanti
dichiarazioni del segretario della Fnsi Paolo Serventi Longhi e di quello
dell'Usigrai Roberto Natale, a proposito della distruzione del palazzo dove
aveva sede la radio tv di Arafat a Ramallah da parte degli artificieri
dell'esercito israeliano. "Ma come si fa" - è il commento più benevolo - "a
invocare la libertà di stampa per un organo di propaganda che inneggia al
terrorismo e alla uccisione degli ebrei?" Già? Come si fa? Eppure non è
lontano il simbolico giorno della memoria (cioè il prossimo 27 gennaio
della Shoà) compiuta in Europa dai nazi-fascisíi con il beneplacito dei
comunisti di Stalin che proprio attraverso il patto Molotov-Von Ribbentrop
posero le basi per lo sterminio dei primi ebrei in Polonia. Ma purtroppo il
politically correct di sinistra in Italia riesce a fare anche questi
miracoli: trasformare i terroristi in vittime e uno stato democratico in
aguzzino della libertà d'informazione. Rileggiamo gli incredibili
comunicati di Serventi Longhi e Natale che i lettori dell"'Opinione"
possono trovare anche su fnsi.it nella sezione "ultim'ora" (anche se
aggiornata proprio al 19 gennaio scorso). "Qualunque ne sia la ragione -
commenta il segretario generale della Fnsi Paolo Serventi Longhi - la
distruzione della radio palestinese da parte delle truppe israeliane,
suscita la ferma protesta dì chi ritiene che la comunicazione rappresenti
uno strumento di sviluppo della democrazia'. "Purtroppo" - sottolinea
Serventi Longhi - "la spirale terrorismo-rappresaglia, che sta annientando
ogni possibilità' di soluzione pacifica della crisi palestinese e che miete
migliaia di vittime di entrambe le comunità, colpisce con drammatica
precisione e violenza inusitata uno degli ultimi simboli dell'autonomia di
un popolo". Leggiamo adesso come gli ha fatto eco 'ex-precario Rai Roberto
Natale: "la Rai fornisca un aiuto tecnico in tempi rapidi perché la radio
palestinese possa recuperare completamente il suo ruolo'. E ancora: "la
distruzione dell'emittente palestínese compiuta dall'esercito israeliano
deve suscitare la più concreta solidarietà dei giornalisti. Ancora una
volta la brutalita' della guerra si manifesta mettendo a tacere la voce di
un popolo'.
Verrebbe voglia di inviare loro cassette video e audio dell'attività
"informativa" dei feddayn che lavoravano in Radio Tele Arafat. Te la danno
loro "la voce di un popolo'. La propaganda armata, per inciso, continua da
altre postazioni la propria attività di incitamento ad ammazzare gli
israeliani, che Fnsi e Usigrai vorrebbero fare passare come libertà di
espressione. Come i video musicali con le rock star con il mitra che
dileggiano le bare degli israeliani cantando: "così li abbiamo cacciati dal
Libano, cosi li ributteremo a mare fuori da Israele".


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26.01

American Beauty: un film molto americano

AMERICAN BEAUTY ( American Beauty... guarda da vicino, 1999 Dreamworks Pictures )

Premessa.

Prima di trattare qualunque film americano bisogna sapere cosa è Hollywood. Ciò è spiegato, che io sappia per la prima volta, nel mio libro I Divi di Stato, Edizioni Il Settimo Sigillo, Roma, 1999, cui devo rimandare. I concetti fondamentali comunque sono i seguenti. Hollywood è una filmografia di Stato, controllata copione per copione, inquadratura per inquadratura e battuta per battuta dal Ministero della Propaganda statunitense, che si chiama USIA ( United States Information Agency ), ente istituito nel 1953. Ciò è perché gli USA non sono una democrazia come la gente crede ma una dittatura vera e propria, anche se speciale : sono una dittatura dell’imprenditoriato. La differenza rispetto alla filmografia di uno Stato totalitario tradizionale, come era ad esempio quella dell’URSS della dittatura del proletariato, è che nel contempo Hollywood deve anche ricavare profitti, e cioè produrre lavori commercialmente validi, da vendere per soldi e non da distribuire gratis come depliant pubblicitari ; altra differenza è la preoccupazione di nascondere tale status. Così tutti i film sfornati da Hollywood dopo il 1953 vanno letti in tale chiave ; tutti cioè, oltre a mirare a fare cassetta, hanno anche un contenuto ideologico preciso e approvato dall’USIA, la quale può in aggiunta avere imposto degli spunti propagandistici ad hoc dove la trama si prestava. Ciò vale anche per film che a prima vista sembrerebbero innocui, inadatti allo scopo, e cioè sostanzialmente per i film di ambientazione americana " civile " e contemporanea, che siano drammatici, comici o delle commedie. L’obiettivo fisso dell’USIA con questi film è di evitare che, narrando la storia, non finiscano per rivelare l’esatto " tono " della società americana, la reale profondità e irrimediabilità dei suoi mali, cosa che invece è da nascondere, travisare o camuffare ; poi se c’è la possibilità e se se ne avverte l’esigenza possono essere fatte inserzioni di qualunque tipo e su qualunque argomento. Sono benvenuti i film che portano critiche secondarie o superficiali a tale società, perché una critica che sfiora l’obiettivo poi lo protegge : se di un tizio si dice solo che alla cerimonia aveva una cravatta di cattivo gusto non si va a pensare che per il resto poteva anche essere in mutande, come magari era essendo allora quella l’osservazione da fare. Ancora più benvenuti i film che trattano apertamente certe topiche negative della società americana, però travisandole artatamente, facendo cioè in modo di suggerire spiegazioni che all’ultimo le assolvono. Film del genere permettono poi di dire che il sistema tollera critiche, che è " democratico ". A tutto ciò a Hollywood non ci sono eccezioni ; non possono esserci.

American Beauty appartiene alla categoria dei film falsamente critici. Difatti puntella il sistema americano ma, per esempio, sul Resto del Carlino del 18 gennaio 2000 ( tre giorni prima dell’uscita del film in Italia ) un tale Andrea Martini, che suppongo un critico cinematografico di mestiere, gli attribuisce una " aria pungente da satira sociale ". La trama è la seguente, tenendo conto come al solito che i film di Hollywood sono realizzati normalmente in più versioni, che differiscono per dettagli più o meno significativi allo scopo di renderli adatti - soprattutto proprio dal punto di vista propagandistico - alle varie aree culturali del mondo. Parleremo quindi della versione diffusa in Italia, col doppiaggio relativo.

La trama del film.

La storia è ambientata a Los Angeles, ai tempi nostri, in un quartiere residenziale periferico tipico della classe media americana : strade larghe e diritte su cui si affacciano tante ville, unifamiliari ma grandi e su due piani, di bell’aspetto elaborato e circondate da uno scoperto erboso con alberelli e formazioni arbustive curate alla perfezione. In una di queste grosse case di bambola ( la via si chiama anche Robin Hood Trail ), con in giardino dei cespugli di rose American Beauty, abita la famiglia Burnham, padre Lester di 42 anni, madre Carolyn e figlia unica Jane di 17 anni ; accanto si è recentemente trasferita la famiglia Fitts, padre Frank sui 50 anni, madre Barbara e figlio Ricky di 20 anni. La voce di Lester fuori campo commenta i suoi ultimi giorni di vita, prima di essere ucciso da Frank Fitts. In quei giorni i conflitti che ognuno dei protagonisti aveva accumulato con sé stesso, con i familiari e con la società erano esplosi in una reazione a catena, innescata dalla perdita del lavoro da parte di Lester. La famiglia comincia a sgretolarsi. La moglie, mediatrice immobiliare impegnata e yuppy ma di scarso successo, ha una avventura con l’ammirato concorrente-collega Buddy Kane, che appunto ha il vento in poppa, e che però in breve la lascia per il timore di rendere il proprio divorzio in corso ancora più finanziariamente rovinoso ; la figlia, che covava il solito rancore adolescenziale con annesso desiderio di evasione, rompe gli indugi e si mette col tenebroso Ricky, che dalla finestra di fronte la filmava di notte con una telecamera. Lester in realtà è il meno scosso.  Con un cinico ricatto ottiene una buonuscita di 60.000 dollari, pari a un anno di stipendio, e cerca e trova subito un lavoro dequalificato, e cioè come inserviente in un chiosco tipo MacDonald’s, pagato con la minimum wage ( salario minimo ) di 5.25 dollari all’ora. Comincia a pensare di concedersi finalmente dei piaceri proibiti ; la sua attenzione è sempre più attratta da Angela, una compagna di scuola della figlia già ammirata come reginetta delle cheer leaders dell’high school e che ogni tanto capita in visita ; si compra una rossa spider Pontiac Firebird del ’70 ; e inizia a fumare spinelli che gli vende Ricky. La famiglia di Ricky, anch’essa nonostante le apparenze, non ha meno problemi e di qui verrà la fine di Lester. Frank Fitts è un colonnello dei Marines in pensione che alla fine del film scopriamo aver silenziosamente lottato per tutta la vita contro la propria omosessualità, riversando le proprie angosce sulla moglie, oramai ridotta ad una larva senza volontà, e su Ricky, avendolo portato a rifugiarsi nella droga e a diventarne, appunto, spacciatore. Quando vede in un filmato girato involontariamente da Ricky il bel vicino Lester che fa ginnastica nudo nel garage le sue difese, che presumibilmente avevano resistito per tutta la vita, crollano e non riesce a reprimere una avance inequivocabile. Lester naturalmente rifiuta, anche se con garbo, da uomo di mondo, ma poco dopo Frank Fitts, umiliato dalla situazione e inorridito di sé stesso, ritorna e gli spara una revolverata in testa mentre seduto al tavolo di cucina contempla una foto incorniciata della sua famiglia, quella dei tempi felici. Al rumore accorrono Jane e Ricky, i Bonnie e Clyde in pectore che in una stanza superiore stavano progettando di fuggire insieme a New York, dove lui conosceva spacciatori che lo avrebbero introdotto nel giro, e Angela, la Lolita cresciuta, anch’essa al piano superiore dove in altra stanza attendeva il ritorno di Lester decisa a concedergli la verginità ; nello stesso momento rincasa Carolyn, reduce dall’ultimo incontro con Buddy, ed è the end.

L’irrilevanza sociale dell’argomento.

La realtà sociale degli USA è evidenziata dalle seguenti poche cifre : da 40 a 60 milioni di poveri a seconda delle stime ( del governo o di istituti privati ), persone che non hanno sussidi, non hanno assistenza medica, non maturano una pensione ; 1 bambino su 4 cresce in povertà ; disoccupazione ufficialmente del 7.6% ma ufficiosamente del 12%, con una parte rilevante degli occupati che percepisce la minimim wage ; 4 milioni di homeless senza lavoro, dei quali ogni inverno ne muoiono regolarmente circa 1.000 per il freddo ; 8 milioni di homeless con lavoro ( sono i migrant workers, lavoranti agricoli stagionali che vivono praticamente nella vecchia auto, o pick up, con cui si spostano assieme alla famiglia da una piantagione all’altra ) ; 1 milione di street kids, dei quali ogni anno ne muoiono circa 5.000 per percosse, stenti o malattie, essendo frettolosamente fatti seppellire in tombe anonime dalle autorità municipali ; 3 milioni di famiglie che vivono in roulottes chiamati trailers ; 27 milioni di alcolizzati, molti dei quali rientrano anche nei 25 milioni di tossicodipendenti ; 35-40.000 omicidi e 30-35.000 suicidi all’anno ; 2.000.000 di detenuti, pari a un quarto dell’intera popolazione carceraria mondiale, con 4.000 in death row ( in attesa dell’esecuzione capitale ). Moralmente la situazione è abbietta, e per fare pochi esempi : c’è libertà di licenziamento e così tutti i lavoratori dipendenti americani, che siano operai, impiegati o dirigenti, scodinzolano da mattina a sera come tanti setter ; c’è una miriade di occupazioni umilianti, distruttive della personalità ( uomo-bersaglio alle fiere, latore di messaggi canori, ecc ) ; i ricchi hanno libertà di reato nei confronti dei poveri, invero anche di omicidio ( i ricchi - de facto - sono incriminati solo per reati verso i loro pari, o l’Amministrazione ) ; sono legali pratiche come la vendita di figli e di sangue, sperma e organi non vitali ; per gli americani ricchi organi vitali sono reperiti nel Terzo Mondo col beneplacito del governo, che è il governo dei ricchi ; in piantagioni del Sud sta tornando la schiavitù, questa volta nei confronti di chicanos. E’ questa combinazione di miseria e abbiezione che spiega il fatto che il 20% della popolazione adulta americana presenta turbe psichiche da gravi ( ossessioni ) a gravissime ( schizofrenia ), come calcolato dal National Institute of Mental Health ; non per niente ci sono tanti e così orrendi serial killers negli USA, in effetti da 80 a 100 in attività in ogni dato momento.

American Beauty non offre squarci illuminanti su niente di tutto ciò. Critica certamente la società americana, ma sceglie un obiettivo secondario : la classe media e le sue magagne. Dell’uomo in mutande e cravatta ci dice che ha una brutta cravatta. Il tema del film infatti è l’intreccio di problemi, angosce e frustrazioni personali che stanno dietro l’aspetto solare della classe media americana, e che continuano a crescere all’ombra delle sue villette da fiaba sino a che un innesco qualunque provoca una reazione a catena esplosiva. Oppure il tema è la vera vita, la natura umana con i suoi pregi e le sue eterne debolezze, che inevitabilmente pulsa sotto l’enorme peso delle restrizioni, delle convenzioni e dei compromessi imposti dalla società americana a chi vuole essere " in ". Oppure - c’è sempre da discutere su queste cose - il " messaggio " è che il ceto medio americano, il ceto delle villette coi bei roseti, è un Truman Show dove nessuno è come sembra, dove tutti ricoprono ruoli che non sono i loro, come il Lester cui il licenziamento dopo 14 anni di lavoro alla redazione di un giornale fa emergere la vera anima da ribelle gaudente, da hippy , come il Frank Fitts cui basta vedere il sunnominato nudo per arrendersi infine alla propria natura di cocksucker ( " ciucciacazzi " ) nato, l’accusa preferita che portava al figlio perchè pensava sempre a sé stesso, e così via come gli altri tutti, da Ricky a Jane a Carolyn a Angela a Buddy. In ogni caso sono tutte cose vere e si può certamente farci un film sopra. Rimane il fatto che neanche questa volta la verità sull’America salta fuori.

La presenza dell’USIA.

Ciò non basta a far palpare la presenza dell’USIA nel film : esso omette di evidenziare certi mali clamorosi perché il suo soggetto è un altro, il che è già un risultato si, ma non si può dire che sia voluto, cercato. Dove invece la presenza dell’USIA è inequivocabile è nel trattamento del medesimo e innocuo soggetto che è stato scelto. Le vicende degli esponenti del ceto medio americano del film infatti sono state messe in modo tale da ottenere precisi risultati di falsificazione, di travisamento di certe topiche inquietanti della vera realtà americana, il che si chiama propaganda, propaganda culturale. Le falsificazioni ed i travisamenti sono stati inseriti nella costruzione dei ritratti dei protagonisti e sono i seguenti.

1) A Lester capita uno di quegli incerti che negli Stati Uniti portano quasi immancabilmente alla rovina totale, che equivalgono a sentenze di morte : è licenziato da un lavoro altamente qualificato quando aveva una età superiore ai 36 anni ( è circa questo il limite ). Normalmente queste storie vanno nel seguente modo : per cominciare l’uomo subisce uno stress che ammazzerebbe un cavallo ( perde l’autostima ; si sente tradito ; ogni certezza crolla ) ; cerca per mesi, o per anni, un lavoro analogo, adatto al suo livello ; immancabilmente non lo trova e dopo o non lavora mai più oppure con uno sforzo supremo si adatta a occupazioni dequalificate, umilianti ; in ogni caso il reddito crolla, non può più pagare né l’assicurazione sanitaria né il mortgage ( mutuo bancario ) sulla casa e perde entrambi ; va a vivere in un trailer scassato in estrema periferia o diventa homeless del tutto, scivolando sempre più nell’alcolismo, nelle droghe, nei disturbi mentali ; se aveva moglie e figli li aveva di norma già persi all’inizio dell’incubo o li trascina nel degrado. Niente di tutto ciò con Lester. Niente stress, niente pianti, niente recriminazioni, niente ricerca di occupazioni degne. Perché ? Perché la regia lo ha costruito come un uomo che non aveva mai creduto in ciò che faceva, che sino allora aveva ricoperto un ruolo che non era il suo e che accoglie il licenziamento quasi con sollievo perché gli da la possibilità di vivere come davvero voleva, ai margini della società e pronto a coglierne le più succose occasioni, che di norma sono gratis. La regia si affretta anche a puntualizzare che l’insoddisfazione di Lester come redattore del giornale dipendeva solo da lui e non magari dal lavoro, in altre parole dalla società : il lavoro pagava bene, 5000 dollari al mese invero, ma comportava troppe responsabilità. Lester giustifica infatti così la sua richiesta di un posto di garzone da Smiley’s : " Cerco il livello di professionalità e responsabilità più basso possibile ". E’ lo stesso accorgimento - caro all’USIA in effetti - usato nel film Un giorno di ordinaria follia ( Falling Down, del 1993 ) : " Non sono io che ho perso il lavoro " dice il neo licenziato Bill-Michael Douglas che si appresta a fare una strage in città, " è il lavoro che perso me ". C’è una ulteriore apologia al sistema, questa ancora più obliqua : il consulente aziendale Brad Dupree aveva deciso il licenziamento di Lester non perché lui Brad era lo strumento di una società spietata e iniqua ma proprio perché aveva capito il soggetto, sino allora forse inappuntabile ma di natura un ribelle, inaffidabile per la ditta ; Lester dimostra subito quanto avesse ragione estorcendogli 60.000 dollari di liquidazione con la minaccia di inventare nei suoi confronti una denuncia per molestie omosessuali. Per inciso l’impressione che in un modo o nell’altro sia facile ottenere una buona liquidazione negli USA è falsa : di norma uno se ne va in bolletta perché il contratto di assunzione che era stato fatto firmare esclude buonuscite e i ricatti non sono così facili.

Quindi a Lester non capita nessuno dei tipici drammi esposti sopra. Magari perché muore subito, ma fatto è che non capita. Di perdita dell’health insurance ( assicurazione sanitaria ) non si parla. C’è un accenno al mortgage ( mutuo ) che sarà difficile continuare a pagare ma non ci sono sviluppi e poi la moglie ha pur sempre il suo lavoro di mediatrice immobiliare : pagherà lei, pensa lo spettatore. C’è un accenno al disfacimento della famiglia : Carolyn corre subito nel letto di Buddy, che dovrebbe essere l’inizio del tutto, ma rimane appunto accennato. Jane addirittura pare confermare l’esattezza della sentenza inflitta al padre dalla società : lo aveva sempre ritenuto un egoista ed un irresponsabile, un padre che anziché parlare e riparlare con lei sbarlocchiava le sue amiche, e il suo licenziamento non fa che fortificarla nella decisione di lasciare quella famiglia inadeguata.

2) Con la figura di Frank Fitts siamo in piena USIA. Chi sono i Marines ? Sono come tutti i militari americani di qualunque Arma. E’ gente che si arruola per la paga e per la buona pensione che volendo arriva dopo appena 20 anni di servizio : dei mercenari. Sembrerebbe niente di troppo disonorevole - sono dei " professionisti " - ma vediamo cosa devono fare questi uomini per la tale paga. Gli USA non sono la Svizzera, ma una potenza neo coloniale in piena attività, che tiene sotto il tallone moltissimi Paesi e che ogni giorno compie azioni sanguinose in una parte o nell’altra del mondo ; se non è una guerra dichiarata che fa migliaia di morti come a Panama nel 1989 o in Yugoslavia nel 1999, o che ne fa addirittura centinaia di migliaia come in Iraq nel 1991, allora è un bombardamento " preventivo " di una fabbrica di armi chimiche ( in realtà magari un pastificio ), è una incursione di commandos in un porto " nemico " per far saltare un mercantile che trasporta cibarie, è un mitragliamento da elicotteri di contadini guatemaltechi in sciopero contro la Multinazionale USA che li fa lavorare per niente nelle sue piantagioni, è una azione di counterinsurgency contro partigiani indipendentisti, è una assistenza logistica alle grosse formazioni di banditi ( p.es. Contras, UCK, Ceceni ) create dagli USA per qualche scopo, è una mano da dare a qualche governo " amico " per reprimere una ennesima rivolta popolare, e così via. Chi deve fare tutte queste cose, che implicano sempre dei massacri più o meno grandi di civili incolpevoli, sono i militari americani, loro in carne e ossa, che lo fanno non per gli " ideali " o perché coscritti, ma appunto per la paga. I militari americani così sono giusto dei sicari, degli assassini prezzolati, e della specie peggiore perché loro su ordine uccidono anche donne e bambini, e in qualunque numero sia richiesto ( dal 1945 al 1990 gli USA si sono resi responsabili della morte di circa 30 milioni di civili nel mondo ; di questi circa 12 milioni sono stati uccisi direttamente da militari americani ).

Il pubblico internazionale non deve avere questa percezione. Inoltre c’è la necessità di offrire una spiegazione che paia verosimile per i massacri che lo stesso pubblico sa essere compiuti ogni tanto dai militari americani, qua e la per il mondo ( America Latina, Haiti, Somalia, Vietnam, dappertutto ). Ecco la soluzione che salva capra e cavoli : molti giovani americani si arruolano non giusto per la paga, ma perché purtroppo sono di natura violenta o addirittura nazista, e sono proprio loro i responsabili delle efferatezze che ogni tanto vengono alla ribalta. Ed ecco il consolidato stereotipo hollywoodiano del soldato, del sottufficiale o dell’ufficiale americano violento, fanatico delle armi e quasi sempre con più o meno aperte simpatie naziste, che è tollerato di fatto dai buoni e democratici superiori fra le disapprovazioni a parole o ammiccate perché i nemici là fuori ( i comunisti, i terroristi, i trafficanti di droga, eccetera ) sono spietati ed elementi del genere fanno comodo ( magari salvano vite di soldati americani buoni ). Questi individui comunque, può aggiungere l’USIA in certe circostanze o momenti politici, anche se tollerati nelle Forze Armate americane rimangono dei malati, perché il nazismo è una ideologia degenere : ecco che gli si possono attribuire delle perversioni, una delle migliori essendo quella dell’omosessualità perché nella memoria collettiva mondiale ci sono ancora le torbide tendenze di qualche famoso ufficiale delle SS ( non bisogna dimenticare che molti Autori americani hanno pubblicato biografie su Hitler dipingendolo - fra le altre cose - come un omosessuale represso ; non era vero ma la diffamazione è rimasta ).

Frank Fitts è il prodotto di tali ragionamenti della United States Information Agency. E’ un vecchio ufficiale dei Marines il cui ideale era sempre stato quello di essere un John Wayne o un Clint Eastwood del Corpo, ma era segretamente un nazista e - naturalmente - un ciucciacazzi. Le solite balle ideologiche dell’USIA, ma è magistrale, davvero da segnalare, il modo in cui la regia ha abbinato le due cose, diffamandole in parallelo. Frank è irresistibilmente attratto da entrambe, ma di entrambe si vergogna con pari intensità ed è deciso a tenerle nascoste in modo ugualmente strenuo. Ha combattuto con la sua omosessualità per tutta la vita e così ha fatto con la sua attrazione per il nazismo : non ne parla mai e non ne tiene in casa nessuna traccia materiale ; solo, in una teca di souvenir personali che è tabù per chiunque, un piatto di ceramica anonimo e bianco ( un normale piatto per secondi in effetti ) che sul centro del retro porta - sconvolgente rivelazione, estremo abominio - una piccola croce uncinata nera : quando scoprirà che Ricky lo ha toccato, che lo ha visto dietro, lo assalirà a pugni ( a pugni, suo figlio ).

3) Barbara è la moglie di Frank. E’ una donna distrutta, priva oramai di qualunque volontà, all’ultimo stadio della depressione e presumibilmente a un passo dal ricovero. Ad averla ridotta così sono state le psicosi del marito suggerisce il film. Ma mettiamoci nei panni della vera moglie di un vero colonnello dei Marines. Un colonnello operativo dei Marines, come è lasciato supporre il duro Frank, nella sua carriera ha certo partecipato a missioni cruente all’estero, diciamo mediamente a 5. Cosa ha fatto tale colonnello nelle sue " missioni " ? Ha ucciso dei civili ? Ha torturato prigionieri ? Ha seminato mine camuffate da bamboline ? Ha fatto il tenente Calley, che ha falciato 62 vecchi, donne e bambini a My Lai, o ha fatto il capitano Ernest Medina, che ha ucciso per divertimento un ragazzino di 12 anni ? Qualcuna di queste cose sicuramente l’ha fatta e la moglie lo sa. Magari non credeva che quello fosse il mestiere quando ha sposato il suo giovane ma ora lo conosce : questa donna o ha due dita di pelo sullo stomaco o la sua psiche comincia a rimuovere la realtà sino ad annullare sé stessa. Se la moglie di un colonnello americano in pensione è nel baratro questo è, direi 9 volte su 10, il motivo. Ma la regia propone le ossessioni omosessuali del marito.

4) Nei personaggi di Carolyn e di Angela non sono inserite delle artificiosità allo scopo di fare falsi suggerimenti sulla società americana. Quando aveva sposato Lester Carolyn era una ragazza birichina e poi si è alienata dal marito e dalla figlia - dalla vita - cadendo nella trappola della classe media, e cioè dei suoi valori ( il successo ) e del suo conformismo ( tutte le sere cena familiare al lume di candela e pallosissima musica da camera ; naturalmente è lei che coltiva le rose American Beauty in giardino ), ma rimane profondamente insicura ( al primo infortunio della vita corre da Buddy ). Si, la grande maggioranza delle donne di mezza età del ceto medio americano è così. Angela è una adolescente bella e provocante, prima cheer leader dell’high school ( posizione ambitissima e invidiatissima dalle liceali americane : è una consacrazione di bellezza e una promessa di successo nella vita - e cioè subito marito bello e ricco ) e oggetto dell’ammirazione maschile dall’età di 12 anni ( lo dice lei nel film - perché il regista vuole evocare la figura di Lolita ). A lei piace questa ammirazione, soprattutto se è torbida, anche bavosa, ma non è sicura di avere una personalità all’altezza del ruolo di primadonna che si sente ripetere da sempre, tanto è vero che sino allora aveva evitato lo show down con un uomo. Anche lei un personaggio reale della società americana, frequente almeno quanto lo sono le cheer leaders liceali.

L’unica satira eseguita dal film sulla società americana consiste in questi due personaggi, perché veri. Ma lascio stabilire a voi quale sconvolgente e ultra graffiante satira, rivelatrice di chissà che, sia mai questa.

5) Ancora male intenzioni invece nei personaggi di Ricky e Jane. Ecco come si formano i criminali negli USA lascia supporre il film : Ricky vista la famiglia non ha necessità economiche ma diventa criminale ( comincia come spacciatore di spinelli poi farà carriera ) perché rovinato dalle psicosi del padre ; Jane allevata dal padre che ha è priva di guida morale e accetta tranquillamente un futuro da complice di Ricky, forse da criminale attiva anch’essa. Invece, la criminalità negli USA non viene dalle mele marce della classe media ma da quelle buone dei diseredati.

Riassumendo con il film si è fatto questo : a parte il soggetto della classe media, si è scelto di costruire dei personaggi che nella realtà americana esistono certamente ( ci sono dei Lester, dei Frank, eccetera ), che sono quindi verosimili, ma che sono anche estremamente rari e assolutamente non significativi, allo scopo preciso di poter veicolare certe falsità concettuali, falsità che sono oramai da considerare dei classici della propaganda USIA via Hollywood e che appartengono alla famosa serie di " Tutte le colpe americane a... ", della quale abbiamo appunto rivisto le puntate : 1) tutte le colpe delle Forze Armate a elementi come Frank ; 2) tutte le colpe dei licenziamenti a elementi come Lester ; 3) tutte le colpe della criminalità a elementi come Ricky. La propaganda quindi è nei personaggi stessi, nella trama.

Per quanto riguarda gli inserti propagandistici ne ho rilevato uno solo : vendendo marijuana a Lester Ricky dice che è un tipo speciale ottenuto geneticamente dal governo e che ha il pregio di non indurre la paranoia. La precisazione non è necessaria alla trama ; è gratuita ed ha un significato politico. E’ una denigrazione dei contestatori americani, degli hippies, più numerosi in passato ma ancora presenti, che trovano sempre intenzioni nascoste e cattive dietro le azioni del loro governo ; sono notori consumatori di marijuana ed ecco il motivo della loro dietrologia : è in realtà paranoia. Perché il governo USA ha compiuto sforzi per modificare geneticamente la marijuana, può chiedersi lo spettatore ? Appunto per togliergli tale difetto ; a fin di bene ( la marijuana induce davvero col tempo la paranoia ? Ma no ). E’ probabile che ci siano altri inserti, ma non sono riuscito a rilevarli probabilmente perché nascosti in dettagli della cui significatività politica non sono al corrente.

Il ruolo di Steven Spielberg e degli altri ebrei.

Qualcuno potrebbe osservare che il film è stato prodotto dalla Dreamworks, il cui proprietario è tale signor Steven Spielberg, e quanto sopra potrebbe essere farina del suo sacco : Spielberg infatti ha curato la regia di alcuni dei film americani più carichi di propaganda degli ultimi anni ( p.es. Saving Private Ryan ; Amistad ; Schindler’s List ). Si, Spielberg è uno dei massimi persuasori occulti di Hollywood, uno di quelli che meglio riescono a conciliare le esigenze di cassetta con quelle propagandistiche, ma non lo fa né di sua iniziativa né da solo. Perché dovrebbe ? Sarebbe una fatica in più. Lo fa perché è l’USIA a chiederglielo, come lo chiede a chiunque voglia lavorare a Hollywood, ad ognuno a seconda delle sue capacità e raggio di azione ; e lo fa assieme allo staff di esperti che gli affianca l’Agenzia. Magari Spielberg è anche personalmente d’accordo con tutto ciò, anzi lo è sicuramente visti i risultati brillanti, ma rimane il fatto che il contenuto ideologico di un film hollywoodiano ricade per legge nelle competenze dell’USIA, e ciò per l’atto costitutivo della medesima del 1° Agosto 1953, ratificato dal Congresso ( vedi il mio Divi di Stato, Ed. Il Settimo Sigillo, Roma, 1999 ).

Stessa risposta a chi sostiene una decisiva e perniciosa influenza degli ebrei nella cinematografia americana ed a questa attribuisce esiti come quelli appena visti. A Hollywood ci sono certamente moltissimi ebrei - anche Spielberg lo è - ma non comandano loro ; a Hollywood comanda l’USIA. Ciò che fanno gli ebrei di Hollywood è assecondare con particolare zelo la medesima allo scopo - al solito - di lucrare vantaggi. In ciò sono anche favoriti dall’obiettivo parallelismo esistente fra la mentalità ebraica e quella americana, che è giudaizzante ( gli americani sono in rilevante parte circoncisi, per esempio ). Nel realizzare questo film Spielberg, giusto in quanto ebreo, si è probabilmente presa questa sola libertà : potendo scegliere, ha fatto entrare un altro ebreo a Hollywood, il regista Sam Mendes. Si sa che gli ebrei si aiutano tra di loro, anzi solo tra di loro. Fra l’altro è il motivo dei tanti ebrei a Hollywood : sono stati fra i primi e uno ha tirato l’altro. Mendes è un regista teatrale inglese di 34 anni, ebreo probabilmente di ascendenza portoghese, che si è messo in luce con un remake di Cabaret e con The Blue Moon, buon successo londinese poi replicato a Broadway con Nicole Kidman : Spielberg lo ha notato, sa che l’USIA sta cercando nuovi Registi di Stato ( vedi il ripescaggio di Terence Malik con La sottile linea rossa ) e lo ha preso a bordo. En passant Spielberg ha dato una mano anche all’attore ebreo Scott Pakula ( serie televisiva Quantum Leap ), probabilmente bisognoso, affidandogli una comparsata all’inizio del film ( ma forse in versioni distribuite in altri mercati Pakula appare ancora ).

Il film come film.

Per quanto riguarda una valutazione puramente filmica del lavoro, non è il mio mestiere. Posso dire le mie impressioni se interessano, che sono queste. Un film di maniera come pochi, un vero prodotto industriale ottenuto miscelando ingredienti standard in base a una ricetta ; fra poco anche McDonald’s si metterà a fare film del genere. A parte le necessità della propaganda, una galleria di personaggi che sono puri stereotipi senza un grammo di originalità, di vera anima ( Carolyn la moglie perbenista, Lester il criptoribelle, Jane l’adolescente ingrugnita, Angela la lolita, Ricky il giovane bruciato, eccetera ), descritti attraverso sintomi ricavabili dal più elementare manuale di psicologia ( cene al lume di candela per Carolyn, spinelli per Lester, complesso del seno piccolo per Jane, eccetera ). Si è cercato un elemento subliminale capace di fare da sottofondo al film, per cucirlo nel subconscio dello spettatore, e lo si è trovato nelle rose American Beauty, che sono di un rosso sangue molto carico : le coltiva Carolyn ; nelle fantasie di Lester Angela nuda è sempre circondata di loro petali ; lo sparo omicida di Frank fa comparire sullo schermo un turbine dei medesimi al rallentatore ; il capo di Lester lascia sul tavolo un lago di sangue dello stesso colore, come un petalo enorme. Idea carina ma non è molto, e chissà se è di Mendes e non della volpe Spielberg o magari di uno psicanalista dell’USIA. In complesso un film non brutto, non insopportabile - è appunto un prodotto industriale - ma neanche che valga la pena di vedere a pagamento.

Nonostante ciò la sala in cui l’ho visto ai primi di febbraio era piena e mi sono chiesto il perché. Risposta immediata : l’orrenda macchina pubblicitaria di Hollywood, che in Italia è assecondata dal governo fantoccio locale. Ogni nuovo film americano qui è altrettanta Buona Novella : abbiamo tanti articoli di quotidiani, di settimanali, di mensili ; tanti ricchi servizi su locandine e riviste specializzate ; e soprattutto tante notizie nei telegiornali di Stato e di Berlusconi, annunciate da mezzibusti giubilanti. In queste immancabilmente si informa dei guadagni iperbolici già realizzati dal suddetto film nella sua uscita americana e magari si mostrano immagini di file ai botteghini ( informazioni e immagini la cui attendibilità è dubbia dato che provengono da Hollywood ). American Beauty è stato infilato anche nelle parole crociate : il paginone centrale con la " Caccia ai quattro " della Domenica Quiz del 6 febbraio 2000 era dedicato proprio al medesimo. Il gioco è fatto : come al cane di Pavlov agli italiani è venuta la bava dal desiderio di vedere il nuovo film.

Pettegolezzi di viaggiatore.

Termino con dei commenti da turista su alcuni aspetti della vita americana che capita di vedere nel film. Le villette americane sono effettivamente così, graziosissime a vedersi, da fiaba addirittura ; ma sono fatte di legno e cartone pressato, ottenute intelaiando pali squadrati da 10X10cm in verticale e in orizzontale e inchiodandoci sopra col martello pannelli prefabbricati ; i solai sono assiti coperti di moquette e i tetti sono di bitume pitturato a tegole ; eventuali ornamenti sono in gesso, stucco, PVC. Si erigono in non più di due settimane, non durano più di 30 anni e un uragano che in Italia farebbe pochi danni le distrugge completamente ; inoltre si riempiono di insetti ( donde il topos americano dei roaches, scarafaggi ) e sono soggette a incendi. I bagni non hanno bidet, per quanto pretenzioso sia il villone ; l’accessorio è praticamente sconosciuto negli USA ( da cui il pratico consiglio : intimità solo con americane appena uscite dalla doccia, anche se sono rinomatissime star ). Perché quando Jane si spoglia non chiude le imposte ? Perché queste case hanno imposte finte, inchiodate ai lati dell’apertura ( sono lamiere di alluminio preverniciate e stampate alla pressa ). Le cenette di Carolyn al lume di candela sembrano il massimo del lusso, ma pensate a quello che c’è nei piatti, pannocchie abbrustolite, purè, uova fritte, wurstel bolliti, eccetera. Carolyn e Buddy sono dei real estate dealers  ( mediatori immobiliari ) ; sembra un lavoro decente, ma sono tutti dei truffatori, come i used car dealers ( commercianti di auto usate ). In America il fuori è bello e il dentro è brutto.

John Kleeves

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25.01 Qualcuno deve fare un pezzo sul Giorno della Memoria?


Come al solito cerchiamo di darvi una mano (da ilbarbieredellasera.com)

Il 27 gennaio 1945 l'Armata Rossa entrava nel Lager di Auschwitz-Birkenau Monowitz, il maggiore campo dell'"arcipelago dello sterminio" costruito dal Terzo Reich per la "soluzione finale della questione ebraica" decisa dagli uomini di Hitler alla Conferenza del Wannsee.

Da allora quella data è stata consacrata al ricordo della Shoah, il massacro di sei milioni di ebrei perpretrato dai nazisti e dai fascisti in Europa.

Dall'anno scorso anche l'Italia ha deciso di ricordare ogni anno le vittime della Shoah, del nazifascismo e di tutti i totalitarismi.

