31.01 |
Le
immagini ufficiali dal paese della libertà
Tortura dei prigionieri afgani
Le immagini ufficiali dal paese della libertà
Tradotto dal meritorio sito della Réseau
Voltaire (http://www.reseauvoltaire.net/actu/guantanamo.html) asciando
tutti i link e la formattazione originali della pagina.
Il dipartimento della Difesa degli Stati
Uniti ha diffuso, sabato 18 gennaio 2002, alcune fotografie dei detenuti
afgani alla base militare di Guantanamo, a Cuba. Il segretario di Stato
della Difesa, Donald Rumsfeld ha dichiarato che questi prigionieri sono "combattenti
illegali" a cui non si applica "alcuno dei diritti della
convenzione di Ginevra". Essi "non saranno considerati
come prigionieri di guerra, perché non lo sono", ha precisato.
L'Alto Commissario per i Diritti dell'Uomo dell'ONU, Mary Robinson, ha
protestato contro l'atteggiamento degli Stati Uniti. L'ex-presidente della
Repubblica d'Irlanda ha insistito sugli "obblighi internazionali
che vanno rispettati". Rispondendo il 21 gennaio alle vivaci
critiche mosse nei paesi alleati contro il trattamento inflitto ai
prigionieri, Rumsfeld ha finalmente affermato che esso è conforme "nelle
parti essenziali" alla Convenzione di Ginevra. Noi riproduciamo
qui le immagini presentate dal Pentagono.
"Questa
è la battaglia del Bene contro il Male. Ma non v'ingannate: il Bene
trionferà" (George W. Bush, 12 settembre 2001)

"Non
si tratta solo di una guerra contro gli Stati Uniti, questa è una guerra
contro la civiltà, contro tutti i paesi che credono alla democrazia"
(Colin Powell, 12 settembre 2001)
"Questo
terrorismo di massa è il nuovo demonio del mondo di oggi. Viene
perpetrato da fanatici totalmente indifferenti alla sacralità della vita
umana e noi, le democrazie di questo mondo, noi lo dobbiamo combattere
insieme e sradicare completamente questo demonio dal nostro mondo"
(Tony Blair, 11 settembre 2001)
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30.01 |
I
movimenti islamici in Italia visti da Buffa e...dallo ICCII
Breve
storia del movimenti islamici in Italia
la
mappa delle associazioni che rappresentano la comunità musulmana nel
nostro Paese
di Dimitri Buffa
La
storia recente dell'Islam in Italia, sia pure limitata al secolo XXesimo,
è fatta di incomprensioni tra gli stessi fedeli della medesima.
religione. Alcuni moderati, altri decisamente no, oggi li troviamo divisi
su tutto e inseriti in almeno quattro o cinque organizzazioni
teologico-culturali diverse, che provvederemo di seguito a illustrare.
Avvertendo subito il lettore che, per i gusti liberali del nostto giornale
riusciarno a concepire come interIocutrice solo l'Associazione dei
musulmani italiani al cui segretario, Shaykh Abdul Hadi Massimo Palazzi,
dobbiamo l'enorme mole di notizie qui sinteticamente riportate.
La prima
organizzazione musulmana fondata in Italia nell'epoca moderna è l'Associazione
Musulmana del Littorio (Aml) - nata a Roma nel 1937. Essa sorge in
conseguenza della creazione dell'Impero nell'Africa Orientale Italiana. Ne
sono fondatori un gruppo di cittadini italiani di origine somala, per lo
più arruolati nel Regio Eercito in qualità di Ascari (truppa) o
Buluk-Bash (sottufficiali) come Musa Hajj Hamed, Mohallim Hussen ed Osman
Sabtiye. Scopo dell'Associazione è quello di garantire i servizi
religiosi essenziali a quei musulmani che giungano in Italia provenendo
dai territori dell'Impero. Alcuni dei membri dell'Associazione hanno
funzioni di cappellani militari, altri di giudici islamici (Qadi), cui è
demandata la soluzione di controversie civili fra gli abitanti dell'Impero
di religione islamica, come pure la gestione di matrimoni, divorzi ed
altre questioni inerenti allo status personale. Con la dissoluzione
dell'Impero, la caduta del regime fascista ed il passaggio alla forma
istituzionale repubblicana l'Associazione cade in disuso. Alcuni dei suoi
aderenti proseguiranno la carriera militare ed altrettanto faranno anche i
loro figli cui, in connessione con la creazione dell'Amministrazione
fiduciaria italiana in Somalia (Afis) verranno aperte anche le accademie,
con la conseguente possibilità di accedere anche al rango di ufficiali.
Saranno proprio alcuni di questi ufficiali a dar vita negli anni ottanta
all'Associazione musulmani italiani.
L'Associazione Musulmani Italiani (Ami), venne fondata a Napoli nel
1982 da un gruppo che comprende convertiti italiani ed ufficiali delle
forze armate di origine somala, alcuni dei quali, come Duale Musa e Abshir
Sabtiye, sono figli dei vecchi fondatori dell'Aml. Sin dalla fondazione,
viene chiamato alla presidenza lo Shaykh Ali Hussen, teologo musulmano già
abilitato alla funzione di Qadi, che in seguito verrà anche nominato
Ambasciatore della Somalia presso la S. Sede. L'orientamento dottrinale
dell'Ami è sunnita, e la maggior parte dei suoi soci appartiene altresì
alla confraternita Sufi Qadiriyyah.