Questa webguide, per quanto limitata, vuole essere un modestissimo contributo al ricordo delle vittime della Shoah e di tutti i genocidi per non dimenticare la Storia e i suoi orrori, nella consapevolezza che chi dimentica il suo passato rischia di doverlo rivivere, secondo le parole di Primo Levi: "Meditate che questo è stato".

http://www.ucei.it/giornodellamemoria/index_a.htm

Sul sito dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane la pagina dedicata al Giorno della Memoria con il calendario di tutte le manifestazioni previste

http://www.yad-vashem.org.il/

Il museo Yad Vashem di Gerusalemme dedicato al ricordo perenne della Shoah (testi in Inglese): la più grande, organica e terribile raccolta delle testimonianze dello sterminio.

http://www.yad-vashem.org.il/righteous/index_righteous.html

Dal sito di Yad Vashem la sezione sui Giusti tra le Nazioni, uomini e donne che non esitarono a mettere a rischio la propria vita (e talvolta la persero) per difendere e salvare gli ebrei dai persecutori nazisti durante la Shoah (tra essi il tedesco Oskar Schindler e l'italiano Giorgio Perlasca)

http://212.143.122.31/exhibitions/temporary_exhibitions/visas/home_visas.html

Dal sito di Yad Vashem la sezione "Visti per la vita", storie di diplomatici (o di chi si spacciò per tale) che salvarono migliaia di ebrei dallo sterminio: tra queste la vicenda dell'italiano Giorgio Perlasca

http://www.ushmm.org/

Il Museo memoriale della Shoah degli Stati Uniti a Washington D.C.

http://www.nizkor.org/

Il sito del Progetto Nizkor sulla memoria delle sei milioni di vittime dello sterminio nazifascista (in Inglese)

http://www.educational.rai.it/testimonianzedailager/

Dal sito di Rai Educational il meglio del programma "Testimonianze dai Lager": video, trascrizione integrale delle interviste dei sopravvissuti, documentazione e una gran lista di siti

http://www.olokaustos.org/

Olokaustos.org è il primo sito italiano che ha come argomento la storia dell'Olocausto dal 1933 al 1945.

http://www.giorgioperlasca.it/index2.htm

Il sito Internet dedicato alla memoria di Giorgio Perlasca

http://www.deportati.it/

Il sito dell'Aned- Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti

http://www.deportati.it/reticolo.htm

La webguide sul sito dell'Aned: link ai principali siti sulla Shoah, la deportazione e "l'universo concentrazionario"

http://www.auschwitz-muzeum.oswiecim.pl/html/eng/start/index.html

Il sito della Memoria del Lager di Auschwitz (testi in Inglese)

http://www.cc-memorial-site-dachau.org/gedenkstaette/english/index.html

Il sito della Memoria del Lager di Dachau (testi in Inglese)

http://www.mauthausen-memorial.gv.at/engl/

Il sito della Memoria del Lager di Mauthausen (testi in Inglese)

http://linz.orf.at/orf/gusen/index.htm

Il sito della Memoria del Lager di Gusen

http://www.buchenwald.de

Il sito della Memoria del Lager di Buchenwald (testi in Inglese)

http://www.hamburg.de/Neuengamme/welcome.en.html

Il sito della Memoria del Lager di Neuengamme (testi in Inglese)

http://www.windcloak.it/cultura/risiera/laris.htm

Il sito della Risera di San Sabba a Trieste, unico campo di sterminio realizzato dai nazistifascisti in Italia

http://web.tiscali.it/gliebreiacampagna/

Sito Internet sul campo di concentramento di Campagna (Salerno)

http://www.annefrank.nl/ned/default2.html

Il sito Internet della Fondazione Casa di Anne Frank (in Inglese)

http://www.vhf.org/

Il sito Internet della Fondazione per una storia visuale dei sopravvissuti della Shoah, creata da Steven Spielberg nel 1994 dopo la realizzazione del film "Schindler's List" (testi in Inglese)

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/travels/documents/hf_jp-ii_spe_20000323_yad-vashem-mausoleum_it.html

Dal sito Internet del Vaticano il discorso pronunciato da Papa Giovanni Paolo II durante la visita al Mausoleo di Yad Vashem a Gerusalemme il 23 marzo 2000

www.ilbarbieredellasera.com

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25.01

Internet e terrorismo: la tecnologia, nuovo rischio per la democrazia?


di Francesca Morandi- "La Padania" del 20 gennaio2002

Telefonini, Internet e televisione nelle mani dei terroristi sono diventati
veri e propri strumenti di guerra. Usati per condurre attentati, diffondere
la propria propaganda estremista, coordinare insieme ad altri gruppi le
proprie attività criminali, distribuire manuali online della jihad, ... i
media della new economy sono stati strappati dalle mani dell’Occidente e
trasformati in armi da puntare contro gli infedeli. Si pensi a Bin Laden e i
suoi video-proclama trasmessi da Al-Jazeera, i telefoni portatili ritrovati
nelle tane dei membri di Al Qaida, le videocassette provenienti dai campi di
addestramento talebani vendute nel Centro di Viale Jenner, nascoste negli
appartamenti a Gallarate dei vari affiliati di Osama. E non è finita, i
seguaci dello sceicco del terrore hanno pensato bene di curiosare tra i siti
web di Cia e Fbi per trarne qualche astuzia, e scaricare da altri spazi
virtuali qualche succulenta ricetta per costruire bombe artigianali e armi
improvvisate. Se da un lato le nuove tecnologie sono trasformate in utensili
del terrorismo, dall’altro lato la loro diffusione nei Paesi islamici può
avere effetti sulle società e sui sistemi politici del mondo arabo. Mondo
caratterizzato dall’assenza di giornali e periodici non controllati dal
governo, dove la libertà di stampa è negata e numerosi giornalisti e
scrittori sono incarcerati, in alcuni casi uccisi, per accuse false che
hanno occultato il desiderio di informazione e di espressione. La rete
telematica, per sua natura senza centro e dunque difficilmente
controllabile, virtualmente aperta a tutti, rappresenta un’opportunità di
democrazia e progresso per tutti i Paesi in via di sviluppo non solo dal
punto di vista dell’informazione ma anche dell’economia (e-commerce, servizi
online). Questo molti l’hanno capito. La vendita dei personal computer nei
Paesi del Medio Oriente e nel Nord Africa è in rapido aumento, così come la
diffusione degli Internet café. Questi ultimi hanno avuto, ad esempio, una
vera e propria esplosione in Iran e sono frequentati soprattutto da giovani
che usano la rete per uscire dall’isolamento e avere contatti con il mondo
esterno. Risulta chiaro che il fenomeno potrebbe aprire una breccia nell’
oscurantismo a cui molte popolazioni islamiche sono costrette. Ma d’altro
canto le autorità, ossessionate dal timore che il libero accesso all’
informazione da parte dei cittadini possa indebolire il loro potere e
controllo sul Paese, allungano i propri tentacoli anche alla realtà virtuale
alla quale è imposta la censura, la manipolazione, la sorveglianza
dittatoriale. Ci si chiede allora se venga prima la tecnologia e poi la
democrazia o viceversa.
 

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25.01

La società multietnica minaccia il focolare


I nuclei familiari saranno vittima dei conflitti razziali e religiosi causati dal “melting pot”

"La Padania" del 18 gennaio 2002

Improvvisamente, dopo anni di oblio, ci si accorge della famiglia. Per
troppo tempo l’attenzione è stata rivolta alla famiglia “alternativa” e
persino a quella “omosessuale” con annessa facoltà di adottare bambini. In
alcune scuole di New York s’è visto, come libro di testo, un istruttivo
saggio intitolato “Il compagno di letto di papà”. Grazie a certa
letteratura, come tutti sappiamo, pornografia e pedofilia sono entrate nella
vita quotidiana. E, grazie alla tv, l’esaltazione del crimine e della
violenza ha contaminato le menti e la fantasia dei più piccoli. E adesso
vorremmo recuperare il concetto di famiglia. Bene. Ma allora cerchiamo di
tenere lo stato lontano dalla famiglia: il declino della famiglia ebbe
inizio, non dimentichiamolo, quando il marxismo predicò che lo stato può
meglio dei genitori aver cura della prole. Nell’Urss, in Cina, in Vietnam, a
Cuba e perfino in nazioni non comuniste come la Grecia, si giunse in pratica
a “sequestrare” i bambini perché dimenticassero i genitori e si tuffassero
nell’indottrinamento di partito. I primi segnali di questo attacco alla
famiglia s’erano avuti quando, immediatamente dopo la rivoluzione
bolscevica, un gruppo di studiosi marxisti (diretti dal miliardario Felix
Weil e comprendenti Gyorgy Lukacs, Herbert Marcuse, Karl Grunberg, Theodor
Adorno, Max Horkheimer ed Eric Fromm) fondò la Frankfurt School (poi
emigrata negli Stati Uniti col nome di Institute for Social Research) che
aveva l’ambizione di sovvertire le tradizioni occidentali trasferendo i
princìpi marxisti dal campo dell’economia a quello della morale. Quando
tramontò l’impero comunista l’opera di dissoluzione della famiglia venne
proseguita dalla moda libertario-radicale. Nel settembre 1994, al Cairo, una
conferenza mondiale sui problemi demografici accennò ai figli solo per
raccomandare la diffusione delle pratiche anticoncezionali, per raccomandare
che l’istruzione fosse pubblica e non privata (discorso, questo, ricalcato
in questi giorni dalla sinistra italiana) e, venendo al sodo, per auspicare
un «maggior flusso di ricchezza dai paesi ricchi a quelli poveri». Un
commento del Wall Street Journal era lapidario: «Unico, vero scopo della
conferenza del Cairo era quello di succhiare altri soldi al mondo
occidentale, a vantaggio del Terzo Mondo». Con le nuove generazioni ormai
indifferenti al concetto stesso di famiglia, il compito di chi vuole
recuperare il terreno perduto si presenta arduo. Anche perché la situazione
rischia di peggiorare a causa dell’afflusso in Europa di immigranti islamici
che, con secoli di poligamia alle spalle, non sanno cosa siano la fedeltà
coniugale e la consapevole programmazione della vita familiare. E’ proprio
nella comunità di colore che, sia negli Stati Uniti che in Europa, il
fenomeno delle “unioni di fatto” (destinate a sciogliersi con conseguente
abbandono dei figli a un incerto destino), unito a quello delle “ragazze
madri”, è in crescita vertiginosa. Come è stato osservato nel 1999 dallo
studioso francese Claude Imbert, esiste in Europa un diretto collegamento
fra l’immigrazione e il decadere delle nostre regole morali e delle nostre
tradizioni, a cominciare da quella familiare. Nessuno osa dirlo, ma il
declino della famiglia è legato alla questione etnica. Ma ciò nonostante le
strutture dell’Unione Europea, come in una frenesia di autodistruzione,
fingono di ignorare quanto la cultura islamica e quelle di molte etnie
africane siano diverse dalla nostra. Così il multiculturalismo, presentato
dalla lobby progressista di Bruxelles come l’inevitabile, e per alcuni
auspicato, futuro della nostra civiltà, costituisce in realtà il più
drammatico problema che l’Europa dovrà affrontare. Si pensi alle famiglie di
fatto e a quelle poligame, al nuovo concetto di nucleo familiare, alle
ragazze madri, al crescente fenomeno dell’abbandono dei figli indesiderati,
alla vergogna delle mutilazioni femminili: quali riflessi tutto ciò potrà
avere sulla civile coesistenza, sull’istruzione, sull’assistenza sanitaria e
previdenziale, sulla legge? La società europea dei prossimi decenni sarà
sconvolta da spaventosi conflitti razziali e religiosi dei quali la
famiglia, la morale e le regole di vita saranno le prime vittime. E ciò
grazie al mito di un falso solidarismo oggi sbandierato da una generazione
che sa di essere al sicuro dalle conseguenze che fra qualche decennio
colpiranno altre generazioni.

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25.01 AUTANT-LARA, REGISTA COL DIAVOLO IN CORPO CHE ODIO' HOLLYWOOD

Nel febbraio dello scorso anno è morto Claude Autant-Lara, uno dei più significativi rappresentanti del grande cinema francese. La sua vita lunga un secolo ne ha fatto l'interprete di laceranti contraddizioni. Comunista e fascista, libertario e antisemita, innovatore e tradizionalista: costante solo in un europeismo irriducibilmente avverso agli Stati Uniti d'America. Lì si era rifugiato nel 1932 nella speranza di rifarsi delle incomprensioni patite in patria. I due anni trascorsi a Hollywood, dove si occupò della edizione francese di film americani, accrebbero - invece che lenirla - la sua ansietà. Confermava così, a sua insaputa, quel che Orazio aveva previsto in una sua epistola: "… cambiano cielo non animo coloro che trascorrono i mari…". Ciò che cerchi, ammoniva, è dentro di te… Dentro di sé Autant-Lara aveva la rabbia che lo accompagnò per tutta la vita.
Maurizio Cabona, attento ed esperto cultore della poetica cinematografica e della sua storia, ha raccolto in un prezioso libretto (Il caso Autant-Lara) tre testimonianze di sceneggiatori e critici - Altieri, Marmin e Tassone - , facendole precedere da una sua esauriente introduzione. Cabona colloca la nascita di un nuovo cinema francese durante l'occupazione tedesca, così come può dirsi di un nuovo cinema italiano. Questo aveva avuto alcune anticipazioni del neorealismo ancora prima dello scoppio della guerra; lo stesso poteva dire l'altro del realismo. Si può perciò parlare di uno sviluppo parallelo delle due cinematografie, ciascuna per la sua strada secondo la distinzione che ha caratterizzato le due culture nazionali.
L'occasione che fece di Autant-Lara l'iniziatore di un nuovo grande cinema francese gli fu offerta dalla emigrazione di suoi illustri colleghi rifugiatisi ad Hollywood per sottrarsi all'invasione nazista. Egli restò in patria per il pessimo ricordo che aveva della sua esperienza americana, ma forse soprattutto per ubbidire al suo irriducibile spirito di contraddizione. Fu così che negli anni seguenti Autant-Lara venne ingiustamente considerato come collaborazionista. Vittorio De Sica, che aveva diretto un film (La porta del cielo) a Roma nei mesi dell'occupazione tedesca, si salvò dalla stessa accusa per essersi messo sotto l'ala protettiva del Vaticano, "scudo" di cui il francese non poteva disporre.
Il suo "collaborazionismo" fu rafforzato da una sua professione di antisemitismo, sconcertante ma da non potersi definire nazista perché ispirato dal suo rancore contro i produttori, tutti ebrei, che lo avevano contrastato. Tale cattiva reputazione gli ritardò il meritevole riconoscimento di grande autore cinematografico.
Cabona registra l'insuccesso de Il diavolo in corpo dovuto a un pregiudizio politico e psicologico. A Parigi il film suscitò scandalo nonostante avesse ottenuto il premio della critica internazionale. La provincia si ribellò al "cinismo rivoltante del film, alla sua esaltazione dell'adulterio che metteva in ridicolo la Famiglia, la Croce Rossa e l'Esercito". Lo difesero Jean Cocteau e il grande critico Georges Sadoul che lo giudicò "uno dei film più importanti del dopo guerra".
Incontrai personalmente Autant-Lara durante la realizzazione de I sette peccati capitali, del quale ero coproduttore, a cui prendevano parte illustri registi italiani e francesi, da Rossellini, ad Allegret, da De Filippo a Dreville e la cui liaison era affidata a Gérad Philipe. Autant-Lara diresse l'episodio La superbia su sceneggiatura di Aurenche e Bost; in quella occasione ebbi modo di apprezzare da vicino la sua grande capacità di sintesi e la sua crudeltà senza speranza. Egli si trovava a metà strada tra i suoi capolavori: Il diavolo in corpo (1946) e La traversata di Parigi (1956).
Lo scandalo più clamoroso, che lo travolse fino a decretare il suo triste isolamento definitivo, gli fu procurato dalla sua adesione al Fronte Nazionale, il movimento di estrema destra guidato da Le Pen. Eletto a rappresentarlo al Parlamento europeo pronunciò il discorso d'apertura (Strasburgo 1989) il cui testo Cabona pubblica in appendice. Alle sue parole provocatorie, comunisti, socialisti, liberali e moderati lasciarono l'aula in segno di sdegnata protesta. Lo stupefacente comportamento dell'ex-anarchico, dell'ex-comunista, dell'ex-apostolo dell'estrema sinistra era dettato dal suo viscerale antiamericanismo, a favore di un europeismo che tuttavia considerava ancora inesistente.
Detto così, il ritratto di Autant-Lara, ricostruito con esemplare rigore da Maurizio Cabona, sembrerebbe quello di un pazzo anche se degno dell'elogio di Erasmo da Rotterdam. In realtà, come dicevo all'inizio, il famoso regista condensò, sia pure con una componente umorale, tutte le clamorose ambiguità contrastanti del secolo appena trascorso. Per questo l'opera di Cabona contribuisce a fornire una chiave di lettura del nostro tempo e quindi di noi stessi.

Turi Vasile
(Il Tempo - Roma)

Maurizio Cabona - "Il Caso Autant-Lara"
Terziaria Quaderni 7
I edizione maggio 2001

 

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24.01 GRANELLO DI SABBIA (n°29)


Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
Martedì, 22-01-2002

Per leggere il Granello più comodamente e per stamparlo su carta
Format RTF http://attac.org/attacinfoit/attacinfo29.zip
Format PDF http://attac.org/attacinfoit/attacinfo29.pdf

Indice degli argomenti

1 - Aggressione al centro accoglienza per minori extracomunitari di Nettuno
Di ritorno da Bologna, dopo l'assemblea congressuale di ATTAC, il mio
compagno mi ha informato al cellulare dell'aggressione compiuta da una banda
di ragazzi al centro di accoglienza per minori extracomunitari della mia
cittadina, Nettuno, 60 Km. a sud di Roma, poco più di 40.000 abitanti. (.)
di Patrizia Rosa Rosa

2 - Il Girotondo internazionale dell'informazione indipendente
Contro il giornalismo di mercato, l'informazione condivisa. Riunire quelli
che resistono al pensiero unico, per organizzare la migiore copertura del II
FSM. È probabile che la necessità di costruire alternative al giornalismo di
mercato non sia mai stata tanto drammatica come ora, alla vigilia del
secondo Forum sociale mondiale. Vista da molte generazioni come uno
strumento per approfondire la democrazia, informare la società e contribuire
all'emancipazione dei cittadini, la stampa si è trasformata, dall'inizio
della nuova guerra imperiale, in un'arma di alienazione impugnata dal
potere. (.) www.ciranda.net

3 - 1,2,3 (marzo) in marcia per la pace da Genova a La Spezia
Siamo di fronte ad un nuovo e più aggressivo modello di società, che vede
nella guerra una modalità di regolazione dei rapporti internazionali ed un
motore di sviluppo occupazionale ed economico. In questo contesto, per la
terza volta in dieci anni, l'Italia è coinvolta direttamente in una guerra
(.) riceviamo da Edoardo Baraldi di ATTAC Tigullio

4 - Debito eterno, il gioco della realtà
"Deuda eterna" è un nuovo gioco argentino in lingua spagnola, che si
presenta con il provocatorio sottotitolo: "Chi è capace di sconfiggere il
Fondo monetario internazionale?". Più che un gioco, Deuda eterna (debito
eterno) è satira pungente che ha senza dubbio lo scopo di consolare lo
sfiduciato settore privato argentino, che negli ultimi anni è stato messo a
dura prova dal FMI. (.) di Mary Anastasia O'Grady

5 - Mors lucina. In ricordo di Luciano Parinetto
La sera del 22 dicembre scorso è morto Luciano Parinetto. Aveva 67 anni e
alle spalle una vita dedicata allo studio e alla ricerca filosofica. Era un
eretico a cui non ha fatto mai paura rileggere Marx in chiave rivoluzionaria
e innovativa né quando era imperante l¹ortodossia marxista né quando, negli
anni del riflusso, nominare Marx era diventato tabù. (.) di Nicoletta
Poidimani

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24.01 Per un'informazione indipendente

Il Girotondo internazionale dell'informazione indipendente

Contro il giornalismo di mercato, l'informazione condivisa. Riunire quelli
che resistono al pensiero unico, per organizzare la migiore copertura del II
FSM

È probabile che la necessità di costruire alternative al giornalismo di
mercato non sia mai stata tanto drammatica come ora, alla vigilia del
secondo Forum sociale mondiale. Vista da molte generazioni come uno
strumento per approfondire la democrazia, informare la società e contribuire
all'emancipazione dei cittadini, la stampa si è trasformata, dall'inizio
della nuova guerra imperiale, in un'arma di alienazione impugnata dal
potere. In quasi tutto il mondo, i notiziari televisivi e i giornali
accettano la censura militare, tacciono sulle violazioni dei diritti umani
[specialmente contro gli immigrati] negli Usa, minimizzano fatti come la
creazione di commissioni militari statunitensi autorizzate a decretare, in
qualunque parte del pianeta, la morte degli avversari, presentano come
qualcosa di banale i preparativi della Casa bianca per estendere la guerra
ad altri paesi; si inchinano davanti ai piani ben visibili per rafforzare
[nella Wto, nell'Alca, nell'Unione europea] un modello che concentra le
ricchezze e moltiplica le esclusioni; assimilano senza battere ciglio il
tentativo di criminalizzare i movimenti che resistono.

Migliaia di cittadini di tutto il mondo, che si preparano a viaggiare verso
Porto Alegre, sperano che il secondo Forum sociale mondiale sia capace di
articolare la resistenza a questa controffensiva. Sul terreno della
comunicazione, gli ultimi anni sono stati caratterizzati, tra l'altro, dalla
moltiplicazione dei sistemi di informazione indipendente e dall'uso che essi
hanno fatto di Internet. In due momenti speciali - il primo Forum sociale
mondiale e il Forum sociale di Genova, nel luglio di quest'anno - questa
ebollizione ha assunto una nuova forma. È stato in quei momenti che sono
nate grandi reti di pubblicazioni indipendenti, capaci di diffondere in
tempo reale, in diverse lingue e per tutto il mondo, l'informazione
affidabile che i media commerciali si ostinavano a negare. Tra il 31 gennaio
e il 5 di febbraio del 2002, questa fiamma si accenderà di nuovo. Nascerà la
Seconda Ciranda internazionale di informazione indipendente.

La II Ciranda è una iniziativa lanciata dai siti
www.forumsocialmundial.org.br (dove troverete tutta l´informazione
instituzionale sul II Foro Sociale Mondiale) e di www.portoalegre2002.net
(una piataforma per discutere sulla globazzazione e le alternative ad essa).
La proposta è aperta a pubblicazioni e giornalisti che resistono al pensiero
unico e sono disposti a costruire una stampa capace di partecipare, sul
terreno decisivo della comunicazione, alla battaglia per la trasformazione
della società. Non si esaurisce nel Forum: può essere l'inizio di uno sforzo
permanente per articolare, in tutto il mondo, le iniziative legate al
giornalismo indipendente.

La seconda Ciranda sarà un pool di giornalisti [redattori, fotografi,
operatori radio e tv] accreditati al secondo II FSM, disposti a inviare
materiale per le loro pubblicazioni da Porto Alegre, serviti da un sito in
cui il loro lavoro sarà immediatamente inserito e disposti a condividere la
loro produzione con gli altri partecipanti all'iniziativa. La Ciranda
realizzerà, nei giorni del Forum, una delle proposte più diffuse del
dibattito sulle alternative al neoliberismo: il sapere e l'informazione sono
beni comuni di tutta l'umanità, per questo, non possono essere trasformati
in merci. Per dimostrare che questa frase è più che un insieme di belle
parole, ci proponiamo una sfida: offrire una copertura molto più ampia,
profonda e veritiera di qualunque veicolo di comunicazione commerciale
presente al FSM.

Per raggiungere questo obiettivo, la II Ciranda porterà nel giornalismo il
concetto che ha permesso la fioritura negli ultimi anni, del software
libero: il copyleft. Oltre al gioco di parole, è un'alternativa che sta
dando ottima prova di sé. Per contrastare il potere delle grandi
multinazionali che vogliono controllare l'informazione, non c'è nulla di
meglio che il sapere condiviso. Un gruppo di programmatori o di giornalisti
indipendenti, può essere più capace - e molto più creativo - dello staff di
una megaimpresa di giornalismo o di produzione di programmi per computer.
Per questo, è necessario che siano autonomi e disposti a lavorare con un
obiettivo comune.

In termini pratici, la II Ciranda consentirà alle pubblicazioni e ai centri
di documentazione indipendente o legati ai movimenti sociali, di coprire
completamente il Forum Sociale Mondiale. Per le sue condizioni materiali,
ciascuno di questi organi potrà essere a Porto Alegre solo mezzi limitati. E
la stessa grandezza dell'evento determinerebbe il fallimento di qualsiasi
team giornalistico, se lavorasse isolato. Il programma del secondo FSM
prevede almeno sei seminari contemporanei ogni mattina e non meno di 800
conferenze serali, nei giorni tra l'1 e il 4 febbraio. E ci saranno, oltre a
tutto questo, manifestazioni costanti e dibattiti in altri punti della
città.

E intanto, saranno centinaia le pubblicazioni indipendenti... Come indica il
nome stesso, l'idea della II Ciranda, è unire in un'immensa ruota il lavoro
fatto da tutti durante il Forum sociale mondiale. Ogni pubblicazione avrà
piena autonomia nel lavoro e nella produzione di testi e foto, secondo i
propri obiettivi editoriali. Ma potrà, oltre a questo, riprodurre i testi di
tutti gli altri, senza dover pagare nulla. In cambio offrirà i lavori dei
propri giornalisti perché siano riprodotti nelle pubblicazioni che
aderiscono alla Ciranda. In ogni caso, sarà rispettato e menzionato il nome
dell'autore.

La II Ciranda nasce forte. Si basa sull´esperienza della Ciranda 2001, che
riuni decene di giornalisti del I Foro Sociale Mondiale. È in costruzione un
nuovo sito per tenere assieme la mole di materiali, programmi radiofonici e
foto prodotte dalle pubblicazioni legate alla Ciranda. Sarà una fonte
indispensabile di consultazione per le migliaia di persone interessate in
tutto il mondo ad avere accesso ai resoconti del II FSM, fatti dalla stampa
indipendente. Inoltre, servirà come punto di riferimento per i giornalisti
presenti a Porto Alegre, che fanno parte dell'iniziativa e che sono
interessati a utilizzare gli articoli prodotti dagli altri colleghi. Il
nuovo sito sarà alimentato attraverso il programma Publique! sviluppato da
Fabbrica Digitale, un'impresa brasiliana nata nel Laboratorio di informatica
dell'Università cattolica di Rio de Janeiro, è uno strumento eccellente per
aggiornare in tempo reale le pagine Internet. Per usarlo non è necessaria
una specifica competenza informatica: basta saper navigare nella rete
mondiale e partecipare a un seminario che non richiede più di due ore.

La II Ciranda è un'iniziativa aperta a tutti quelli che credono nella forza
della stampa indipendente. Per unirsi ad essa bastano due passi. Innanzi
tutto bisogna registrarsi nella pagina ufficiale del secondo Forum sociale
mondiale <http://inscricoes.forumsocialmundial.org.br/
content/index.php?page=imprensa> come giornalista interessato a coprire
l'evento. Poi, basta iscriversi come partecipante alla seconda Ciranda,
utilizzando il modello disponibile tra il sito della Ciranda
(http://www.ciranda.net/publique/media/0italiano/form.htm). Lì sarà
possibile anche trovare le informazioni sulle riunioni di preparazione per
il lavoro e sui corsi per l'uso del Publique! che saranno organizzate a
Porto Alegre nei giorni precedenti l'inizio del Forum.

Il secondo Forum sociale non vuole essere un punto di arrivo, ma l'inizio di
un lungo processo di avvicinamento, tra tutti quelli che resistono al Nuovo
Ordine, e di ricerca collettiva di alternative. La II Ciranda può essere
anche il primo passo per un'unione più solida tra le centinaia di
pubblicazioni e di agenzie di informazione che cercano, in tutto il mondo,
di contrastare la dittatura dei media, rifondando il giornalismo critico.

GRANELLO DI SABBIA (n°29)
Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
Martedì, 22-01-2002

Attac Italia www.attac.org


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24.01 Le spie di Tel Aviv

Lo spionaggio di Israele

Da E.I.R (Executive Intelligence Revue) anno 10, n.51 20 dicembre 2001.

(...)

"Ora, a tre mesi di distanza, Sharon e i militari israeliani procedono a
passo spedito verso la guerra. In questo contesto si collocano alcune
rivelazioni esplosive sul conto delle unità dello spionaggio israeliano
attive negli USA alla vigilia dei misfatti dell'11 settembre. Poiché le
rivelazioni provengono da una rete televisiva affermata come la Fox News, e
sono poi state riprese dalla Associated Press e da CHANNEL 11 di Houston ed
altri, va ritenuto che dietro vi siano forze abbastanza istituzionali
impegnate a bloccare la corsa verso la guerra in Medio Oriente.

In quel fatidico 11 settembre furono arrestate cinque spie israeliane, poi
estradate. Stavano tutt'e cinque su di un tetto di Hoboken, e guardavano
oltre il fiume Hudson, in direzione delle Torri Gemelle. Qualcuno ha
chiamato la polizia ed è risultato che i cinque facevano parte delle forze
armate israeliane e che avevano lavorato per una impresa di trasporti. I
cinque, i cui visti erano scaduti, si sono rifiutati di dire di più.


Gli israeliani arrestati nelle retate successive all'11 settembre sono in
tutto una sessantina. La Fox News riferiva l'11 dicembre che, sottoposti al
test della "macchina della verità", alcuni di questi arrestati hanno
mentito.

"Non ci sono indizi di una partecipazione israeliana negli attacchi dell'11
settembre; purtuttavia, gli investigatori sospettano che essi abbiano
raccolto informazioni in anticipo attinenti a quei fatti, ma non le hanno
riferite" alle autorità USA, ha detto Carl Cameron della Fox News. Le
autorità americane hanno detto a Cameron che il silenzio è d'obbligo in
questa fase dell'inchiesta, mentre i portavoce dell'ambasciata israeliana
non ammettono niente di niente in merito allo spionaggio negli USA. Cameron
ha continuato:

"Ma Fox News ha appreso che un gruppo di israeliani da poco individuato nel
North Carolina si serviva di un appartamento in California per spiare un
gruppo di arabi che le autorità statunitensi tengono sotto osservazione
perché sospettati di collegamenti con il terrorismo.

"La Fox News ha raccolto documenti che indicano come anche prima dell'11
settembre almeno 140 altri israeliani siano stati arrestati nel corso di
complesse indagini molto riservate sullo spionaggio israeliano negli USA."

I sospetti si appuntano su studenti dell'Università di Gerusalemme o
dell'Accademia Bezalel: "I documenti mostrano che [gli israeliani] si sono
concentrati nella penetrazione di basi militari, degli uffici della DEA,
della FBI, e di diversi uffici governativi e ci sono riusciti, entrando
persino in uffici segreti e abitazioni private appositamente non
registrate, assegnate al personale che svolge attività speciali".

Un'altra parte dell'inchiesta riguarda l'arresto di decine di spie
israeliane che operavano in strada, come venditori ambulanti. Cameron fa
inoltre riferimento ad altre indagini condotte dalla Corte dei Conti e dai
servizi militari (DIA) che definiscono le attività spionistiche israeliane
negli USA rispettivamente "aggressive" e "voraci".

Il 12 e 13 dicembre Cameron è tornato sull'argomento con la storia della
AMDOCS, impresa privata israeliana che opera nelle telecomunicazioni ed è
appaltatrice presso le venticinque principali imprese telefoniche
americane. Il tipo di servizio prestato le da accesso in tempo reale a gran
parte delle linee telefoniche del paese, con la possibilità di fare tutte
le intercettazioni telefoniche che vuole. Secondo la Fox TV, la AMDOCS è
finita più volte sotto inchiesta: FBI e altre forze di polizia l'hanno
ripetutamente sospettata di collegamenti con la mafia e di spionaggio.


Ci sarebbe poi un documento top secret della National Security Agency (NSA)
che nel 1999 spiegava come tutte le telefonate in America fossero
registrabili da parte di governi stranieri, in pratica quello israeliano.
Quando nel 1997 scoppiò lo scandalo "MEGA", riguardante la talpa israeliana
nell'amministrazione USA, AMDOCS fu accusata di aver intercettato le
telefonate tra il Presidente Clinton e Monica Lewinsky. La Fox TV
aggiungeva che il pericolo tutt'altro che remoto è che le informazioni
riservate siano anche accessibili al crimine organizzato israeliano: "Non
sarebbe la prima volta: nel 1997 si presentò un bel grattacapo quando le
comunicazioni di FBI, Servizi segreti, DEA e LAPD furono completamente
compromesse dal crimine organizzato israeliano che utilizzava i dati di cui
dispone la AMDOCS".

Il 13 dicembre la Fox ha parlato della Converse Infosys, un'altra impresa
high tech, sussidiaria di un'impresa israeliana, che con uffici in tutto il
territorio americano "fornisce attrezzature per le registrazioni
telefoniche alle forze dell'ordine". Gli enti preposti utilizzano il
software della Converse nei propri computer per individuare le telefonate
da intercettare e per lo smistamento delle registrazioni a seconda delle
competenze. La casa madre della Converse, che ha accesso a questi dati, è
tanto vicina al ministero dell'Industria e Commercio (di cui è stato
titolare Sharon) che il 50% delle sue spese di R&D sono a carico del
ministero.

Rompendo la prassi delle sue conferenze stampa, il 13 dicembre il
Segretario di Stato Powell ha concesso la prima domanda al corrispondente
dell'EIR. Interrogato in merito allo spionaggio israeliano negli USA,
Powell ha risposto di essere al corrente della storia degli arresti --
quindi confermandone la notizia -- ma di occuparsi solo dell'aspetto
diplomatico della questione, mentre per quanto riguarda l'aspetto
spionistico, ha detto, "la domanda deve essere rivolta al ministero di
Giustizia ed alla FBI".

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24.01 Perchè non c'è una politica estera dell'Europa?

L'egemonia americana sull'Europa  http://www.rinascita.net

Gli Stati Uniti non hanno delle colonie: nessun segno, sul mappamondo, marca
i limiti di un impero americano. Tuttavia gli Stati Uniti esercitano una
pressione costante che si manifesta, dappertutto, negli eventi materiali e
in ogni settore dell'attività del pensiero. Al giorno d'oggi sono poche, le
persone che parlano seriamente di "imperialismo americano". Quando ciò
accade lo si fa in una maniera molto vaga. Vengono usati degli slogans per
denunciare l'uno o l'altro aspetto della politica americana, ma il problema
non è mai posto nel suo insieme, in termini geopolitici: nessuno ammette che
per gli europei gli Usa rappresentano il principale nemico, anzi migliaia di
persone, in gran parte onestamente ed in buona fede, ancora sono
assoggettati ai miti del mondo libero", degli Stati Uniti come potenza
garante della libertà e della difesa, e così via. Gli Stati Uniti e gli
uomini politici da loro assoldati e che guidano le sorti dei Paesi
occidentali sono riusciti a dipingere a farsa una grande tragedia: dal di là
dell'oceano viene imposta ogni giorno di più la dominazione, e tutto viene
fatto passare quale aiuto generoso, quale "protezione contro il comunismo".
L'imperialismo americano è il nostro nemico principale. I suoi artigli sul
pianeta, e, da qualche giorno, sul cuore stesso dell'Europa, in Serbia,
lacerano la dignità nazionale di tutti i nostri popoli, da loro considerati
vassalli e schiavi. Il potenziale economico e militare degli Usa è
integrato, indissolubilmente integrato, con quello della Gran Bretagna e dei
loro camerieri economici ed ascari militari europei.

Ed è anche più forte grazie alla sua ipocrisia ed alla sua astuzia.
Economico, politico, militare o culturale, l'imperialismo americano è
onnipresente, piazza i suoi uomini di paglia in un posto (i colonnelli ed i
generali greci, Caramanlis, il "nuovo corso" del Portogallo, i Kabila (ora
anche il figlio) in Zaire), e complotta nell'altro (tutti gli attentati che
si sono susseguiti in Italia dal '69 hanno avuto una precisa matrice
americana) ed opera sanguinosi ribaltamenti politici (Juan ( 1955) e
Isabelita ( 1975) Peron, in Argentina, Diem in Vietnam, Allende in Cile...).
Per non parlare del le "operazioni" anti-Khomeini in Iran, anti-Gheddafi in
Libia, anti-Noriega a Panama, anti-Saddam in Iraq e anti-Milosevic in
Jugoslavia. Gli ideali della libertà e della democrazia sono stati sempre
estranei agli uomini che hanno presieduto la Casa Bianca. E  l'ulteriore
beffa è che le azioni più sanguinarie, le guerre, le devastazioni del
pianeta sono state operate da presidenti americani cosiddetti "liberal" e
"democratici". Da Wilson a Roosevelt, da Kennedy a Bush, a Clinton e ora a
Bush Jr.

Il declino di un continente

Una data marca il declino dell'Europa: il 1941. In quell'anno Roosevelt
lancia il suo Paese nella guerra provocata dall'antistorico pangermanesimo
di Hitler. Il pretesto è Pearl Harbour ma l'obiettivo è quello di estendere
la dominazione degli Usa sul mondo: i morti, tanto, saranno russi, tedeschi,
francesi, europei. Il seguito si conosce. Solo gli Stati Uniti saranno
infatti i grandi vincitori di questa sinistra guerra civile. A Yalta
Roosevelt e Stalin discutono intorno all'avvenire europeo: Roosevelt, in
quell'occasione, dissimulerà male la propria ostilità ad una eventuale
reindustrializzazione delle aree distrutte dalla guerra.  A partire dal '47
il taglio tra le due Europe viene consumato: attraverso il piano Marshall
gli Usa sviluppano la loro "impresa" in Europa occidentale. Da allora
l'America tenterà tutto per rimodellare la sua parte di continente a "sua
immagine"; affluiscono gli investimenti, nasce la società dei consumi. Si
vuole risuscitare l'Europa, quale "mercato" per la merce e per i prodotti
americani, quale terra dei profitti, del facile sfruttamento "in conto
terzi".

Lo strangolamento dell'Europa

Dal '45 ai nostri giorni lo strangolamento economico dell'Europa si è
manifestato in diverse forme. Sul piano monetario, attraverso la Conferenza
di Bretton Woods (poi adattata ai tempi con il vertice di Rambouillet e la
ratifica di Giamaica): all'indomani della guerra, l'Europa, la cui capacità
economica è a terra e i cui bisogni sono tanti, presenta un deficit con
l'estero considerevole. Con le importazioni raddoppiate e con il volume di
export praticamente invariato, la bilancia dei pagamenti dei Paesi dell'Ocse
accusano un deficit di 7,2 miliardi di dollari che è necessario finanziare
ed assorbire. La principale istituzione nata dalla Conferenza di Bretton
Woods è il Fondo monatario internazionale, istituzione, che, naturalmente,
risente al suo interno il peso decisionale degli Stati Uniti proprio nella
fase di ricostruzione di una sistema monetario mondiale. Oltretutto il Fmi
ha la sua sede a Washington e gli Stati Uniti (e la Gran Bretagna) detengono
il pacchetto di controllo delle quote di partecipazione.

Timidi tentativi di reazione

In materia monetaria gli americani diventano quindi i padroni assoluti:
blocco dei tassi di, cambio, ogni moneta definita in rapporto all'oro (e
cioè in rapporto al dollaro americano...) A questa fase di completa
dipendenza economica europea dagli Usa succedono diversi tentativi di
reazione. Sul piano po1itico c'è la nascita dell'Ueo, Unione dell'Europa
occidentale (marzo 1948), nel '49 del Consiglio d'Europa, nel 1950 il piano
Schumann, "il cui fine è realizzare le prime assisi concrete di una
"federazione" europea di difesa", la Ced, abortita per colpa delle
opposizioni comuniste e golliste francese. Ogni piccolo passo dell'Europa
verso un'indipendenza dalla tutela americana, in pratica e stato ostacolato
dagli Usa che lanciano, nello stesso periodo, l'Oece, la Nato, e fanno
saltare ogni mattone del disegno dell'unificazione politica dell'Europa.
L'anno 1954 in particolare segna l'aborto di ogni struttura politica
europea, di ogni potere europeo. Dopo quest'anno i governanti europei si
allineano nel campo americano, escluso De Gaulle che con il suo nazionalismo
coltiva invece una visione molto forse ingenua ma indipendente dell'Europa:
l'Europa "Confederale".

La Francia gollista, diffidando degli "alleati" atlantici si riaggomitolerà
su se stessa, così ostacolando ogni progetto di Europa sopranazionale
condizionata dagli atlantici. De Gaulle, relegato all'angolino, non riusciva
ad opporsi al grande disegno di dominio anglo-americano. Sul piano economico
gli europei rispondono timidamente alla sfida creando "Unione europea dei
pagamenti (Uep): ma l'unità di conto resta il dollaro e l'Uep non riesce a
sganciarsi dagli Usa che firmano l'accordo monetario europeo (Ame) nel
luglio del '55. L' Ame segna l'atto di nascita del nuovo "Gold exchange
standard" che impone il dollaro (ed in subordine la sterlina) come divisa e
nei pagamenti intemazionali. Così il dollaro, diventato moneta di riserva,
permette agli Stati Uniti di finanziare senza difficoltà i deficit della sua
bilancia dei pagamenti, e favorisce nel mondo il dominio economico di
Washington. Gli Usa ottengono dagli europei di farsi pagare in dollari, che
saranno reinvestiti in Europa sia nella rapina di aziende strategiche, sia
in nuove imprese e sia sviluppando il mercato dell'eurodollaro.
L'instabilità del sistema monetario viene codificato nelle cosiddette
fluttuazioni. In realtà non c'è che una sola moneta, di cui sono gli Usa ad
avere il potere di emissione e di gestione. E questo pezzo di carta, il
dollaro, emesso in quantitativi sempre più eccessivi, porterà all'inflazione
ed alla recessione di tutta l'economia europea.

L'Europa salariata

Il nostro continente è oggi l'Europa salariata degli Usa. E' questo il
risultato politico di un dominio culturale ed economico che dura da ormai
più di trent'anni. Dal 1945 gli europei hanno perduto la fiducia nelle
proprie possibilità ed hanno attribuito il "gap" nei confronti degli Usa,
alla loro struttura alla loro mentalità, ed hanno così pensato che il solo
rimedio fosse quello di imitare le pratiche americane (marketing management,
produttività economica, flessibilità e mobilità nel lavoro) al fine di
"conquistare" il livello di vita della "nazione guida". Poi, in questi anni,
dopo aver subito l'aggressione economica della grande speculazione
finanziaria congiunta della City di Londra e di Wall Street, con la
devastazione, nel '92 - complici in Italia i vari Prodi e Andreatta, e a
Bruxelles i van Mirt - del Sistema monetario europeo inventato da Giscard e
Schmidt per consentire una parvenza di autonomia monetaria continentale, e
con la svalutazione delle valute europee, lira in testa, l'Europa, sotto il
diktat del FMI, ha provveduto ad adeguare il suo modello a quello dei
padroni angloamericani. Prima di tutto subendo passivamente la deliberata
distruzione degli Stati nazionali, e dei sistemi di giustizia sociale
patrimonio di cento anni di socialismo nazionale in Europa, e secondodipoi
adattando le Comunità Europee ad una sorta di Nafta, e cioè ad un grande
spazio commerciale di "libero scambio", libero, cioè, soltanto per le grandi
speculazioni delle lobbies della Finanza Internazionale. Un "grande spazio
finanziario-valutario", dominato dalla City e da Wall Street, e chiamato
"Trattato di Maastricht" con i nostri governanti-sudditi proni al volere dei
loro padroni. Ma la prosperità americana dipende in gran parte e quasi
esclusivamente dalle importazioni massiccie di materie prime dall'estero e
dalla parallela politica di conservazione delle proprie risorse.

Con il 6 per cento della popolazione mondiale gli americani consumano più
del 33 per cento della produzione mondiale di bauxite, il 26 per cento di
nickel, il 25 per cento di rame, il 25 per cento di potassio, il 15 per
cento di zucchero, il 50 per cento di caffè, il 32 per cento di stagno... e
così via. Lo stesso L.B. Johnson affermava nel suo libro apparso nel '64:
"Se tutti gli abitanti della terra raggiungessero un livello di vita così
elevato come quello degli Usa, dovremmo produrre, 20 miliardi di tonnellate
di ferro all'anno, 300 milioni di tonnellate di piombo, 200 milioni di
tonnellate di zinco... cioè più del centuplo di quello che produciamo oggi.
E le riserve non sono inesauribili".
Per soddisfare un consumo proporzionale
a quello americano gli europei hanno necessità di nuove fonti di materie
prime e dei mezzi per pagarle o sfruttarle. Dal 1960 al 1969 gli
investimenti Usa in Europa passarono da 6,6 a 21,5 miliardi di dollari. Un
esempio: in Francia dal '58 al '65 (e si trattava del Paese più "libero"
dalla dipendenza da Washington) gli Usa comprarono 845 imprese e crearono
616 nuove società. In Europa, nello stesso periodo furono acquisite in tutto
oltre 4000 aziende e 3070 furono costituite ex-novo. Gli Usa controllano
tuttora il 29 per cento della produzione automobilistica, il 40 per cento
della distribuzione del petrolio, il 50 per cento della produzione
elettronica, di semiconduttori, il 65 per cento di quella dei materiali per
le telecomunicazioni, 65 per cento di quella dei materiali agricoli, 1'80
per cento di quella degli ordinatori e dei computers, il 95 per cento di
quella dei circuiti integrati.

Il gap tecnologico

Nonostante gli sforzi l'Europa non può assolutamente, oggi, sperare di poter
colmare pacificamente il "gap tecnologico" che lo separa dalla grande
padrona. Il governo di Washington finanzia in effetti il 90 per cento della
ricerca aeronautica, il 65 per cento di quella elettronica, il 42 per cento
di quella applicata nel settore delle strumentazioni scientifiche, il 3l per
cento nelle industrie meccaniche. La dipendenza europea ai giganti americani
fa sì che i governi europei siano pronti a tutto pur di ottenere l'impianto
di nuove aziende. Un altro dato: gli alti stipendi elargiti dalle società
Usa ha portato alla "fuga dei cervelli" dall'Europa. Senza mezzi e senza
uomini la "ricerca" europea è lasciata alla buona volontà dei singoli e
delle società private o resiste come sorta di feudo politico e clientelare
su cui riversare burocrati inutili. Per consolidare e legittimare il dominio
economico e politico sull'Europa, gli americani hanno imposto anche il
dominio culturale e il più potente mezzo di soggiogazione delle menti è
certo stato il cinema, subito perfezionato e sublimato con la nascita dei
nuovi mezzi di comunicazione di massa, tv, radio, pc, internet etc.
L'immagine radiosa dell' "American way of life" persuadeva così gli europei
che dopo tutto, anche se sono dominati ed hanno perduto la loro
indipendenza, si trovano in una prigione dorata più confortevole di quella
fino all'89 chiusa da una "cortina di ferro" o dal "muro di Berlino".


Crimini contro l'umanità? La Nato bombardi il Fmi a Washington
L’occupazione industriale messicana è ridotta di un terzo rispetto al 1981.
I lavoratori sono stati travasati nelle maquiladoras, il lavoro schiavistico
offerto da investitori stranieri, l’unica "attività reale" portata dalle
riforme liberiste (figura 8). Oggi circa un milione di messicani sono
costretti dalla disperazione ad accettare un lavoro al di sotto del minimo
della sussitenza, con un salario che si approssima alle mille lire l’ora. La
produzione degli alimenti di base in Messico è scesa del 67% per i fagioli,
del 20% per il mais, e del 30% per il frumento . 26 milioni di messicani,
circa un quarto della popolazione, vivono in povertà, e di essi la metà vive
nell’indigenza vera e propria. In quest’ultimo strato la mortalità dei
neonati nel primo anno di vita raggiunge i 60 su mille nelle campagne e i 35
nelle città.Molti cercano rifugio negli USA, secondo le autorità americane
il flusso migratorio clandestino raggiunge i due milioni l’anno, in quello
che nei documenti dell’ONU è descritto come "il più grande fenomeno
migratorio del mondo dovuto a problemi economici". Da parte americana ci
sono politici che per tenere alla larga i messicani preparano leggi razziste
per una vera e propria "pulizia etnica".L’ex ministro della Difesa USA
Caspar Weinberger ha scritto il libro "The Next War" in cui descrive per il
2003 uno scenario di guerra degli USA contro il Messico, il cui governo
verrebbe dichiarato "nemico della democrazia".La rivista Foreign Affairs
(gennaio-febbraio 1999) scriveva che il Messico è sul punto di una guerra
civile, che, tra l’altro, metterebbe in moto un’ondata migratoria di
dimensioni tali da creare conflitti sul confine con gli USA. Di conseguenza
certi ambienti di potere negli USA starebbero considerando "piani per
chiudere i confini" e anche la possibilità di un "intervento americano"
armato in Messico.

L’emorragia dei clandestini ormai interessa un decimo dei messicani,
costretti ad abbandonare un paese "balcanizzato" dalle condizioni del FMI.
Se l’intervento militare della NATO in Jugoslavia fosse stato davvero
motivato dalla tragedia umanitaria dei kosovari, allora gli Stealth della
NATO dovrebbero pra bombardare gli uffici del FMI a Washington, dato che la
dimensione della tragedia messicana è persino maggiore di quella dei
Balcani.Il caso JugoslaviaFino al 1989, fino al crollo del muro di Berlino,
il rischio più immediato era una mossa militare del Patto di Varsavia in
Romania, che avrebbe portato ad una spartizione delle Jugoslavia, dove Mosca
avrebbe posto sotto la propria protezione militare Serbia, Montenegro e
Macedonia come contromossa dell'Urss di fronte ai disegni di frammentazione
della Jugoslavia conltivati già allora adgli atlantici..Oggi la stessa
strategia che ha già portato alla frammentazione della Jugoslavia viene
proposta in funzione antirussa. La Jugoslavia entrò nella peggiore crisi del
dopoguerra nel 1991, con una geografia della rivolta che rifletteva i
meccanismi di saccheggio. E tutto fu originato dai salassi mortali dei
creditori occidentali e del Fondo monetario internazionale, con Belgrado
forzata adsi ai programmi disastrosi dettati dal FMI, che comportavano un
crollo generalizzato dei livelli di vita.Questa politica di austerità ha
alimentato le tendenze centrifughe in Slovenia e Croazia ... Per impedire l’
esplosione sociale nelle regioni orientali più povere, soprattutto la
Serbia, la Bosnia, il Montenegro, la Macedonia e il Kosovo, dove risiedevano
i due terzi della popolazione jugoslava, il governo di Belgrado detraeva
risorse a Slovenia e Croazia, per ‘sussidiare’ in tal modo il resto del
paese. Questa dinamica è stata la causa di fondo della rivolta
sloveno-croata. Si era giunti a tagli salariali del 20%, all'eliminazione
del blocco dei prezzi sul 60% dei generi di consumo. Si arrivò ad un aumento
dei prezzi del 50-60% per gli alimentari di base e l’energia con una
svalutazione del dinaro del 20-25% e con un’inflazione oltre il 100%.Il
taglio dei salari, l’aumento dei prezzi e la svalutazione del dinaro furono
richiesti dal FMI e dalle banche creditrici come ‘condizioni’ per un
prestito ‘standby’ del FMI di 240 milioni di dollari, che a sua volta era la
condizione di partenza per le banche ed i governi chiamati a rinegoziare i
20 miliardi del debito estero jugoslavo".La crisi economica è stata dunque
la causa prima della guerra civile maturata in Jugoslavia.

Dominata dalla politica di saccheggio e di austerità monetarista imposta dal
FMI, la Jugoslavia ha sborsato 20 miliardi di dollari nel corso di un
decennio, per pagare interessi e capitale, ma al momento dello scoppio della
guerra con la Croazia per la Bosnia e la Krajna era ancora gravata da un
debito estero di 20 miliardi di dollari. Il colpo di grazia era arrivato
alla fine del 1989, quando il governo di Ante Markovic aveva annunciato un
programma di austerità feroce messo a punto in coordinazione con il FMI.
Come parte dell’accordo, la Jugoslavia ha dovuto assumere lo ‘specialista di
austerità’ della Harvard University Jeffrey Sachs in qualità di ‘consigliere
speciale’ per l’introduzione dei meccanismi liberistici ed oltre a lui anche
altri specialisti della Banca Mondiale e del FMI per effettuare ‘la riforma’
delle banche jugoslave .Il danno economico stimato dal presidente dell’
associazione industriale di Zagabria Ivica Gazi ammontava già nel '91 al 30%
del precedente PNL croato. [che a sua volta rappresentava il 26,7% dell’
intero PNL jugoslavo].Alcune idee interessanti per una soluzione pacifica
erano state discusse il 14 maggio 1991, solo pochi giorni prima dell’
intervento dell’Esercito federale contro le spinte indipendentiste in
Croazia. Nel corso di una conferenza organizzata a Belgrado dall’Istituto
Jugoslavo per la politica e l’economia internazionali, è stata discussa la
necessità dell’integrazione economica e infrastrutturale delle repubbliche
jugoslave e di tutti gli stati della regione balcanica con il resto dell’
Europa. Erano presenti rappresentanti di tutte le repubbliche e dei governi
di Austria, Italia, Albania, Ungheria, Cecoslovacchia, Grecia, Romania,
Turchia ed altri paesi.Il programma presentato a Belgrado - e messo in
cantiere già dal 1989 - prevedeva collegamenti ferroviari ad alta velocità
tra Parigi e Budapest, e tra Danzica e Budapest, e quindi un corridoio di
sviluppo da snodare a Sud per raggiungere Belgrado e proseguire oltre. Treni
ad alta velocità di collegamento con Italia e Austria, attraverso Ljubljana,
Zagabria e Belgrado, con la Turchia ed il Medio Oriente. E, inoltre, la
navigabilità completa del Danubio e della Morava verso Sud per un rapido
collegamento con il Mediterraneo e soprattutto con il Canale di Suez .Tale
programma infrastrutturale avrebbe potuto risolvere i problemi di
arretratezza economica della regione, ma era stato bocciato su richiesta
della delegazione del Fondo Monetario Internazionale.Queste dunque le vere
cause dello smembramento jugoslavo. Un disegno studiato a tavolino dagli
atlantici per imporre anche nei Balcani il loro "Nuovo Ordine" economico,
una regione da rendere soggetta e suddita ai dettati del Libero Mercato e
della Globalizzazione.

Lucio Losole

La perfida Albione è viva e vegeta
Martin Palmer, "consigliere religioso e spirituale" del principe consorte
Filippo d’Edimburgo, ha confermato ad un giornalista, nel corso di una
discussione svoltasi alla fine dello scorso anno, che la politica estera
inglese si ripropone in primo luogo la frantumazione di Russia, Indonesia,
Cina ed altri "grandi paesi".Palmer ha detto che "è di importanza assoluta
per la politica inglese" incoraggiare il processo di "frantumare gli
imperi"
. La politica estera inglese "degli ultimi 200 anni si fonda su un’
idea centrale, la frantumazione degli altri imperi. L’idea di seminare le
divisioni tra gli stati arabi è l’assioma del Foreign Office britannico.
Fiaccare la presa che la Russia ha sull’Asia Centrale è, per il Foreign
Office, un’ossessione ... Questi temi suscitano un fascino profondo in
Inghilterra. Ogni ingerenza nei confronti dell’India o della Turchia è
considerata antitetica agli interessi inglesi". Ha poi aggiunto,
sogghignando: "La perfida Albione è viva e vegeta. Il Foreign Office
britannico ha un suo programma che è, ora e sempre, divide et impera".Palmer
ha spiegato che "la situazione politica globale attuale può essere
paragonata soltanto ai movimenti delle piattaforme continentali, nel senso
geologico. Attraversiamo dei cambiamenti tettonici. Stiamo attualmente
assistendo allo svolgimento finale dei processi messi in moto nel 1914. È un
processo di disgregazione dei grandi imperi. La Russia si sta disgregando, e
vediamo le ultime strette spasmodiche del vecchio controllo zarista sull’
Asia Centrale, con l’improvviso emergere di nazionalismi di cui non si
sentiva parlare da secoli. Timor Est è una falda tettonica. Se Timor Est si
stacca, lo stesso farà Aceh [provincia di Sumatra], e poi che ne sarà delle
altre isole? Il fatto è che l’Indonesia non ha una logica per esistere. È un
impero che si è costituito combattendo un altro impero. Noi assistiamo al
crollo di imperi, come quello sovietico, che si erano formati nei conflitti
contro altri imperi". Palmer ha quindi aggiunto che anche la Cina va
incontro a processi disgregatori centrifughi, ma per questo occorrono ancora
degli anni.Come conseguenza di questo processo di disgregazione di grandi
paesi, "stanno emergendo piccole nazioni nuove. Non si consideri soltanto la
crescente autonomia della Scozia e del Galles. Si guardi all’Asia centrale,
dove assistiamo all’affermarsi di piccoli kanati di cui non si sentiva
parlare da 500 anni. Per questo si guardi al Daghestan o alle sottoregioni
che emergono in Georgia. Le grandi masse tettoniche degli imperi subiscono
una trasformazione". Palmer ha quindi consigliato uno studio attento degli
scontri che per secoli hanno contrapposto gli imperi Romano/Bizantino e
quello Persiano, per comprendere meglio quanto sta oggi avvenendo.

Cesare Ferri

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23.01
LA SCRITTRICE YAEL HEDAYA
«La paura ci segue ogni giorno come un mal di testa continuo»

«La violenza è diventata parte della nostra vita: non ci stupiamo più»
 
In tv, le immagini dell’ennesimo attentato nel centro di Gerusalemme. Davanti allo schermo, seduta sulla poltrona di casa, la scrittrice israeliana Yael Hedaya si confronta con quella che definisce «assuefazione» alla violenza quotidiana: «Non è paura - dice -, è qualcosa che va oltre: la sensazione che sia accaduto così tante volte da diventare parte della vita, come un mal di testa che non passa mai». «Animali domestici», il suo libro tradotto in Italia da Einaudi, ha suscitato l’entusiasmo di un grande della letteratura ebraica come Abraham Yehoshua: tre storie di amore e solitudine che avrebbero potuto avere come sfondo una città qualunque. Della tensione di vivere in un Paese dove un uomo può imbracciare il fucile e sparare sulla folla non vi è traccia: una caratteristica comune a molti scrittori della nuova generazione (la Hedaya ha 37 anni). Ma anche il segno di un momento diverso.
«Adesso non potrei più scrivere ignorando questa nuova paura - dice Yael -. Il mio prossimo libro avrà certamente sullo sfondo questo sentimento, anzi questa mancanza di sentimenti che ha cambiato la vita privata di ognuno di noi».
Che cosa esattamente è successo negli ultimi mesi?
«All’inizio della seconda intifada, anche fino a sei mesi fa, gli attentati suscitavano choc, rabbia, sorpresa. Adesso ci abbiamo fatto l’abitudine, ce lo aspettiamo. Prima se ne parlava con gli amici, i colleghi. C’era una sorta di paura reattiva, vigile: ci consigliavamo su quale luogo affollato evitare, o quale strada preferire in macchina. Adesso non lo facciamo più. La paura è così generalizzata e interiorizzata da non produrre più alcuno stupore».
Neanche quando succede in luoghi fino a poco tempo fa risparmiati dal terrorismo, come la settimana scorsa a Hadera?
«Da bambina (sono cresciuta a Gerusalemme) mi hanno educata a stare attenta ai pacchi sospetti, a fare attenzione a personaggi strani, come può essere per esempio un uomo che indossa un impermeabile d’estate. Adesso non si sa più di che cosa aver paura. Può accadere ovunque, in qualunque momento. Certo, Gerusalemme ci è in qualche modo più abituata. Guardavo le immagini in tv: il passante intervistato dal giornalista diceva che era la terza volta che veniva fermato come testimone di un attentato. E dietro c’era un negoziante che mostrava una giacca in vetrina tutta forata dai proiettili. Sembrava un film di Fellini: era assolutamente surreale. Se non fosse che è drammaticamente vero...».
C’è qualcosa di cui in particolare ha paura?
«Mi sento insicura ovunque, anche a casa mia, anche in macchina. La paura ha perso ogni proporzione. A ottobre per il mio compleanno mi hanno regalato un buono da spendere in una profumeria che si trova in un grande centro commerciale di Tel Aviv. Ci ho messo tre mesi prima di trovare il coraggio di andarci».
Lei è una sostenitrice del dialogo con i palestinesi. Continua a credere nel processo di pace?
«Non sono orgogliosa del comportamento del mio governo. Mi sembra che l’unico risultato che ottenga sia l’escalation del conflitto. Ma sinceramente non so più che cosa si potrebbe fare. Entrambe le parti hanno in questo scontro un comportamento infantile: stupido e molto pericoloso».

Alessandra Coppola

da Repubblica del 23 gennaio

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23.01 Conferenza Associazione Limes "Nessun accordo con l'occupante sionista"

SABATO 2 FEBBRAIO
Alle ore 15.30, presso L'Hotel Melia
 via Masaccio 19 (MM Lotto),
Milano

Conferenza
PALESTINA:
 NESSUN ACCORDO CON
 L'OCCUPANTE SIONISTA

Interverranno:
Andrea Farhat
Mohammad Hannoun
Tommaso Staiti
Carlo Terraciano

Organizzano:
A
ssociazione Culturale Limes
Comitato di Solidarietà con il popolo palestinese

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22.01 Indice di "Prima comunicazione" di gennaio

SUL NUMERO DI GENNAIO 2002
di 'Prima Comunicazione Online':
http://www.primaonline.it


Servizio di copertina - Gaetano Caltagirone. Un uomo complicato.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=325


Mediadigit. 'TgFin' anche sulla carta stampata.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=336

Il Sole 24 Ore. Solo core business.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=337

Enel.it. Nuovo portale farcito di contenuti.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=327

Pezzana e Nirenstein contro il pregiudizio
antisraeliano.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=334

Rai.it. Punta sui contenuti e vince.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=335

Oriana Fallaci. Carlo Rossella: la propongo senatore a vita.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=333

Enzo Ghigo. Ingualcibile.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=331

Jean-Marie Messier. La grande alleanza.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=328

Andrea Papini. Il privatizzatore irriducibile.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=330

Fulvio Zendrini. Fa il custode.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=329

'Corriere della Sera'. Zitto, zitto de Bortoli cambia i vertici.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=340

'Politica'. Di Claudio Signorile.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=339

Raitre. L'exploit di Cereda.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=338

Auditel. I numeri difficili.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=332


INOLTRE:
- I nomi del mese: tutti i personaggi e le aziende citati nel numero in
edicola di 'Prima Comunicazione'
http://www.primaonline.it/nomi.asp

- Il borsino dei direttori con le ultime nomine
http://www.primaonline.it/borsino/index.asp

- New entry: gli ultimi arrivi tra i professionisti della comunicazione
http://www.primaonline.it/personaggi.asp

- Parlamento: le leggi sull'editoria e le telecomunicazioni
http://www.primaonline.it/parlamento.asp


--------------------------------------------------------------
GLI ALTRI SERVIZI DI 'PRIMA COMUNICAZIONE ONLINE':

- NOTIZIE DI AGENZIA: ogni giorno gli aggiornamenti sul mondo
dell'informazione e dei media
http://www.primaonline.it/notizie/index.asp

- APPUNTAMENTI: l'agenda online per essere sempre informati sui principali
avvenimenti, incontri e fiere del settore
http://www.primaonline.it/agenda/index.asp

- RISORSE: una guida pratica con nomi e indirizzi dei principali
quotidiani,settimanali, mensili, radio, tivu' e siti Internet
http://www.primaonline.it

- DATI E CIFRE: grafici e tabelle che aiutano a comprendere le cifre sugli
ascolti e la diffusione
http://www.primaonline.it/dati/index.asp

- LAVORO: gli annunci gratuiti di chi cerca e offre lavoro nel campo
dell'editoria e della comunicazione
http://www.primaonline.it/lavoro/index.asp

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22.01 Catalogo Arianna Editrice
 

E' disponibile in rete l'aggiornamento 2002 del nostro sito www.ariannaeditrice.it

Chi desidera ricevere il catalogo cartaceo (in spedizione), o che desiderano farlo pervenire a chi potenzialmente interessato, sono pregati di comunicarci un recapito postale.
 
Dal 14 al 18 febbraio si terrà a Napoli, presso la Mostra d'Oltremare, Galassia Gutenberg, la rassegna dell'editoria nazionale più importante del mezzogiorno.
Veniteci a trovare presso il nostro spazio espositivo dove potrete acquisire le ultime novità e il catalogo 2002.
 
Arianna Editrice
Via Caravaggio 34
I-40033 Casalecchio (BO)
tel/fax 051560452
cell. 3355846937
arianed@tin.it
www.ariannaeditrice.it

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21.01 Pregate per Israele, amici cristiani

Dear Christian friends of Israeli communities,

            I address you this way for a reason, asking that you think about what each word means, and then act in response accordingly.  I normally am graced by Abba to cope reasonably well with the endless tragedies that continue in Israel, but a grief has been building since I first heard of the bat mitzvah attack yesterday, as well as the senseless slaughter of a grief-stricken elderly Jewish man who lived amongst the Palestinians in Beit Jala, and it is coming in waves.


            As Christians, we absolutely must stand in the gap to pray for our friends in these horrendous times.  Friends come alongside, in good times and in bad, to show their support.  In a time of death, we cannot bring the loved one back, but we can share the loss, pray for the survivors, and provide the comfort that brings.  As friends of Israeli communities, we can pour forth love through our prayers, our visits during such a time as this, and our financial support.  Each one speaks, to different people, in different ways but each act speaks loudly.  For those who considered Avraham s hardship, thank you.

            For a people who have been thrust about by the world but who have finally found a home, it takes a tremendous faith in G-d and also strength of character to continue to live out their convictions on a day- to-day basis.  They are doing so with great grace.

            For a peace that passes all understanding for all Israeli people in the midst of these circumstances, and that they may seek the source of that peace, G-d.

            That the United States government, led by President George Bush, will fully, truly recognize the breadth and depth of the evil that is running roughshod throughout Israel today and deal with Arafat, Hamas, Fatah, and the PA appropriately, as terrorists.  May every thing that is hidden be revealed, as the enemy always overplays his hand and is found out.

            Praise G-d for the healing that is taking place between Christians and Jews, as a true respect and caring for our Jewish friends manifests G-d s love for them, and us.  May we be forgiven for the centuries of unjust acts perpetrated in the name of our Lord, and may G-d s mercy be shown through us. 

            May the Israeli leaders not lean on their own understanding, but in all their ways acknowledge and seek G-d for His direction and protection. 

Shalom,

Diane Cudo, Director, United States Office
Christian Friends of Israeli Communities                                                    

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21.01 Ricordare il passato per ricostruire il futuro

Un palestinese e una bambina palestinese davanti i resti della loro casa distrutta dalle forze d'occupazione sioniste nel campo profughi di Rafh (Reuters, 21.01.2002)

 Alessandro 

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18.01 Diario della Settimana - Indice dal 18 al 24.01

Piave, governo ladro. Dopo banane e fichi d'india, ecco gli appelli alla resistenza sull'ideale fiume della patria, quella che seguì la disfatta di Caporetto. Posta in gioco: l'impunità dei politici o la condanna del presidente del Consiglio.

E' in edicola il nuovo numero di Diario della settimana.

Domande e Risposte:
Borrelli invita a «resistere, resistere, resistere»: la disfatta è già avvenuta?
Il governo italiano e l'Europa: potrebbe tornare la lira?
Caso Enron: Storia di Kenneth Lay, l'amico degli amici. Il crack del colosso dell'energia sarà il Watergate di George W. Bush?
Voglia di guerra all'Iraq: chi è il dottor Chalabi, di professione unico oppositore di Saddam?

Altri personaggi:
Il generale Vernon Walters. E' americano, è stato interprete spia, diplomatico, militare. Dal 1945 a oggi, sullo sfondo della politica estera Usa c'è sempre lui. Eccolo con De Gaulle e Adenauer, con lo Shah di Persia e con Fidel Castro, con Pinochet e con Margaret Thatcher, con Giovanni Paolo II e con i generali argentini. La sua autobiografia è piena di amnesie. Tra le righe è scritto tutto.

Le case a rischio di crollo In Italia, secondo il Censis, 10 milioni di persone abitano in edifici pronti a sgretolarsi. Dal 1994 al 1998, dopo il condono approvato dal primo governo Berlusconi, sono state costruite 232 case abusive, per un valore immobiliare di 29 mila miliardi di lire. Viaggio in un'Italia senza fondamenta.

I minatori di Pagliarelle, Crotone. Sono 150, lavorano per i cantieri della Firenze-Bologna dell'Alta-Velocità. Torneranno in Calabria, in un paese dove non c'è un'edicola, dove le scuole medie sono piantonate dai carabinieri contro gli spacciatori, dove il primo ospedale è a 60 chilometri. Viaggio nell'Italia anni 50 del 2002.

I cassonetti di Buenos Aires. L'unica fonte di ricchezza di 100 mila persone a Buenos Aires. La vita dei «cartoneros», ragazzini che rovistano nei sacchi delle immondizie alla ricerca di carta da recuperare.

Piccoli critici, la nuova iniziativa di Diario che pubblica recensioni dei bambini, ha già ricevuto molte risposte. L'indirizzo a cui scrivere è bambini@diario.it. Per maggiori informazioni: http://www.diario.it

Buona lettura

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18.01 Il significato e la potenza: l'aspetto domestico della questione mondiale

 

Il significato e la potenza

di Bernard Dréano  (estratto)

GRANELLO DI SABBIA (n°28)
Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
Venerdì, 18-01-2002

L'aspetto domestico della questione mondiale

La continuazione di questa guerra che, nelle opzioni strategiche attuali, è rivolta  contro i Talebani più che contro Al Qaeda, aggiunge i suoi effetti a quelli prodotti dall'orrore dell'11 settembre. Ciò riguarderà più o meno tutte le società del mondo ed in particolar modo quelle europee. Ma fino a che punto, ed in quali settori? Si tratta davvero di quel rovesciamento di
prospettiva in cui alcuni sperano e che altri temono?

La forza simbolica dell'evento non equivale ad un improvviso capovolgimento della storia. Al contrario, quanto scritto finora in questo testo è volto a dimostrare che il terribile lampo nell'azzurro di un calmo mattino newyorkese è parte di una continuità. Come nelle migliori tragedie greche, il fulmine del destino rivela ciò che gli spettatori già intuivano. Non si
tratta tanto di "niente sarà più come prima", quanto piuttosto di " ciò che aleggiava nell'aria è accaduto, più rapidamente e violentemente del previsto".

Nell'insieme, questi eventi sono portatori di messaggi poco gioiosi.
Tuttavia, alcuni vi riconoscono anche dei segnali più favorevoli, più nella possibilità di rimettere in discussione alcuni dogmi che nell'ipocrita "unità del mondo contro i terroristi". In effetti, sul piano economico, il primo impatto degli attentati è l'accentuazione di una recessione già
latente, di cui nessuno può prevedere l'estensione nel futuro. Ma le autorità americane, in questo settore come negli altri, hanno dovuto reagire.  Bill Clinton ci aveva spiegato nel 1997 che l'era del "big government" era terminata, che lo stato avrebbe assunto un ruolo sempre più marginale e  che le tasse sarebbero diminuite. A partire dalla sua investitura, George W Bush aveva fortemente accentuato tale tendenza neo-liberale. Questi intenti non sono più proponibili nell'affrontare "il giorno dopo". Lo stato americano interviene per sostenere le compagnie aeree ed interverrà ancora di più per garantire l'immenso sforzo di duplicazione
delle procedure di sicurezza in ogni tipo di sistemi. Taluni vedono in queste misure un paradossale "ritorno di Keynes".

Non è una cattiva notizia per tutti coloro che, sbigottiti, assistono, dal nostro lato dell'Atlantico, alla deriva neo-liberale europea. Una deriva in nome dei principi monetaristi della banca centrale europea che soffocano l'economia. Dei principi che, tuttavia, Bill Clinton e Alan Greenspan, direttore della Federal National Reserve, applicavano già, negli anni
precedenti, con molta più flessibilità rispetto agli Europei, e che, quando la storia bussa alla porta, appaiono privi di senso. Gli Americani sanno che la storia impone il volontarismo; gli Europei resteranno intrappolati nelle regole che essi stessi si sono imposti con il protocollo di Dublino, qualche anno fa? Purtroppo la necessaria politica economica e finanziaria dell'Europa non sembra affatto concretizzarsi. I nostri governi annunciano però la loro volontà di azione. Ma su che piano? La politica? Purtroppo no. L'ideologia? Sfortunatamente sì.

Continua a non esistere una politica europea  capace perlomeno di influenzare la politica americana - non parliamo neanche di proporre alternative. Tony Blair ha scelto con chiarezza di non contribuire alla definizione di tale politica allo scopo di  appoggiare la strategia di Bush
Jr. E Berlusconi sabota l'Europa. I Francesi ed i Tedeschi cercano di giocare ai "grandi" senza sostenere la "piccola" presidenza belga dell'Unione, che tuttavia svolge il suo compito assai più onorabilmente dei due noti "motori" dell'Europa.
Il direttorio franco-tedesco  non  ha elaborato, negli ultimi tempi, alcuna visione politica, né in termini intra-europei, né per la "Politica europea di sicurezza comune". D'altronde, se ne può imputare la colpa  più all'incredibile duetto Chijin-Jospac che agli sforzi di Joshka Fisher. In breve, al di là delle fatiche dei Belgi per riparare le provocazioni di Berlusconi e dei viaggi di Fisher o di Vedrine in quel di Gerusalemme, Mosca o Teheran, non rimane molto, se non la tendenza a non utilizzare i considerevoli strumenti di cui dispone l'Unione Europea, come il trattato di associazione Euro-Israeliana,  ridicolizzato da Sharon, le chiare possibilità economiche e diplomatiche rispetto all'India, all'Iran, alla Russia, all'Egitto etc.
Insomma, se autorevoli personalità europee sussurrano nei salotti che una politica di sicurezza collettiva nel Vicino e Medio Oriente sarebbe più efficace della politica americana di riconduzione delle alleanze, è però per costernarsi immediatamente della sua impossibilità: poiché "altri" non ne vogliono sapere, non se ne farà nulla.

Invece, è promesso, si lotterà contro il terrorismo. Non realmente contro le sue cause, e facendo il possibile contro le sue manifestazioni. La lotta contro i pazzi furiosi di Al Qaeda esige certamente coordinazione, mezzi, informazione e formazione, ma l'emergenza sembra essere altrove. L'emergenza attuata dai governi europei è di prendere misure ideologiche senza grande efficacia contro il terrorismo, stabilendo uno spazio di polizia europeo ma non l'armonia delle garanzie giuridiche, ideando un progetto di definizione del terrorismo che autorizza perfettamente qualsiasi provocazione contro eventuali oppositori.
In Francia, Evelyne Sire-Marin, presidentessa del Sindacato della Magistratura, teme, insieme alle organizzazioni di difesa dei diritti umani, una "legislazione di eccezione" che adesso "sarà applicata in tutta Europa a persone sospette di atti terroristi, come quella di cui si era dotata la
Francia a partire dal 1986, com'è noto senza risultati". Queste "promulgazioni solenni" della  giustizia spettacolo" che Sire-Marin denuncia, inaugurano un periodo propizio per i demagoghi. In Austria, George Haider ritrova lo spazio che gli mancava per rilanciare la sua guerra
personale contro la civiltà, mentre Berlusconi ed i suoi amici gioiscono rumorosamente mentre fanno appprovare una legge che consente il ritorno all'ovile dei capitali sottratti. Le operazioni occulte dei finanzieri mafiosi -ed eventualmente terroristi- potranno continuare a svolgersi da
Jersey o dal Lichtenstein, mentre l'Europa si occupa dei cofani delle auto e della sorveglianza dei fedeli che ardiscono pregare in moschee malpensanti (ma, non preoccupatevi, gli emiri wahhabiti sono sempre i benvenuti sulla Costa Azzurra).

Tutti, ad eccezione di Bruno Mégret, si sforzano in Francia di rifiutare ogni equivalenza fra Islam e terrorismo e di promuovere il dialogo e la tolleranza. Tuttavia, di fronte allo spettacolo di alcuni parlamentari che persero il controllo perché alcuni giovani francesi di religione musulmana avevano fischiettato la "Marsigliese" in occasione della partita "Francia-Algeria" c'è ragione di preoccuparsi. Questi parlamentari, e con loro vari intellettuali, si preoccupano della "non integrazione" di una parte della gioventù del loro Paese, senza capire che, purtroppo da molto tempo, una parte notevole di quella gioventù è propriamente disintegrata dopo anni di
"cura sociale" senza una vera mobilitazione cittadina, nelle periferie disertate dai partiti e dai sindacati, dove sussistono solo delle associazioni, o dei candidati eletti, che cercano di ovviare come possono alle stridenti mancanze della democrazia.
Una delle forme di questa disperazione disintegratrice assume l'aspetto dell’'islamismo radicale, soprattutto presso i giovani di origine algerina, che si confrontano sia con il silenzio sull'Algeria attuale e sulla storia franco-algerina (silenzio che, oggi, inizia a dissolversi riguardo alla trascorsa guerra d'Algeria, ma che perdura troppo forte su quella odierna) sia con il sentimento di emarginazione e di discriminazione vissuto in Francia. Alcuni di questi giovani si sono identificati con i Shabàb (giovani) palestinesi e sopportano a stento l'apparente indifferenza europea a quel dramma. Un numero sempre più consistente di loro incontra, nelle
periferie o nelle prigioni, i predicatori wahhabiti. Allo stesso tempo, una parte dei giovani ebrei francesi, talvolta abitanti nelle stesse periferie, cede ai discorsi ultra nazionalisti dei sostenitori di Sharon ed incontra i predicatori louvabiti o altri. Il numero degli scontri tra comunità era
aumentato, prima dell'11 settembre, nella quasi completa negazione  delle autorità politiche e morali responsabili: " Va tutto bene, si tratta di incidenti isolati". Da quel momento, nulla si è risolto.

Se si confronta la situazione con quella che prevaleva, presso le stesse frazioni della popolazione, al momento della guerra del golfo, ci si trova di fronte ad un profondo peggioramento. Non si tratta, però, di un fatto inevitabile. Le iniziative di dibattito o di azione, avanzate in luoghi diversi prima e dopo l'11 settembre, dimostrano che il fanatismo può
lasciare posto alla discussione, il settarismo alla generosità. Le delegazioni in Israele-Palestina di "mediazione civile" guidate da associazioni, o a volte da comuni, in grado di riunire militanti di età e di origine diversa, in relazione con i pacifisti israeliani e con le ONG palestinesi, hanno non solo una concreta efficacia sul posto, ma anche un potere simbolico assai forte in Francia. Tuttavia, esse non dispongono di alcun sostegno mediatico consistente e ricevono un appoggio minimo da parte delle principali associazioni politiche o sindacali.

Coloro che credono nello "scontro delle civiltà" sono all'opera nelle nostre società, coperti dalle parole tranquillizzanti di chi, checché ne dica, aderisce alla teoria della "Fine della storia", credendo di non possedere né storie individuali, né una vera Storia.  E' davvero il momento di riprendere la battaglia democratica contro gli uni e gli altri se non vogliamo lasciare l'iniziativa al funesto insieme degli ossessionati della sicurezza, degli irresponsabili nazionalisti, dei sostenitori di Le Pen, degli accaniti di Sharon o degli ammiratori di Bin Laden.

Bernard Dréano, presidente del Cedetim e della rete internazionale HCA (Helsinki Citizen's Assembly)
Estratto dal documento "Le centre du monde", che potrete trovare su:
http:// attac.org/ fra/list/doc/dreano.htm
Pubblicazione in collaborazione con il sito internet del Cedetim
www.cedetim.org/newyork

Traduzione a cura di Ester Botta

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18.01 In Corea, libertà ridotta grazie alle leggi di prevenzione del terrorismo

Corea: misure antiterrorismo e nuovo regno del terrore

di Picis

GRANELLO DI SABBIA (n°28)
Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
Venerdì, 18-01-2002


La legge di Prevenzione del Terrorismo: il nuovo "regno del terrore".

Il governo coreano si è unito al coro delle elites internazionali che vogliono delle leggi che diano dei poteri senza precedenti agli organi di sicurezza nazionale limitando nello stesso tempo i diritti delle popolazioni.

Le associazioni di difesa dei diritti umani, come "Saranbang", viste le proposte che riguardano la legge di prevenzione al terrorismo, hanno espresso la preoccupazione che questa legge potrebbe essere utilizzata per reprimere ogni forma di contestazione al governo. Anche  i media più importanti hanno espresso la stessa preoccupazione. Tuttavia l'Agenzia Nazionale di Sicurezza (NIS - National Intelligence Service) continua a portare avanti i suoi progetti. Sembra che la legge abbia già ricevuto l'approvazione ufficiale del Presidente e stia per essere presentata in Parlamento. Secondo Ryu Eun-Sook di Sarangbang: "le leggi che riguardano la
vita delle persone ristagnano in Parlamento, mentre la legge di prevenzione al terrorismo è in dirittura di arrivo".

La NIS non fa mistero di avere utilizzato come modello per questa legge il "Patriot Bill" degli Stati Uniti, la legge britannica anti-terrorismo ed altre leggi simili dei paesi imperialisti. I militanti affermano che la definizione di terrorismo è molto vaga e può includere ogni forma di
opposizione al governo. Questa legge preoccupa molto la Corea, poiché in fondo, non è che una semplice estensione della legge sulla Sicurezza Nazionale, una legge draconiana che continua a mandare in prigione i lavoratori, gli studenti e i militanti.

Con le disposizioni della legge di prevenzione al terrorismo, la celebre NIS avrà dunque due leggi in suo potere (pur avendo cambiato spesso nome questa agenzia non può nascondere una lunga storia di torture ed omicidi. Colmo dell'ironia, una delle sue numerose vittime è proprio l'attuale presidente della Corea, come lo testimonia la sua gamba storpia).

Recentemente, le organizzazioni dei diritti dell'uomo e di difesa sociale hanno formato un'alleanza per combattere questa legge, la "Il Fronte Comune di Opposizione alla legge di prevenzione del terrorismo" alla quale aderiscono più di 70 organizzazioni, e che ha iniziato delle azioni di resistenza. Molti manifestanti si sono radunati davanti al quartiere generale della NIS e lì sono stati raggiunti dai membri delle famiglie di prigionieri politici incarcerati a causa della legge di sicurezza nazionale.
I manifestanti affermavano che la legge darà alla NIS il diritto di qualificare una persona o un gruppo come "terrorista". Hanno consegnato una lettera di protesta alla NIS e manterranno una staffetta di persone davanti al Parlamento per convincere i deputati a votare contro la legge. Il Fronte Comune prepara ugualmente una petizione da consegnare alla Commissione
Parlamentare sulla Sicurezza.