L'Ami si ispira a principi di integrazione della minoranza islamica nella
società italiana, è di orientamento moderato e condanna da sempre
l'integralismo e le tendenze che pretendono di strumentaIizzare la
religione a fini politici. Ha anzi più volte denunciato, ben prima
dell'11 settembre, il rischio rappresentato per l'Occidente dai movimenti
fondamentalisti di tipo wahhabita, finanziati e protetti dalla casa reale
saudita. In contrasto con l'opinione di quanti sostengono che l'Islam e la
cultura occidentale siano in antitesi, l'Ami ritiene invece che la civiltà
dell'Occidente sia debitrice all'Islam di molti dei suoi tratti
caratteristici, diffusisi in ambito europeo grazie alla traduzione latina
degli scritti di Ibn Khaldun, Avicenna ed Averroè. Ritiene inoltre che la
nascita del movimento settario dei wahhabiti, la caduta dell'impero
Ottomano e l'occupazione dei luoghi santi di Mecca e Medina da parte del
regime saudita (di orientamento wahhabita) siano da identificarsi tanto
con le cause dell'integralismo, quanto con quelle dell'attuale stato di
degrado ed arretratezza che caratterizza vasti settori del mondo islamico
contemporaneo. Nel 1993 hanno aderito all'Ami due organizzazioni
preesistenti, anch'esse di orientamento sunnita e moderato: la Scuola
Islamica di Roma e l'Istituto Culturale della Comunità Islamica
Italiana, fondato nel 1991 dallo Shaykh Abdul Hadi Palazzi. Divenuto
segretario generale dell'Ami, questi si è impegnato a favore del dialogo
interreligioso, ed in particolar modo nel favorire le relazioni
d'interscambio fra le minoranze ebraica ed islamica in Italia, e
l'instaurazione di normali relazioni diplomatiche fra i paesi islamici ed
Israele. Nel 1997, col pieno sostegno del Consiglio direttivo dell'Ami,
Palazzi è divenuto co-presidente musulmano della Associazione di Amicizia
Islam-Israele, avente sede a Gerusalemme. Nel maggio 2001 l'Ami ha inoltre
pubblicato un documento nel quale si esprime solidarietà ad Israele e si
condanna il terrorismo contro la popolazione civile israeliana praticato
dall'Olp e da Hamas.
Il Centro islamico culturale d'Italia, invece, è un ente morale
fondato nel 1969, incaricato dapprima di costruire, quindi di gestire la
grande moschea di Monte Antenne, costata oltre sessanta miliardi. E' retta
da un Consiglio d'Ammimstrazione in cui siedono gli Ambasciatori presso
l'Italia o la S. Sede dei paesi musulmani che hanno finanziato la
realizzazione del progetto. Se da un lato l'Arabia Saudita ha senz'altro
dato il contributo finanziario più rilevante, dall'altro però esso è
venuto a cessare in concomitanza con la guerra del Golfo, cioè nel
momento in cui l'edificazione della struttura interna della moschea era
completata, ma mancavano ancora i fondi necessari alla decorazione degli
interni.
A questo punto, l'allora Re del Marocco Hasan II ha deciso di farsi carico
in prima persona di tutte le spese necessarie al completamento dei lavori,
ed ha inviato in Italia una squadra di decoratori specializzati,
incaricati di decorare gli interni della moschea con mosaici identici
nello stile a quelli della nuova grande moschea di Casablanca. Ha però
preteso e ottenuto per il suo Ambasciatore la carica di presidente del Cda
del centro, e da allora il conflitto fra Marocco ed Arabia Saudita per
l'effettivo controllo della moschea non si è mai estinto, ma è passato
per fasi alterne. Il Marocco rivendicava infatti una sorta di primato
derivante dal fatto che la componente marocchina è maggioritaria fra gli
immigrati musulmani, e non gradiva il perdurare di legami fra il governo
saudita e i gruppi integralisti presenti ed attivi in Italia. Di fatto però,
anche in seguito all'inaugurazione della moschea (1998) essa non ha mai
assunto un ruolo primario nella vita quotidiana della comunità islamica
romana, vuoi per via del fatto che essa è situata in una zona molto
distante da quelle i cui risiedono i musulmani, vuoi perché la necessità
di gestire un'organizzazione guidata da ambasciatori di paesi spesso in
contrasto fra loro rendeva problematica la realizzazione di progetti ed
attività.
L'Unione delle Comunità ed Organizzazioni islamiche in Italia
(Ucoii) fu fondata nel 1990. E' la sigla dietro la quale agisce la filiale
italiana dell'organizzazione integralista dei Fratelli Musulmani, chiamata
dai suoi membri semplicemenente "la Fratellanza". La stessa
organizzazione agiva invece in passato con il nome di Unione degli
Studenti Musulmani in Italia (Usmi) e il cambiamento di nome è indice
di un tentativo di proporsi sotto veste diversa, di far passare oggi come
rappresentanti di non meglio precisate "comunità islamiche"
quelli che in passato erano definiti come "rappresentanti
studenteschi". Nell'un caso come nell'altro si trattava però sempre
e comunque di militanti professionisti della Fratellanza, giunti in Italia
allo scopo di costituire delle filiali dell'organizzazione, da inserirsi
nella sua potente rete mondiale.