La definizione di terrorismo è sempre stata oggetto di discussioni politiche e le potenze egemoni utilizzano questo termine per giustificare i loro propri atti di terrorismo. Le organizzazioni internazionali, ONU compresa, hanno già tentato, invano, di darne una definizione. Curiosamente, all'assemblea generale dell'ONU nel 1987, i soli paesi che si siano opposti ad un'energica risoluzione contro il terrorismo sono stati gli USA e Israele.
Si opposero perché all'epoca le loro azioni verso altri stati e popoli avrebbero ben potuto essere qualificate di "atti di terrorismo" dalla risoluzione dell'ONU. L'importante in questo momento, non è di proporre una definizione più "limitata" di terrorismo, ma di capire che gli imperialisti e le elite dei governi nel mondo si sono incaricati della sua definizione e
la utilizzeranno contro i popoli del mondo per difendere i loro interessi politici, economici e sociali. E' esattamente quello che sta succedendo con le leggi che sono state varate dopo la tragedia dell'11 settembre. Le élites del governo non nascondono la loro intenzione di includere nella loro definizione i "contestatori" che si oppongono al "capitalismo globale". Ciò che, senza dubbio alcuno, indica l'opposizione sempre più grande alla globalizzazione neo-liberista. Il calendario economico e politico che i difensori nel neo-liberismo progettano (vedi Doha) è concepito per ostacolare tutto quello che il movimento internazionale contro la globalizzazione ha compiuto in questi ultimi anni, e la serie delle "leggi anti-terrorismo" è fatta apposta per appoggiare questo calendario. E' importante esaminare questa legge alla luce degli obiettivi economici e politici del governo, dobbiamo combatterla fino in fondo.

PICIS - - Policy and Information Center for International Solidarity
http://picis.jinbo.net/

Traduzione a cura di Patrizia Rosa Rosa

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18.01

Le Libertà in "custodia cautelare" in Canada

 

Le Libertà in "custodia cautelare" in Canada

di Yanic Viau (membro di ATTAC)

GRANELLO DI SABBIA (n°28)
Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
Venerdì, 18-01-2002


1. I progetti di legge "antiterrorismo" del governo canadese: inaccettabili e pericolosi.

La risposta del governo canadese agli attentati dell'11 settembre si è tradotta, sul piano legislativo, nell'elaborazione di due progetti di legge "antiterrorismo": innanzi tutto il progetto di legge C-36, presentato dal ministro della giustizia Anne McLellan; in secondo luogo, il progetto di legge C-42, presentato recentemente dal ministro della difesa Art Eggleton.
Il governo del primo ministro liberale Jean Chretien vuole approvare in tempi rapidi questi due progetti, di chiara ispirazione statunitense, e per fare ciò è pronto a mettere il bavaglio ai deputati della Camera dei Comuni.

Questi provvedimenti, se entrassero in vigore senza emendamenti sostanziali, costituirebbero una grave minaccia per le libertà fondamentali ed i movimenti sociali, com'è stato denunciato dalla Lega dei diritti e delle libertà in una "Dichiarazione comune contro il progetto di legge
antiterrorismo C-36 ed in favore delle libertà civili", cui hanno aderito molti gruppi ed associazioni, tra i quali Attac-Québec.

"Dichiarazione comune contro il progetto di legge C-36 e per la difesa delle libertà civili"

Noi ci opponiamo al progetto di legge C-36 che modifica più di venti leggi, tra le quali il Codice Penale, la legge sui segreti di stato, la legge sulle prove nel processo penale e la legge sull'accesso all'informazione.

L'insieme delle modifiche proposte con questo progetto di legge omnibus sconvolge il sistema giuridico e giudiziario e implica la rinuncia a garanzie fondamentali, riconosciute dalla Carta canadese dei diritti e delle libertà, dal diritto comune e dalle regole di equità processuale, tra le
quali il diritto alla libertà, alla sicurezza, ad un processo pubblico nonché il diritto al silenzio.

Si avrebbe un aumento notevole dei poteri del governo e dei corpi di polizia, e sarebbero introdotte modifiche fondamentali alle regole giudiziarie normalmente applicate, soprattutto in materia di fermo, di detenzione e di intercettazioni: carcerazione preventiva senza accusa fino a 72 ore, svolgimento di indagini senza preciso mandato e, nel quadro di tali indagini, detenzione a meri fini di interrogatorio. Le comunità arabe e musulmane, in particolare, temono di essere vittime designate di queste misure. Gli ampi poteri conferiti alle forze dell'ordine consentono loro di interrogare, sorvegliare, detenere e schedare persone sulle quali gravano dei semplici sospetti di "attività terroristica". La stessa definizione di attività terroristica, di importanza centrale nel progetto di legge, è vaga, imprecisa, di una portata talmente ampia da permettere di ricomprendervi quelle forme di contestazione e dissenso che con il terrorismo non hanno nulla a che vedere, come ad esempio scioperi illegali, azioni di
disobbedienza civile e perfino manifestazioni pubbliche.

La necessità di tali misure non è stata dimostrata, in relazione agli obiettivi dichiarati, e su di esse non si è avuto, preliminarmente, un vero dibattito politico. Inoltre, il Codice penale e la legge sui servizi segreti canadesi, contengono già diverse disposizioni che permettono una lotta efficace contro il terrorismo.

Non si tratta di negare l'adeguatezza di alcune disposizioni, che possono essere giustificate dalla situazione attuale, soprattutto quelle che riguardano i finanziamenti dei gruppi terroristici, l'eliminazione dei paradisi fiscali e la lotta al riciclaggio di denaro sporco così come il
rafforzamento delle misure di sicurezza in certi luoghi nevralgici come gli aeroporti, le centrali nucleari o le frontiere.

Tuttavia il progetto C-36 nel suo complesso è inaccettabile. E' una risposta precipitosa e eccessiva alle preoccupazioni suscitate dagli attentati terroristici dell'11 settembre, che apre la porta a gravi violazioni dei diritti e delle libertà.
E' necessario, al contrario, non farsi schiacciare dall'ondata di panico provocata da quegli attentati e non sacrificare le nostre libertà civili con progetti di questo tipo.
E' per questi motivi che chiediamo il ritiro del progetto di legge C-36.
Lega dei diritti e delle libertà 65, avenue De Castelnau Ouest, bureau 301 Montréal (Québec) H2R 2W3 Fax: (1-514) 849-6717  Posta elettronica: ldl@videotron.net

2. Progetto di legge C-36: riduzione dei tempi del dibattito per i parlamentari canadesi.

Lo scorso 28 novembre, il governo canadese ha fatto adottare una mozione che ha posto limiti temporale al dibattito sul progetto di legge C-36 contro il terrorismo, cosa possibile in base alle regole del parlamentarismo di tradizione britannica.
 
Il progetto di legge ha così superato rapidamente la soglia della terza lettura con 190 voti a favore e 47 contro. I liberali (PLC, al potere) hanno ottenuto l'appoggio dell'opposizione di destra (Partito conservatore e Alleanza canadese). Il Blocco québécois (BQ, indipendentisti del Québec) ed il nuovo partito democratico (NPD, centro- sinistra) si sono opposti, ritenendo il progetto una minaccia alle libertà civili.

Il PDL è stato così adottato ed inviato al Senato (assemblea non elettiva, i cui membri sono nominati dal primo ministro), dove solo poche ore saranno destinate al dibattito. Il governo ha auspicato che il progetto sia adottato definitivamente prima di Natale, in ragione della sua importanza, lasciando anche intendere che dei deputati d'opposizione hanno cercato di fare
ostruzionismo per ritardarne l'approvazione. In realtà tutti i partiti si erano impegnati a dibattere il progetto senza ambiguità.

"Sembra che più un progetto di legge è importante, meno la Camera dei comuni ha la possibilità di dibatterne. E' una tendenza che mi preoccupa. Più è importante, meno tempo si ha per discuterne", ha dichiarato Bill Blaikie, deputato del NPD, citato nel quotidiano di Montréal, Le Devoir. Un deputato del Partito liberale, al potere, Andrew Teledgi, fuggito dal regime stalinista ungherese in gioventù, ha votato contro il progetto.

Il progetto ha incontrato l'opposizione di un'ampia coalizione di organizzazioni e di privati cittadini. L'associazione del Foro canadese e il commissario per l'informazione, John Reid (ombudsman in materia di tutela della vita privata nominato dal governo federale - figura analoga al nostro garante per la tutela dei dati personali) si sono mostrati preoccupati e
insoddisfatti del progetto di legge così com'è attualmente, nonostante qualche emendamento di scarsa importanza apportato dal ministro McLellan.
Quest'ultima ha scritto alla presidente del comitato del Senato che studierà il progetto di legge per chiedere di rimuovere quelli che ritiene dei seri attentati ai poteri conferitigli dal Parlamento.

3. Le leggi "antiterrorismo" contro i movimenti sociali: il punto di vista di un Ministro e di un alto funzionario canadese.

L'idea di ricorrere a leggi e misure c.d. "antiterrorismo" contro i movimenti sociali non è che una paranoia dei militanti e delle militanti, priva di fondamento.
Lo scorso 28 novembre, un alto funzionario del governo canadese spiegava in cosa consiste la nozione di "zona di sicurezza militare", prevista nel nuovo progetto di legge C-42 sulla sicurezza pubblica, prendendo ad esempio il vertice di capi di stato e di governo delle Americhe, riuniti lo scorso aprile a Québec per negoziare una Zona di libero scambio delle Americhe (ZLEA). Il ministro canadese della difesa ha in mente soprattutto il prossimo vertice del G8, previsto a Kananaskis (Alberta, Canada) la prossima estate.

Se il progetto di legge C-42 sulla sicurezza pubblica fosse entrato in vigore lo scorso aprile, il vecchio Québec avrebbe potuto essere trasformato in "zona di sicurezza militare" durante lo svolgimento del vertice delle Americhe. E' solo uno degli esempi portati da un funzionario di alto livello per spiegare questo concetto ai ministri federali e provinciali della giustizia e della sicurezza, riuniti ieri a Ottawa.

Nonostante la sua apparenza di progetto di legge destinato a rafforzare la sicurezza negli aeroporti, il C-42 contiene alcune disposizioni che consentono al ministro della difesa, su raccomandazione del capo di stato maggiore, di creare delle "zone di sicurezza militare", ad accesso limitato "per assicurare la sicurezza di qualunque persona e di qualunque cosa",
qualora ciò sia ritenuto necessario per "le relazioni internazionali, la difesa o la sicurezza nazionale".

Queste zone potrebbero essere create al fine di proteggere infrastrutture militari oppure "i beni, i luoghi o gli oggetti che le forze canadesi hanno ricevuto istruzione di proteggere, per adempiere ad un obbligo previsto dalla legge". Potrebbero essere stabilite per un periodo massimo di un anno e la loro estensione "non dovrà essere più grande di quanto è
ragionevolmente necessario" (dal progetto di legge citato in Le Devoir, Montréal, 29 novembre 2001).
Un terreno, uno specchio d'acqua, lo spazio aereo o un'installazione militare, i beni del governo federale o quelli di un paese straniero, potrebbero essere interessati da questo tipo di provvedimento. In tali zone la circolazione sarebbe vietata e gli intrusi, animali compresi, potrebbero essere respinti con la forza.

Il Bloc québécois (gruppo indipendentista al parlamento federale) ha paragonato il progetto di legge C-42 alla legge canadese sulle misure di guerra, applicata durante la crisi d'ottobre. Vi è da ricordare che nell'ottobre 1970, una cellula del Fronte di liberazione del Québec (FLQ) rapì il
ministro del lavoro del Québéc, Pierre Laporte. Il governo federale, allora presieduto da Pierre Elliott Trudeau, rispose instaurando lo stato di guerra verso il Québéc e distribuendo l'esercito su tutto il territorio di quella regione, utilizzando inoltre la crisi per orchestrare una campagna del terrore contro i movimenti sociali e il movimento indipendentista.

Centinaia di persone furono vittime di perquisizioni e detenzioni arbitrarie, soprattutto artisti, intellettuali di sinistra, militanti sindacali e politici senza alcun legame con il FLQ.

Oggi Il "Blocco" teme che la nuova legge sia utilizzata non solo nei confronti di individui ma anche su interi territori. Il primo ministro federale, Jean Chrétien, ha accusato il Bloc Québécois di "esagerare e tentare di spaventare il mondo".
Per preoccupazione reale o per opportunismo, molte voci si levano contro l'utilizzo del progetto di legge C-42 allo scopo di reprimere le manifestazioni sociali legate al tema della globalizzazione.
Lo stesso leader del partito conservatore Joe Clark, ha rilevato come il governo potrebbe ricorrere alla legge C-42 per chiudere completamente la città di Kananaskis, nell'Alberta, dove è in programma il prossimo vertice del G8, la prossima estate, dichiarandola "zona militare".

Lo scorso 26 novembre, il ministro della giustizia, Anne McLellan, aveva cercato di rassicurare il deputato di centro-sinistra (NPD) Bill Blaike, assicurando che il progetto di legge C-42 non aveva obiettivi nascosti e che non sarebbe servito a consentire la blindatura di Kananaskis durante il prossimo vertice del G8. Due giorni più tardi, tuttavia, il ministro della difesa, Art Eggleton, ha smentito la sua collega affermando che "la legge permette, tra l'altro, di intervenire in circostanze nelle quali la polizia ha bisogno d'aiuto. Questo intervento può avvenire ad esempio in una zona dove si svolge un incontro, un vertice, come Kananaskis. Altro esempio potrebbe essere una centrale nucleare".
L'atteggiamento difensivo del governo ed il suo rifiuto di dar vita ad un vero ed approfondito dibattito sui due progetti di legge determinano una riduzione della fiducia e del relativo appoggio che i partiti d'opposizione gli avevano accordato dopo i fatti dell'11 settembre, per lottare uniti contro il terrorismo.

Informazioni fornite da:
Yanic Viau, ATTAC-Québec  quebec@attac.org
Fonti: Le Devoir (Montréal), CMAQ (Indymedia Québec), ATTAC-Québec

Traduzione a cura di Silvio Favari

 

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18.01 Definire il terrorismo

Definire il terrorismo

di John Brown

GRANELLO DI SABBIA (n°28)
Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
Venerdì, 18-01-2002


A proposito della proposta di una decisione-quadro sul terrorismo che è stata proposta dalla Commissione Europea al Consiglio dell'UE (estratto)

La tradizione dello stato di diritto come ostacolo per una definizione del terrorismo.

Il termine "terrorismo" viene per la prima volta usato nel diritto internazionale in due testi recentissimi: la Convenzione internazionale per la repressione degli attentati terroristici a base di esplosivo (New York, 15 dicembre 1997) e la Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo (New York, 9 dicembre 1999).Questi due testi presentano un paradosso interessante: non danno una definizione diretta del termine "terrorismo", che tuttavia  appare come aggettivo o come sostantivo nel titolo dei due atti; altri concetti essenziali sono invece espressamente definiti. Certo, si sono fatti sforzi notevoli per passare dalla pluralità di atti punibili che erano contenuti nelle disposizioni precedenti ad una
delimitazione generale del fatto terroristico, ma questa delimitazione non riesce a divenire una definizione chiara.

Pare quindi che ci sia una certa reticenza a definire un termine che, comparendo nei titoli, dovrebbe essere fondamentale in questi testi legislativi, e che diverrà retroattivamente la chiave di volta di una nuova dottrina giuridica.

La Commissione, nell'esporre i motivi della proposta, affermava: "secondo la convenzione contro il finanziamento del terrorismo, il fatto di fornire o raccogliere fondi, direttamente o indirettamente, illecitamente e intenzionalmente, in vista di utilizzarli o essendo consapevoli che saranno utilizzati per commettere ogni atto contemplato nella Convenzione summenzionata (con l'eccezione della Convenzione relativa alle infrazioni e a determinati atti compiuti a bordo di aeromobili, che non vi è compresa) costituisce un'infrazione. Ciò significa che, anche se i termini "terrorismo" o "atti terroristici" non figurano nella maggioranza delle
Convenzioni, essi riguardano le infrazioni terroristiche".

Insomma, il legislatore internazionale degli anni dal '60 all'80, avrebbe già fatto dell'antiterrorismo senza saperlo.

Noi non riusciamo a essere d'accordo. C'è un'enorme differenza tra la definizione di azioni concrete che il legislatore giudica punibili e la formulazione di una categoria giuridica generale come quella di "terrorismo", che comprende queste azioni e molte altre, unificandole sotto una finalità comune di ordine politico. Questa distanza è chiaramente rilevabile nelle differenti finalità che esistono tra i testi che definiscono queste azioni e quelli che definiranno il terrorismo.

Lo scopo dei primi testi è in generale quello di favorire la cooperazione internazionale nella lotta contro determinati atti di violenza particolarmente pericolosi o odiosi. A quesito scopo, era importante distinguerli dalle azioni politiche, di rifiutare loro il riconoscimento di
ogni carattere politico e di comprenderli nel diritto comune. Questo è d'altronde indispensabile in sistemi legali democratici e garantisti, che non conoscono delitti politici e che non riescono a sanzionare che azioni concrete e mai le opinioni.
A titolo di esempio, leggiamo l'articolo 6 della Convenzione sulla repressione del finanziamento al terrorismo: "Ogni stato membro adotta le misure che possono essere necessarie, ivi
compreso, se è il caso, una legislazione interna, per garantire che le azioni criminali che derivano dalla presente convenzione non possano in alcuna circostanza essere giustificate da considerazioni di natura politica, filosofica, ideologica, razziale, etnica, religiosa, né da considerazioni di analoga natura".

Questa affermazione coincide con quella dell'articolo 5 della Convenzione sugli attentati terroristici a base di esplosivo e, a livello europeo, con quella della Convenzione del Consiglio d'Europa del 1977.

E' dunque l'aspetto non politico dell'atto (azione) terroristico che deve essere messo in evidenza. Per questa ragione, l'unico elemento che distingue gli atti terroristici dagli atti di diritto comune - e cioè la loro finalità politica - dev'essere sistematicamente messa tra parentesi,  ciò che rende impossibile la loro definizione. Al contrario, la definizione del terrorismo esigerà che venga più o meno chiaramente invocata una finalità politica.

Anche se non esiste una definizione precisa di terrorismo, la Convenzione sul finanziamento al terrorismo (art. 2, comma 1b), considera infrazione, oltre alle azioni concrete previste dalle varie convenzioni internazionali: "ogni (.) azione destinata a causare la morte o danni corporali gravi a ogni civile, o ad ogni altra persona che non partecipa direttamente alle ostilità
in una situazione di conflitto armato, quando, per la natura del suo contesto, questa azione è destinata a intimidire una popolazione o a costringere un governo o un'organizzazione internazionale a fare o a non fare una qualsiasi azione".

Questa definizione merita di essere analizzata con un po' d'attenzione. Costituisce un primo tentativo di definizione del terrorismo, ma mette insieme concezioni differenti - e cioè in contraddizione a questo fenomeno. La prima, quella che insiste sui danni causati alla popolazione civile, si situa sulla linea dei principi del tribunale di Norimberga.
La seconda, che mette in rilievo il sovvertimento dell'ordine politico, troverà la sua espressione nel "Terrorism Act" inglese e ispirerà la proposta della Commissione.

John Brown (membro di ATTAC)
 
Traduzione a cura di U.g.b. Bardella

Per leggere il Granello più comodamente e per stamparlo su carta
Format RTF http://attac.org/attacinfoit/attacinfo28.zip
Format PDF
http://attac.org/attacinfoit/attacinfo28.pdf

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17.01

Diorama: Padroni del mondo?

"Padroni del mondo?"

Sommario del numero 249 (gennaio 2002) di "Diorama Letterario", pp. 40, euro 2,30


OSSERVATORIO
11 settembre 2001  (Alain de Benoist)
Qualche dubbio dopo gli attentati di New York e Washington (Claude Karnoouh)
Gli attentati di New York e Washington: cause oscure, effetti certi (Ruben Frizzera)


POLITICA              
John Cooley: Una guerra empia (Alessandro Bedini)
Ludovico Incisa di Camerana: Stato di guerra (Roberto Zavaglia)
Testimoni a Coblenza (Mario Sanesi)
Antonio Venier: Il disastro di una nazione (Stefano Serafini)
Murray Bookchin: Democrazia diretta (Claudio Ughetto)


IDEE
Joseph de Maistre: Breviario della tradizione (Paolo Pastori)
Manuela Alessio: Tra guerra e pace (Luca Rimbotti)


RIVISTE
Koinè (Walter Catalano), Trasgressioni


LETTERATURA
Hugo Claus: La sofferenza del Belgio (Mario Sanesi)

 

"Diorama Letterario" è acquistabile presso tutte le librerie del circuito Feltrinelli.

sito web: www.diorama.it

ordini@diorama.it  

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17.01

I conflitti nell'era della globalizzazione

Comune di Somigliano d’Arco – Assessorato alle Politiche culturali

 SI TERRA’ SABATO 19 GENNAIO PRESSO IL PALAZZO BARONALE

DI POMIGLIANO D’ARCO IL CONVEGNO SU

I CONFLITTI NELL'ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE

L’EVENTO SI INSCRIVE NEL PROGRAMMA DI “CITTA’ GLOBALE”

Avrà luogo sabato 19 gennaio alle ore 18.00 nella cornice del restaurato Palazzo Baronale di Pomigliano d’Arco (Piazza Municipio), il convegno dal titolo “I conflitti nell’era della globalizzazione”. Al dibattito interverranno:  Michele Caiazzo, sindaco di Pomigliano d'Arco; Luigi Casciello, direttore del quotidiano "Roma"; Alfonso Desiderio, responsabile attività esterne di "Limes"; Francesco Romanetti, responsabile esteri del quotidiano "Il Mattino"; Rosario Sommella, docente di geografia dello sviluppo presso l’Istituto Universitario Orientale; Sergio Travi, vice presidente di Amnesty International di Italia.

L’evento, organizzato dall’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Pomigliano d’Arco, in collaborazione con Limes, rientra nell’ambito del progetto più ampio di “Città Globale”, un contenitore di eventi eterogenei, che hanno avuto inizio il 20 dicembre con la mostra fotografica “Non sopportiamo la tortura”, ospitata nella stazione Circumvesuviana e realizzata in collaborazione con Amnesty International (resterà aperta fino al 27 gennaio). La prima fase del contenitore di città globale chiuderà l’arco di eventi domenica 27 gennaio con la proiezione “Il viaggio della memoria” sugli orrori della guerra, evento che si terrà presso il Capannone La Gatta, nella zona industriale di Pomigliano d’Arco.

“Città Globale raggruppa eventi di diversa natura” spiega Onofrio Piccolo, assessore alle politiche culturali del Comune di Pomigliano d’Arco, nonché fautore del progetto, “dai concerti alle mostre alle proiezioni ai dibattiti, eventi rivolti a target diversi, ma con una finalità comune: porre al centro dell'attenzione il fenomeno della globalizzazione della società proponendo, se possibile, chiavi di lettura alternative alla tendenza diffusa di interpretare gli eventi mondiali attraverso il filtro dei valori della nostra società occidentale e di considerare questi ultimi come unico parametro di riferimento”.

 

Il convegno cade in un momento particolare: si alluderà agli eventi in Afganistan senza però ridurre unicamente il dibattito all'intervento militare occidentale in Asia. “Gli osservatori attenti” sostiene l’assessore Piccolo, “avranno già notato in tempi non sospetti, forse lo spartiacque è stato veramente la guerra mediatica del Golfo, che il fenomeno della globalizzazione, di pari passo al crollo dell’Unione Sovietica, ha posto nuovi problemi ed ha fatto tornare a galla vecchie teorie: alludo alle tesi di Hountington sullo scontro tra civiltà”. Il convegno indagherà dunque l’evoluzione dei rapporti tra popoli, società ed individui, affrontando temi cruciali quali il carattere “asimmetrico” delle nuove guerre, il ruolo dei media, il fattore religioso ed etnico, la marginalizzazione dei sud del mondo.

 

L’ADDETTO STAMPA

 

Per Informazioni: www.cittaglobale.org - Ufficio Stampa: 0818034139 - 3391167698

Onofrio Piccolo, Assessore alle politiche culturali

tel. 081 5217306fax. 081 5217206cell. 348 8055676 - 339 6540264 - onofriopiccolo@libero.it

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16.01

Sondaggio CNN per gli ispettori ONU in Palestina

La CNN sta effettuando un sondaggio in cui chiede se si debba o meno inviare degli osservatori internazionali in Israele e nei territori palestinesi. Andate all'indirizzo

http://home.netscape.com/ex/shak/international/packages/mideast/

e votate sì in basso a destra!

La percentuale è attualmente di 35 % "sì" e 65 % "no" (12/I/02 h15).
Votiamo e facciamo votare per ribaltarla! Facciamo sentire che esiste un'opinione pubblica a favore dell'invio di osservatori al fine di proteggere la popolazione civile. Da tempo i responsabili palestinesi e il movimento per la pace israeliano lo reclamano. Mentre ad opporsi è solo chi, da entrambe le parti, vuole aver la possibilità di risolvere (?) le cose come in un film western. Inviate questo messaggio a tutti gli indirizzi che avete.

Rosetta

****

il 18.01 Annamaria Face ha risposto così all'appello:

Non credo che queste iniziative servano a molto, specialmente se si pensa che a capo della CNN c'è un certo Abrahamson!

 

15.01

Arabcomint: non può parlare seriamente, Mister Peres

Non puo' parlare seriamente, Mister Peres

Il primo ministro israeliano ed il suo ministro degli esteri sono intensamente impegnati nei negoziati sul futuro dei Territori occupati e sulla creazione di uno stato palestinese, secondo i media israeliani. Sfortunatamente, i due non stanno negoziando con i palestinesi, ma tra di loro.

In maniera tipicamente israeliana, i due non vedono il futuro della regione come un qualcosa che debba essere determinato dai suoi popoli, secondo i principi della legge internazionale e della giustizia, ma piuttosto come una faccenda essenzialmente interna su cui le varie fazioni politiche israeliane hanno il diritto di accapigliarsi.

Cosi', il ministro degli esteri Shimon Peres ha lanciato un'altra delle sue famose "iniziative" - trattasi della costituzione di uno "stato palestinese" nella Striscia di Gaza, da estendersi, non si sa quando ne' a quali condizioni, ad alcune parti della Cisgiordania. L'unica faccenda che i due devono risolvere riguarda la rimozione di alcune colonie dalla striscia di Gaza occupata. Sembra dunque che la "pace" sia a portata di mano.

Se la situazione nei Territori occupati non fosse cosi' drammatica a causa della continua aggressione israeliana contro l'esistenza dei palestinesi, la discussione Sharon-Peres potrebbe essere la base di una satira ilare e ben riuscita. Al contrario, essa dimostra quanto la classe politica israeliana sia lontana dal riconoscere la profondita' della crisi che essa ha creato e dei rimedi a cui ricorrere per metterci una pezza.

Tra le idee presentate recentemente da Peres ai leaders dell'Unione Europea riuniti a Bruxelles vi e' quella secondo cui l'Europa deve impegnarsi in alcuni progetti come parte del suo "piano di pace", i quali includono la creazione di un impianto energetico, un impianto di desalinizzazione, un oleodotto per il gas naturale, un'autostrada che colleghi Gaza alla Cisgiordania ed ai siti industriali. Tale linguaggio non e' altro che un trucco usato per tergiversare sull'assoluta ed inderogabile necessita' di una completa e rapida fine dell'occupazione militare israeliana in tutte le sue forme. E' uno sforzo estremo di riesumare il gioco delle scatole cinesi che risponde al nome di "accordi di Oslo".

Signor Peres, i palestinesi non vogliono doni ne' da lei ne' dall'Unione Europea. Essi vogliono la liberta' dai soldati israeliani, dai torturatori, dagli squadroni della morte, dai coloni e dagli ipocriti piani di "sviluppo" creati per loro e che non mettono l'accento sulla fine delle strutture di oppressione e strangolamento che negano loro qualsiasi diritto da 4 decenni. Queste dichiarazioni non sono diverse da quelle dei leaders del Sudafrica dell'apartheid, i quali, piuttosto che parlare dei problemi in termini di diritti umani e politici, risolvevano il tutto con la promessa - ugualmente inadempiuta - di "sviluppo economico" per i neri.

I dettagli dell'ultimo delirio di Peres sono ininfluenti. E' sufficiente dire che quello che oggi lui propone e' ancora meno di quanto proposto da Ehud Barak a Camp David. Peres non puo' certamente credere che ci sia un solo palestinese sulla terra disposto a considerare seriamente la proposta che lui e Sharon si apprestano a lanciare.

E' molto verosimile, invece, che lo scopo di Peres sia semplicemente fare in modo che il governo israeliano - governo che ha sempre tenacemente rifiutato qualsiasi negoziato con i palestinesi - sia pressato il meno possibile. Un altro scopo potrebbe essere quello di tenere caldo il suo quasi defunto corpo politico in vista di una futura corsa alla poltrona di primo ministro. Questo impone che Peres si presenti sulla scena internazionale come "colomba" alternativa mentre, al tempo stesso, si tiene al centro del potere in Israele.

Si consideri che Peres accompagna il suo nuovo piano con la speranza per la creazione di un "Benelux economico" che comprenda, tra gli altri, Israele ed il glorificato campo di concentramento palestinese che, con molta fantasia ed altrettanto cinismo, si chiamera' "stato". Il tutto con la cooperazione dell'Unione Europea.

Non si vergogna, quest'uomo, di riferirsi alle strutture dell'Europa uscita dalla Seconda Guerra Mondiale create con lo scopo di impedire il ripetersi di guerre e genocidi quando lui e' membro di un governo che include, tra gli altri, un partito che apertamente chiede il ripetersi della pulizia etnica dei palestinesi? Naturalmente, si suppone che noi crediamo che, pur sedendo allo stesso tavolo del partito Moledet e del suo leader recentemente assassinato, Rehavam Zevi, Peres sia, in realta', un moderato.

Ammesso che sia cosi', come si puo' ritenere che Sharon ed i suoi ministri pro-pulizia etnica, i quali non ascoltano Bush, possano ascoltare Peres? E poi, non e' sufficientemente chiaro che la posizione di Peres e' molto cambiata di recente? Cio' significa che, piu' che avere Peres un ruolo "moderatore" nei confronti del suo governo, e' piuttosto questo governo, composto da Sharon e dai suoi ministri ultrarazzisti, a radicalizzare anche le cosiddette "colombe", sicche' le loro ideologie fanatiche di dominio razziale e religioso, totalmente aliene al mondo civile, finiscono per divenire il corso naturale della politica israeliana.

Peres, dando in prestito al governo Sharon la sua dubbia ma durevole rispettabilita', agisce, in realta', per la continuazione di una cultura politica israeliana persino piu' feroce, la quale non immagina altro futuro per il Medioriente che non sia quello basato sul confronto e la conquista.

Come scrisse un famoso filosofo francese del diciottesimo secolo, che diede il suo nome ad un certo genere di perversa crudelta'molto familiare per le vittime della barbara occupazione israeliana, "nessuno e' piu' pericoloso di un uomo privo di vergogna che sia diventato troppo vecchio per arrossire".

Ali Abunimah, intellettuale residente negli USA, autore del libro "La Nuova Intifada: resistenza all'apartheid israeliano".

http://www.arabcomint.com/non%20puo'%20parlare%20seriamente.htm

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15.01

I Taleban in catene: spettacolo incivile

I TALEBAN IN CATENE: SPETTACOLO INCIVILE

di Massimo Fini (il Giorno, 15.01.02)

L'altra sera «Porta a Porta» ha dato il peggio di sé con una trasmissione sull'Afganistan cui erano presenti, oltre al ministro della Difesa Antonio Martino, al diessino Ranieri e alla giornalista Lucia Annunziata, Vittorio Sgarbi e il cantante Lorenzo Jovanotti, che han fatto la parte del leone.
Lascia perplessi che il ministro Martino si lasci coinvolgere in dibattiti con guitti di questo genere, ma forse la colpa è dei tempi, in cui a farla da opinion maker non son più i Benedetto Croce, i Carlo Arturo Jemolo, i Pasolini, ma i Jovanotti, le Parietti e, insomma, i rappresentanti dello
star system cui Sgarbi, occasionalmente sottosegretario alla Cultura, appartiene a giusto titolo. Naturalmente è stata la sagra dei luoghi comuni, delle viscere in luogo degli argomenti, dal «pacifismo universale», utopico e calabraghe alla Jovanotti, dei consueti insulti di Sgarbi per il quale chiunque è contrario a questa guerra è un nipotino di Hitler.
In genere si crede - e «Porta a Porta» ne è buona testimonianza - che chi è contrario alla guerra all'Afganistan sia un pacifista integrale e di sinistra. Non è così. Si può esser convinti che la guerra sia a volte indispensabile per risolvere conflitti non componibili altrimenti, ma essere contrari a questa guerra, al modo in cui è stata condotta, agli obiettivi che sono stati raggiunti. Proprio dalle parole di Martino, della Annunziata, di Ranieri veniva fuori con chiarezza che gli americani sono andati in Afganistan per combattere i terroristi e han finito per far la guerra al governo talebano e al burqa. Ci si può chiedere se è lecito bombardare per tre mesi un Paese, ammazzare 3.767 civili (più delle Torri gemelle) secondo stime della università del New Hampshire, 8.000 secondo altre, solo perché c'è una dittatura.
L'Annunziata, invece di vergognarsi d'esser lì, squittiva di autoammirazione occidentale,  osservando che posizioni contrapposte come quelle di Jovanotti e Sgarbi sono possibili solo nella tolleranza della democrazia. Ma è troppo facile essere tolleranti con chi è comunque omogeneo allo schema ideologico ma poi reagire bombardando chi non lo è, come i Taleban. Né mi sembra avere
nulla a che fare con la tolleranza il vizietto che abbiamo preso da qualche tempo di considerare il nemico, si tratti di Khomeini, di Saddam o del mullah Omar, come «il Male», consentendoci, per ciò, cose che non si erano viste neanche nella Seconda guerra mondiale: bombardamenti su detenuti, bombe da sette tonnellate per stanare un talebano inguattato, forse, nella foresta, bombe su un intero villaggio perché vi è nascosto, forse, un terrorista, arresti di ambasciatori accreditati e, da ultimo, prigionieri trattati non come prigionieri di guerra e nemmeno come criminali, ma
trascinati, legati l'uno all'altro, in catene incappucciati, riempiti di psicofarmaci costretti a cagarsi addosso in un viaggio aereo di ventisette ore e, infine, rinchiusi, come bestie, in gabbie all'aperto sotto la luce dei riflettori giorno e notte.
Non è necessario essere pacifisti per dir no a tutto questo. E' sufficiente aver rispetto della guerra e delle sue regole.

http://www.ilgiorno.it  

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15.01

il 22 gennaio alla Casa delle Letterature: "Panta editoria"

Martedì 22 Gennaio 2001 - Ore 17,00
Casa delle Letterature - P.zza dell'Orologio, 3

L'Università Popolare di Roma
presenta
Panta Editoria
edizione Bompiani
a cura di Laura Lepri e Elisabetta Sgarbi
Introduce: Alain Elkann
Coordina: Francesco Florenzano

Interverranno:
Marco Cassini, Ivan Cotroneo, Daniele Di Gennaro, Carmine Donzelli,
Elido Fazi, Enrico Ghezzi, Giuseppe Laterza,
Eugenio Lio, Anna Maria Lorusso, Corrado Perna, Sandro Veronesi.
Saranno presenti le curatrici del volume

Per informazioni: 06.69.20.43.310

Vi consiglio di richiedere la lettera di programma.asefi@asefi.it  

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15.01 In Afghanistan USA e GB interessate al petrolio e non alla condizione della donna

 

Ex-ministro britannico: "l'interesse USA e GB in Afghanistan è il petrolio, e non certo liberare le donne dal regime talebano"

di Adel Darwish

(al-Watan, Arabia Saudita, 15 gennaio 2002)

 

وزير بريطاني سابق: اهتمام واشنطن ولندن بأفغانستان سببه البترول وليس تخليص النساء من حكم طالبان

لندن: عادل درويش
اتهم السياسي البريطاني العمالي الشهير توني بن حكومتي بلاده والولايات المتحدة الأمريكية بالتورط في أفغانستان لأسباب تتعلق ببترول آسيا الوسطى وليس من أجل مصلحة الشعب الأفغاني أو البلدان المحيطة أو مكافحة الإرهاب كما تدعيان.
وكان بن الذي عمل وزيرا للبترول والطاقة في حكومة العمال في منتصف السبعينيات يتحدث أمس في برنامج أسبوعي في الـ "بي بي سي" عن الفلسفات والتيارات المعاصرة، مع عدد آخر من ضيوف البرنامج من المفكرين، عندما قال "من السذاجة أن نصدق ادعاءات حكومتي لندن وواشنطن حول أنهما ذهبتا إلى أفغانستان لنصرة النساء اللواتي حرمتهن طالبان من التعليم والعلاج الصحي، أو لمساعدة الشعب الأفغاني على تأسيس حكومة ممثلة لجميع الطوائف". وأضاف أن اهتمام بريطانيا وأمريكا بالوجود في أفغانستان "وبتأسيس حكومة صديقة موالية لهما يعود إلى إدراكهما الأهمية الإستراتيجية لأفغانستان من حيث إنها طريق مهم لاستخراج بترول آسيا الوسطى والمناطق المتاخمة لبحر قزوين".
وتابع بن أن "الرئيس الأمريكي جورج بوش ومجموعة مصالح البترول من تكساس التي تمثل معظم رجال الإدارة كانوا على علم دائم بممارسات وسياسات حكومة الملا محمد عمر عندما دعوا ممثلي طالبان قبل ثلاثة أعوام ونصف إلى تكساس للتفاوض حول قيام الشركات الأمريكية بإنشاء خط أنابيب لنقل البترول من كازاخستان ووسط آسيا عبر أفغانستان وطريق الحرير القديم". وأضاف "أن مفاوضات طالبان حول الموضوع استمرت مع الرئيس بوش وأبيه ومجموعة المصالح البترولية في تكساس قبل وبعد توليه الرئاسة".
وقال بن "إن الحكومات البريطانية المتعاقبة، سواء كانت من المحافظين أو العمال، تضع نصب عينيها المحافظة على المصالح البترولية". وأضاف "أن حرب الفوكلاند التي خاضتها حكومة مارجريت تاتشر عام 1982م ضد الأرجنتين كانت بسبب البترول. فالجزر المتعارك عليها والخاضعة للتاج البريطاني قرابة سواحل الأرجنتين تحوي مياهها الإقليمية كميات هائلة من البترول تبلغ أضعاف كميات احتياطي بترول بحر الشمال".
واعترف الوزير السابق بأنه كتب عدة مذكرات ورسائل لمجلس الوزراء عندما كان وزيرا للبترول والطاقة يقول فيها إن بترول الفوكلاند هو صمام أمن الطاقة في المستقبل لبريطانيا. وبناء عليه، عندما كان الدكتور دافيد أوين وزيرا للخارجية في حكومة العمال بزعامة جيمس كالاهان أرسل إلى شواطئ الفوكلاند فرقاطتين وغواصة لتأكيد حمايتها بعد اكتشاف البترول، وهو الأمر التي حاولت بريطانيا إبقاءه سرا.
ومعروف عن بن، الذي قضى قرابة أربعة عقود في العمل السياسي، اهتمامه بحقوق الإنسان ورفضه الحروب في الربع الأخير من القرن الماضي، ومطالبته منذ الستينيات بنزع السلاح النووي. وقد عارض حرب الفوكلاند وطالب بحل الأزمة في مجلس الأمن عندما نزلت القوات الأرجنتينية في الفوكلاند عام 1982م، وعارض أيضا الحرب ضد العراق عام 1990م وما زال يطالب برفع الحصار عنه وبإرغام إسرائيل على تطبيق جميع قرارات مجلس الأمن، وكان .أيضا ضد الحرب في أفغانستان.

 

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15.01
Sparisce la mozione sgradita ad Israele

 

(da Liberazione del 14 gennaio)

Si è conclusa con una nota polemica la missione della delegazione parlamentare italiana in Medio Oriente. Una missione che aveva come obiettivo quello di raccogliere informazioni sullo stato del processo di pace in Medio Oriente, ma soprattutto di promuovere nei Paesi toccati - Egitto, Giordania, Siria, Libano, Israele e Territori palestinesi - la mozione approvata il 19 dicembre, praticamente all’unanimità, dal parlamento italiano.
Una mozione che impegna il governo a promuovere le condizioni per la ripresa del dialogo tra israeliani e palestinesi. Tre i punti qualificanti della posizione italiana: la convocazione di una Conferenza internazionale di pace, l’appoggio all’ipotesi di invio di osservatori internazionali e il varo di un piano per lo sviluppo dell’area, in particolare dei Territori palestinesi. Su questa base comune, i dieci parlamentari - guidati dal presidente della Commissione Esteri, Gustavo Selva - hanno avuto colloqui con esponenti politici e di governo dei Paesi arabi, ai quali hanno consegnato il documento.
Peccato però che Israele non voglia sentir parlare di conferenza internazionale né tanto meno di osservatori, considerando il processo di pace una partita ad appannaggio proprio e degli Stati Uniti. Casualità o intenzione, fatto sta che, una volta arrivati a Tel Aviv, il documento di fatto “sparisce” dalla scena dei colloqui con gli interlocutori israeliani. Nel corso degli incontri di domenica con il presidente della Knesset Avraham Burg, o con il ministro degli Esteri Shimon Peres, il presidente Selva, di An, non presenta e nemmeno illustra l’“imbarazzante” documento italiano. Tanto che, ad una precisa domanda di una giornalista dell’Adn-kronos su quale sia la sua opinione del documento italiano, Peres dà una risposta di maniera, dicendo di apprezzare la missione parlamentare e dimostrando di ignorare l’oggetto della conversazione. Eppure, secondo le parole del presidente della Camera Casini - riportate nel dossier preparato dal Servizio rapporti internazionale e dal Servizio Studi di Montecitorio - la missione viene promossa come la «rappresentazione significativa della mozione». «E’ un fatto inaccettabile - ha commentato Ramon Mantovani, deputato di Rifondazione comunista -, questa era una missione della Camera dei deputati, e non una trasferta personale. Valuterò quali iniziative prendere in sede parlamentare».

S.P. 

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14.01

Israele nella UE

L'ennesima iniziativa sciagurata dei Radicali:
Chi ringrazieremo quando le conflagrazioni della politica mediorientale usciranno dalla virtualità degli schermi televisivi per toccare visibilmente - con il loro strascico di sangue - anche i popoli europei?

Non essendo visibile all'orizzonte alcuna inversione di rotta nell'atteggiamento smaccatamente
filo-israeliano dei governi occidentali - le cui linee di fondo di politica estera sono dettate dagli angloamericani, invariabilmente dalla parte d'Israele - c'è di che preoccuparsi, perché se ancora gli arabi operano una distinzione tra americani ed europei, tra non molto potrebbe non essere così.
Ma le riflessioni che la notizia di un'iniziativa già sponsorizzata da Adriano Sofri suscita sono molte e di diverso tenore.
Non è ridicola l'enfasi sui buoni rapporti con un mondo arabo da "democratizzare" che
l'"ingresso" d'Israele nell'Ue garantirebbe? E poi, le "dolorose concessioni" ai palestinesi, perché dovrebbero farle a nostro rischio e pericolo?
Ma tant'è, grazie alla "promozione dei diritti umani e della democrazia, alla risoluzione del conflitto mediorientale, alla lotta al terrorismo e all'antisemitismo" (che probabilmente aumenterà, perché un numero crescente di persone - assistendo a queste manovre - sarà indotto ad identificare Israele con tutti gli ebrei), lodevoli iniziative che l'Assemblea
Parlamentare internazionale dei parlamentari e dei legislatori ebrei saprà presentare adeguatamente ai popoli europei con la consueta profusione di mezzi, ci convinceremo di non aver fatto un cattivo affare.
Forse, senza l'Europa dell'euro di trovate del genere non ne avremmo mai sentito parlare.

Annamaria Face

da http://www.radicali.it/


"ISRAELE NELL'UE".
REIBMAN: STORICA DECISIONE
Milano, 11 gennaio 2002


Si è appena conclusa a Gerusalemme la 6^ Conferenza Internazionale dei Ministri  e Parlamentari ebrei, che da oggi si costituisce in Assemblea Parlamentare internazionale, dei parlamentari e legislatori ebrei.
Ha eletto come presidenti, Lord Greville Janner e Abraham Burg, attuale Presidente del Parlamento israeliano (Knesset) e un comitato direttivo, di cui fa parte Yasha Reibman, consigliere del Gruppo Radicali - Lista Emma Bonino al Consiglio regionale della Lombardia.
La conferenza si è posta come propri obiettivi la promozione dei diritti umani e della democrazia, la risoluzione del conflitto mediorientale, la lotta al terrorismo e all'antisemitismo. L'Assemblea ha deciso inoltre di promuovere la possibile realizzazione di un'associazione mediorientale parallela all'OSCE e l'ingresso di Israele nell'Unione Europea.
Yasha Reibman, che ha partecipato ai lavori di questa conferenza, stamane ha detto:
"Questo rappresenta un primo e storico passo per l'ingresso di Israele nell'Unione Europea. La proposta sta suscitando vivo interesse nella stampa e nei politici israeliani, tra cui non posso non ricordare le dichiarazioni in proposito del presidente israeliano Moshe Katzav. L'ingresso di Israele nell'UE rappresenterà una garanzia per la democrazia israeliana e darà a Israele la sicurezza politica necessaria per realizzare le ' dolorose concessioni ' per raggiungere gli accordi di pace. E' interesse dell'UE promuovere democrazia, diritto, libertà e quindi sviluppo anche economico in Medio Oriente e nel Nord Africa, paesi troppo vicini per esser lasciati
preda di regimi intolleranti e dittatoriali".

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14.01

La Serbia svenduta agli amici

La Serbia venduta agli amici per pochi soldi

Quel che è avvenuto e che continua ad avvenire a tutt'oggi nell'ex Jugoslavia rappresenta l'ennesima azione statunitense contro il principio fondamentale della Sovranità nazionale. Il "dopo Milosevic", tanto sperato dagli antinazionalisti e filoatlantisti, va sempre più svelando la propria vera fattura con il beneplacito delle diplomazie internazionali.  La politica statunitense oramai non conosce più freni di nessun genere, e di questo ne giovano i suoi fedeli sudditi europei.  Ed ecco allora  la svendita di tutte e tre le fabbriche di cemento della Serbia a ditte
straniere.  La fabbrica della settentrionale Beocin è stata venduta alla francese Lafarge, quella della centrale Novi Popovac alla impresa svizzera Holzim, e quella della occidentale Kosjeric è andata alla ditta greca Titan. Il realizzo complessivo delle vendite è stato di 138,9 milioni di dollari Usa, inferiore persino al gettito fiscale annuo delle tre imprese!
La svendita della economia serba è stata voluta e sostenuta dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale e dagli Usa, secondo il modello noto in Bulgaria, Romania ed Ucraina (per non parlare dell'Italia, dove, in nome del totem liberista, sono state privatizzate le aziende strategiche) si comincia con la cessione al capitale straniero, a prezzi stracciati, dei settori economici in grado di produrre lavoro e di importanza strategica per il paese, per arrivare così ad una vera e propria sudditanza economica e politica del paese "svenduto".  A favorire questa
azione dall'interno ci hanno pensato quei filoatlantisti anti-Milosevic che come fantocci hanno eseguito gli ordini di Washington.  Il vero "regista" del suicidio economico della Serbia, a lungo collaboratore della Banca Mondiale ed oggi ministro delle Finanze, è stato Bozidar Djelic, il quale  fu annoverato tra i "cento leader mondiali"  al summit economico di Davos.
Mentre procedono le operazioni di spartizione e svendita del paese, l'impegno americano si rivolge anche all'eliminazione di qualunque e chiunque voglia difendere la propria nazione e la sua sovranità.  La tecnica applicata, tanto cara agli yankees è quella dell'infamia, della "confidenza", e per agevolare l'operazione Washington usa il ricatto.  L'America infatti ha
legato la concessione di nuovi prestiti al governo serbo alla cooperazione con il tribunale dell'Aja.  Una tranche di aiuti consistente in 115 milioni di dollari Usa sarà predisposta solamente se il governo della Serbia rispetterà tutte le richieste del tribunale entro il prossiíno 31 maggio.
Con una simile tattica gli Usa avevano già ottenuto la consegna dell'ex presidente Milosevic.
Un metodo che invece di far indignare qualunque "retto individuo" trova subito disponibilità da - e l'appellativo non è fuori luogo - veri e propri traditori della patria.
E così il ministro degli esteri jugoslavo Goran Svilanovic, appartenente alla formazione filoocciderítale "Alleanza Civica (GSS)", ha definito la "collaborazione con il Tribunale dell'Aia" e la consegna di serbi a questa istituzione come "la più grande priorità" della politica estera jugoslava per quest'anno. Sicuramente il ministro Svilanovic godrà di lunga vita al servizio degli americani.  Diversamente, per chi si oppone al tradimento e all'umiliazione, la vita non sarà certo facile. E' un fatto che il presidente jugoslavo Vojisiav Kostunica ha firmato l'autorizzazione per il prepensionamento di 21 generali jugoslavi.  Si tratta di alti ufficiali che si erano impegnati per l'indipendenza militare e politica della Jugoslavia, e contro l'ingresso nel programma "Partnership for Peace" della NATO.  Il pensionamento di queste persone è stato, subito dopo la fine dell'era Milosevic, una delle principali richieste degli Usa al governo jugoslavo.
Ma di tutto questo il mondo occidentale non fa parola o forse non vuole sapere, considerando finita la questione balcanica con l'arresto di Milosevic.
Della stessa opinione però - dato importante per comprendere un possibile riaccendersi della tensione - non è il 70% dei cittadini della Serbia.
Questi ritengono che l'Occidente "tuttora minaccia ed opprime la Serbia".
Nonostante l'abnorme campagna filooccidentale di tutti i media, che perdura da più di un anno, la popolazione della Serbia non condivide l'opinione del governo fantoccio sulla necessità della "cooperazione con l'Occidente".

(da http://www.rinascita.net)

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14.01

Ultimi aggiornamenti da www.asslimes.com

DOCUMENTI:
- La grande guerra dei continenti - prima parte (A. Dughin)
- L'Italia e il grande gioco asiatico (Valerio Ricci)
- Il "terrorismo", la Palestina e la "signora con i capelli rossi" (Enrico Galoppini)

KATTIVI MAESTRI
-
Scheda biografica su Drieu La Rochelle

TERRA DI MEZZO
-
Il pensiero tradizionale e la molteplicità attuale delle forme religiose
(P. Di Vona)

Diego Arrighi

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14.01

Monitorare Paolo Longo da Gerusalemme

Vi propongo un monitoraggio dell'attività dell'inviato del Tg1 in Palestina Longo.

Questo signore - che è quello che non capisce niente d'arabo (ricordate la vigilia di Natale?) - ha veramente oltrepassato ogni decenza.

Notizia di oggi:

(giornalista in studio: "Peres annuncia che Israele ha interrotto le demolizioni di case paletinesi" [quindi, non fanno notizia le demolizioni di case, ma i buoni propositi israeliani...])

la sostanza della 'corripsondenza' di Longo, specialista della teoria degli "opposti estremismi":

Peres è sempre la "colomba" che le prova tutte per far ragionare i "falchi".

Dalle case di Gaza si passa a quelle di Gerusalemme e Longo ha il coraggio di dire "...ma questa è un'altra storia" [dove sta la differenza? Anzi, proprio a Gerusalemme ci stanno circa 200.000 coloni insediatisi illegalmente, che talvolta vengono contati assieme agli altri circa 200.000 della Cisgiordania, altre volte no].

Consueto "omicidio mirato" [mai "terrorismo", come prova ogni dizionario] di un dirigente di al-Fath... naturalmente a sua volta "responsabile" di vari omicidi.

Ma poveretto, Longo ci era rimasto male quando l'avevano mandato in Palestina. Difatti era pronto per Parigi quando venne silurato per il prestigioso incarico e forse con questa sua metodica solerzia cerca di guadagnarsi qualche santo in Paradiso.


Claudio Ziino

L'exploit di Longo del 24 dicembre, segnalatomi da un amico:

 "Secondo te, che requisiti bisogna avere per essere nominato corrispondente estero per il TG?

Non sono in grado di rispondere, però pensavo di poterne intuirne almeno uno. Cioè la conoscenza della lingua del paese in cui si viene mandati. Sembra così elementare, ma alla RAI evidentemente non stanno tanto a badare a questi dettagli.

Beh, la notte del 24 dicembre il TG1 si collega con il buon Longo, che ci dovrà dire se Arafat potrà andare a questa benedetta messa di mezzanotte. Longo, che si era già distinto subito dopo l'11 settembre per il fatto di sottolineare in tutti i collegamenti i "giubilandi palestinesi", confessa indirettamente questa sua mancanza.   Si trova infatti in una piazza dove la gente ascolta il comunicato radio in cui Arafat dovrebbe anche accennare al fatto di non potersi recare a Betlemme. Le candide parole di quest'uomo: "ecco, in sottofondo il discorso di Arafat ai palestinesi. Non riesco a sentire bene.........e comunque non capirei dato che sta parlando in arabo".

Longo, Longo, ma come fai a darci ogni giorno il tuo bel resoconto su quello che avviene in Palestina  se non ne capisci niente?

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13.01

La burrasca nel bicchiere - le dimissioni di Ruggero

Dimissioni Ruggiero

LA BURRASCA NEL BICCHIERE

di: Alberto B. Mariantoni

Il principale handicap delle nostre società, è l’incapacità da parte dei nostri responsabili politici e dei nostri più accreditati pennivendoli di analizzare serenamente e realisticamente gli avvenimenti per quello che effettivamente sono. E non, purtroppo, come il loro cinquantennale e stantio arcaismo ideologico, politico e pratico vorrebbe o pretenderebbe che fossero. Ultimo esempio in data, il 5 Gennaio scorso, le "inattese", "sorprendenti" e "traumatizzanti" dimissioni dell’ex Ministro degli Esteri, Renato Ruggiero. Quelle dimissioni, erano veramente inattese e sorprendenti? E dobbiamo davvero considerarle traumatizzanti? Per rendersene conto, basta semplicemente osservare in "controluce" le relative personalità e l’iter pubblico, sia di Renato Ruggiero che di Silvio Berlusconi.

Chi è Renato Ruggiero? Nato a Napoli 71 anni fa e laureato in Giurisprudenza, Renato Ruggiero è il classico "Commis d’Etat" (Funzionario dello Stato). Un personaggio, cioè, che, prima ancora di iniziare a sbarbarsi, ha immediatamente e volontariamente votato la sua esistenza alla spersonalizzazione individuale, al conformismo sistematico, all’accondiscendenza metodica ed alla "genuflessione" continua e costante, senza dimenticare le inevitabili "courbettes" (inchini) e gli imprescindibili e protocollari "salamelecchi" nei confronti di chiunque si fosse trovato, sulla sua strada di aspirante burocrate, in posizione di diretto o indiretto superiore gerarchico o di politico responsabile o influente. In altri termini, Ruggiero è un "rond-de-cuir" (burocrate) per definizione. Un funzionario in S.p.e., insomma, che è passato dai banchi di scuola alla carriera diplomatica, senza per altro avere avuta nessun’altra esperienza nella vita che quella del bravo giovincello di provincia che, "sbarcato" non si sa come a Roma (e molto probabilmente appoggiato o favorito nella sua intima ambizione da non so quale "santo in paradiso"…), si è ritrovato, tra il 1953 ed il 1969, grazie pure al vuoto strutturale che regnava nel dopoguerra nei diversi Ministeri della Penisola, a rivestire un certo numero di ruoli progressivi nel contesto della diplomazia del nostro paese, sia in Brasile, sia in URSS, sia negli USA, sia in Iugoslavia.

Dopo aver dato ampia ed esauriente prova di innata "remissività", di spontanea "malleabilità" e di genuina e volontaria "versatilità", tra il 1969 ed il 1978, Ruggiero viene una prima volta ricompensato dal sistema ed inviato in "missione" presso l’allora costituenda Commissione Europea di Bruxelles. E dopo avere trattato, per conto dei "poteri finanziari" nostrani, l’entrata dell’Italia nel Sistema monetario europeo, viene di nuovo gratificato e nominato, nel 1980, Ambasciatore e Rappresentante permanente della Repubblica Italiana presso la C.E.E. a Bruxelles.

Richiamato a Roma, nel 1984, sarà successivamente Direttore generale degli Affari Economici (1984-1985) e Segretario generale presso il M.A.E. (1985-1987), ed in seguito Presidente del Comitato esecutivo dell’OCSE (1987). Inoltre, tra il 1987 ed il 1991, sarà invariabilmente Ministro per il Commercio con l’Estero nei Governi Goria, De Mita ed Andreotti. Nel 1991, entrato sorprendentemente in "aspettativa", sarà subitamente accolto nel Consiglio di amministrazione della FIAT. Un "passaggio obbligato", si capirà dopo…, prima di ottenere l’incarico, tra il 1995 ed il 1999, di Direttore generale del World Trade Organisation (WTO/OMC), l’ex-GATT, a Ginevra. Uomo ormai di sperimentata e comprovata fiducia della finanza, alla fine del suo mandato presso il WTO/OMC, viene immediatamente (1999) "paracadudato" alla presidenza dell’ENI ed, in seguito, addirittura "prescritto" alla direzione della Schoeder Salomon Smith Barney, una delle più importanti merchant bank del mondo. Questo, tra l’altro, senza avere mai avuto, in questa materia, nessuna formazione o competenza. Dulcis in fundo, dopo una riunione segreta tra i "fratelli" trilateralisti Kissinger ed Agnelli e l’allora appena eletto Presidente del Consiglio Berlusconi, Ruggiero è praticamente assegnato ed imposto alla "Casa delle Libertà", come suo ineluttabile ed inderogabile Ministro degli Esteri.

Chi è Silvio Berlusconi? Nato a Milano 66 anni fa e laureato in Giurisprudenza, Silvio Berlusconi è, in sostanza, l’esatto contrario psicologico e pratico di Renato Ruggiero. E’ un personaggio, cioè, che, nella sua vita (anche grazie alla "faccia tosta" che si ritrova…), ha immediatamente e volontariamente votato la sua esistenza al protagonismo integrale, al solipsismo sistematico, al soggettivismo strutturale ed all’egocentrismo organico. Un "capiscetti", insomma, che non ha mai disdegnato, per perseguire i suoi fini e/o raggiungere i suoi scopi (dichiarati o reconditi), l’arroganza o accondiscendenza dei suoi comportamenti, né la liceità o l’illiceità dei suoi metodi.

In altri termini, il Cavaliere è un "brioso istrione" che, nella commedia dell’arte della vita, è fino ad ora riuscito, con innegabile successo, ad impersonare, interpretare e materializzare un certo numero di ruoli: da quello di semplice "palazzinaro" (Brughiero, Milano 2, Milano 3, il Gurasole, ecc., tra il 1969 ed il 1979) al servizio dell’ineffabile C.A.F. (Craxi-Andreotti-Forlani), a quello di "Sua Emittenza" (Canale 5, il Giornale, Publitalia, Fininvest, Italia Uno, Retequattro, Sorrisi e Canzoni, Panorama, ecc., tra il 1980 ed il 1990); dal ruolo di "assicuratore" e di "venditore di prodotti finanziari" (Mediolanum, Programma Italia), a quello di "politico innovatore" (sdoganamento del MSI-DN e lancio di Forza Italia nel 1994; inventore e catalizzatore del Polo prima e della Casa delle Libertà poi; filo-arabo nel suo primo Governo ed, al contrario, filo-israeliano e filo-americano nel secondo). Tutto ciò, con una sola ed unica costante, quella di fare sempre ed esclusivamente i suoi "affari" personali!

Ora, mi domando: era immaginabile che il Berlusconi che conosciamo,

continuasse indefinitamente a sopportare un collaboratore della sua "squadra" che, oltre ad agire in aperta dissonanza con i suoi piani, prendeva costantemente ordini da altri "padroni"?

Ma allora, per quale ragione, all’inizio del suo secondo mandato, Berlusconi ha comunque accettato, obtorto collo, di "imbarcare" per qualche mese Ruggiero all’interno del suo Governo? A mio modesto avviso, per tentare di neutralizzare i prevedibili attacchi frontali che avrebbero potuto essergli sferrati dai "poteri finanziari" e dai noti arlecchini di Bruxelles. Poi, una volta consolidata la sua nuova "santa alleanza" con Israele e gli USA, ha messo Ruggiero in condizione di andarsene. E Ruggiero, per non dovere platealmente ridursi a fare il "tecnico pierino" di papà Berlusconi, se n’è andato. Ed è corso immediatamente a rifugiarsi tra le braccia accoglienti e consolatrici di "mamma" Mediobanca.

Il seguito di questa storia? Continuità… e fine della "burrasca"! Inutile attendersi, infatti, a ciò che fino ad oggi abbiamo letto sui giornali o inteso sui canali radio e televisivi del Regime. Oppure, celatamente sperato in cuor nostro, confidando ottimisticamente in una possibile resipiscenza degli attuali "padroni del vapore". Che Berlusconi mantenga l’interim del palazzo della Farnesina o lo affidi temporaneamente o stabilmente all’omino omonimo della "marca dei tortellini", in Italia non ci sarà, per il momento, né "euroscetticismo", né "ricentraggio nazionalista"… E questo, per la semplice ragione che la "burrasca" di cui sopra, si è semplicemente svolta all’interno dello stesso "bicchiere": quello, cioè, che volens, nolens, ha accomunato e continuerà infallibilmente ad accomunare, la "Casa delle libertà" e "l’Ulivo", la Banca Mondiale ed il FMI, la Federal Reserve e la BCE, Wall Street e Mediobanca, Milano-Mib e Londra, Frankfort DAX e Parigi CAC40, Roma e Bruxelles, Washington e Tel Aviv!

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13.01

Per ricordare Sabra e Chatila  

Duemila abitanti palestinesi e libanesi dei campi di Sabra e Chatila, alla periferia di Beirut, vennero massacrati dal 16 al 18 settembre del 1982 da miliziani delle forze filo-israeliane, sotto la supervisione e con il sostegno logistico dell'esercito di Tel Aviv che aveva occupato da poche ore Beirut ovest. Pochi giorni prima le forze multinazionali che avrebbero dovuto difendere i campi profughi dopo la partenza da Beirut dei fedayin palestinesi e far rispettare l'impegno israeliano a non entrare nella parte occidentale della città assediata dal giugno precedente, si erano prematuramente ritirate. A diciott'anni di distanza non solamente nessuno ha pagato ma le vittime dell'eccidio ancora non hanno ricevuto una degna sepoltura. Di quasi mille corpi non si è saputo più nulla. La più grande e nota delle fosse comuni, situata all'ingresso del campo di Chatila, a pochi passi dall'ambasciata del Kuwait, è ridotta ad uno squallido campo polveroso nel quale vengono gettate le immondizie di un vicino mercato e detriti di ogni genere. Non una lapide, un segno che ricordi la presenza delle fosse comuni, che inviti al loro rispetto. Per questa ragione facciamo appello all'opinione pubblica italiana e internazionale, agli uomini di cultura, alla galassia delle Ong, ai politici, ai semplici cittadini, perché chiedano alle autorità libanesi, con le quali il nostro paese ha ottimi rapporti di cooperazione, che venga resa giustizia alle vittime del massacro dando loro una degna sepoltura. Che il loro sacrificio venga ricordato con una lapide, un monumento, un segno che aiuti a non dimenticare il dramma del popolo palestinese ancora esule dalla propria terra. A tal fine una delegazione di parlamentari, uomini di cultura e rappresentanti delle Ong si recherà a Beirut il 13 settembre in occasione del prossimo anniversario della strage.
Il manifesto, Il comitato "Per non dimenticare Sabra e Chatila"

Inviare le adesioni a: schiarin@ilmanifesto.it

Attualità di un insulto alla vita e ai morti
Stefano Chiarini
(il manifesto 02 Settembre 2000)

Chatila, memoria in piazza a Beirut
Stefano Chiarini
(il manifesto 17 Settembre 2000)

Hanno firmato l'appello:
On. Giorgio Napolitano, Presidente Commissione Affari Costituzionali del Parlamento europeo - Sen. Ersilia Salvato, Vice-presidente del Senato - On. Achille Occhetto presidente Commissione esteri della Camera - On. Lucio Manisco, Europ. (Pdci) - On. Luisa Morgantini, Europ. (Prc) - On. Fausto Bertinotti, Segretario Prc - On. Luigi Vinci Europ. (Prc) - On. Giuseppe Di Lello, Europ. (Prc) - On. Carlo Leoni Responsabile Giustizia Ds - On. Giuseppe Giulietti Resp. comunicazione Ds - Sen. Giovanni Russo Spena (Prc) -On. Armando Cossutta, Pres. Pdci -On. Oiviero Diliberto, Segr. Pdci - On. Pasqualina Napoletano, Pres. gruppo Ds Parlamento Europeo - On. Vittorio Sgarbi (Gruppo Misto) -On. Marco Pezzoni Capogruppo Ds Comm. Esteri Cam. Dep. -Nicola Manca, Responsabile Rel. Int. Ds - On. Vincenzo Vita, Sott.rioalle Comunicazioni - On. Fulvia Bandoli (Ds) -On. Ramon Mantovani Resp. Est. Prc - On. Giorgio Malentacchi (Prc) -On. Maria Celeste Nardini (Prc) - On. Walter De Cesaris (Prc) - On. Franco Giordano Presidente Gruppo Parlamentare (Prc) - Alfio Nicotra, Resp. settore "Pace" Prc -On. Vito Leccese (Verdi) -On. Paolo Cento (Verdi) - On. Mauro Paissan (Verdi) - On. Mario Brunetti (Pdci) - On. Rino Piscitello (I Democratici)-On. Famiano Crucianelli (Ds) -On. Mauro Palma (Ppi) - On. Alberto Simeone (An) - On. Sandro Dal Mastro Delle Vedove (An) - On. Marisa Abbondanzieri, Comm. Est. Cam. Dep. (Ds) - On. Marcello Basso Comm. Dif. Cam.Dep. (Ds) -Gianfranco Brusasco, Resp. Medio Oriente Ds -Alfiero Grandi, Sottosegretario alle Finanze - On. Luca Cangemi (Prc) -Maria Lenti (Prc) - Tiziana Valpiana (Prc) - Ugo Boghetta (Prc) - Giuliano Pisapia (Prc). Luca Cefisi, Dip. Pol. Int. Sdi.
Alessandra Mecozzi, Uff. Intern. Fiom Naz. -Mario Capanna - Luciano Neri - Amnesty International, Sez. Italiana - Riccardo Barenghi Direttore "Il Manifesto" - Nicola Zingaretti, Segr. Fed. Romana DS - José Luis Rhi-Sausi, Dir. Es. Cespi -Davide Riondino - Paolo Virzì - Carmen Llera Moravia - Ettore Masina - Saverio Tutino- Giulietto Chiesa - Gianni Tognoni, Presid. della Fondazione Internaz. "Lelio Basso" -Tom Benettollo, Presid. Naz. Arci - Luciano Ardesi, Segr. Naz. Lega Diritti dei popoli - Associazione "Un ponte per..." - Pier Luigi Sullo "Carta" - Vauro Senesi -Giancarlo Lannutti - Maurizio Mengoni - Riccardo Cristiano - Guido Moltedo, Lucio Magri, "Rivista del Manifesto" - Aldo Garzia, "Aprile" - Comitato Golfo -Associazione Guerre & Pace - Associazione Assadakah - Vittorio Bellavite - Manuela Palermi - Annalisa Mauro, Ifad - Andrea Amato, Pres. Imed - Giuseppe Soriero, Resp. Naz. Festa dell'Unità - Bruno Carchedi "Altra Europa" - Pino Sgobio (Pdci) -Tommaso Di Francesco - Maurizio Matteuzzi -Giuliana Sgrena - Michele Giorgio - Angela Pascucci, Le Monde Diplomatique/Italia - Silvia Boba - Nico Perrone, Univ. di Bari - Giorgio Riolo, "Punto Rosso" -Renzo Maffei, "Salaam Ragazzi dell'Olivo" -Giampiero Rasimelli, Ong Arcs - Agostino Bistarelli, Arci - Raffaella Bolini, Arci -Ass. di Amicizia Sardegna-Palestina - "Salaam Ragazzi dell'Olivo", Comitato milanese - Piero De Gennaro -Monica Morabito - Franco Ferioli, Chango - Raffaele K. Salinari, Cocis - Anna Schiavoni, Cocis -Umiliana Grifoni, Cospe, Firenze - Monica Mazzotti, coordinamento Gvc in Palestina - Vincenzo Di Serio, coop Gcv, Palestina - Caterina Amicucci, Segr. Naz. Sci - Luigi Anzellini (Pdci) - Gilberto Gilberti, Univ. di Parma - Geremia Buonafede, Cgil Funzione Pubblica Lazio - Fabrizio Ottavi, Cgil Funzione Pubblica, Lazio - Silvana Matta, Cgil - Maurizio Cabona - Flavia Giorgi - Daria Morandini - Massimo Greco - Guido Colombo -Pino Grillo - Alfonso De Filippi - Carlo Fabrizio Carli - Fabio Gabrielli -Tommaso Staiti di Cuddia - Mario Martone, Regista - Patrizio Esposito -Sirio Conte, Giannina Dal Bosco, Davide Berruti - Farshid Nuray, Assopace Nazionale - Sergio Finardi - Giorgio Stern e Letizia Giustolisi Rondi, "Salaam Ragazzi dell'Olivo", Trieste - Professori, studenti e infermieri del Gruppo Tenda dell'Università Cattolica, Facoltà di Medicina, Roma -Comitato G.Lazzati per la Costituzione - Tiziana Salmistraro Ass. Orlando, Bologna - Sinistra Giovanile, Federazione di Modena - Giuseppe Palmeri Direz. Prov. Com. Pol. Ds Genova - Gabriella Severino, Univ. di Roma - Carlo Pona, Serv. Civ. Int. - Donne in Nero, Milano - Prof. Antonio Moscato, Univ. di Lecce - Francesco Paolo Bonadonna, Univ. di Pisa - Acea Onlus, Agenzia Stampa - Retedigreen.com Portale sull'ambiente e sulla memoria - Ass. Narni per la pace - Sergio Giulianati - Eugenio Pedone Lecce -Carlo Petrini -Manlio Triggiani -Gianluca Savoini - Bruna Miorelli (Radio Popolare) - Tiziana Boari -Sandro Provvisionato (TG5) - Vera Baldini (TG4) -Anna Migotto (TG4) - Enzo Bianchi -Francesco Andreini 100 Idee per la pace - Giovani Comunisti, Barletta - Ivana Stefani, Cantieri Sociali Riuniti di Alessandria - Tiziana Colombo - Tony Peratoner ReteRadie Resch - Roberto Frey Coord. regionale Verdi Marche - Silvia Rossi -Fiammetta Laconi -Stefano Gaeta - Massimo Lizzi - Franco e Natalia Corradini, Vercurago (Lecce) - Ciro Pesacane -Giorgio Forti e Annalucia Messina - Liliana Duca, Milano - Cristina Cattafesta - Pinuccia Cardullo - Gaby Naef - Salvatore Talia - Gabriella Grasso - Fulvio Carloni -Laura Trinchero - Susanne Scheidt - Loredana Vigo - Paola Loi - Silvia Rossi - Bruno Bonifacio -Nicoletta Rizzitelli - Nicola Melis - Redazione di "Indipendenza" - Lino Zambrano, Aicos.

Adesioni internazionali: Noam Chomsky -Mem & Malcom Fox, Adelaide (Australia) - Prof. Sonia Dayan Herzbrun, Sociologa, Università Paris VII - Jamil Hilal, Palestina - Prof. Nassir Aruri, University of Massachussets - Khalil Osman -Barbara E. Harrel-Bond, American University in Cairo - Sue Turrell, GB - Wafaa Shaheen & Trees Zbidat Kosterman, Al Zahraa Arab Women Organisation in Sakhnin - Dominique Vidal, Le Monde Diplomatique - Francis A. Boyle, Professor of International Law, Champaine, Illinois, Usa - R. Khatib - Virginia Lea, Vallejo (California) - Hellen Siegel, Sirid Nolsoe - Tom Francis Ba, Centro per i sopravvissuti alla tortura, Dallas, Usa - Mona Younis PhD, New York - Bassam Marshoud - Murad Abu Khalaf - Davide Barsamian, Direttore "Alternative Radio", Usa - George Yaghnam - Nidal A.Barakat - Haitham Aranki, Arab Comm. Center Los Angeles - Shehrazad Muzher -John Wheat Gibson - Leah Barnet -Noel J. Saleh, Esq. Detroit (Usa) - Samah Abu Sharar -Dr. Jess Ghannam - Karma Nabulsi, Pride Research Fellow Nuffield College, Oxford - N. Eaisha Pressimone -Mai Ghoussoub - Ribhi Huzien, Moustafa Huzien, Nina Huzien, Linda Huzien (Clifton, NJ Usa) -Faten Hazin, Abdeen Hazin, Haboob Hazin (Totowa, NJ Usa) - Haleema Hazin, Zeina Hazin, Sarah Hazin (Wayne, Nj Usa) - Omar Hazin, Mohammad Hazin (Teterboro, Nj Usa) -Haltham Huzien, Ayah Huzien, Hasan Huzien, Said Huzien, Ibrahim Huzien (Franklin Lakes, Nj Usa) - Issa Hazin, Faten Hazin, Adam Hazin, Bassam Hazin, Salah Hazin (Kinnelon, Nj Usa) -Wladimir Dimitrijevic - Jean Jacques Langedorf -Alain D. Altieri -Alain de Benoist - Mohammed Sidati, Ministro Rasd (Repubblica Araba Sahrawi Democratica) -Joseph Halevi, Univ. di Sydney e di Grenoble -Yanis Varoufakis, Dipt. Economia Università di Atene - Louis Haddad, Dipt. Economia Università di Sydney - Pino Scuro Radio Sbs Stazione Radio-TV Multiculturale, Sydney, Australia - Karen Nievwland, Clarens (Ch) - Christine Mc Leod -Amer Makhoul, Direttore di "Ittijah" Union of Arab Community Based Association (Palestine 48) - Muhammad Abu Daouf, presidente di "Ittijah" - Samia Shehadeh Nasser & Aboudi Nasser - "Najdeh" Lebanese Ngo, Chatila - Christopher Sjuve, Università di Oslo -Ghassan Bishara, Washington, Dc - Graham Usher, Giornalista - Grace Said,Chevy Chase, Md-Usa - Sari Abdallah -Elaine C. Hagopian, prof.emer. Sociologia, Boston - Imad Shehadeh, Chicago, Ill. - Aracoeli Ortiz, sindacalista Consejo Confederal delle CC.OO., Espana - Malika Ben Radi - Nadia Shehadeh -Nihaya Qawasmi-Dugan, copresidente del Palestinian Right to Return Committee Coalition, New York-NY - Aisling Byrne, Londra - Rima AlAlamy - Abraham Weizfield, JPLO, Montreal -Andrew Courtney, Al Awda, New York - Mustafa Hazin - Elias Zureik, Università di Toronto - Rana Othman - Adele Colantuono - Carla Benelli -Ciss, Gerico - Osama Hamdan, Gerusalemme -Laurie King-Irani, Chester Town, Maryland, Usa - Eyas Hmouz, Tennessee, Usa - Jennifer Loewenstein, School of Business, University of Wisconsin, Madison - Jim Rissman - Norman Finkelstein, Professore Hunter College, City University of New York - Susan Abulhawa, Biologist, Yardley, Pa, Usa - Salim Tamari, direttore dell'Istituto per gli studi di Gerusalemme - Nahed Dirbass, giornalista, Haifa -Sahera Dirbass, TV producer, Haifa - John Dixon, direttore del "Jerusalem Quarterly File", Gerusalemme.

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13.01

Nuovi segnali di antisemitismo

dai Paesi arabi all'Europa, nuovi segnali di antisemitismo
EBREI, UN ODIO CHE RITORNA?

Loewenthal e Sorbi: «Tutto è peggiorato dopo le Twin Towers»
La replica di Cardini e Tarchi: «Allarmismo ingiustificato»



Qualche settimana fa una tv saudita ha mandato in onda una serie di spot che mettevano in scena una caricatura di Sharon intento a bere il sangue di bambini. E i Protocolli dei Savi di Sion, manifesto dell'antisemitismo, sembrano conoscere un revival all'interno di alcuni Paesi arabi: in Siria il volumetto è stato recentemente ristampato mentre - faceva notare allarmato Paolo Mieli alcuni giorni fa sul Corriere della sera rispondendo a un lettore- c'è chi ha pensato a perverse attualizzazioni: «Come è possibile - si chiedeva - che una tv saudita decida di trasmettere una serie tratta dal più celebre libello antisemita e la notizia cada nell'indifferenza dei più?». È davvero in corso una nuova stagione di odio antiebraico, una stagione di diffidenza che divampa nei Paesi arabi ma che si riflette anche nell'opinione pubblica occidentale ed europea?
«Lo spot diffuso dalla tv araba evoca uno degli stereotipi più crudeli e duri a morire contro gli ebrei, stereotipi che si credevano ormai superati», commenta la scrittrice Elena Loewenthal, secondo cui anche all'interno delle società occidentali assistiamo a un atteggiamento ambiguo: «Si usano due pesi e due misure: quando da parte israeliana spiccano posizioni avvertite come offensive del mondo arabo ci si scandalizza, cosa che non avviene nel caso opposto». E dopo l'11 settembre gli equilibri sono stati ulteriormente rivoluzionati: «Io mi aspettavo - continua Loewenthal - che l'Occidente avrebbe reagito allo shock con una sorta di immedesimazione nei confronti della situazione ebraica e delle istanze della sicurezza contro il terrorismo. Invece ho la netta sensazione che sia avvenuto proprio il contrario: forse per un'esigenza di prendere le distanze da un male tanto spaventoso, l'opinione pubblica ha risposto al dolore con un certo fastidio e distacco nei confronti di Israele e degli ebrei in generale, quasi con una consapevolezza fasulla che "gli ebrei portano guai". In questo atteggiamento intravedo la speranza, illusoria, che se Israele si ritirasse dai Territori immediatamente il terrorismo scomparirebbe. Purtroppo la questione non è così semplice». E cosa ne dice di quegli intellettuali ebrei, da Amos Oz a Abraham Yehoshua, da sempre sostenitori del dialogo e che oggi hanno rivisto le loro posizioni? «Non penso che si siano tirati indietro ma capisco il loro grande sgomento, che riflette quello presente nella società israeliana: si è avvertito il fallimento della disponibilità al dialogo, e ora c'è stordimento e disillusione».
Per il politologo Marco Tarchi, animatore della "nuova destra" italiana, le prese di posizione antiebraiche nel mondo arabo «vanno tuttavia paragonate ad analoghe correnti di fondamentalismo israeliano ferocemente antiarabo, correnti per fortuna minoritarie ma pericolose». Ma nel nostro Paese assistiamo a un fenomeno grave e peculiare: «Esiste uno sbilanciamento culturale dell'Italia, dove non vengono tradotti e quindi non sono presentati all'opinione pubblica alcuni libri di intellettuali ebrei moderati, critici nei confronti di una certa politica israeliana. Ma questa sorta di autocensura è controproducente: c'è bisogno di un dibattito onesto». Un dibattito che secondo Tarchi viene messo in pericolo anche da inutili allarmismi su un ritorno dell'antisemitismo: «La trovo una strumentalizzazione inaccettabile e rischiosa, perché crea la sensazione di voler vietare ogni tipo di confronto, con l'effetto di isolare e rafforzare sempre di più le opposte posizioni».
Lo storico Franco Cardini concorda sul fatto che «troppo allarmismo sortisce un effetto contrario, non solo per l'ambiguità di forme di "iper-difesa", ma anche perché evocando eccessivamente un male oscuro c'è il rischio di renderlo affascinante agli occhi delle frange meno equilibrate della società». Ma in Europa è in corso oppure no una nuova stagione di antisemitismo? «No, e neppure vedo il rischio che esso prenda piede a livello di intellettuali né di massa: l'Occidente è rimasto profondamente vaccinato dall'esperienza nazista, anche se ciò non significa che possiamo abbassare la guardia nei confronti dell'insorgere di forme di fanatismo e intolleranza. E ciò che più mi preoccupa oggi è il forte rischio che si diffonda anche in Italia, visto tra l'altro lo spaventoso successo del libro di Oriana Fallaci (un libro che mi ha sconcertato, nonostante il calibro dell'autrice), un anti-islamismo fanatico e pericoloso».
Se anche per il sociologo Paolo Sorbi in Europa assistiamo a fenomeni «fisiologici e non patologici, invece nei Paesi arabi è in pieno atto una recrudescenza dell'odio che non è più solo antisionista ma è antisemita». Conseguente alla nuova Intifada? «Sì, ma con radici molto più lontane: il non aver voluto affrontare, da parte delle élites arabe, in modo scientifico e laico la presenza degli ebrei in Palestina dal '48 ha portato a una catastrofica e permanente opposizione culturale e anche teologica nella questione mediorientale». E oggi le cose sono addirittura peggiorate: «Dopo l'11 settembre parlare di dialogo è quasi ridicolo. A breve termine purtroppo mi sembra che gli equilibri siano dominati dalla forza, che siano i rapporti di forza a formare la cultura stessa. C'è solo da sperare nel futuro».
Che si parli di Medio Oriente o di Europa, secondo lo scrittore Piero Stefani la complessità del problema deriva da un'ambiguità di fondo, «quella che permette la sovrapposizione di ebrei, anche quelli della diaspora, e Stato di Israele. Ma naturalmente unificare le due entità crea forti equivoci e strumentalizzazioni». Per esempio? «Se qui in Europa le manifestazioni di solidarietà con lo Stato di Israele vengono organizzate non di fronte a un'ambasciata ma nelle sinagoghe, allora si capisce come le sinagoghe stesse finiscano per rappresentare un obiettivo "lecito" per le manifestazioni di chi si oppone al governo israeliano. Naturalmente questo non giustifica alcun genere di strumentalizzazione, ma ignorare tali dinamiche di identificazione tra religione e politica impedisce di analizzare i fatti». Anche per quanto riguarda il nostro Paese: «In Italia mi risulta che le prese di distanza da parte di esponenti della comunità ebraica nei confronti della politica di Sharon siano state davvero poche. E gli intellettuali ebrei, per esempio Elie Wiesel, sono stati molto duri verso i palestinesi». Segno che l'influenza delle tensioni politiche sul clima culturale non può essere realisticamente ignorata.