La Fratellanza viene fondata ad Ismailia, in Egitto, nel 1928 da Hasan
al-Banna, un maestro elementare che era stato ammesso alla Massoneria
britannica, e che ha inteso drenare qualcosa di analogo nei mondo
islamico. Sulle prime l'organizzazione non è tanto integralista, quanto
carrierista; mira a reclutare in seno al mondo islamico uomini inseriti
nei posti-chiave, e a far loro giurare assoluta segretezza e obbedienza al
capo. Alla morte di al-Banna però, il suo successore Sayyid Qutb si
sposta su posizioni politiche molte estreme, legittima la pratica del
terrorismo a fini politici, aderisce alla confessione wahhabita e fa
schierare in questo senso l'intera organizzazione. Nel momento in cui
scoppia la guerra fra i due Yemen, il mondo arabo diviene terreno di
scontro fra il nazionalismo laico rappresentato dal dittatore egiziano
Nasser, e l'integralismo wahhabita, guidato dal re Feisal d'Arabia
Saudita. La Fratellanza si schiera decisamente a fianco del re Feisal, ne
viene ricompensata con ingenti finanziamenti, e diviene uno dei principali
strumenti della politica estera saudita. Sarà grazie alla Fratellanza che
il regime saudita potrà esportare l'integralismo prima nei paesi arabi,
poi in Pakistan, ed infine in Occidente. L'espansione della rete
fondamentalista all'Occidente passa attraverso la creazione della
"Federazione Internazione degli Studenti Musulmani", una
struttura grazie alla quale i figli dei dirigenti della Fratellanza
ricevono borse di studio saudite per gli Stati Uniti o I'Europa
occidentale, posizione che consentirà loro di aprire centri e moschee, e
di radicare la Fratellanza in tutto il mondo. Ciò avviene regolarmente
anche in Italia, dapprima con l'Usmi, quindi con l'Ucoii. Sebbene i
militanti di professione della Fratellanza presenti in Italia (cioè i
membri dell'Ucoii) non siano più di qualche centinaio, pure essi hanno a
disposizione fondi che consentono loro di aprire e di gestire moschee in
molte città d'Italia. Questo flusso di fondi è garantito soprattutto da
una delle principali strutture finanziarie della Fratellanza in Europa,
quella Banca Al Taqwa di Lugano che, gestita da due alti dirigenti della
Fratellanza (Yusuf Mustafa Nada e di Ali Ghaleb Himmat), verrà
successivamente denominata Nada Management Trust, e finirà sotto
inchiesta, in quanto finanziatrice non solo dell'Ucoii, ma soprattutto di
Al Qaeda. Le-posizioni dell'Ucoii sono molto vicine a quelle dell'ideologo
della Fratellanza e teorico del terrorismo suicida Dr. Yusuf Qaradawi, che
è stato anche invitato a partecipare ai loro convegni annuali. Dalle
pagine del suo organo ufficiale "il Musulmano", l'Ucoii ha
apertamente solidarizzato con i terroristi di Hamas (una struttura che del
resto fa anch'essa parte della Fratellanza). Il mensile "il
messaggero dell'Islam" organo del Centro islamico di Milano
(anch'esso legato alla Fratellanza e facente parte dell'Ucoii) ha poi
pubblicato un articolo apologetico della figura di Anwar Shaban, il
terrorista fondatore dell'Istituto di Viale Jenner, ucciso dalla polizia
croata mentre tentava di contrabbandare un carico.
Infine la Lega Mondiale Musulmana - Sezione Italiana (Lmm-si). E'
evidente che le posizioni estremiste espresse pubblicamente dall'Ucoii
sono tali da rendere questo interlocutore come del tutto inaffidabile per
le istituzioni italiane. Non va infatti dimenticato che, a circa un anno
dalla fondazione dell'Ucoii, l'allora ministro dell'Interno Nicola Mancino
ha decretato l'espulsione dal territorio nazionale di due membri del suo
Consiglio direttivo, i palestinesi Omar Tareq e Abu Jafar. Il tutto
"per ragioni di sicurezza". Se quindi la struttura della
Fratellanza può essere utile ai Sauditi per controllare un certo numero
di simpatizzanti e per espandere il controllo sui musulmani residenti in
Italia, di certo non può servire a creare un interlocutore islamico in
grado di farsi riconoscere dalle istituzioni. E' a questo punto che si
attua una delle modalità tipiche della politica estera saudita:
utilizzare le strutture estremiste e militanti come elemento di rottura,
quindi proporre altre strutture - sempre sotto il loro controllo - ma in
grado di presentarsi come affidabili e moderate. E' a tal fine che viene
arruolato l'ex ambasciatore italiano in Arabia Saudita il quale, dopo una
conversione all'Islam tanto subitanea quanto misteriosa, viene inviato in
Italia alfine di crearvi la sezione italiana della Lega Mondiale Musulmana
(cioè della struttura ufficiale e internazionale del wahhabismo saudita).
Si spera che - mettendo in campo un ex ambasciatore, le istituzioni lo
ritengano più affidabile di quanto possano esserlo i militanti
dell'Ucoii. A Mario Scialoja viene concesso un ufficio all'interno del
complesso della moschea di Roma come sede della Lmm-si, e viene affidato
un compito quanto mai arduo: dimostrare che, al fianco del wahhabiti
militanti della Fratellanza e dell'Ucoii, esiste un supposto
"wahhabismo moderato". Scialoja procede così alla costituzione
di un "Consiglio islamico" che dovrebbe diventare il
rappresentante ufficiale dei musulmani nei confronti della Stato italiano.