Chiara Zappa

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13.01

Due torri piene di dubbi 

DUE TORRI PIENE DI DUBBI

di John Kleeves


Ancora non sappiamo chi

I quattro mesi passati non hanno molto diradato i dubbi connessi con gli attentati dell’11 settembre 2001 contro gli USA e con la successiva reazione di questi ultimi contro Bin Laden-mullah Omar-Afghanistan. Per quanto riguarda la matrice degli attentati ancora non possiamo dire come siano
andate davvero le cose, se ci fosse qualcuno dietro il gruppetto di attentatori e nel caso chi fosse, se davvero Bin Laden oppure la Russia o qualche altro Stato o anche lo stesso governo USA o un suo settore deviato.


L’Ipotesi Russia non mi sembra da scartare a priori perché

1)     bisogna ricordare che Putin è un kappagibista

2)     2) negli attentati sono state dispiegate abilità e cognizioni sorprendenti, normalmente a portata solo di uno Stato ( ad esempio la capacità di inserirsi nei più segreti canali di
trasmissione militari americani, usati per una strana rivendicazione post
attentato, quasi una firma )

3)     ci deve essere stata per forza una relazione fra l’attacco dell’11 settembre e l’assassinio del comandante Massud, capo carismatico filo russo dell’opposizione contro i Talebani,
avvenuto solo due giorni prima, relazione che può anche essere stata di
reazione

4)     può darsi che il Kursk sia stato affondato da un sottomarino americano e non inglese come si credeva, e bisognava fare pari

5)     in ogni caso fra USA e Russia c’è la guerra, sotterranea al di là dei sorrisi di
facciata e all’ultimo sangue.

 

Ancora non sappiamo come
I misteri sugli attentati, anzi, si sono infittiti nel frattempo perché

1)     viene messo in dubbio che sul Pentagono si sia schiantato veramente un aereo ( quindi potrebbe essere stato un missile)

2)     dell’aereo caduto o abbattuto in Pennsylvania che io sappia non sono mai stati mostrati resti

3)     sembra che mentre le due Torri (1WTC e 2WTC) bruciavano, in un grattacielo vicino (il 7WTC, completamente distrutto) si sia verificata una esplosione molto grande (che potrebbe essere stata provocata ancora da un missile)

4)     non si è più accennato al fatto che in diretta si davano per dirottati sette o otto aerei contro i quattro di cui si è sempre parlato dopo (due sulle Torri, uno al Pentagono, uno in Pennsylvania)

5)     io potrei aggiungere che in verità non ci sono prove che i dirottatori fossero i 19 arabi indicati, e addirittura che non ci sono prove che gli aerei, almeno i due delle Torri che tutti abbiamo visto, siano stati dirottati da uomini a bordo : i comandi potrebbero essere stati “ catturati elettronicamente da aerei spia, escludendo i piloti e ogni possibilità di comunicazione dall’aereo (la famosa conversazione eroica al telefonino dall’aereo della Pennsylvania è quasi sicuramente un falso), e quindi diretti sugli obiettivi (ciò fra l’altro risolverebbe il problema delle traiettorie troppo perfette per dei dilettanti).

 

In questo caso tutta l’operazione potrebbe anche essere stata eseguita - oltre che naturalmente da un apparato USA, deviato o meno - da una Potenza straniera con uno o più velivoli invisibili “ e che avrebbero anche lanciato dei missili da crociera, Potenza che visto il fenomenale livello non potrebbe che essere la Russia. Il fatto che i due aerei delle Torri fossero entrambi dei Boeing 767 può significare una facilità di cattura elettronica dei comandi per quel modello, mentre il black out sui resti dell’aereo caduto in Pennsylvania potrebbe significare che non si trattava del velivolo civile che si diceva, quello della Olsen.

Tanti misteri dunque, e quello che possiamo ragionevolmente dire dopo questi quattro mesi è solo che il governo americano, visto che a quanto pare non ha fatto ricerche al di fuori di Bin Laden e sempre che non vi fosse lui governo dietro l’attentato, sembra credere che si trattasse di una
iniziativa personale degli attentatori, di cui poi lui ha pensato di approfittare incolpando Bin Laden, oppure sembra credere davvero che dietro vi fosse Bin Laden.

Le ipotesi del petrolio e dell’oppio
Qualunque sia la vera ipotesi sulla matrice degli attentati dell’11 settembre gli interrogativi sul perché gli USA abbiano poi attaccato l’Afghanistan rimangono. Questo anche nel caso gli USA credessero alla responsabilità di Bin Laden, perché avrebbero avuto altri sistemi più efficaci per punirlo. Alcuni osservatori, persone capaci e non di regime, hanno avanzato due ipotesi interessanti:

1)     L’ipotesi del petrolio. Attorno al Mar Caspio, in Turkmenistan si dice, ci sarebbero grandi giacimenti di petrolio, che una compagnia americana (quasi tutti gli alti papaveri del governo USA provengono dal settore petrolifero, a cominciare da Bush) vorrebbe spillare con un oleodotto da far arrivare in Pakistan attraverso un Afghanistan “ sicuro “ evitando Russia e Iran, due nemici; prima quindi l’Afghanistan andava sicurizzato, ripulito da elementi come i Talebani i quali, creati dalla CIA in funzione antirussa prima nello stesso Afghanistan e poi in Cecenia, chiedevano ora forse troppo per l’oleodotto. Sarebbe un bello e chiaro motivo.

 

2)     L’ipotesi dell’oppio. Perché la guerriglia del 1979-1989 contro i russi si potesse autofinanziare, si dice, la CIA ha incoraggiato la coltivazione del papavero da oppio in Afghanistan, coltivazione che nel 1995 è passata sotto il controllo dei Talebani che l’hanno potenziata sino a far diventare l’Afghanistan il maggior produttore di oppio del mondo ; ebbene gli USA avrebbero attaccato l’Afghanistan per riprendere il controllo su questa
produzione, perché i Talebani avevano cominciato a operare sul mercato per loro conto e per i loro interessi rompendo il monopolio USA. E’ una ipotesi seria, perché è vero che il governo USA mantiene il controllo del traffico mondiale di droga, che è prodotta sempre in “ sue “ zone ( la cocaina in America Latina e l’eroina nel Triangolo d’Oro ) e che è smerciata a monte da organizzazioni criminose di sua fiducia ( la mafia di Cosa Nostra, la mafia israeliana, la mafia turca, molte altre ). Il governo USA ci tiene a mantenere questo controllo, una posizione che ha voluto raggiungere a tutti i costi a partire dal 1949, perché il traffico di droga gli serve per la sua politica neocoloniale, per ribaltare governi onesti e per mantenere governi
corrotti che permettono alle Multinazionali di sfruttare i loro propri Paesi.

Può darsi benissimo che una di queste due ipotesi sia quella giusta, o che lo siano entrambe, ma tutto si basa su dei dati la cui attendibilità non è certa. Per il discorso del petrolio bisogna che il gioco valga la candela, e cioè bisogna che sia vero, come effettivamente si dice, che le riserve note
di petrolio del mondo stanno per finire, entro verso il 2020 o anche prima.
In questo caso riserve come quelle del Turkmenistan, capaci si dice di coprire l’intero fabbisogno USA per 30 anni, varrebbero la pena di rischi grandi come quelli che gli USA corrono adesso in Afghanistan ma il fatto è, secondo me, che noi comuni mortali in realtà non conosciamo la  situazione delle riserve petrolifere del mondo. E’ ingenuo credere di saperle. Si tratta di informazioni importantissime, strategiche, che vengono raccolte, anziché con trivellazioni, soprattutto da satelliti militari di grandi Potenze ( specie la Mir con i suoi 14 anni di permanenza dovrebbe aver mappificato bene la situazione ) e che non vengono rese di dominio pubblico
; ai media, alle università, all’ONU eccetera dovrebbero essere forniti dati incompleti o falsati ed è anche dubbio che tutte le grandi società petrolifere americane conoscano la vera situazione, forse qualcuna sì ma non tutte.
Lo stesso per l’oppio. Si dice che l’Afghanistan nel 1999 ha prodotto 4.500 tonnellate di oppio, e nel 2000 3.500 tonnellate, ma ciò non si accorda con i dati che circolavano prima. Nel 1992 si diceva che i maggiori produttori erano : Triangolo d’Oro con 2.534 t, Afghanistan con 640 t, Iran con 300 t, Pakistan con 175 t ( Morel, Rychen “ Il mercato delle droghe “, Editori Riuniti 1995, pag.23 ). Allora, supponendo che il Triangolo d’Oro non abbia chiuso bottega, come effettivamente non c’è mai stato sentore, a questa produzione si sarebbero aggiunte di netto diciamo 4000 - 640 = 3360 t di oppio : dal 1992 al 2000 il consumo di eroina nel mondo sarebbe raddoppiato! Non è possibile, perché ciò avrebbe comportato il raddoppiamento degli
eroinomani, con conseguenze sociali che sarebbero state segnalate. C’è qualcosa che non va e anche questa ipotesi rimane in sospeso perché non siamo certi dei dati, di quei dati che ci buttano dall’alto come badilate di sterco su funghi coltivati al buio.

Le ipotesi politiche
Rimangono in piedi le ipotesi più tipicamente politiche:

 

3)     L’ipotesi della guerra alla Russia. Dopo l’attacco portato e vinto sul fronte europeo in Yugoslavia e dopo l’apertura di un fronte nel Caucaso tramite i narco-ribelli ceceni e i narco-mercenari arabi e afghani mandati da Bin Laden, era forse scontata l’apertura di un altro fronte nell’Asia centrale, dove ci sono le repubbliche turche musulmane da spingere contro la Russia. Le basi che gli USA con la scusa dell’attacco all’Afghanistan hanno ottenuto in Pakistan, in Uzbekistan, in Turkmenistan, in Tagikistan e in Afghanistan, oltre quella magistralmente ottenuta in Georgia per rinfocolare il fronte del Caucaso, dovrebbero servire per creare zizzania nella zona, come fatto in  Macedonia partendo dal Kosovo, e cioè per inserire sbandati locali nel traffico di eroina, forse anche di quella prodotta in Afghanistan ma certamente di quella del Triangolo d’Oro, e per armarli,  addestrarli e infine buttarli contro i russi. Per cominciare a vedere gli effetti del tutto ci vorrà un paio di anni.

 

4)     L’ipotesi dell’Iran. L’attacco all’Afghanistan sarebbe una scusa come prima ma l’obiettivo non sarebbe la Russia ma l’Iran, alla cui perdita nel 1979 gli USA non si sono mai rassegnati.

 

5)     L’ipotesi della resa generale dei conti. Secondo questa ipotesi gli USA hanno colto l’occasione dell’attacco dell’11 settembre per inscenare una guerra generale al “ terrorismo “ col cui pretesto sistemare tutti quei Paesi che erano sulla loro lista nera: l’Afghanistan di quei Talebani che forse si erano rivoltati ( per l’oleodotto, per l’oppio, per qualche altra
cosa ), il Sudan, l’Iraq, la Siria, la Somalia, l’Iran, forse anche Cuba e qualche altro.

 

Altre ipotesi politiche
Che io sappia invece non sono stati menzionati due argomenti che hanno delle probabilità di entrare nel gioco per il verso politico:

6)     L’ipotesi della Grande Turchia. Gli USA da alcuni anni tengono un comportamento tale da fare pensare che auspichino, che anzi vogliano agevolare un ritorno della Turchia alle dimensioni del XVII secolo, e cioè in pratica un ripristino dell’Impero Ottomano. Ciò sarebbe in funzione sia anti Europa che anti Russia, perché sarebbe formato un triangolo di
ostilità, un equilibrio di forze che lascerebbe mano libera agli USA nel resto del mondo. Questo Impero aveva il centro in Anatolia-Caucaso-Medioriente e si stendeva a ovest sull’Africa mediterranea verso sud e nella penisola balcanica sino a Vienna verso nord, e a est arrivava sino alle attuali repubbliche turche musulmane dell’ex URSS e all’Afghanistan : sono tutte posizioni da riprendere, nei limiti del possibile, mentre forse qualcuna è da guadagnare ex novo. Nell’Africa settentrionale ancora non si
sono visti movimenti, mentre le operazioni sono iniziate  certamente nel Caucaso ( Georgia, Azerbaigian, Cecenia e Daghestan devono far parte dell’Impero ) e sono già a buon punto nei Balcani (con la Grande Albania turco-etnica, formata da Albania, Kosovo,Macedonia, parti della Bosnia, della Bulgaria, della Romania e della Grecia): una presenza americana in Afghanistan e nelle confinanti repubbliche musulmane ex URSS potrebbe agevolare il loro assorbimento da parte della Turchia, specie se come sembra il grosso delle forze di terra che gli USA ( o l’ONU, non c’è nessuna differenza ) manderanno in zona saranno proprio turche.

 

7)     L’ipotesi dell’India. L’India invece non è da fare crescere; è da sovvertire, da aprire alle proprie Multinazionali ( ha un miliardo di abitanti, di compratori intendo ). Ciò può avvenire tramite una guerra col Pakistan, guerra innescata dalle attività dei ribelli musulmani che
infestano il Kashmir indiano. Il nesso con l’attacco USA all’Afghanistan è duplice : da una parte offre la scusa agli USA di essere presenti militarmente in Pakistan e dall’altra i Talebani scacciati dall’Afghanistan devono andare a guadagnarsi la pagnotta mercenaria in Kashmir, a provocare gli indiani ( e altri devono andare in Cecenia contro i russi... ) ; ne può
sortire una guerra dove il Pakistan appoggiato dagli USA vince e il subcontinente indiano è sovvertito secondo i voleri dello Zio Sam. Per arrivare alla guerra gli USA potrebbero far protrarre gli attriti e i tira e molla in Kashmir per un paio di anni, secondo la prassi vista contro la Yugoslavia. Il colpo di Stato in Pakistan della fine ’99, con cui Musharraf
rovesciò e sostituì Sharif, potrebbe essere stato non solo tollerato come ovvio, ma anche voluto dagli USA per eliminare uno Sharif che forse non voleva imbarcarsi in tale progetto, assai pericoloso per il Pakistan infatti. L’India non può evitare una sconfitta convenzionale ricorrendo alle bombe atomiche perché anche il Pakistan userebbe le sue, cioè quelle che gli
hanno fornito gli USA a suo tempo ( qualcuno credeva che i pakistani fossero capaci di costruirsi bombe atomiche ? ma va ), e in più questi ultimi contribuirebbero anche direttamente.

Il dubbio estremo
Da quanto detto emerge come gli USA avessero una sorprendente pluralità di motivi per mettere i piedi in Afghanistan, e motivi tutti “ buoni “, ognuno quasi in grado di giustificare l’operazione da solo. Non si può allora non tornare al sospetto, già preso in considerazione all’inizio, che dietro gli attentati dell’11 settembre, a questo punto così provvidenziali, ci fosse proprio il governo USA. E a questo punto, dato che si decide di sospettare della buona fede americana, tanto vale farlo sino in fondo, e chiedersi se non si sia trattato di una vicenda costruita interamente, tutta falsa da capo a piedi compresi i ruoli dei protagonisti principali : chiedersi cioè se è proprio vero che Osama Bin Laden e il mullah Omar sono dei mortali nemici dell’America, e se invece non è una finzione anche questa.

Pensandoci, non è poi così impossibile. Bin Laden è una creatura degli USA: la sua famiglia si è arricchita in Arabia Saudita con l’appoggio della famiglia reale e quindi degli USA, poi lui ha combattuto contro i russi in Afghanistan assieme alla CIA, e infine ha mandato i suoi mercenari in Cecenia sempre contro i russi e sempre con la CIA ; può anche darsi che si
sia rivoltato contro gli americani, come a suo tempo fece Noriega, ma è quasi più probabile che non l’abbia fatto, che fosse e che sia rimasto un avventuriero d’alto bordo e al servizio degli USA, dove c’è la tetta dei soldi. Anche Omar è una creatura degli USA : è il capo dei Talebani, ma i Talebani sono una massa ( qualche migliaio ) di giovani sbandati dell’Afghanistan e di altri Paesi musulmani che il Pakistan, per conto del suo padrone USA, ha raccolto in una formazione tipo Contras per eseguire delle politiche ; i Talebani sono dunque un branco di mercenari, dei mercenari che si sono impadroniti di un Paese così come i Mamertini si erano impadroniti di Reggio Calabria, e Omar può benissimo essere anche lui, come Bin Laden,
un avventuriero al quale importa poco sia dell’Afghanistan che dei Talebani.

Fosse così, la vicenda sarebbe una creazione americana completa: gli attentati dell’11 settembre sarebbero opera del governo statunitense (di una sua cellula di vertice ultrasegreta e all’occorrenza sconfessabile) e il mullah Omar non avrebbe consegnato Bin Laden per dare la scusa di attaccare l’Afghanistan con tutto ciò che consegue in termini di basi e di possibilità, mentre Bin Laden stesso si sarebbe dato da fare per alimentare il mito dello “ Sceicco del Terrore “. Fosse così Putin, ben lungi dall’aver ordito un piano tecnicamente perfetto e molto coraggioso,  sarebbe invece
caduto in una trappola colossale, una cosa da dimissioni e peggio.

Si spiegherebbero così alcune cose strane:

1)     che dal 4 al 14 luglio 2001 Bin Laden, ufficialmente ricercato da tre anni perché ritenuto mandante degli attentati alle due ambasciate americane in Africa del 1998, abbia potuto curarsi nell’ospedale militare americano di Maktum Bridge in Dubai,dove ha anche ricevuto la visita sembra deferente del responsabile della CIA nel Paese

2)     la resistenza militare praticamente nulla che è stata opposta dai Talebani - a questo punto traditi da ordini balordi - all’Allenza del Nord, opportunamente privata in precedenza dell’uomo forte di Mosca, Massud

3)     il fatto che non ci sia stata nessuna rivolta islamista né in Pakistan né in Arabia Saudita né altrove mentre gli yankees infedeli stavano bombardando i “ fratelli “ afghani ; c’è stata solo qualche dimostrazione di piazza in Pakistan con un paio di morti mi pare, ma nessun tentativo serio di sovvertimento ; potrebbe essere una conferma  che quelle genti sono
giusto, come i palestinesi ad esempio, dei cani che abbaiano ma non mordono, ma potrebbe anche significare una mancata richiesta di Omar

4)     l’assenza di qualsivoglia azione terroristica contro gli USA o i suoi alleati più compromessi come Gran Bretagna, Italia eccetera, da parte di una Al Qaida descritta come onnipresente e potentissima organizzazione terroristica internazionale ; nei video Bin Laden ha minacciato, ma al vento, mentre il pericolo carbonchio tanto strombazzato dai media USA si è  dimostrato di origine interna ( in questa ottica, anzi, di origine CIA ).

Sì, teoricamente potrebbe essere. Ma nella pratica sembra esagerato, troppo improbabile. Teniamo presente comunque l’eventualità, perché non sarebbe la prima volta che per ottenere degli scopi di politica estera gli USA si fanno delle auto stragi, come in pratica fu a Pearl Harbor : il grande  Roosevelt vietò di avvertire la base dell’imminente attacco giapponese, che così riuscì in pieno (e facendo 2600 morti, guarda caso come nelle Torri Gemelle). E neanche sarebbe la prima volta che mettono in piedi delle sceneggiate colossali, così incredibili che la gente non può fare a meno di
crederci : questo fu la Guerra Fredda, replicata con successo per più di cinquant’anni.

John Kleeves

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13.01

Nuovo coordinatore dell'Alleanza somala in Italia

In attesa dell'attacco alle basi di Al Qaeda vicino Mogadiscio crescono le perplessità verso il governo provvisorio

NOMINATO IL NUOVO COORDINATORE DELL'ALLEANZA SOMALA IN ITALIA

(di Dimitri Buffa, l’Opinione delle Libertà, 3 gennaio 2002 p. 1)

Ali Hussen è il nuovo coordinatore dell'Alleanza nazionale somala in Italia. Lo hanno deciso gli ameicani in attesa di stabilire l'ora X dell'attacco agli alleati di Al Qaeda nei dintorni di Mogadiscio.

Hussen, già Ambasciatore di Somalia presso la S. Sede e presidente dell'Associazione musulmani italiani, confida a "L'opinione" l e proprie perplessità sui continui rinvii della missione di bonifica in loco. Spiega in particolare di "capire che gli Americani abbiano bisogno di prendere tempo per disporre l'assetto strategico dell'operazione militare nel modo più favorevole" ma di "non ritenere che il governo provvisorio guidato da Hassan Abshir possa concludere alcunché di positivo."

Perché?

"Non ha la fiducia dei rappresentanti delle tre principali tribù che compongono la Somalia; non ha l'appoggio né dei Rahawein, né degli Abgal, né dei Darot il che, in un paese come la Somalia, equivale a dire che non ha l'appoggio della stragrande maggioranza della popolazione. Se però il
comando di 'Enduring freedom' ritiene che al momento la strada da seguire sia questa, da parte mia tengo per me il mio scetticismo e  da ufficiale quale sono obbedisco. In questi giorni mi consulto di continuo con Osman Falco, e sono solidale con la sua decisione di tornare in Somalia per il
ruolo per cui è stato chiamato. Ritengo anzi che la ridiscesa in campo di Falco sia il passo decisivo verso la sconfitta dei fondamentalisti, verso il disarmo dei signori della guerra, e verso la rinascita democratica del mio martoriato paese. Sono poi lieto che ciò avvenga grazie all'impegno
delle strutture di intelligence italiane e mediante ad un generale educato all'italiana, poiché la maggioranza dei Somali continuano ad avere un ottimo rapporto con gli Italiani, e continuano a considerare l'Italia come la loro seconda patria."

La volontà del Presidente degli Stati Uniti George W. Bush di non limitare la portata dell'operazione "Enduring freedom" al solo regime dei Talebani ed alle basi di Al Qaeda in Afghanistan diviene di giorno in giorno più concreta nel caso della Somalia. E' ormai chiaro che le basi degli alleati di Bin Laden presenti in territorio somalo, ed in particolare nella Migiurtinia e nel Basso Giuba non potranno sopravvivere a lungo, ma che saranno al più presto smantellate. A restare ancora incerte sono le modalità operative, e soprattutto si ignora in quale posizione verrà a
trovarsi l'attuale presidente ad interim Hassan Abulkassim, cioè se verrà considerato un ex-alleato oggettivo di Bin Laden pentito e disposto a collaborare, oppure se lo si considererà come tuttora legato agli interessi che ruotano attorno ad Al Qaeda, e quindi destinato ad essere anch'egli
coinvolto nella sua eliminazione.

In altre parole, si ignora se nel prossimo futuro Abulkassim giocherà un ruolo analogo a quello del dittatore pakistano gen. Musharraf, oppure a quello del Mullah Omar.

Nel frattempo, le flotte dei vari paesi che compongono l'alleanza internazionale antiterrorismo si stanno schierando: gli americani stanno disponendo le loro forze navali attorno alle coste del Puntland, in prossimità di Argeisa, nell'Alto e nel Basso Giuba e in prossimità di Benadir; gli Inglese sono invece a Mombasa, in Kenya, i Francesi e i Tedeschi sono già sbarcati a Gibuti, ed un gruppo di esperti militari italiani si trova invece in Eritrea, impegnato in una missione di
ricognizione.

Com'era ampiamente previsto, la Conferenza per la Somalia di Nairobi, promossa dal presidente ad interim Hassan Abulkassim si è conclusa il 25 dicembre con una frattura che al momento appare insanabile: i leader delle tre principali etnie del paese, cioè Shar Ghadud, (Camicia Rossa), Hussein
Aidid e Musa Sudi hanno rifiutato gli incarichi di governo che Abulkassim aveva offerto loro, hanno rifiutato di partecipare alla conferenza, ed hanno sconfessato quei loro subalterni che invece sono andati a Nairobi.

L'Alleanza nazionale somala - costituitasi grazie all'impegno dei funzionari Onu Massimo Pizza e Antonio D'Andrea e formata da dieci generali somali addestrati nelle accademie italiane ai tempi dell'amministrazione fiduciaria - si è dichiarata risolutamente contraria ad ogni forma di compromesso con gli ex-alleati di Bin Laden, ed ha lanciato pesanti accuse di connivenza coi fondamentalisti contro Abulkassim ed il primo ministro  incaricato Hassan Abshir.

Dopo aver troncato ogni forma di contatto con Abulkassim e rifiutato di riconoscere come valida la nomina di Abshir a primo ministro, l'Alleanza ha anzi consegnato ai funzionari Onu il testo di un appello alla Comunità internazionale ed al Presidente degli Stati Uniti Bush, nel quale si chiede
che Abulkassim venga prontamente dichiarato decaduto dal mandato, che si torni all'amministrazione fiduciaria delle Nazioni Unite, demandando all'Alleanza nazionale somala di arruolare sotto bandiera dell'Onu le forze che intendono concorrere alla bonifica del territorio. I generali hanno dichiarato senza mezzi termini di considerare Abulkassim ancor legato agli
interessi di quanti vogliono proteggere l'organizzazione Ittihad al-Islamiyy (fazione locale di al-Qaieda) hanno proposto un intervento rapido e con limitatissimi danni collaterali fra la già martoriata popolazione civile, e si sono impegnati alla cattura degli emissari non-Somali di Al Qaeda e al distruzione delle piantagioni di hashish e di qat che finanziano la rete di Ittihad al-Islamiyyah nella Migiurtinia e nel Basso Giuba.

Abulkassim ha invece concluso i lavori della Conferenza chiedendo alle Nazioni Unite fondi per la ricostruzione delle strutture statali, aiuti umanitari, medicinali, nonché la sospensione di qualsiasi iniziativa militare sino alla convocazione di una nuova Conferenza, da tenersi a Khartum. I generali, dal canto loro, hanno invece eletto a presidente della loro Alleanza l'ex vice-comandante della polizia Osman Falco, e lo hanno proposto al comando di "Enduring freedom" come capo di stato maggiore delle forze somale da impegnarsi al fianco della comunità internazionale contro
le basi somale del terrorismo fondamentalista. E' ben difficile immaginare un contrasto di posizioni che possa essere più netto ed inconciliabile.
Ciononostante, gli Americani sembrano al momento puntare per lo meno su una conciliazione provvisoria, che consenta sia il l'appostamento delle truppe in territorio etiope, sia l'arrivo delle portaerei nel Mar Rosso, e permetta inoltre di dare inizio all'intervento militare da posizioni di
forza, dopo avere già dispiegato sul territorio forze militari locali che risultino fidate.

Per questa ragione, al momento non sono state accolte in toto né le richieste del presidente provvisorio, né quelle dell'Alleanza nazionale somala. Ad Abulkassim è stato fatto capire senza mezzi termini che la proposta di una nuova conferenza a Khartum deve essere immediatamente
accantonata, ed è stato imposto di accettare il rientro in patria di Osman Falco e la sua nomina a capo della polizia, con ampia facoltà di assumere il controllo del territorio nazionale e di disarmare le fazioni dei signori della guerra.

In cambio, gli sono stati concessi gli aiuti umanitari ed i medicinali richiesti (ma non i fondi in valuta), e gli è stato posto a disposizione un servizio bancario che consenta le rimesse del denaro proveniente dalle famiglie somale all'estero in sostituzione della smantellate struttura di Barakaat (la banca legata a Bin Laden).

Al generale Falco è stato però chiesto di vincere la sua riluttanza a porsi a disposizione di Abulkassim, e di accettare la nomina a comandante generale delle forze di polizia, nomina che, se pure firmata da Abulkassim, è stata di fatto imposta dal comando di "Enduring freedom".

Secondo l'orientamento proprio al comando strategico di Tampa, porre a fianco di Abulkassim un capo della polizia sicuramente moderato, filo-occidentale e antifondamentalista rappresenta un modo di porre il presidente ad interim alla prova, di vagliare se le sua intenzione è
veramente quella di distruggere le strutture di Ittihad al-Islamiyy, e di impedire che egli seguiti a tentennare e a prendere tempo come ha fatto sinora.

E' chiaro infatti che ogni ostacolo frapposto dal presidente ad interim o dal governo provvisorio all'operato di Falco verrebbe interpretato come segno di inaffidabilità, e porterebbe alla loro immediata destituzione.


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13.01

Il Generale Falco in Somalia

Mogadiscio avrà presto un comando militare unificato e potrebbe essere un somalo-italiano a  guidarlo, con il beneplacito degli Usa e con l'accordo della diplomazia di Roma

FALCO, IL GENERALE EDUCATO ALL'ITALIANA, CAPO DI STATO MAGGIORE IN SOMALIA

(di Dimitri Buffa, Libero del 29 dicembre 2001, p. 11)

Osman Hajj Omar, cadetto nelle nostre accademie, oggi torna alla ribalta dopo l'esilio inglese. Di stirpe Hawiya, il militare è noto per esser stato fautore di un ravvicinamento all'Etiopia.

 
Roma - Hanno tutti studiato nelle accademie militari italiane e sono figli o nipoti di quelli che furono gli Ascari del Regno d'Italia sotto il Duca Amedeo d'Aosta, i dieci generali che costituiscono la neonata Alleanza degli ufficiali somali, sorta a Tampa in Florida sotto l'egida statunitense
e delle Nazioni Unite. Uno di loro, il generale Osman Hajji Omar, detto "Falco", sarà forse, se gli Usa daranno l'Ok, il futuro capo di stato maggiore provvisorio, una volta che sarà approvato l'intervento armato a Mogadiscio per la bonifica del Paese dai complici di Osama Bin Laden.

Se la Somalia entro i primi mesi del 2002 avrà così un nuovo comando militare unificato, alleato della Comunità internazionale nella campagna antirerrorismo, molto sarà dovuto proprio alla diplomazia italiana che nella fattispecie è stata rappresentata dai funzionari Onu Massimo Pizza e
Antonio D'Andrea, e dall'ex Ambasciatore somalo e presidente dell'Associazione musulmani italiani Qadi Ali Hussen.

La sera del 25 dicembre la Conferenza di Nairobi per la Somalia, promossa dal presidente ad interim Hasan Abulkassim si è conclusa con un nulla di fatto: i comandanti generale Shar Ghadud degli Abgal (Camicia Rossa) e Hussein Aidid hanno rifiutato di accogliere le rispettive nomine a ministro della Difesa e degli Esteri, e ribadito la loro indisponibilità a servire nel governo presieduto dal migiurtino Hasan Abshir - di etnia Darot – che essi anzi considerano legato alle famiglie che hanno offerto protezione alle strutture tribali legate alla rete terroristica di Al Qaeda.

Ali Sudi, il nuovo capo degli Habarghadir che ha rimpiazzato il signore della guerra Ali Mahdi, si è detto anch'egli d'accordo con la loro decisione, ed ha disertato l'incontro di Nairobi. Abulkassim ora ci riprova, chiedendo agli Stati Uniti di postporre l'intervento militare sino alla fine di gennaio, in attesa dell'esito di una ennesima conferenza, da tenersi a Khartum, sotto l'egida del Sudan e del Kenya.

Ma che Bush accetti di mandare i militari statunitensi a discutere a Khartum, magari sedendo al tavolo col dittatore pro-fondamentalista Omar El-Bashir è fuori discussione. L'unica decisione ancora in forse era proprio quella del generale Osman Hajji Omar, detto Osman Falco, ufficiale della Guardia di Finanza italiana al tempo dell'amministrazione fiduciaria, socio fondatore dell'AMI, quindi vice-capo della Polizia nazionale sotto Siad Barre, attualmente avvocato a Londra. Tutto comunque faceva presagire agli esperti che avrebbe anch'egli rifiutato di contribuire alla nascita del nuovo governo Abshir. E così è stato.

In compenso adesso le tribù somale che fanno capo ai nove generali (Abdullahi Said, Bashir Salat, Abdurahman Girò, Yusuf Aden, Osman Iyoò, Abdullahi Warsame, Hasan Farey, Omar Hashi e Ali Hussen, già ambasciatore presso la S. Sede, oggi Presidente dell'Ami e vice-comandante di stato
maggiore) che insieme a lui formano il nuovo direttorio degli ufficiali somali, lo hanno indicato a Bush come papabile nuovo comandante dell'esercito, non appena la Somalia ne avrà uno in grado di schierarsi al fianco delle Nazioni Unite.

Di stirpe Ahwia, il generale Falco è noto come moderato in quanto iscritto all'Ami, e per essere stato in passato fautore di un ravvicinamento all'Etiopia; al termine della guerra d'indipendenza eritrea si è spinto molto avanti nel proporre una transazione in grado di prevenire nuovi
conflitti fra Somalia e Etiopia, consistente nella cessione all'Etiopia di un corridoio di accesso al Mar Rosso, in cambio di una adeguata compensazione con territori di confine della medesima estensione. Quel progetto vide nascere il suo ruolo di mediatore, ed il suo fallimento in
seguito al boicottaggio della Lega Araba lo ha condotto all'esilio inglese.

L'atto di costituzione dell'Alleanza degli Ufficiali - al momento segregato dal comando di Tampa - contiene un appello alla Comunità internazionale ed al Presidente degli Stati Uniti Bush affinché l'ex presidente provvisorio Abulkassim venga prontamente dichiarato decaduto dal mandato per via della sua manifesta incapacità di far fronte al problema della presenza sul territorio di gruppi legati alla rete di Bin Laden, e chiede che si torni all'amministrazione fiduciaria delle Nazioni Unite, demandando all'Alleanza degli Ufficiali di arruolare sotto bandiera dell'Onu le forze che intendono
concorrere in tempi rapidi alla bonifica del territorio. Il documento, adesso nelle mani del generale Frankie che coordina "Enduring freedom", fa espresso riferimento al "modello Alleanza del Nord" già sperimentato in Afghanistan, e suggerisce che siano gli ufficiali locali ad impegnarsi
nella repressione del fondamentalismo col supporto dell'Alleanza internazionale, nel disarmo delle fazioni dei signori della guerra, e nel controllo del territorio da parte di una forza di polizia unificata.

Cortesia del Fratello Abdul'Alim
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13.01

Aggiornamento Comando dell'Alleanza degli Ufficiali italo-somali

Aggiornamento sulle operazioni in Somalia
del 13 Shawwal 1422 - 28 dicembre 2001

a cura del Dipartmento Informazione
dell'Associazione Musulmani Italiani


Com'era da attendersi, la sera del 25 dicembre la Conferenza di Nairobi per la Somalia, promossa dall'allora presidente ad interim Husan Abulkassim si è conclusa con un nulla di fatto: l'annunciato governo prenditempo non è affatto nato. Come già annunciato, i comandanti generali di stato maggiore Shar Ghadud, (Camicia Rossa) e Hussein Aidid, hanno rifiutato di accogliere le rispettive nomine a ministro della Difesa e degli Esteri, e ribadito la loro indisponibilità a servire nel governo presieduto dal migiurtino Hasan Abshir, che essi al contrario ricusano in quanto lo considerano legato alle famiglie che hanno offerto protezione alle strutture tribali legate ad Al Qaeda.

A questo punto, Abulkassim non ha potuto far altro che autoconcedersi un secondo tentativo, chiedendo agli Stati Uniti di postporre l'intervento militare sino alla fine di gennaio, in attesa dell'esito di una ennesima conferenza, per giunta da tenersi a Khartum, sotto l'egida del Sudan e del Kenya. Ma che Bush accetti di mandare i capi del Pentagono a discutere a Khartum, magari sedendo al tavolo col dittatore schiavista Omar El Bashir è fuori discussione. Lo stesso Abulkassim non può fingere d'ignorarlo.

L'unica decisione ancora in forse era quella del generale Osman Hajji Omar, detto Omar Falco, ufficiale della Guardia di Finanza italiana al tempo dell'amministrazione fiduciaria italiana, quindi vice-capo della Polizia nazionale sotto Siad Barre; attualmente è   residente a Londra, dove svolge la professione di avvocato. I suoi trascorsi in quanto socio fondatore della Associazione Musulmani Italiani, fondata da ufficiali con doppia cittadinanza somalo-italiana, il suo passato impegno nel reprimere i traffici illeciti di stupefancenti che servivano da finanaziamento per i Fratelli Musulmani del Basso Giuba legati alla banca Barakat, la sua moderazione e la sua nota avversità per il fondamentalismo lasciavano comunque presagire agli esperti che avrebbe anch'egli rifiutato di contribuire alla nascita di un governo guidato dal reticente Abshir. E così è stato.

Di stirpe Ahwia, il generale Falco è noto per essere stato in passato fautore di un avvicinamento fra Somalia e Etiopia, ed al termine della guerra d'indipendenza eritrea si è spinto molto avanti nel proporre una transazione in grado di prevenire nuovi conflitti regionali, consistente nella cessione all'Etiopia di un corridoio di accesso alle acque del Mar Rosso, in cambio di una adeguata compensazione con territori di confine della medesima estensione. Quel progetto vide nascere il suo ruolo di mediatore sulla scena del Corno d'Africa, ed il suo fallimento in seguito al boicottaggio della Lega Araba lo ha condotto all'esilio inglese.

Dopo essersi consultato con Ghadud e Aidid al termine della Conferenza, Falco ha deciso di sottoscrivere l'atto di disconoscimento dell'ex presidente temporaneo, di rifiutare la candidatura a ministro dell'Interno offertagli a Nairobi, e di accettare la nomina a capo di stato maggiore provvisorio del comando dell'Alleanza degli Ufficiali, costruita durante una serie di contatti in Somalia, Italia, Austria, Inghilterra e Stati Uniti sotto il comando dei funzionari militari delle Nazioni Unite per la Somalia dott. Massimo Pizza e dott. Antonio d'Andrea, assieme al colonnello della Guardia di Finanza Shaykh Ali Hussen, già ambasciatore di Somalia presso la Santa Sede e presidente dell'AMI.