Il progetto risulta però essere un fallimento: da un lato i dirigenti
dell'Ami rifiutano di sedere ai fianco degli integralisti dell'Ucoii,
considerandosi agli antipodi delle posizioni da loro espresse, e
dall'altro il Consiglio stesso viene egemonizzato dall'Ucoii, suscitando
le proteste di stati quali il Marocco, la Tunisia e l'Egitto, nei quali la
Fratellanza è considerata un'organizzazione terrorista e posta al bando.
Queste stesse proteste vengono portate a conoscenza dell'allora Presidente
della Repubblica Scalfaro dall'allora decano egli ambasciatori della Lega
Araba, Zine el-Abidine Sibti. Scalfaro rifiuta di ricevere il
"Consiglio" al Quirinale e l'iniziativa si arena. Di fatto, se i
Sauditi avevano riposto tanto speranze nell'operato di Scialoja, il suo
mandato sembra finora essersi chiuso con un nulla di fatto. Forse è
questa la ragione per cui si stanno meditando eventualmente di
rimpiazzarlo, e stanno già preparando un sostituto nella persona
dell'attuale ambasciatore italiano nel loro paese, quel Torquato Cardelli
che il 26 novembre scorso ha anch'egli annunciato di essersi convertito
all'Islam wahhabita, e che sembra rappresentare un caso speculare a quello
di Scialoja. Che figura possa fare in una circostanza del genere il
ministero degli Esteri italiano è facile a desumersi: rischia di
apparire come una fiera di ambasciatori, sempre sull'orlo della
conversione all'Islam.
Oltre a quelle summenzionate, esistono poi altre organizzazioni minori,
limitate a qualche decima di aderenti, ma in taluni casi molto attive,
quali ad esempio la "Associazione AhI al-Bayt",
estremisti di destra dell'area Rauti, guidati da Ammar Luigi De Martino e
convertiti all'Islam sciita al tempo della rivoluzione khomeinista, oppure
la "Comunità Religiosa Islamica" (in precedenza
denominata "Associazione per l'Informazione sull'Islam in
Italia") che però più che un'organizzazione islamica è una
scuola esoterica-sincretista, basata sul culto della personalità del suo
fondatore, il Sig. Felicino Pallavicini. Questi si è a suo tempo
proclamato discepolo dello Shaykh Sufi di Singapore Abdur-Rashid al-Linqi,
ed ha preteso che la sua personale ideologia ispirata al sincretismo del
pensatore francese René Guénon derivasse dalla confraternita Sufi
Ahmadiyyah-Idrisiyyah. Informato di questa circostanza, al-Linqi è però
giunto in visita in Italia, e ha puntualmente smentito il Sig.
Pallavicini, negando che egli avesse titolo ad agire in nome e per conto
della confraternita da lui guidata.
Istituto Culturale
della Comunità Islamica Italiana
http://islam.italia.too.it
mailto:islam@spqr.net
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30.01 |
Aggiornamento dal
conflitto in Israele/Palestina
30 Gennaio 2002: Raids nei villaggi della Cisgiordania
Le forze di occupazione israeliane hanno effettuato raids
nei villaggi della Cisgiordania durante la giornata di ieri ed in parte di
questa notte. Nel villaggio di Irtas, presso Betlemme, tre sospetti
militanti della resistenza sono stati bendati e portati via dai servizi
segreti israeliani, mentre quattro palestinesi sono rimasti feriti durante
il raid. I carriarmati dell'esercito d'occupazione, intanto, bloccano
ancora ogni via d'accesso per Nablus, mentre la striscia di Gaza continua
ad essere praticamente isolata dal mondo, senza alcuna possibilita' di
entrata per rifornimenti e carburante. E', ancora, dopo oltre 20 mesi
d'assedio, il piu' grande campo di concentramento a cielo aperto al mondo.
Durante la notte, la polizia di Frontiera e l'esercito
d'occupazione hanno effettuato altri raids nei pressi di Gerusalemme, in
particolare nei villaggi di Abu Dis, Zaatra e Awarta, presso Nablus.
Arresti,
perquisizioni, vittime: l'ultima, un giovane della resitenza ucciso ad un
checkpoint, riceve l'ultimo saluto da suo nonno

30 Gennaio 2002: Aveva 28 anni
E' stata identificata la giovane ragazza che qualche giorno
fa era stata protagonista del primo attacco kamikaze condotto da una donna
nel corso di quest'ultima intifada: si tratta di Wafa Idris, del campo
profughi di al-Amari, presso Ramallah, a nord di Gerusalemme. La giovane
apparteneva al gruppo di resistenza Tanzim, del movimento Fatah.
In un primo momento si era detto che la giovane militante
fosse una studentessa universitaria di Nablus, Shinaz Amuri. Le ricerche
fatte all'interno dell'Universita' di Al-Najah, Nablus, avevano dato esito
negativo. Gli studenti di Nablus, altamente politicizzati, avevano indetto
manifestazioni contro l'occupazione israeliana e in memoria della giovane
nonostante, fino ad oggi, la sua identita' non fosse nota e nessun gruppo
di resistenza avesse rivendicato l'operazione da lei condotta.
Molti studenti di al-Najah hanno ritenuto importante l'atto
compiuto a Wafa Idris. "Esso testimonia che davvero tutta la societa'
palestinese e' risoluta a lottare per i suoi diritti umiliati e
calpestati. Per la nostra patria, noi versiamo il sangue", hanno
urlato i giovani di Nablus.
Wafa
Idris - All'Universita' di al-Najah, gli studenti sono commossi e sorpresi
30 Gennaio 2002: Autobomba contro membri dello Shin Bet
Presso il villaggio di Taybeh, a ridosso della linea verde
creata alla costituzione dello stato d'Israele, nel 1948, un giovane
palestinese si e' lanciato con il suo carico d'esplosivo presso una jeep
militare israeliana. A bordo del blindato vi erano due militari, con ogni
probabilita' membri dello Shin-Bet, il servizio segreto israeliano,
sinistramente noto per le torture inflitte ai prigionieri palestinesi allo
scopo di estorcere informazioni da essi. I due militari d'occupazione sono
rimasti feriti dallo scoppio che ha ucciso il giovane militante
palestinese.
30 Gennaio 2002: Nuove mosse di Sharon contro la legalita'
internazionale
Il primo ministro israeliano Ariel Sharon ha rifiutato il
permesso ad Arafat di partecipare al Consiglio dei ministri degli esteri
dell'Unione Europea di Bruxelles, chiedendo al leader palestinese di
adoperarsi in tutti modi per mettere fine alla resistenza palestinese
contro l'occupazione israeliana. Sharon ha comunque reso chiaro che,
nonostante le tregue chieste da Arafat , il regime israeliano continuera'
la sua politica di assassinii mirati, di apartheid e di colonizzazione
della terra palestinese, in spregio di tutte le risoluzioni ONU e di tutti
gli appelli internazionali. L'ultimo, giunto da Bruxelles, imponeva al
governo israeliano di mettere fine all'arresto arbitrario ed illegale di
Arafat, minacciando al contempo di chiedere il risarcimento ad Israele per
la demolizione e la distruzione di tutte le infrastrutture palestinesi,
costruite con i finanziamenti dell'Unione Europea e scientificamente
portate avanti da Israele in oltre un anno emezzo di bombardamenti su
Cisgiordania e Gaza.Il criminale di guerra alla guida di Israele va oltre
nella sua sfida alla legalita' internazionale: Sharon ha appena approvato
il controverso piano predisposto dal ministro Landau e che prevede la
costruzione di un muro vero e proprio che isoli Gerusalemme dalla
Cisgiordania, inglobando nell'area le colonie illegali di Gilo, Ma'aleh
Adumim e Givat Ze'ev e, annettendo di fatto allo stato d'Israele l'intera
citta' di Gerusalemme.Ricordiamo che, secondo le risoluzioni ONU,
Gerusalemme e' citta' sottoposta a statuto speciale e l'occupazione della
sua parte orientale, il nucleo della citta' vecchia, da parte di Israele,
e' illegale, come illegale e' l'annessione delle colonie costituite su
territorio palestinese.
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29.01 |
L'antrace
veniva dai laboratori della Cia
L'antrace
veniva dai laboratori della Cia
di
Ennio Carretto da Il Corriere della Sera
del lunedì 17 dicembre 2001
Nelle
indagini dell'Fbi sugli attentati con l'antrace negli Stati Uniti a
ottobre è emersa una pista inattesa: quella della Cia. La polizia
federale ha scoperto che i servizi segreti americani hanno sperimentato
nei loro laboratori il carbonchio di tipo Ames usato dagli attentatori.
Il carbonchio proveniva dal deposito di antrace delle forze armate,
nascosto dall'80 a Fort Frederick nel Maryland presso Washington. Nel
corso degli anni, le forze armate, che possiedono un arsenale
batteriologico «in sonno», ne hanno fornite piccole quantità a cinque
laboratori militari o dell' intelligence , quattro negli Stati Uniti uno
in Inghilterra. La Cia lo ha usato per cercare di neutralizzare un tipo di
antrace resistente ai vaccini prodotti nell'ex Urss. Non si conosce il
risultato delle ricerche.
La
clamorosa rivelazione è del Washington Post . Il giornale ha spiegato che
i laboratori della Cia non figurano tra i 91 registrati al Centro di
controllo e di prevenzione delle malattie infettive di Atlanta e che l'Fbi
ne è venuta a conoscenza solo a indagini inoltrate. Il Washington Post ha
anche precisato che i servizi segreti non sarebbero sospettati degli
attentati, ma lo sarebbe qualche tecnico o scienziato di una ditta di
consulenza da esso impiegata, di cui s'ignora il nome. Citando «fonti
dell'ordine pubblico», il giornale ha aggiunto che «il programma della
Cia ha destato grande interesse nella polizia federale» e che «attualmente
la pista è la migliore di quelle sinora seguite». Gli 007 - ha concluso
il giornale -, dopo avere taciuto per due mesi, «stanno collaborando
pienamente alle indagini».
La
Cia si è difesa affermando che la quantità di carbonchio a sua
disposizione è modesta, e che comunque non ne coltiva i batteri nei
laboratori. «Escludiamo assolutamente che l'antrace contenuta nelle
lettere spedite dagli attentatori al Congresso e altrove fosse nostra»,
ha detto un portavoce. Stando al Washington Post , tuttavia, un consulente
di servizi segreti potrebbe avere asportato e coltivato alcune spore.
L'Fbi starebbe prendendo in considerazione tre moventi per gli attentati:
una vendetta nei confronti di alcuni politici e giornalisti; un tentativo
di fare guadagnare ingenti somme alle ditte specializzate nella lotta
contro l'antrace; il
desiderio di addossare la colpa degli attacchi all'Iraq e causarne il
bombardamento.