Il documento di costituzione dell'Alleanza degli Ufficiali contiene un appello alla Comunità internazionale ed al Presidente degli Stati Uniti George Bush affinché l'ex presidente somalo disconosciuto venga prontamente dichiarato decaduto dal mandato per via della sua manifesta incapacità di far fronte al problema della presenza sul territorio di gruppi legati alla rete terroristica di Bin Laden, e rimette alle nazioni Unite un mandato di amministrazione fiduciaria, demandando all'Alleanza degli Ufficiali somali di arruolare sotto bandiera dell'Onu, degli Stati Uniti, dell'Italia e della Somalia le forze che intendono concorrere alla bonifica antiwahhabita del territorio. I generali, dal canto loro garantiscono un intervento rapido e con limitatissimi danni collaterali fra la già martoriata popolazione civile, promettono la consegna degli  alleati non-somali di Al Qaeda al tribunale internazionale di guerra, e la distruzione delle piantagioni di hashish e di qat che finanziano la rete di Ittihad al-Islamiyyah nella Migiurtinia e nel Basso Giuba.

Il documento fa espresso riferimento al "modello Alleanza del Nord" già sperimentato in Afghanistan e riproposto in sede strategica dal circolo del Middle East Forum di Philadelfia, Massachussets, e suggerisce che siano gli ufficiali locali ad impegnarsi come avanguardie nella repressione del fondamentalismo assassino col supporto dell'alleanza internazionale, nel disarmo delle fazioni dei signori della guerra, e nel controllo del territorio da parte di una forza di polizia unificata, sotto comando internazionale sino alla nomina - se Allah vuole - di un governo provvisorio democraticamente eletto in pace.

Già discusso dagli ufficiali durante il mese di dicembre, il documento è stato firmato da Falco e consegnato ai funzionari delle Nazioni Unite, che nel mattinata del 27 dicembre lo hanno trasmesso nelle mani del generale Frankie, comandante delle forze dell'Alleanza internazionale antiterrorismo.

Fra gli altri firmatari, nove alti ufficiali a suo tempo diplomati dalle Accademie militari italiane:

Il gen. Abdullahi Said, ex comandante del distretto militare della Migiurtinia, attualmente leader della Comunità somala di Toronto,  rappresentante dell'AMI in Canada;

Il gen. Bashir Salat, parente dell'ex presidente temporaneo Abulkassim e residente a Mogadiscio, che però si è dissociato da lui ed  ha firmato il documento in occasione di una visita all'Ospedale romano del Celio per il check-up annuale dello stato di salute;

Il gen. Abdurahman Girò, vice-governatore di Baidoa e comandante militare dell'Alto Giuba, che ha già ricevuto in città la visita di cinque ufficiali dei marines americani scortati dall'esercito etiope;

Il gen. Abdirrazaq Farah, comandante del Puntland che monitora a stretto contatto le strutture di Ittihad al-Islamiyyah protette da Abulkassim e dagli Habarghadir;

Il gen. Yusuf Aden, che attualmente lavora a Sidney, Australia, come giornalista, ex ufficiale della Guardia di Finanza ed ex-controllore generale delle dogane e del traffico di stupefacenti sotto Siad Barre, quindi capo ufficio stampa del governo. E' oggi confermato nell'incarico come portavoce dell'Alleanza degli Ufficiali,

Il gen. Osman Iyoò, capo dell'etnia Rahawein, socio fondatore AMI, ex consigliere legale dell'Ambasciata somala in Italia, ed attualmente avvocato a Verona;

Il gen. Abdullahi Warsame, di etnia Darot, ex comandante dell'intelligence militare somala, oggi residente a Parigi e consulente dell'Unione Europea per gli studi strategici;

Il gen. Hasan Farey, socio AMI, oggi assistente della facoltà di ingegneria del Politecnico di Torino, già ministro per le infrastrutture ed attuale custode dei beni immobili ed agricoli dell'Italia e della S. Sede in Somalia;

Il gen. Omar Hashi, medico ed ex-comandante della polizia scientifica, oggi primario ospedaliero a Richmond, Virginia;

Il col. Ali Hussen, presidente dell'AMI, già ambasciatore presso la S. Sede, oggi coordinatore delle trattative da Roma e segretario dell'Alleanza.

Per i Somali in Italia è dunque già scattata la chiamata alle armi, o almeno per quelli che una divisa da ufficiale I'hanno già indossata in passato.

Su mandato dell'Alleanza, gli ufficiali d'origine somala che risiedono in Italia e il cui arruolamento nelle Forze Armate italiane risale al 64° corso allievi ufficiali Valtomorizza sono dunque dal giorno 27 dicembre in servizio effettivo, agli ordini del comando Onu ed in attesa di ordini da Washington. Lo Shaykh Ali Hussen ribadisce l'imminenza dell'impegno, dicendo: «La stagione degli indugi e delle esitazioni volge ormai con l'aiuto di Allah al termine. Coloro le cui posizioni di potere e di ricchezza dipendono dai fondi della Lega araba che Barakat ha stornato a favore dei suoi protetti debbono oggi farsi da parte per il bene del paese. L'intervento internazionale - aggiunge - deve consentire la liberazione della Somalia dall'occupazione dei gruppi fondamentalisti wahabiti e la creazione di un governo moderato, di confessione sunnita, democratico, nemico dello spargimento di sangue, alleato dell'Occidente e seriamente interessato a ricostruire i rapporti d'interscambio religioso, culturale ed economico fra l'Italia a la sua ex colonia».



Foto per gentile concessione dall'Albo Cadetti della Accademia della Guardia di Finanza, anno 1951:

Da sinistra generale Osman Hajj Falco; a destra colonnello Shaykh Ali Hussen, all'epoca del loro giuramento da cadetti della Guardia di Finanza nel 64° corso Allievi Ufficiali Valtomorizza.


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13.01

Assise interreligiosa al Palazzo delle Nazioni di Ginevra

Ufficio Stampa della Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite
Ginevra, dicembre 2001



Rabbi Sztejnberg invita il Decano Gross e Shaykh Palazzi a colloquio con
Mons. Amedèe Grab, Presidente delle Conferenze Episcopali d'Europa


   i.
   c.o.
  s.e.f.

ISTITUTO PER LE COMUNICAZIONI DI SCIENZA E FEDE

Rabbi Leonard SZTEJNBERG,
Presidente Fondatore


Lunedì 18 dicembre 2001

A S. E: il Vescovo Amédée GRAB,
Presidente delle Conferenze Episcopali d'Europa
Bischöfliche Kanzlei
Chur, CH.

Caro Vescovo che presiede le Conferenze Episcopali dìEuropa,

Nel ricco contesto spirituale instauratosi a seguito del nostro incontro del 5 luglio scorso e delle successive relazioni epistolari, circostanze provvidenziali mi inducono a dichiarare quanto segue:

Si impone un'iniziativa efficace di portata internazionale, consistente nel costituire e nel riunire a Ginevra una assise di personalità competenti, rispettose della dignità umana e rappresentative, al fine di trattare delle
motivazioni religiose profonde che sono all'origine del conflitto medio-orientale.

Vi consiglio pertanto di riunire quanto prima a Ginevra:

voi stesso, in particolare come rappresentante dell'Europa;
il Professor Decano Benjamin GROSS di Gerusalemme, erudito rappresentante del sionismo di governo;
lo Shaykh Professor Abdul Hadi PALAZZI, presidente degli imam d'Italia ed in particolare contatto con le istituzioni vaticane;
me stesso, in qualità di iniziatore e animatore della riunione.

In assenza di tale incontro alla vostra indispensabile presenza personale, non credo più utile perseverare nei miei impegni presenti, col solo risultato di intrattenere dei rapporti che non portano a risultati reali (consistenti invece nell'affrontare lo studio dei veri problemi contemporanei, che sono d'origine essenzialmente religiosa, non politica o economia, come invece vorrebbero farci credere certe "eminenze"), così dalla fine della seconda guerra mondiale seguita ad accadere  con l'impegno ecumenico o di natura consimile. Questi incontri - come ciascuno di noi può verificare - sono al presente tanto sterili quanto lo erano in passato.

Come sapete, se oggi mi permette di proporre ripetutamente questa iniziativa, è per via del fatto che coloro che vi sono coinvolti dispongono personalmente di conoscenze scientifiche e religiose adeguate al loro
compito, tali da permettere l'edificazione di ponti fra credi che nella pratica risultano essere profondamente incompatibili, e che sono sovente causa di conflitti, spesso terribili.

Ho inviato copia di questo mio messaggio al Professor Gross e allo Shaykh Professor Palazzi.

Vi prego di accolgiere di cuore, caro Vescovo e Presidente delle Conferenze Episcopali d'Europa, la mia comunione nella luce dell'Essenza divina che discende su noi e irradia l'umanità intera, sublimando le etnie e le razze.


Rabbi Leonard Sztejnberg


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12.01

Storia non romanzata degli Stati Uniti d'America

Nel suo ultimo libro lo studioso John Kleeves racconta la storia "non romanzata" degli Stati Uniti: "Presto comincerà la loro crisi" "Gli Usa, un Paese pericoloso per la pace mondiale"

di Gianluca Savoini

"L’obiettivo del governo americano è quello di governare il mondo allo scopo di sfruttare tutte le risorse economiche mondiali. Per questo motivo gli Usa vanno definiti per quello che sono: non un Paese fondato sui princìpi della
democrazia e della libertà, ma sul desiderio di sottomettere tutti gli altri popoli. Un Paese pericoloso, quindi".


E proprio così (Un Paese pericoloso) si intitola il nuovo libro di John Kleeves (Società Editrice Barbarossa, tel. 02-201310), ricercatore di filosofia di progettazione e studioso di fenomeni socio-economici legati al processo di industrializzazione. "Per ottenere questo scopo gli Usa adottano metodi oltremodo sanguinari - evidenzia Kleeves -: dal 1945 al 1990 gli
interventi militari americani hanno provocato la morte di 30 milioni di persone".
Professor Kleeves, avendo gli americani vinto la Seconda guerra mondiale e la Guerra Fredda, è vietato parlare male di loro, non glielo ha mai detto nessuno?

"Compito di un osservatore di politica internazionale è quello di valutare i fatti senza paraocchi ideologici. Non è colpa mia se il potere Usa si è dimostrato imperialista e fortemente orientato ad imporre la sua volontà in ogni angolo del pianeta. E poi, come scrivo nel mio libro, non è vero che Washington abbia vinto la Seconda guerra mondiale".

Non l’ha vinta nemmeno Hitler, però...

"So di esprimere una valutazione che nessuno condivide, ma se guardiamo bene quali erano gli obiettivi che gli Usa si erano prefissi, ci accorgeremo che nessuno di essi è stato raggiunto. In Europa gli americani avrebbero voluto
mantenere la vecchia balance of power, che era stata minacciata dalla Germania nazista, mentre in Oriente il problema era rappresentato dal Giappone, che nel 1937 aveva iniziato la conquista del mercato cinese e andava quindi fermato a tutti i costi (non per nulla la bomba atomica americana ebbe come cavie umane proprio i giapponesi)".

Invece è andata diversamente?

"Certo, visto che la Russia è arrivata fino all’Elba, diventando la potenza egemone e rompendo la balance of power, mentre in Oriente il mercato cinese rimase fuori dalla portata della penetrazione statunitense e nel 1949 la
Cina divenne addirittura comunista. E dopo aver perso la Seconda guerra mondiale l’America ha perso anche la Guerra Fredda".

Anche se sono crollati i sistemi comunisti?

"Non per merito degli americani, ma per fallimento interno. L’obiettivo centrale della geopolitica americana è quello di annientare la Russia, o almeno di immobilizzarla tra i suoi ghiacci. Dal ’45 al ’50 sembrava ormai imminente un attacco nucleare di Washington contro l’Urss e fu la "cortina di ferro" innalzata da Stalin a far fallire il progetto. Vent’anni fa l’
amministrazione Carter lo dichiarò esplicitamente: "un giorno dovremo combattere contro i russi, questo è sicuro", dissero i consiglieri dell’ allora Presidente americano. Anche perchè se l’Europa si accordasse con i russi, a livello economico-commerciale e anche strategico-militare, per gli americani sarebbe la fine del grande sogno di dominio mondiale. Questo "rischio" per gli americani esiste tuttora, a dimostrazione che nemmeno la Guerra Fredda è stata vinta da loro".

Lei nel suo libro fa balenare l’ipotesi del non lontano crollo dell’impero americano. Ne è davvero sicuro?

"Negli Usa esistono forti contraddizioni interne e non è assolutamente vero che il suo esercito sia in grado di dominare il mondo. A livello di truppa, il soldato americano vale pochissimo. E senza truppe forti di terra, nessuno può fare il "gendarme del mondo". Per questo sono certo che il piano americano sia destinato a fallire".
 

I DIVI DI STATO - IL CONTROLLO POLITICO SU HOLLYWOOD

John Kleeves

Il Settimo Sigillo 1999

Il mito di Hollywood ha sempre esercitato un fascino sul pubblico europeo e su quello italiano in particolare. Ma quale è stato il ruolo del potere politico americano sull’esportazione all’estero della “fabbrica dei sogni”? Quale il condizionamento sulla cinematografia e quale invece l’esercizio di una vera e propria censura? A questi quesiti e a tutti i retroscena della filmografia americana risponde Kleeves con una analisi serrata e inattaccabile. Dopo aver letto questo libro andrete al cinema con la mente più aperta e scoprirete come si vede un film americano.

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11.01

Il bombardamento etico

Costanzo Preve. Il Bombardamento Etico: Saggio sull'Interventismo Umanitario, sull'Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente. ISBN 88-87296-77-4


Mentre preparo l'html di questa recensione, l'occhio mi cade su un titolo del quotidiano, *Corriere del Ticino* (20 dicembre 2001). In sostanza, dice che gli Stati Uniti, padroni incontrastati dei cieli, si stanno preparando a usare di nuovo la bomba atomica per annientare i loro oppositori persino sottoterra.  Il titolista svizzero riesce a ricavarne invece una bomba *antiatomica*: "Una miniatomica contro il terrorismo: la bomba capace di distruggere armi di distruzione di massa a grande profondità". Ecco, in una parola sola, cosa è la "Menzogna Evidente" che compare nel titolo del libro
di Costanzo Preve.

Costanzo Preve insegna filosofia a Torino ed è un profondo conoscitore del mondo balcanico, greco e ottomano. Con questo libro, scorrevole e soprattutto originale, ci regala alcuni spunti decisivi per capire la Guerra del Bene contro il Male, la manipolazione retorica e il mondo post-occidentale.

Lasciamo perdere le ovvie differenze di idee. ma fa tristezza trovare il confuso delirio di Oriana Fallaci, pieno di clamorosi errori, in tutte le librerie; mentre difficilmente troverete il testo di Costanzo Preve, scritto molto meglio e da un autore che pensa prima di aprire bocca. Comunque se il vostro libraio dovesse rivolgervi uno sguardo perplesso
quando chiedete il libro, ecco tutte le coordinate per farglielo ordinare:

Editrice C.R.T. via S. Pietro, 36 - 51100 Pistoia tel. 0573 - 976124 fax 0573 - 366725 e-mail info@editricecrt.it

Potete ordinare il libro contrassegno andando direttamente sul sito della casa editrice http://www.editricecrt.it/ (non vi preoccupate se non lo hanno ancora messo in catalogo, il libro c'è).

La recensione che segue è stata scritta da Roberto Giammanco, docente di scienze sociali in varie università statunitensi, curatore in passato di documentari per la RAI e autore di fondamentali saggi sulla cultura americana.

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Roberto Giammanco

2 gennaio 2002

 Com'è noto, l'ossimoro è la tipica figura retorica dell'ambiguità rassicurante. Prolifera in epoche di conformismo e repressione, in società in cui il dominio ha i mezzi per incoraggiare "la voglia di non sapere", magari facendola passare per una delle più lodevoli virtù. La voglia di non sapere è la versione soft della truce prescrizione Charitas omnia credit.

La cultura della Controriforma fu un vero e proprio florilegio di ossimori, il florilegio dell'ambiguità e della paura di prender partito. 

I quattro ossimori qui considerati sono gli slogan del potere di definizione degli Stati Uniti tradotti in bombe, nel controllo planetario dei media e in un doppio standard di valutazione dei propri morti e di quelli del nemico, delle azioni terroristiche e di quelle, continuative e assai più quantitativamente criminose che l'Impero commette per combattere
il terrorismo e cercare di annientarlo. 

O, si dice, "per curarlo". Undici anni di embargo, centinaia di migliaia di morti, specialmente bambini, un'intera regione contaminata dall'uranio impoverito, non sono bastati per curare gli irakeni dal loro inguaribile
"saddamismo", o se si preferisce, "hitlerismo"? Il rimedio è pronto da tempo. George W. Bush Jr. si appresta a ordire un secondo bombardamento di  maggior significato "etico". "Non fu sì forte il padre.."

Debellare superbos (e magari "perdonare" chi si sottometteva incondizionatamente) era il motto della secolare autoreferenzialità di Roma: definiva i suoi "nemici" e mandava le legioni ad annientarli.

"Oggi essere Roma - scrive Richard Gwyn - è assai di più che avere il potere e i missili, invece dei gladi e delle lance. È una questione di autopercezione. è sapere che sei Roma e che non t'interessa cosa pensano tutti gli altri né avere la benché minima preoccupazione per loro. Essere Roma vuol dire prendere a calci chiunque, ovunque, senza scusarsi, senza dubbi e, all'occasione, senza spiegare niente a nessuno." 

Essere Roma vuol dire imporre la globalizzazione, termine che, come dice Preve, "non descrive uno stato di fatto, ma prescrive uno stato cui conformarsi coattivamente". Qual è la chiave del potere imperiale autoreferente, oltre all'"onnipotenza" delle sue armi di distruzione a distanza?

È la capacità d'imporre a tutti i livelli di azione e comunicazione, su scala planetaria, il criterio del trattamento differenziato (il double standard da decenni assunto da Noam Chomsky a criterio per smascherare la politica estera degli Stati Uniti).


I "modelli" dell'autoreferenza imperiale sono Auschwitz e Hiroshima.
Auschwitz è entrato nella percezione collettiva come il frutto dell'Ideologia demoniaca del nazismo, il genocidio "giudeocentrico" per eccellenza, non paragonabile a nessun altro, il Male assoluto. La colpa assoluta per cui tutti chiedono, invano, perdono.

Auschwitz fu consumato a terra, in un periodo di tempo relativamente lungo, da aguzzini numerosi che si servivano di strutture tradizionali, visibili: linee ferroviarie, vagoni piombati, filo spinato, forni ecc.

Hiroshima fu tutt'altra cosa. Fu il trionfo di una tecnologia superiore, neutra, anonima, affidabile, onnipotente e, soprattutto, senza coinvolgimenti diretti. Cenere, non lacrime e sangue.

Fu subito interiorizzata la menzogna fondante: le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki avevano "posto fine alla guerra", salvando "tante vite americane", si trattò di un'azione di guerra, condotta dall'aria, in un minimo arco di tempo, un rendez-vous tecnologico senza responsabilità soggettive né ideologiche e quindi senza nessun obbligo "morale" di
chiederne perdono. 

Corollario. Se Auschwitz, almeno in quella forma, non si ripeterà più, di Hiroshime, dopo il 1945, ne abbiamo viste tante e c'è da aspettarsi che, in futuro, ce ne saranno anche di più.

L'assuefazione collettiva all'astratto incenerimento di esseri umani che non hanno diritto ad avere né nome né volto è garantita dall'uso spettacolare di questi ossimori.

Tutte le connessioni che garantiscono le definizioni e gli incenerimenti anonimi imposti dal dominio globale fanno capolino, aggrovigliate, dietro questi ossimori che, come scrive Costanzo Preve, "comunicano al lettore/spettatore una sorta di gradevole torpore dei sensi e dello spirito, un torpore in cui annegano progressivamente insieme sia la
consapevolezza teorica sia la coscienza morale".

Per chi non vuol lasciarsi sopraffare da quel torpore Il Bombardamento Etico è la lettura adatta.

© Roberto Giammanco

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10.01

 
Lunedì 14 gennaio 2001 ore 15 - 18  Piazza Montecitorio - Roma
Sit-in durante la discussione sulla politica estera della Camera dei Deputati

Per un'altra politica estera
rispettosa dell'articolo 11 della Costituzione
che promuova lo sviluppo dei paesi del sud del mondo come base della pace
  • NO alla partecipazione alla guerra in Afganistan
  • NO all'allargamento del conflitto
  • revocare unilateralmente l'embargo all'Iraq
  • sostenere la creazione dello stato di Palestina
  • cancellare il debito dei paesi del sud del mondo
  • introdurre la Tobin Tax
Durante la manifestazione verranno consegnate al Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, le cartoline contro l'embargo all'Iraq inviate dai cittadini italiani al Ministro degli Esteri

Prime adesioni:                          (Comunicare ulteriori adesioni a posta@unponteper.it )
Altrimondi - Roma
Associazione per la Pace
Attac - Roma
ICS
Roma Nordest Social Forum
Un ponte per...
 
Hanno aderito: Federazione dei Verdi, Partito dei Comunisti Italiani, Partito della Rifondazione Comunista

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10.01

Genetica, Storia e diritti dei popoli

Cari amici, leggete e diffondete

Davide di Porto

GENETIC EVIDENCE LINKS JEWS AND ANCIENT ISRAEL

Genetic research continues to provide additional proof that the Jewish
people are descended from a common ancient Israelite father, with new
evidence indicating the genes of North African Jewry are virtually
indistinguishable from Jews from Iraq, even though they have been separated
for over 1,000 years.

According to The Hebrew University of Jerusalem, genetic researchers have
also proved that Sephardi Jews are very close genetically to the Jews of
Kurdistan, and only slight differences exist between these two groups and
Ashkenazi Jews from Europe. These conclusions are reached in an article
published recently in the American Journal of Human Genetics.

The researchers conducted blood tests of Ashkenazi, Sephardi and Kurdish
Jews and examined their Y chromosomes, which are carried only by males. They
then compared them with those of various Arab groups - Palestinians,
Beduins, Jordanians, Syrians and Lebanese - as well as to non-Arab
populations from Transcaucasia - Turks, Armenians and Muslim Kurds.

Surprisingly, the study shows a closer genetic affinity by Jews to the
non-Jewish, non-Arab populations in the northern part of the Middle East
than to Arabs. These findings indicate that the Jews are direct descendants
of the early Middle Eastern core populations, which later divided into
distinct ethnic groups speaking different languages.

Previous investigations by the HU researchers suggested a common origin for
Jewish and non-Jewish populations living in the Middle East. The current
study refines and delineates that connection.

It is believed that the majority of today's Jews - not including converts
and non-Jews with whom Jews intermarried - descended from the ancient
Israelis that lived in the historic Land of Israel until the destruction of
the Second Temple and their dispersal into the Diaspora.

The researchers say that a genetic analysis of the chromosomes of Jews from
various countries show that there was practically no genetic intermixing
between them and the host populations among which they were scattered during
their dispersion - whether in Eastern Europe, Spain, Portugal or North
Africa.

A particularly intriguing case illustrating this is that of the Kurdish
Jews, said to be the descendants of the Ten Tribes of Israel who were exiled
in 723 BCE to the area known today as Kurdistan, located in Northern Iraq,
Iran and Eastern Turkey. They continued to live there as a separate entity
until their immigration to Israel in the 1950s. The Kurdish Jews of today
show a much greater affinity to their fellow Jews elsewhere than to the
Kurdish Moslems.

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8.01

Il vicolo cieco di Israele

di Edward Said
tratto da www.zmag.org/italy

"La terra si sta richiudendo su di noi, ci spinge attraverso l'ultimo passaggio; ci laceriamo le membra nell'attraversarlo". Così Mahmoud Darwish, scrivendo subito dopo che l'OLP aveva lasciato Beirut nel settembre del 1982. "Dove dovremmo andare dopo aver superato l'ultima frontiera? Dove volano gli uccelli oltre l'ultimo cielo?"

Diciannove anni dopo, ciò che allora stava accadendo ai palestinesi in Libano sta loro accadendo in Palestina. Da quando l'Intifada di Al-Aqsa è cominciata nel settembre passato, i palestinesi sono stati posti sotto sequestro dall'esercito israeliano in non meno di 220 piccoli ghetti isolati e soggetti a coprifuoco intermittenti che spesso durano per settimane di fila.

Nessuno, né giovani né vecchi, né moribondi né donne incinte, né studenti né dottori, nessuno può spostarsi senza passare ore alle barriere, controllate da soldati israeliani deliberatamente rudi e umilianti. Mentre scrivo, a 200 palestinesi sono negati i trattamenti di dialisi, perché per "ragioni di sicurezza" i militari israeliani non gli consentono di andare nei centri medici.

I rappresentanti dei media internazionali che si occupano del conflitto hanno forse scritto qualche articolo su questi giovani militari israeliani abbrutiti, addestrati a punire i civili palestinesi come parte principale del loro dovere militare? Penso di no.

A Yasser Arafat non è stato consentito il 10 dicembre di lasciare il suo ufficio di Ramallah per partecipare al meeting straordinario dei ministri degli esteri della Conferenza Islamica in Qatar; il suo discorso è stato letto da un sostituto. L'aeroporto a 15 chilometri da Gaza e i due elicotteri obsolescenti di Arafat erano stati distrutti la settimana precedente dagli aeroplani e dai bulldozers israeliani, senza nessuno e nessuna forza a controllare, per non dire impedire, le incursioni giornaliere di cui questa particolare mostra di ardore militare fu parte. L'aeroporto di Gaza era il solo porto di ingresso nel territorio palestinese, l'unico aeroporto civile nel mondo sfrenatamente distrutto a partire dalla seconda guerra mondiale.

Da maggio scorso, gli F16 israeliani (generosamente forniti dagli USA) hanno regolarmente bombardato e mitragliato i villaggi e le città palestinesi, nello stile Guernica, distruggendo le proprietà ed uccidendo civili e funzionari di sicurezza (non esiste esercito, marina o aviazione palestinese a proteggere la popolazione); gli elicotteri d'attacco Apache (sempre forniti dagli USA) hanno usato i loro missili per uccidere 77 leaders palestinesi, in nome di presupposti attacchi terroristici, passati o futuri. Un gruppo di non meglio identificati agenti segreti israeliani ha l'autorità di decidere su questi assassinii, presumibilmente con l'approvazione del governo israeliano in ogni caso e, più genericamente, degli USA. Gli elicotteri hanno anche fatto un lavoro efficiente bombardando le sedi delle autorità palestinesi, quelle di polizia come quelle civili.

Durante la notte del 5 dicembre, l'esercito israeliano penetrò negli uffici su cinque piani dell'Istituto Centrale di Statistica di Ramallah e sottrasse i computer, come la maggior parte dei documenti e delle relazioni, facendo virtualmente scomparire in questo modo l'intera documentazione sulla vita collettiva palestinese. Nel 1982, lo stesso esercito sotto lo stesso comando entrò a Beirut ovest e trasportò via documenti e fascicoli dal Centro di Ricerca Palestinese, prima di spianarne gli edifici. Pochi giorni dopo fu la volta dei massacri di Sabra e Shatila.

Gli attentatori suicidi di Hamas e del Jihad islamico sono stati chiaramente al lavoro, come Sharon certamente ben sapeva quando, dopo una interruzione dei combattimenti per 10 giorni verso la fine di novembre, comandò l'assassinio del leader di Hamas Mahmoud Abu Hanoud: un atto progettato per provocare la rappresaglia di Hamas e consentire così all'esercito israeliano di riprendere il massacro dei palestinesi. Dopo otto anni di sterili discussioni attorno alla pace, il 50% dei palestinesi è disoccupato e il 70% vive nella povertà con meno di 2 dollari al giorno. Ogni giorno porta con sé sottrazioni di terra cui non è possibile opporsi e demolizioni. Gli israeliani considerano finanche importante distruggere alberi ed orti in terra palestinese. Benché cinque o sei palestinesi siano stati uccisi negli ultimi mesi per ogni israeliano, il vecchio guerrafondaio ha la faccia di continuare a ripetere che Israele è vittima dello stesso terrorismo di bin Laden.

Il punto cruciale in tutto questo è che Israele è impegnato dal 1967 in un occupazione militare illegittima; è la più lunga siffatta occupazione nella storia e l'unica al mondo oggi. Questa è la violenza originaria e perdurante contro cui si sono diretti tutti gli atti di violenza palestinesi. Il 10 dicembre, per esempio, due bambini di 3 e 13 anni furono uccisi dalle bombe israeliani a Hebron, eppure allo stesso tempo una delegazione dell'Unione Europea domandava ai palestinesi di dare un taglio alla loro violenza e agli atti di terrorismo. Altri cinque palestinesi furono uccisi l'11 dicembre, tutti civili, vittime dei bombardamenti degli elicotteri sui campi profughi di Gaza. A peggiorare le cose, per effetto dei risultati degli attacchi dell'11 settembre, la parola "terrorismo" è usata per  infangare gli atti legittimi di resistenza contro l'occupazione militare, ed ogni connessione tra le ignobili uccisioni di civili (cui mi sono sempre opposto) e i trenta anni e passa di punizione collettiva è vietata.

Ogni sapientone o funzionario occidentale che pontifica sul terrorismo palestinese deve domandarsi come si pensi che dimenticare l'occupazione possa fermare il terrorismo. Il grande sbaglio di Arafat, conseguenza di frustazione e cattivi consigli, è stato quello di fare un accordo con l'occupazione quando ha autorizzato discussioni "di pace" tra i rampolli di due importanti famiglie palestinesi ed il Mossad nel 1992 all'American Academy of Arts and Sciences di Cambridge. Queste discussioni discussero solo la sicurezza di Israele; niente si disse della sicurezza palestinese, niente di niente, e la lotta di questo popolo per raggiungere uno stato indipendente fu lasciata da parte. Infatti, la sicurezza israeliana è diventata la riconosciuta priorità internazionale escludendo tutto il resto, ciò che consente al generale Zinni e a Javier Solana di fare prediche all'OLP pur rimanendo in totale silenzio riguardo all'occupazione. Eppure gli stessi israeliani hanno difficilmente guadagnato più dei palestinesi da queste discussioni.

L'errore di Israele è stato immaginare che spingendo Arafat ed il suo entourage in discussioni infinite e concessioni minime avrebbe guadagnato l'acquiescenza palestinese. Ogni politica ufficiale di Israele fino ad ora ha peggiorato le cose anziché migliorarle per Israele stesso. Chiediamoci se Israele è più al sicuro e più accettato ora di dieci anni fa.
I terribili e, secondo me, stupidi raid suicidi contro i civili ad Haifa e Gerusalemme nel corso del fine settimana a cavallo del primo dicembre deve essere senz'altro condannato, ma perché questa condanna abbia alcun senso, i raid devono essere considerati nel contesto dell'assassinio di Abu Hanoud nel corso della stessa settimana, assieme all'uccisione di cinque bambini in un tranello israeliano a Gaza - per non parlare delle abitazioni distrutte, dei palestinesi uccisi in tutta Gaza e nella West Bank, le continue incursioni di carri armati, la frantumazione continua delle aspirazioni
palestinesi, minuto dopo minuto, negli ultimi 35 anni.

Alla fine, la disperazione produce solo cattivi risultati, nessuno peggiore della luce verde che Geroge Bush e Colin Powell sembra abbiano dato a Sharon quando fece loro visita a Washington il 2 dicembre (in tutto troppo simile alla luce verde che Alexander Haig diede a Sharon nel maggio del 1982). Assieme al loro sostegno ci sono state le solite dichiarazioni squillanti che trasformano gli occupati ed i loro leader sventurati ed inetti in aggressori che devono "condurre dinanzi alla giustizia" i loro criminali anche quando i soldati israeliani stavano distruggendo sistematicamente l'intera struttura di polizia palestinese che avrebbe dovuto condurre gli arresti! Arafat è circondato da ogni lato, un risultato ironico del suo desiderio senza limiti di essere tutto per tutti, nemici e amici uguali. È allo stesso tempo una figura tragicamente eroica e goffa. 

Nessun palestinese oggi sconfesserà la sua leadership, per la semplice ragione che, nonostante tutto il suo titubare ed i suoi errori, viene ora punito ed umiliato per il suo essere leader palestinese, e in quella funzione la sua stessa esistenza offende i puristi (se questa è la parola giusta) come Sharon e i suoi sostenitori americani. Eccezion fatta per i ministri della sanità e dell’istruzione, i quali  entrambi hanno fatto un lavoro decente, l'Autorità Palestinese di Arafat non è stata un grande successo. La sua corruzione e brutalità deriva dalla maniera, apparentemente capricciosa ma in realtà molto meticolosa, in cui Arafat rende ciascuno dipendente dalla propria generosità; egli solo controlla il budget ed egli solo decide ciò che finisce sulle prime pagine dei cinque quotidiani. Soprattutto manipola e mette l'uno contro l'altro i 12 o 14 - alcuni dicono 19 o 20 - servizi di sicurezza indipendenti, ciascuno dei quali è strutturalmente legale ai suoi leader e ad Arafat allo stesso tempo, senza essere capace di fare molto di più per la sua gente se non arrestarli quando gli viene ingiunto di farlo da Arafat, Israele e gli USA. Le elezioni del 1996 furono pensate per un mandato di 3 anni, ma Arafat ha tentennato con l'idea di invocarne di nuove, ciò che metterebbe sicuramente e seriamente in discussione la sua autorità e popolarità.

Arafat e Hamas hanno avuto una intesa ben pubblicizzata, per così dire, dagli ultimi bombardamenti di giugno: Hamas non avrebbe mirato ai civili israeliani se Arafat avesse lasciato liberi i partiti islamici. Sharon ha distrutto questa intesa con l'assassinio di Abu Hanoud: Hamas ha colpito in rappresaglia e non c'era nulla ad impedire che Sharon strizzasse la vita di Arafat, con il supporto americano. Dopo aver distrutto la rete di sicurezza di Arafat, le sue prigioni ed i suoi uffici, e dopo averlo imprigionato fisicamente, Sharon ha avanzato richieste che sapeva non avrebero potuto essere soddisfatte (anche se Arafat, tirando fuori un paio di assi dalla manica, è riuscito sorprendentemente a soddisfarle per metà).

Sharon crede stupidamente che, avendo messo fuori gioco Arafat, possa realizzare una serie di accordi indipendenti con i signorotti della guerra locali e dividere il 40% della West Bank e buona parte di Gaza in vari cantoni non contigui i cui confini sarebbero controllati dall'esercito israeliano. Come ciò possa rendere Israele più sicuro sfugge a molti, ma non, ahimé, a quelli che detengono il potere.

Ciò esclude tuttavia tre attori, o gruppi di attori, a due dei quali, nel suo modo razzista, Sharon non dà alcun peso. Primo, i palestinesi stessi, molti dei quali sono di gran lunga troppo intransigenti e politicizzati per accettare qualunque cosa meno che il ritiro incondizionato di Israele. 

Le politiche di Israele, come tutte le aggressioni simili, producono l'effetto opposto a quello desiderato: reprimere significa provocare la resistenza. Se Arafat dovesse scomparire, la legge palestinese prevede 60 giorni di governo da parte del portavoce dell'Assemblea (un'appendice di Arafat impopolare e priva di ascendenza di nome Abul-'Ala, molto ammirato da Israele per la sua flessibilità).

In seguito, una lotta per la successione nascerebbe tra altri buoni amici di Arafat come Abu Mazen e due o tre dei più importanti (e capaci) capi della sicurezza - segnatamente, Jibril Rajoub della West Bank e Mohamed Dahlan a Gaza. Nessuno di questi ha la statura di Arafat o una popolarità simile alla sua (forse ora persa). Il caos temporaneo è il risultato più probabile: dobbiamo guardare in faccia questa realtà, la presenza di Arafat ha costituito un centro organizzativo della politica palestinese, in cui milioni di altri arabi e musulmani hanno molto in gioco.

Arafat ha sempre tollerato, di fatto sostenuto una moltitudine di organizzazioni che manipola in molti modi, bilanciandole l'una con l'altra cosicché nessuna predomini eccezion fatta per la sua Fatah. Nuovi gruppi emergono, comunque; laici, proletari, impegnati, rivolti ad un ordinamento politico democratico in una Palestina indipendente. Su questi gruppi l'autorità palestinese non ha alcun controllo. Ma si dovrebbe altresì dire che nessuno in Palestina desidera acconsentire alla richiesta di USA e Israele per una fine del "terrorismo", benché sarà difficile tracciare una linea nella percezione del pubblico tra l'avventurismo suicida e la resistenza attuale all'occupazione, fintanto che Israele continuerà con i suoi bombardamenti e con l'oppressione dei palestinesi, giovani e vecchi.

Il secondo gruppo è costituito dai leader nel resto del mondo arabo che ripongono un interesse in Arafat, nonostante siano evidentemente esasperati da lui. Egli è molto più intelligente e più costante di loro e conosce la presa di cui dispone sulle menti popolari nei loro paesi, dove ha coltivato due separati gruppi arabi, gli islamisti e i nazionalisti laici. Entrambi si sentono sotto attacco, anche se i secondi a stento sono stati notati dagli esperti occidentali e dagli orientalisti che considerano bin Laden - piuttosto che il ben più ampio numero di musulmani e arabi laici non musulmani che detestano ciò che bin Laden rappresenta e ciò che ha fatto - come il musulmano paradigmatico. In Palestina, per esempio, recenti sondaggi hanno riscontrato che Arafat ed Hamas sono più o meno a pari livello di popolarità (entrambi tra il 10 ed il 12 per cento), con la maggioranza dei cittadini che non prediligono né l'uno né l'altro. (Ma anche se è stato messo in un angolo, la popolarità di Arafat è aumentata). 

La stessa divisione, con la stessa significativa maggioranza di contrari ad entrambe le parti, esiste nei paesi arabi, dove la maggior parte delle persone provano ripulsa per la corruzione e la brutalità dei regimi o dalla riduttività e dall'estremismo dei gruppi religiosi - molti dei quali sono interessati più al controllo del comportamento personale che a questioni come la globalizzazione o la produzione di lavori o elettricità.

Gli arabi ed i musulmani potrebbero rivoltarsi contro i loro stessi governi qualora Arafat apparisse soffocato a morte dalla violenza di Israele e dall'indifferenza araba. Perciò è necessario allo scenario attuale. La sua uscita di scena potrà sembrare naturale solo quando una nuova leadership collettiva emerga all'interno delle nuovi generazioni palestinesi. Quando e come ciò potrà accadere non è possibile dire, ma sono sicuro che accadrà.

Il terzo gruppo di attori comprende gli europei, gli americani ed il resto, e, francamente, non penso che sappiano ciò che stanno facendo. La maggior parte di essi farebbe volentieri a meno del problema palestinese e, nello spirito di Bush e Powell, non resterebbero scontenti se la visione di uno stato palestinese si realizzasse in qualche modo, a patto che lo faccia qualcun altro. Inoltre, troverebbero l'andamento delle cose in Medio Oriente difficile se non ci fosse Arafat da biasimare, offendere, insultare, pungolare, su cui esercitare pressione e cui dare denaro. La missione dell'Unione Europea e del generale Zinni sembra insensata e non avrà effetto su Sharon e sul suo popolo. I politici israeliani hanno concluso correttamente che i governi occidentali stanno, in generale, dalla loro parte e che possono continuare a fare ciò che fanno meglio, senza considerare le inutili implorazioni di Arafat e della sua gente a negoziare.

Il gruppo palestinese che emerge lentamente, sia in Palestina che nella diaspora, sta apprendendo ad usare tattiche che fanno ricadere sull'occidente e su Israele l'onere morale della questione dei diritti palestinesi e non solo della presenza palestinese. In Israele, per esempio, un audace membro della Knesset, il palestinese Azmi Bishara, è stato privato della sua immunità parlamentare e sarà presto messo sotto processo per incitamento alla violenza. Perché? Perché per lungo tempo si è schierato in favore del diritto alla resistenza dei Palestinesi contro l'occupazione, argomentando che, come ogni altro stato al mondo, Israele dovrebbe essere lo stato di tutti i suoi cittadini, non solo degli ebrei. 