Le indagini avrebbero puntato sulla Cia anche in seguito alla trasmissione
del video di Bin Laden la settimana scorsa. Il video fu girato il 9
novembre, in piena emergenza antrace, ma non contiene alcuna allusione al
carbonchio. E' sembrato all'Fbi la conferma che gli attacchi all'antrace
furono «terrorismo interno», come l'attentato a Oklahoma City del '95,
compiuto da un estremista di destra.
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29.01 |
L’informazione
corretta secondo Israele e i suoi difensori italiani
Esempio di corretta informazione israeliana:
bombardamento della televisione palestinese a Ramallah
Riceviamo da Marco stralci di un articolo da
"Prima Comunicazione", un mensile sull'informazione che già
aveva pubblicato un editoriale di Carlo Rossella che denunciava le censure
e le manipolazioni dell'informazione fatte...dall'ANP!
"Un sito per l'informazione corretta [sic]
Pezzana e Nirenstein contro il pregiudizio
antisraeliano "... creare anche in Italia un sito capace di
monitorare l'informazione su Israele e il Medioriente, di segnalare ai
suoi visitatori le più evidenti manifestazioni di quella tendenza
filopalestinese che attraversa tutti i media del nostro Paese e di
invitarli a unirsi alla protesta qualora l'avessero condivisa..."
... un gruppo di 15 tra giornalisti, esperti e
giovani di buona volontà hanno dato vita a un esperimento inedito in
Italia (...) Chiunque può prenderne visione in Rete, all'indirizzo www.informazionecorretta.com,
un marchio registrato dal gruppo in questione che ha scelto per sé il
nome di tikshoret.watch (occhio sui media).
..."Monitoriamo i principali quotidiani, con l'esclusione del
Manifesto e di Liberazione, perché sarebbe inutile... la loro
pregiudiziale antisraeliana è tale che ogni giorno disperderemmo energie
solo per loro."
... chi visita il sito e legge uno degli articoli
'commentatì, alla fine
può inviare una mail di protesta alla testata che
l'ha pubblicato. Quelli di www.informazionecorretta.com si limitano a fornire in automatico l'indirizzo e a
creare il messaggio, quanto ai contenuti e al tono essi
restano a discrezione del mittente
+
Il sito è pieno di analisi di articoli, e Marco
commenta:
...merita un clic, non foss'altro che per divertirsi
con alcune perle come 'Igormania, la rubrica che il sarcastico Pezzana
dedica interamente a Igor Man, forse il più autorevole 'esperto di cose
arabe della stampa italiana, certamente un grande quanto dichiarato amico
di Yasser Arafat.
Insomma,
un'operazione per ora piccola, ma certamente condotta con uno stile tale
da far pensare a una controinformazione degna della miglior tradizione di
Israele e dei suoi servizi. Ma, al contrario, Israele e i suoi servizi se
ne fregano, e anzi quelli di 'informazione corretta vogliono diventare il
pungolo di un Paese che ha da tempo rinunciato a curare la propria
immagine all'estero... Per questo Pezzana e soci (si inizia il 17 gennaio
a Milano, il 5 febbraio a Torino), presenteranno la loro creatura alle
comunità ebraiche delle principali città italiane, e chiedono ai loro
simpatizzanti o anche solo ai curiosi e interessati di iscriversi al sito
e di segnalare gli indirizzi mail dei propri amici e potenziali visitatori
del sito.
----------
nota:
noi di Politicamente scorretti abbiamo da
tempo chiesto alla redazione di informazione corretta di
mandarci i loro aggiornamenti. Aspettiamo e speriamo di poterli diffondere
quanto prima. PS.
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29.01 |
Il
capitalismo selvaggio negli USA - novità Arianna editrice
Marianne Debouzy
Il capitalismo
selvaggio negli Stati Uniti (1860-1900)
Pp 224
E. 13 (L. 25.172)
ISBN 88-87307-23-7
"Perché dovrei pagare un macchinista sei dollari al giorno per fare
un lavoro, che un cinese farebbe per cinquanta centesimi?". Questa
frase, che riassume la "filosofia" padronale del magnate James
Hill, uno dei costruttori del capitalismo americano, non è certo passata
di moda in un'epoca di "flessibilità" come la nostra. In
effetti, la storia del capitalismo americano è anche la storia dei suoi
fondatori: Vanderbilt, Carnegie, Rockefeller, Morgan e molti altri.
Creatori di vasti imperi economici e finanziari la cui potenza si è
estesa su scala universale, non sono certo stati quegli eroi, che una
certa storiografia americana ha voluto presentare come filantropi divorati
dall'amore per il bene pubblico. Marianne Debouzy ce li descrive senza
retorica, restituendoci i lineamenti originali di una società e di una
"visione del mondo".
Marianne Debouzy, specialista di letteratura e civiltà
americana, insegna storia degli Stati Uniti all'università di Paris-VIII.
Tra le sue opere, ricordiamo La genèse de l'esprit de révolte dans le
roman américain.