Per la prima volta, un forte attacco palestinese a favore dei diritti dei Palestinesi viene
portato all'interno di Israele (e non nella West Bank), con tutti gli occhi ad osservare ciò che accade. Allo stesso tempo, l'ufficio del procuratore generale belga ha confermato che un processo per crimini di guerra contro Sharon può avere corso nei tribunali belgi. Un attento movimento di opinione laico palestinese si sta sviluppando e prenderà rapidamente il posto dell'Autorità Palestinese. 

Il terreno morale verrà presto rivendicato da Israele, mano a mano che l'occupazione diventi il centro dell'attenzione e un numero maggiore di israeliani comprenda che non c'è modo di continuare indefinitamente con una occupazione di 35 anni. Inoltre, mentre la guerra USA contro il terrorismo prende piede, è quasi sicuro che l'incertezza aumenti; piuttosto che chiudere i problemi, il potere USA probabilmente rimescolerà le cose in modi che potrebbero non essere contenibili. 

Non è ironia da poco che la nuova attenzione verso la Palestina sia emersa perché gli USA e gli europei avevano bisogno di conservare una coalizione anti-talibana.

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8.01

La crisi argentina

Il granello di sabbia - ATTAC vi spedisce questo testo, editoriale de La Jornada (quotidiano messicano) del 20 dicembre 2001.

Molti uccisi e ancor più feriti, centinaia di esercizi commerciali distrutti, sospensione delle libertà civili, il governo praticamente in fuga, sono i fatti principali del disastro provocato dall'attuale governo argentino, il fondamentalismo neoliberale del ministro uscente dell'economia - il pessimo Domingo Cavallo - l'intransigenza delle istituzioni finanziarie internazionali e l'eredità del memenismo, orchestrate con la violenza.

A differenza di ciò che si potrebbe pensare, la generalizzata distruzione degli esercizi commerciali non è stata la dimostrazione di scontento politico, ma di fame: la cattiva amministrazione economica ha messo larga parte dei 2 milioni e mezzo di disoccupati e dei 12 milioni di poveri di questo paesi di fronte alla scelta tra saccheggiare un supermercato o morire di fame.

In una prospettiva globale, è chiaro che la squadra, ora allo sbando, del presidente Fernando de la Rua si è trovata di fronte al dilemma se rompere con l'IMF, la Banca Mondiale e la comunità internazionale degli speculatori finanziari, o pagare il debito estero del paese ammontante a 132 miliardi di dollari - la qual ultima cosa avrebbe richiesto un aumento delle tasse, un taglio brutale (del 20%) delle spese pubbliche, dei salari, delle pensioni di anzianità, tra altre cose disastrose.

La storia non è del tutto ignota ai paesi dell'America Latina ed è possibile che la distruzione dei livelli di vita della maggioranza in nome dei mercati internazionali avrebbe potuto essere percorribile - come è stato in molti paesi, incluso il nostro [il Messico, ndt] per decenni - se solo non fosse stato per l'arresto della crescita economica negli ultime tre anni.

L'Argentina è un chiaro esempio dei limiti e delle conseguenze dei dogmi economici regnanti. Una di queste conseguenze è che l'imposizione della disciplina fiscale imposta dalle istituzioni finanziarie internazionali ed adottata entusiasticamente dai governi della regione, rende alla lunga ingovernabile il paese e impossibile la democrazia.

L'attuale governo messicano, il cui primo anno al governo ha coinciso con un periodo di crescita economica nulla, dovrebbe osservarsi nello specchio argentino. È certo che la stagnazione attuale trova le sue radici in fattori esterni, ma non esiste alcuna scusa per non adottare misure urgenti all'interno: riattivare il mercato locale, adottare misure d'emergenza per ridurre la disoccupazione, rafforzare i salari e rallentare l'impoverimento di larghi settori della popolazione, e ricostruire le capacità produttive che sono state distrutte dai tre passati regimi neoliberali.

L'alternativa è che in breve anche il Messico viva una destabilizzazione della stessa proporzione di quella che sta soffrendo l'Argentina.

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8.01

La politica dei papi durante il nazionalsocialismo

Ecco, per capire bene quel che accade in Medio Oriente, non si può fare gli struzzi di fronte a simili questioni per paura di essere tacciati di "antisemitismo".

Giorgio Mossa

K. Deschner - Con Dio e con il Fuhrer. La politica dei papi durante il nazionalsocialismo - Tullio Pironti  1997

Sono ormai fuori discussione gli aspetti clericali dei vari fascismi europei fra le due guerre e durante il secondo conflitto mondiale. Alcuni furono autentici clericofascismi. la differenza fondamentale fra i fascismi ed i regimi ispirati dal nazismo fu proprio l' atteggiamento nei confronti della Chiesa cattolica. fermo restando che la Chiesa vide con favore l' ascesa del nazismo che avrebbe contrastato il comunismo ateo e gestito in prevalenza da dirigenti ebrei. Malgrado il tentativo messo in atto verso la fine del conflitto da parte di Pio XII e della gerarchia ecclesiastica di negare evidentissime alleanze e collaborazioni, in senso tanto anticomunista che in antitesi al protestantesimo ed all' ebraismo, i fatti documentati dalla storia sono incancellabili.  Che gli aspetti dell' antisemitismo italiano degli anni trenta siano coincidenti con quanto il pensiero cattolico veniva elaborando - vedasi a tal proposito quanto da circa 50 anni veniva scritto sul periodico dei gesuiti "La Civiltà cattolica" -  è altrettanto inoppugnabile. Da quanto ci risulta seguendo con attenzione le subentranti " rivelazioni" pubblicate dai Media, scandali spesso sopiti, le polemiche che ogni tanto scoppiano in qua e in là, è in atto da tempo il tentativo da parte di Organizzazioni ebraiche di coinvolgere il Vaticano in problematiche olocaustiche. Ne risulterebbero, come minimo, colossali richieste di risarcimento come quelle che hanno  sconvolto  il mondo degli affari, delle banche e delle assicurazioni, e che hanno appena investito le Ferrovie Francesi, accusate di aver trasportato i deportati ebrei verso i lager.

Giorgio Vitali 

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7.01

La guerra ad al-Qaida arriva in Yemen e... nessun tg lo dice!

Solo chi conosce l'arabo ha il "privilegio" di poter conoscere fatti così marginali...mentre ci rincoglioniscono con le cassette dimenticate per caso a Jalalabad, con le fughe di Omar a bordo di una guzzi sui dolci pendii afgani, ecco la nostra informazione cosa omette.

A presto, Alfonso.

La guerra ad al-Qa‘ida si sposta in Yemen: 12 uccisi e 25 feriti

da al-Hayat, 19 dicembre 2001

San‘a’, al-Hayat - La guerra all'organizzazione "al-Qâ‘ida" si è spostata nello Yemen, dove almeno 12 elementi dell'esercito e uomini armati delle tribù sono caduti, mentre circa altri 25 sono rimasti feriti in scontri avvenuti ieri mattina nel Governatorato di Ma'rib protrattisi per tre ore, nel quadro di un'offensiva sferrata dalle autorità per perseguire un certo numero di appartenenti all'organizzazione comandata da Usama Bin Laden insediatisi nei Governatorati di Ma'rib, al-Jawf e Shabwa.

Una fonte della sicurezza di San'a' ha dichiarato che unità delle forze di sicurezza appoggiate da unità delle forze armate ed elicotteri, alle sei di ieri mattina si sono messi sulle tracce di «alcuni elementi ricercati dagli apparati di sicurezza sospettati di aderire all'organizzazione al-Qâ‘ida sui quali vi erano informazioni circa la loro presenza nella provincia di Balharith - Bayhan (gov. di Shabwa) e nella regione di Ubayda (gov. di Ma'rib).

Le forze di sicurezza hanno eseguito un'ampia operazione di perlustrazione nelle due aree, mettendo sotto pressione coloro che danno rifugio ad alcuni elementi di al-Qâ‘ida nella provincia di Bayhan. Durante l'ispezione dell'area di Ubayda i militari che la stavano compiendo sono rimasti esposti a colpi d'arma da fuoco da parte delle persone che ospitano i sospettati di aderire all'organizzazione al-Qâ‘ida, con il risultato che vi sono stati morti e feriti».

La stesssa fonte ha assicurato che gli apparati di sicurezza «proseguono con l'appoggio delle unità delle forze armate la perlustrazione dell'area per dare la caccia ai ricercati ed arrestarli».

Il Ministero degli Interni ha messo sull'avviso tutti coloro che danno rifugio o nascondono alcuni elementi di al-Qâ‘ida ed ha invitato tutti a collaborare con gli apparati di sicurezza al fine di catturarli.

Fonti tribali hanno informato "al-Hayât" che l'Esercito e la Polizia stavano dando la caccia ad un certo Bin Thunyân degli Âl Hâritha della zona di Bayhan (gov. di Shabwa, ad est di Ma'rib), il quale si era spostato con la sua famiglia per avere protezione presso gli Ubayda, finendo per giungere presso una istituto religioso del villaggio di Husûn Âl Jalâl.

I militari si sono precipitati sulla strada del villaggio, che si trova 4 chilometri ad est di Ma'rib, dando il via ad un'ampia operazione di setacciamento della zona. Le stesse fonti hanno aggiunto che un aereo da guerra è passato sopra l'area a velocità supersonica. A quel punto è scoppiata la sparatoria tra militari ed uomini armati delle tribù, e nello scontro sono caduti - di una parte e dell'altra - in 12, mentre i feriti sono circa 25. Senza contare i danni subiti da apparecchiature militari, colpite da razzi "RBG".

Le notizie sulla partecipazione di ciascuna delle due parti alla battaglia si sono contraddette a vicenda. Mentre fonti tribali hanno dichiarato che l'aereo ha bombardato una delle case del villaggio in cui i militari sospettavano che si nascondesse il ricercato, testimoni oculari hanno asicurato che l'aereo è passato a velocità supersonica senza bombardare.

In uno sviluppo succesivo si sono intromessi alcuni capi anziani delle tribù di Ma'rib, stabilendo contatti con le autorità e gli anziani della tribù Ubayda e riuscendo a portare la calma. Gli uomini della tribù Ubayda hanno acconsentito ad apire di nuovo le porte del villaggio per le operazioni di ricerca e di perquisizione. Tuttavia, fonti tribali di San'a' hanno rivelato ad "al-Hayât" che Bin Thunyân è riuscito a scappare: si ritiene che sia fuggito in direzione di Bayhan (gov. Shabwa), il suo luogo di nascita.

Le autorità yemenite conducono da due settimane un'offensiva alla ricerca di tre persone ritenute elementi basilari in Yemen dell'organizzazione al-Qâ‘ida capeggiata da Usama bin Laden. Fonti ufficiali della capitale hanno assicurato la settimana scorsa che unità delle forze speciali guidate dal figlio maggiore del presidente 'Ali 'Abdallah Saleh ed appoggiate da elicotteri hanno compiuto operazioni di perlustrazione nelle regioni di Ma'rib, al-Jawf e Shabwa alla ricerca dei tre e di tutti gli yemeniti dell'organizzazione. L'operazione comprendeva anche la ricerca degl altri tra i quali verosimilmente vi sono elementi di varie nazionalità arabe che hanno preso queste regioni tribali come rifugio per nascondervisi e forse trovare protezione presso alcune tribù.

Gli osservatori considerano che lo scontro armato a cui è ricorsa l'autorità con la tribù Obayda è da vedersi come un messaggio forte rivolto a tutte le tribù dei tre governatorati per impedire ogni tipo di protezione ai ricercati; in caso contrario esse si pongono in una situazione di scontro totale con lo Stato.

Viene ricordato che le autorità yemenite avevano già provveduto ad eseguire numerose operazioni di caccia agli elementi estremisti nelle regioni di Shabwa, Ma'rib e al-Jawf sin dal 1996, nel quadro di una vasta offensiva messa in atto per cacciare gli "afghani arabi". Tra i risultati di un'operazione protrattasi per 5 anni vi è l'espulsione di più di 14.000 "afghani arabi" di nazionalità egiziana, saudita, tunisia, algerina, libica...

Inoltre le autorità hanno dato la caccia a componenti della "Jihad" egiziana che si erano rifugiati in queste regioni nel 1997-98, arrestandoli o scacciandoli dopo che avevano provato a cercare protezione presso alcuni capi anziani delle tribù.

Dopo gli eventi dell'11 settembre scorso, le autorità yemenite hanno moltiplicato gli sforzi in queste regioni per dare la caccia a tutti coloro che sono sospettati o accusati di appartenere all'organizzazione "al-Qâ‘ida", così come il Presidente 'Ali 'Abdallah Saleh ha emanato alcune direttive esplicite a tutti gli elementi che mettono in pericolo la sicurezza, in special modo coloro che effettuano i rapimenti. Così, ultimamente, un ostaggio tedesco è stato liberato per la prima volta con la forza e non dopo trattative, come accadeva nella maggior parte dei casi. E' d'altra parte noto che i rapimenti, che dal 1991 hanno colpito cittadini stranieri, sono avvenuti per il 95% nel Governatorato di Ma'rib per mano di componenti delle tribù.

traduzione dall'arabo di Enrico Galoppini

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6.01

Il capolavoro della cinematografia sunnita

Vi passo la scheda del film “Il Destino” secondo gli amici dello ICCII

Davide di Porto

 As-salamu `alaykum wa rahmat-Ullahi wa barakatuH.

Carissimi Fratelli e Sorelle di Islamsunnita,

Di solito il ns. Istituto non riclamizza le trasmissioni delle emittenti televisive, ma in questo caso val bene la pena di fare un'eccezione, e di invitare se Allah vuole tutti voi a sintonizzarsi su RAI Uno il prossimo sabato 12 gennaio 2002, alle ore 23.40, per vedere se Allah vuole il film "Al-Masir / Il destino", (coproduzione arabo-francese) del nostro fratello il regista Yusuf Shahin, con Nour el-Sherif e Laila Eloui.

Si tratta di un pregevole film sulla secolare lotta fra Ulema sunniti e fanatici fondamentalisti, e programmi del genere non ne vengono certo trasmessi tutti i giorni. E' ambientato nell'Andalusia dell'Età dell'Oro, cioè a Cordova nel 1195 e.v., e narra di come alcuni militanti di una setta  integralista diedero fuoco alla biblioteca di Averroè, e di come un suo discepolo riuscì invece a salvarne il sapere, facendolo giungere sino ai giorni nostri. E' un film che abbiamo visto più volte e che non esitiamo a definire un capolavoro islamico dalle innegabili valenze educative, un efficace e sorprendente saggio di morale e storia contro ogni tentazione integralista. Se poi pensiamo che Yusuf Shahin è a suo tempo scampato ad un attentato dai parte di terroristi egiziani legati all'infame Fratellanza, capiamo bene quale sia il nesso con l'attualità, e quali le forze dissolutrici cui il regista abbia voluto fare riferimento.  

Dichiamo dunque: chi è informato della trasmisione avverta se Allah vuole il suo fratello, e se Allah vuole lo inviti a vederlo. Non sappiamo quando se Allah vuole il film verrà ritrasmesso in televisione, e per questo invitiamo di cuore chiunque abbia un videoregistratore se Allah vuole a
dotarsi di videocassetta da 180 minuti, e se Allah vuole a tesuarizzare una copia al fine se Allah vuole di consentire ad altri fratelli di vederlo.

Se Allah vuole buona visione a tutti, wa-s-salamu `alaykum wa rahmat-Ullahi wa barakatuH.

ICCII

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6.01

 

Due piccioni con una fava

da http://www.arabcomint.com/aggiornamento%20179.htm

Sia l'Ap che la Repubblica Islamica dell'Iran hanno negato con fermezza l'accusa che i media israeliani hanno loro rivolto riguardo ad un presunto carico d'armi che dall'Iran avrebbe dovuto raggiungere i Territori occupati. Il membro dell'Ap Nabil Abu Rudeina ha accusato Israele di aver fabbricato l'intera storia allo scopo di sabotare la missione di Anthony Zinni in Medioriente. "L'Autorita' palestinese non ha assolutamente niente a che vedere con il presunto affare della nave carica di armi. E' chiaro che si tratta di una nuova mossa messa in scena dal governo Sharon per isolare sempre piu' Arafat e la sua leadership internazionalmente".

Da Teheran arriva l'altra smentita, per bocca di un portavoce del primo ministro iraniano: "Se Israele ha delle prove su cio' che afferma, le produca. L'Iran non ha mai avuto rapporti di tal genere con l'Autorita' palestinese". E' la terza volta, in meno di una settimana, che Israele e la CIA tirano in ballo l'Iran per fatti che restano tutti da provare e da dimostrare. Non e' un segreto che i falchi di Washington e di Tel Aviv vedrebbero con favore l'apertura di un nuovo fronte di guerra contro Teheran, uno dei pochi paesi al mondo che non accetta ordini da USA ed Israele. E le accuse mosse a Teheran hanno tutta l'aria di essere l'inizio di una campagna di pubbliche relazioni che mirerebbe a gettare la Repubblica Islamica nell'occhio del ciclone. Il fatto poi che sia tirato in ballo nuovamente Arafat mostra chiaramente che Israele sta puntando a prendere due piccioni con una fava: screditare l'Iran, accusandolo di fomentare il terrorismo (???) in Medioriente e, contemporaneamente accrescere la pressione internazionale su Arafat proprio alla vigilia del suo incontro con Zinni.

Il regime sionista non ha mai nascosto la sua avversione per l'Iran, paese che sostiene con fermezza il popolo palestinese (non la sua leadership) e la sua lotta per l'indipendenza e che ha il coraggio di condannare, da sempre, la politica di occupazione ed apartheid instaurata da Israele in Palestina.

Ed il "Guardian" fa chiare insinuazioni a proposito.

Il quotidiano britannico indipendente "The Guardian Unlimited" pubblica oggi un articolo che mette in evidenza la strana tempestivita' con cui fa la sua comparsa sulla scena mediorientale la nave carica di armi. Dice testualmente l'articolo:

"L'intercettazione di una nave di proprieta' dell'Ap, con membri palestinesi dell'equipaggio e con un cargo di armi illegali non poteva arrivare in un momento piu' propizio per Ariel Sharon. La notizia e' giunta proprio pochi minuti prima che il leader palestinese ed Anthony Zinni si incontrassero.

I dettagli dell'operazione non sono stati raccontati e crediamo ci vorra' del tempo prima che cio' avvenga. Ma, anche cosi', la lezione che Israele vuole dare al mondo e' che di Arafat non ci si puo' fidare. (...) Gli israeliani sono fiduciosi del fatto che e' stata stabilita una connessione tra le armi e gli ufficiali - possibilmente i piu' importanti tra essi . Le agenzie di stampa riportano che le armi sono state fornite dall'Iran. Israele, l'unica potenza nucleare del Medioriente, teme da tempo una minaccia nucleare da parte dell'Iran". (www.guardian.co.uk).

E il sito della BBC Online rivela la conclusione che tutti si aspettavano: "Shimon Peres chiedera' alla comunita' internazionale di dichiarare l'Iran paese sostenitore del terrorismo".

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6.01

Capire gli USA

Capire gli USA

di John Kleeves

Noi non viviamo in un tempo come un altro, in cui ognuno può prendersi il lusso di dedicarsi soltanto alle sue cose personali, al suo lavoro e ai suoi interessi particolari, perché tanto " il mondo va avanti lo stesso ". Il mondo ora sta correndo un pericolo e se nessuno fa niente non dico che finirà, ma certamente non andrà più avanti come prima. Il pericolo si chiama Stati Uniti d’America : tale federazione - in realtà un Paese unico e monolitico - è sul punto di ottenere il dominio planetario e questo è un pericolo perché gli USA non vogliono comandare il mondo allo scopo di governarlo, ma allo scopo di sfruttarlo. Gli USA non sono una riedizione dell’Impero Romano, come pure vogliono fare credere con la falsa modestia d’obbligo. Lo fossero qualcuno li potrebbe anche accettare, ma non lo sono : i Romani assoggettarono sì il mondo con la forza ma poi lo governarono, gli diedero cioè qualcosa in cambio, una amministrazione, degli ordinamenti, delle città edificate, delle infrastrutture ( ad esempio 85.000 chilometri di strade, quasi tutte in contrade che non le avevano mai viste prima ) ; agli Americani invece gli altri popoli interessano solo come fornitori di materie prime e di manodopera, come schiavi. Eventualmente come consumatori.

Il problema è che la gente non si rende conto del pericolo. Non se ne rende conto perché gli USA sono un Paese singolare, di un tipo unico nel suo genere e che non si era mai visto prima ; non se ne rende conto perché gli USA, nonostante la notorietà e l’abbondanza delle informazioni, della cronaca e anche dei contatti diretti, sono in verità degli sconosciuti. C’è quindi un compito impellente in questi tempi per gli uomini all’altezza e di buona volontà : contribuire a colmare questa lacuna, informare la gente sulla vera natura degli Stati Uniti.

Gli USA non sono un argomento semplice. Del resto lo fosse stato non saremmo qui a parlarne ora. Gli USA innanzitutto sono un sistema, dove tutte le sue manifestazioni sono collegate e interdipendenti : non si può veramente capirne un solo aspetto se non si è capito il tutto. Il fatto poi che questi aspetti siano tutti negativi, alcuni addirittura micidiali ( le vittime delle guerre e delle repressioni per procura, che sono decine di milioni ), aggrava l’inconveniente perché la gente stenta a credere a una negatività così completa : sembra pregiudizio. Quindi gli USA presentano una difficoltà davvero singolare : la costante dicotomia fra ciò che dicono di essere e di fare e ciò che invece effettivamente sono e fanno. Sono un Paese che sembra preda di una ipocrisia congenita e profondissima, si direbbe patologica, dove i fatti contraddicono costantemente le parole e dove la pratica sconfessa sistematicamente la teoria. Le nobili parole della Dichiarazione di Indipendenza nascondevano la ribellione dei grandi mercanti Puritani del New England nei confronti della Corona inglese che li aveva tagliati fuori dal mercato della Cina per favorire la East India Company di Londra. La Costituzione del 1787 cominciava con le parole WE THE PEOPLE così in maiuscolo ma stabiliva un sistema oligarchico basato sul danaro così ferreo da essere arrivato da allora sino ad oggi assolutamente inalterato. La libertà di stampa e di espressione così decantata e vantata dagli americani è cosa campata per aria, sterile : si può stampare e dire ciò che si vuole a patto che ciò non arrivi davvero al pubblico. Come con gli oppositori : anche se pacifici, possono esistere se non mettono in pericolo davvero il sistema, altrimenti sono incarcerati con pretesti, perseguitati nella vita o anche uccisi dall’FBI per strada. Teoricamente ci possono essere tutti i partiti politici, e difatti ce ne sono attualmente 29 negli USA, compreso un Communist Party USA, ma di fatto per il meccanismo dei finanziamenti e delle liste se ne possono affermare solo due, quelli infatti sulla ribalta da sempre, il Democratico e il Repubblicano, che oltretutto sono un partito solo, o le due facce della medesima medaglia. La politica estera americana è sempre stata un campionario di belle intenzioni e di roboanti slogan dietro cui stavano costantemente obiettivi addirittura sordidi. Si potrebbe continuare per pagine.

Gli USA sono dunque un argomento complesso e difficile. Ma se si vuole fare qualcosa per il mondo, sì qualcosa per il mondo, questa è una occasione. Il tempo e le energie che si dedicano alla diffusione della comprensione degli USA non sono buttati via.

Novembre 2001

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3.01

Indice di Diario della Settimana

Bentrovati nel 2002.

Diario, anno nuovo, parte con due inchieste: la prima è dedicata ai segreti del mercato del petrolio e alla rete di spie che controlla il via vai delle petroliere per determinarne il prezzo. L'altra è il racconto di una scrittrice, Laura Pariani, sull'Argentina, pochi giorni prima che esplodesse, tra liquidazioni totali a prezzo di costo, rateizzazioni per articoli da 3 pesos e negozi che espongono cartelli: «Aceptamos patacones». Dopo i governanti corrotti e la gente allo stremo dell'Argentina, su Diario si incontrano i bambini cattivi: negli Usa infuriano le polemiche e fioccano le denunce, ma il Ritalin, il farmaco che tiene buoni i bambini, sta per arrivare in Italia.

Il nostro inviato nei conflitti del governo, descrive «i ministri degli Affari altrui»: Fini che fa il lavoro di Scajola, Tremonti quello di Marzano, Sgarbi quello di Urbani, Martino che litiga con Ruggiero, Ruggiero con Bossi, e Pisanu che è svanito nel nulla. La carrellata finisce con «il ministro degli Affari suoi», il solo: si chiama Pietro Lunardi, dirige i Lavori pubblici, decide e realizza Grandi Opere. Le raccontiamo con Lega Ambiente.

Il nostro inviato nelle conseguenze dell'11 settembre incontra gli intellettuali arabi in Occidente, schiacciati «tra integralismo e imperialismo». In un altro articolo, i maggiori artisti americani dibattono sul che fare.

Se tutto questo vi intristisce, potete consolarvi leggendo quello che Marilyn Monroe scrisse in margine alla sceneggiatura di A qualcuno piace caldo. L'occasione è un lungo ritratto del grande Billy Wilder, che oggi ha 95 anni e da 30 anni non fa un film.

In tutto questo, Marco Lodoli è andato a vedere Harry Potter e non gli è mica piaciuto. Molti in redazione, compreso il direttore, educatamente dissentono.

SUL SITO:

Gli abbonamenti (http://www.diario.it/abbonamenti.htm) online vanno a gonfie vele.

Inaugurato Totomondo2002. (http://www.diario.it) Le previsioni di Diario sull'anno iniziato a confronto con quelle dei lettori che stanno scrivendo come forsennati.

Buona lettura

Caro Diario

Il buon senso
Un’ora d’aria con Sofri di Carlo Ginzburg

L’inchiesta vecchio stile
Il fondo del barile di Elena Comelli

I nostri inviati
La diaspora silente di Mario Nicolao
State bravi, o vi do il Ritalin! di Giuseppe Bascietto
I ministri degli Affari altrui di Gianni Barbacetto
Il ministro degli Affari suoi di Legambiente

Tutta la città ne parla
Una settimana di notizie da: Pordenone, Bologna, Roma, Genova, Sondrio
(ma anche l’Agenda, In fondo a destra e i Numeri)

Vedi alla voce Cultura
Vorrei vivere alla Wilder di Alberto Crespi
Io confesso, tu confessi di Francesco Dragosei

Lo spettatore esigente
Cinevisioni Harry Potter e la pietra filosofale di Marco Lodoli
E inoltre: pop, rock, teatro, videogiochi, opera, appuntamenti

Lettura
New York, due aerei sull’arte di Matilde Battistini

Le recensioni
Rudyard Kipling, William L. Shirer, Alfonso Scirocco, Simona Forti, Hannah Arendt, Alice Ferney, Dario Voltolini

Tutto il mondo ne parla
Storie, notizie e curiosità da: Sierra Leone,
Indonesia, Cambogia, Cipro, Belgio

I nostri inviati nel mondo
I cadaveri sulla strada di Bill
di Alessandro Marzo Magno
L’inghippo umanitario di Emanuele Giordana
All’alba di un brutto giorno di Laura Pariani

Un certo stile
Cooperare contro l’Aids di Alessandra Ottaviani

Se ne sono andati
Winfried Sebald, Giorgia e le altre, Léopold Senghor, Paolo Bufalini di Andrea Jacchia

Le rubriche
Florence Nightingale, Nicola Montella, Laura Pariani, Nicola Sani, Jaime D’Alessandro, Elvio Giudici, Massimo Onofri, Maria Novella Oppo, Allan Bay, Alessandro Robecchi, Massimo Cirri, Paolo Della Rosa, Stefano Bartezzaghi, Elfo

 

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1.01

Chi è Ariel Sharon?

Who is Ariel Sharon

di  Nafeez Mosaddeq Ahmed (http://www.islamweb.net/english/Article.asp?Article=2835)

The current Prime Minister of the Zionist State of Israel, Ariel Sharon, is no one to complain about terrorism. His unconscionable attempt to subvert the truth by characterising Israel as a nation under terror, the principal victim of terrorism in the ongoing Middle East conflict, is probably best exposed by reference to Sharon’s own systematic involvement in grotesque acts of terrorism in Palestine.

In 1953, Ariel Sharon founded and led Unit 101, a special commando unit which conducted attacks on Palestinian villages, killing women and children. Perhaps the most notorious massacre occurred in the West Bank village of Qibya. On 14th October 1953 Sharon’s forces blew up 45 houses, murdering en masse 69 Palestinian civilians, around half of whom were women and children.

Even the U.S. State Department issued a statement on the massacre four days later, articulating its deepest sympathy for the families of those who lost their lives in the attack. The statement further asserted that the perpetrators should be brought to account and that effective measures should be taken to prevent such incidents in the future.

In 1956, Sharon became a commander of a paratroop brigade and fought as such in the Sinai campaign. It was not long before his impact was felt. Following is a report on the subsequent massacre that occurred under
Sharon’s command, worth quoting from extensively here, by Ohad Gozani in Tel Aviv:

“Reports of how Israeli paratroopers killed about 270 Egyptian prisoners of war 40 years ago are straining relations between the two countries. Egypt has demanded an investigation into the alleged atrocities, which date back to Israel's involvement in the 1956 Anglo-French campaign to take the Suez Canal. The killings were revealed in a paper on the Sinai campaign commissioned by the army’s military history division. They were described in graphic detail in newspaper and television interviews. In all, 273 Egyptians, some of them Sudanese civilian road workers, were killed in
three separate incidents, according to the accounts.

Arye Biro, a retired army general, admitted shooting the Sudanese at a quarry two days into the campaign at strategic Mitla Pass in central Sinai. Mr. Biro, then a company leader in the 890 Paratroop battalion, said the 49 terrified prisoners were taken into a quarry and shot dead. He said: We couldnt take care of anything else before we got done with them. One escaped with bullets in the chest and in the leg, but came back on all fours because he was thirsty. He soon joined his [dead] comrades.

Mr. Biro said he and his troops later killed 56 Egyptian soldiers and irregulars as they were advancing in a truck to the oil port of Ras-al-Sudr on the Gulf of Suez. Six survived the initial bursts of gunfire, he said. They later went to sleep with the rest. Blood was coming out of every hole in the flatbed truck and in huge quantities!

A witness told the newspaper: When the rear flap was lowered, all the bodies poured out in one mass. I couldnt bear the thought that we shot people without a fight. Another 168 Egyptian soldiers were cut down as the paratroopers headed South. Mr. Biros commanding officers were Ariel Sharon and Rafael Eytan!”

By 1969, Sharon had been appointed Head of the Israeli Defence Forces (IDF) Southern Command. Once again, it was not long before he made his presence known. British journalist Phil Reeves reported that:

“In August 1971 alone, troops under Mr Sharon’s command destroyed some 2,000 homes in the Gaza Strip, uprooting 12,000 people [Palestinian refugees] for the second time in their lives. Hundreds of young Palestinian men were arrested and deported to Jordan and Lebanon. Six hundred relatives of suspected guerrillas were exiled to Sinai. In the second half of 1971, 104 guerrillas were assassinated.

By 1981, Sharon was appointed to the post of Israeli Minister of Defence, serving during the Lebanon War. Sharon orchestrated Israel’s invasion of Lebanon in 1982 that resulted in the mass murder of tens of thousands of civilians. The Third World Quarterly (Volume 6, Issue 4, October 1984, pp. 934-949) published figures estimating that over 29,500 Palestinians and Lebanese civilians were either killed or wounded between 4th July 1982 and 15th August 1982. Nearly half of these victims - 40 percent - were children.

Additionally, Ariel Sharon was most notoriously responsible for the genocidal massacre of Palestinian and Lebanese civilians at the Sabra and Shatila refugee camps in Beirut, on the evening of 16th
September 1982 to the morning of the 18th, in an area under the control of the Israeli army. The massacres were carried out by members of the Christian Lebanese Phalange militia, which was armed by and closely allied
with Israel since the onset of Lebanon’s 1975 civil war. Ariel Sharon had meetings with the Phalange forces before the massacres occurred.

Dr. Ben Alofs, a Dutch doctor working as a nurse in West Beirut in the summer of 1982, provides a detailed eye-witness account with some crucial background information indicating Israeli - and specifically Sharon’s - complicity:

“The Israeli journalists Zeev Schiff and Ehud Yaari describe how Sharon insisted on sending Phalangist militiamen into the Palestinian refugee camps of Sabra and Shatila... To accomplish this, Sharon had held meetings on September 15th with Elie Hobeika, Fadie Frem and Zahi Bustani (leaders of the militiamen) as well as with Amin and Pierre Gemayel, the political leaders of the Phalangist party.

The leaders of the Israeli army, Sharon included, were very well aware of the mood of the Phalangists, shortly after the murder of their leader. Anyone with even the slightest knowledge of the feelings of the Phalangists towards the Palestinians knew what would happen if they were let into the refugee camps.

Tell al-Zaater is a well-known name in Lebanon as well as in Israel. This camp in East-Beirut, where I met Palestinian refugees for the first time in 1975, had been besieged for 53 days by the Phalangists and Maronite Tiger-militiamen during the summer of 1976. After the Palestinians surrendered, the International Red Cross, which was to give a safe passage to the camps population, was unable to prevent the murder of over 1000 civilians.

Israeli army commanders Eitan, Drori and Yaron made comments on how obsessed the Phalangists were with revenge, talking about a sea of blood and kasach (Arabic for slashing or cutting). As they made these observations Ariel Sharon gave the green light for the Phalangists to enter Sabra and Shatila. They did so as dusk fell on the 16th of September.

While the massacre was being committed, I was working in the Gaza hospital in Sabra. The situation was chaotic and confusing. Many wounded were carried into the hospital and our morgue was full within a short time. Most of the victims suffered bullet wounds, but a few were injured by shrapnel.

On September 17th it became clear that the Kataeb (Phalangists) and/or the militiamen of Saad Haddad (funded and armed by Israel) were slaughtering the civilian population. A 10-year old boy was carried into the hospital. He had been shot, but was alive. He had spent the whole night wounded, lying under the dead bodies of his parents, brothers and sisters. At night the murderers were assisted by Israeli flares.

I was working with a team of Scandinavian, British, American, Dutch and German doctors and nurses. We had insisted that the Palestinian hospital staff flee to the northern part of West-Beirut. On Saturday morning September 18th, we were arrested by the Phalangists/ Haddad militiamen. They forced us to leave our patients behind and took us outside Sabra and Shatila via the main road.

We passed by hundreds of women, children and men who had been rounded up. We saw bodies in the road and the small alleyways. The militiamen shouted at us and called us Baader Meinhof. A Palestinian nurse who thought he would be safe with us, was identified and taken away behind a wall. A moment later came the gunshots!

Just before we reached the exit of the camp I saw an image that will forever be in my mind: a large mound of red earth with arms and legs sticking out. Alongside the mound stood an army bulldozer with Hebrew markings. Just outside the camp we were ordered to take off our hospital clothing and we were lined up against a wall After interrogation in their military headquarters the Phalangists took us to the Israeli forward command post just 75 meters (250 feet) away. It was a 4 or 5 story building at the edge of Shatila. (Some weeks later I was on the top floor. It offered excellent views of the destruction in Shatila). The Israeli soldiers were clearly uncomfortable, being confronted with more than 20 Europeans and Americans.”

Phalangist forces had gone through the camps, slaughtering unarmed civilian refugees indiscriminately, lining them up and mowing them down by machine-gun fire. Women and girls were raped repeatedly and brutally. Children were shot dead and mutilated. Men were disembowelled just before execution. The International Committee of the Red Cross (ICRC) counted 1,500 victims in total at the time of the massacre. By 23rd September, the body count had risen to 2,750.

There should not be any doubt that Israeli troops surrounding the refugee camps were fully aware of the atrocities being committed inside. Dr. Witsoe who was at Gaza Hospital at the time, testified to the New York Times that from 5-5.30 AM there were low level flights of Israeli planes over Sabra and Shatila, after which shelling promptly commenced.

Furthermore, according to Newsweek: The Israelis established observation posts on top of multi-storey buildings in the north-west quadrant of the Kuwaiti Embassy. From these posts, the naked eye has a clear view of several sections of the camps, including those parts of Shatila where piles of bodies were found.

The U.S. Special Envoy to the Middle East at the time, Morris Draper, testified to the BBC that U.S. officials were horrified when told Sharon had allowed Phalange militias into West Beirut and the camps because it would be a massacre. Shortly after the killings began he cabled Defense Minister Sharon, urging to him: “You must stop the slaughter. The situation is absolutely appalling. They are killing children. You have the field completely under your control and are therefore responsible for that area.” His plea was to no avail.

An official Israeli Commission of Inquiry chaired by Yitzhak Kahan, President of Israel's Supreme Court, investigated the massacre and found Ariel Sharon, among other Israelis, responsible. In February 1983 the Kahan Commission released its findings that: “It is our view that responsibility is to be imputed to the Minister of Defense for having disregarded the danger of acts of vengeance and bloodshed by the Phalangists against the population of the refugee camps, and having failed to take this danger into account when he decided to have the Phalangists enter the camps. In addition, responsibility is to be imputed to the Minister of Defense for not ordering appropriate measures for preventing or reducing the danger of massacre as a condition for the Phalangists entry into the camps.

These blunders constitute the non-fulfillment of a duty with which the Defense Minister was charged in his meeting with the Phalangist commanders, the Defence Minister made no attempt to point out to them the gravity of the danger that their men would commit acts of slaughter.... Had it become clear to the Defense Minister that no real supervision could be exercised over the Phalangist force that entered the camps with the IDFs assent, his duty would have been to prevent their entry.

The usefulness of the Phalangists entry into the camps was wholly disproportionate to the damange their entry could cause if it were uncontrolled. We shall remark here that it is obstensibly puzzling that the Defense Minister did not in any way make the Prime Minister [Menachem Begin] privy to the decision on having the Phalangists enter the camps.”

The former Chief Prosecutor to the International War Crimes Tribunals for Yugoslavia and Rwanda, Judge Richard Goldstone, agreed that Ariel Sharon should be tried for war crimes in connection with the 1982 massacre of Palestinian civilians in Lebanon. Speaking in an interview with BBC Panorama, Judge Goldstone observed that: “If the person who gave the command knows, or should know... that there is a situation where innocent civilians are going to be injured or killed then that person is as responsible, in my book more responsible even, than the people who carry out the orders.”

The London Independent further reported that: “Mr Sharon was Defense Minister when Israel invaded Lebanon in 1982, and Israeli forces allowed their allies in the Lebanese Christian militias to enter the Sabra and Chatila refugee camps and massacre up to 2,000 people. An Israeli inquiry held Mr Sharon responsible. Judge Goldstone said it was regrettable that no criminal prosecutions had been brought.”

Indeed, both Human Rights Watch and Amnesty International have echoed the call for Sharon to be tried for war crimes. This is a responsibility of the international community under international law. Article 146 of the Geneva Convention relative to the Protection of Civilian Persons in Time of War stipulates that each High Contracting Party shall be under the obligation to search for persons alleged to have committed, or to have ordered to be committed grave breaches of the Convention, and shall bring such persons, regardless of their nationality, before its own courts. It may also, if it prefers, and in accordance with the provisions of its own legislation, hand such persons over for trial to another High Contracting Party concerned, provided such High Contracting Party has made out a prima facie case.

Article 147 of the Convention clarifies that the grave breaches noted in Article 146 include wilful killing, torture or inhuman treatment, including biological experiments, wilfully causing great suffering or serious injury to body or health, unlawful deportation or transfer or unlawful confinement of a protected person, compelling a protected person to serve in the forces of a hostile Power, or willfully depriving a protected person of the rights of fair and regular trial prescribed in the present Convention, taking of hostages and extensive destruction and appropriation of property, not justified by military necessity and carried out unlawfully and wantonly.

http://www.islamweb.net/english/Article.asp?Article=2835

 

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