Gli altri
titoli pubblicati:
C. Champetier, HOMO CONSUMANS. Morte e rinascita del dono
E. Goldsmith - J. Mander, GLOCALISMO. L'alternativa strategica alla
globalizzazione
K. Sale, RIBELLI AL FUTURO. I luddisti e la loro guerra alla rivoluzione
industriale
P.A. Sorokin. LA CRISI del NOSTRO TEMPO
K. Hamsun, LA VITA CULTURALE DELL'AMERICA MODERNA
A. Etzioni (a cura di), NUOVI COMUNITARI, Persone,virtù e bene comune
L. Bonesio (a cura di), ORIZZONTI della GEOFILOSOFIA, terra e luoghi
nell'epoca della mondializzazione
A. Segrè, ALBANIA, BALCANI e DINTORNI, Viaggio nei paesi post-comunisti
dopo la caduta del muro
G. Marano, LA DEMOCRAZIA E L'ARCAICO. Il destino poetico dell'uomo
contemporaneo
E. Zarelli, UN MONDO DI DIFFERENZE. Il localismo tra comunità e società
Autori Vari, VERSO CASA. Una prospettiva bioregionalista
A. de Benoist, COMUNISMO e NAZISMO. 25 riflessioni sul totalitarismo nel
XX secolo (1917-1989)
H. Norberg-Hodge, FUTURO ARCAICO. Lezioni dal Ladakh
B. Charbonneau, IL SISTEMA E IL CAOS
M. Veto, LA METAFISICA RELIGIOSA DI SIMONE WEIL
G. Snyder, RI-ABITARE nel GRANDE FLUSSO
S. Latouche, L'INVENZIONE dell'ECONOMIA
Aldo Sacchetti, SCIENZA e COSCIENZA.
L'armonia del vivente
Di prossima pubblicazione
A. de Benoist, LA NUOVA
EVANGELIZZAZIONE. La strategia di Giovanni Paolo II
P. Coluccia, La CULTURA della
RECIPROCITA'. I sistemi di scambio locale non monetari
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29.01 |
Con
Ciampi siamo tutti più amerikani e più schiavi
Con
Ciampi siamo tutti più amerikani e più schiavi
di
Mario Consoli
Tra i tanti
commenti che hanno fatto eco alla fulminea elezione di Carlo Azeglio
Ciampi al Quirinale non ve n’è stato uno che abbia osato affondare il
bisturi nell’indagine in profondità, alla ricerca del reale significato
del fatto. L’elezione di un candidato presidente al primo scrutinio,
quando sono necessari i due terzi dei voti, indica intanto una
schiacciante maggioranza trasversale che spazia disinvoltamente da destra
a sinistra. E questa volta il personaggio non è un politico di
professione, ma, come è stato sottolineato "con soddisfazione",
un "tecnico prestato alla politica". E tecnico il Ciampi
effettivamente lo è, così come appare "elegante",
"pacato" e "affidabile"; e, come ogni politico ha una
casa, un partito, un’idea cui si ricollega, anche ogni tecnico ha una
casa, un modo di ragionare, è portatore di una particolare concezione
delle cose e del mondo. E la casa di Ciampi qual è? Fino al ’92 è
stata la Banca d’Italia della quale era Governatore, poi,
contemporaneamente agli incarichi governativi che lo vedono prima al
Tesoro, poi a Palazzo Chigi, poi ancora al Tesoro, si intensifica la sua
attività al Fondo Monetario Internazionale e - riferisce Marco Dolcetta
nel suo libro "Politica occulta. Logge, lobbies, sette e politiche
trasversali nel mondo" (Castelvecchi, 1998) - "è passato al
completo servizio della Trilaterale, grazie all’interessamento di
Lamberto Dini e signora". Certo è che nelle occasioni ufficiali
nelle quali i grandi banchieri del mondo, i big boss del Mondialismo, si
riuniscono per decidere le sorti dell’economia, della politica, delle
leggi, del destino di ogni nazione, il sornione faccione dell’Azeglio si
è visto sempre più spesso; ed anche in quelle occasioni meno formali, ma
proprio per questo ben più importanti, come al Nasfika Astir Palace Hotel
di Vouliagmeni in Grecia, nell’aprile del ’93, dove era presente
assieme a Dini, Agnelli, Maccanico, Monti e tutti i reggifili della
Finanza internazionale a decidere sulle privatizzazioni del patrimonio
pubblico in Italia. Una casa, anche il tecnico Ciampi, dunque ce l’ha e
si chiama Fondo Monetario Internazionale, Trilateral, lobbies
internazionali, in una parola sola: Mondialismo. D’altronde le
felicitazioni giunte da quegli ambienti sono state unanimi. Due
particolarmente si sono distinte per tempestività ed entusiasmo; quella
del Gran Maestro del grande Oriente d’Italia, avvocato Gustavo Raffi, e
quella del caporabbino Elio Toaff, peraltro suo amico col cui padre il
nostro si laureò. Nei tempi antichi gli uomini del denaro vivevano ai
bordi della società, mal sopportati per le loro ruberie commerciali e per
le loro usure; la Chiesa non perdeva occasione per condannarli. A partire
dalle grandi rivoluzioni - industriale, americana e francese - hanno
alzato la testa, acquisito potere, condizionato progressivamente tutto e
tutti, ma rimanendo sempre dietro le quinte, a manovrare fili e mafiosi
ricatti. L’elezione di Ciampi segna una nuova era: il Mondialismo (che
altro non è se non il potere planetario del denaro e, per il momento, del
suo braccio secolare, gli Usa) manda a governare le singole nazioni
direttamente i suoi uomini, i suoi "tecnici". Rifiutando anche
gli intermediari; senza più sottoporsi al filtro della politica, persino
di quella compromessa e corrotta dei regimi partitocratici. Quanto
perentori siano gli ordini che giungono dai "poteri forti" è
dimostrato dalla loro veloce e unanime esecuzione. Un’ultima
considerazione: è significativo che tutto questo avvenga dopo il viaggio
americano di D’Alema, primo presidente del Consiglio italiano comunista.
Evidentemente più si ha smanie di essere bene accetti, più si è
disposti a concedere. Riuscirà questo governo a farci rimpiangere persino
i Craxi e gli Andreotti? Ed eccoci dunque qui, tra centinaia di bombe
disinvoltamente scaricate nel Garda e nell’Adriatico, tra funivie
spazzate via impunemente da quei giocherelloni dei piloti yankee, ora
anche con un presidente del Fondo. Sempre più amerikani, e sempre meno
liberi.
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28.01 |
Riflessioni
di un sasso a margine della sua esperienza
Non tutte le fiabe finiscono bene, con un intrepido principe che
uccide l’orco. Questa è una di quelle, ma essa è ancor di più
sfortunata perché nessuno la vuol mai raccontare. Noi del salmone siamo
invece qui per farvela conoscere.
C’era una volta un
piccolo sasso che si trovava lungo il ciglio della strada che da Betlemme
portava a Hebron; passava le sue giornate scaldato dal sole e solleticato
dalla sua amica polvere. I divertimenti di tutti i giorni erano pochi, per
lo più le chiacchiere con i sassi più grandi di lui e le corse
trascinato dai piccoli rivoli formati dalla pioggia. In quei giorni, si
raccontava però di un nuovo divertimento: alcuni sassi come lui erano
stati presi da alcuni bambini e fatti volare contro dei grossi automezzi
verdi. Il gioco del volo era divertente, ma che dolore quando si sbatteva
contro quelle corazze di ferro!
Nei giorni seguenti le voci si moltiplicarono.
Sempre più sassi avevano fatto quel lungo volo per poi scontrarsi contro
quelle strane macchine o contro i corpi di quelli che si chiamano uomini.
Un caldo pomeriggio di settembre però la sua
strada, che il piccolo sasso chiamava semplicemente casa, fu percorsa in
continuazione da strane macchine con ruote che facevano un rumore
infernale. Anche la sua amica polvere, abituata a tutte le intemperie,
quel giorno svolazzava con aria preoccupata. Verso il pomeriggio quel via
vai finì, le macchine si erano fermate a circa duecento metri dal piccolo
sasso. Un sasso più alto di lui gli aveva detto che le strane macchine
erano guidate da uomini in divisa che ora armeggiavano con tubi di ferro
lunghi e corti. La calma però durò poco; qualche cosa stava per
giungere, anticipata dall’alzarsi della polvere in lontananza. La
curiosità del piccolo sasso fu felicemente sopita quando vide che quella
polvere era alzata dalla corsa di una trentina di giovani uomini. Al sasso
piacevano tanto i giovani; era soprattutto con loro che aveva spesso avuto
a che fare nei giochi degli uomini. Il sasso più alto però con una voce
preoccupata disse "gli uomini in divisa si stanno agitando". Il
piccolo sasso era ora frastornato, che stava accadendo? Quando
i giovani arrivarono verso di lui incominciarono a prendere i sassi sul
ciglio di casa sua, e con le mani e con degli strani elastici li
iniziarono a far volare verso le grandi macchine e gli uomini in divisa.
Vedeva gli amici d’infanzia che sfrecciavano da tutte le parti senza
sapere però dove sarebbero andati a finire. Il sasso più alto aveva
anche esso fatto un bel volo per mano di un giovane bambino. Impaurito capì
che stava per arrivare il suo turno! Un ragazzo con una strana tovaglia
bianca e nera sul viso lo prese in mano, allora fu buio; dopo poco il
piccolo sasso si trovò a volare ad una velocità che non aveva mai
raggiunto, divertente sì, ma che paura! Il volo durò poco, ma sembrò
un’eternità. L’atterraggio fu dolorosissimo. Il piccolo sasso prese
un vetro delle grandi macchine verdi e lo ruppe cadendo rovinosamente
lungo il pendio della collina e iniziò a rotolare verso valle. Polvere,
buio, mal di testa, il piccolo sasso era terrorizzato, sapeva che la
materia di cui era fatto non moriva, ma quel giorno gli sembrò veramente
giunta la fine, chiuse gli occhi stremato e si addormentò. "Ehi
tu!" una voce rauca e con uno strano accento rimbombò nelle orecchie
del piccolo sasso, "ehi tu, non sarai mica morto?". Il piccolo
sasso era tutto dolorante, i suoi ricordi erano appannati dal mal di
testa, "ehi dico a te, sei mica morto?", la voce rauca si fece
più insistente, ma ora il piccolo sasso riconobbe quell’accento, era
inglese, l’aveva imparato quando la pioggia lo trascinò vicino alla
scuola del villaggio. "Chi è che mi parla?" chiese il sasso
facendo ruotare lo sguardo. "Sono qui, non mi vedi?", il sasso
vide sulla sua destra uno strano oggetto di metallo fatto a forma di dito
di uomo. "Chi sei tu?" chiese con un po’ di timore. "Sono
un proiettile americano" disse quello strano coso irrobustendo il
petto. "Proiettile e americano, non ho mai sentito pronunciare queste
parole" disse il sasso corrucciando il volto. "Non starai mica
scherzando?" disse il proiettile meravigliato e aggiunse "io
sono l’espressione più alta della tecnologia del mio paese, io sono
un’arma temuta da tutti, e l’America mio caro ignorantone è il paese
più potente al mondo, paladino della giustizia e della pace". Il
piccolo sasso per niente intimorito chiese "ma che ci fai qui?".
Il proiettile sconsolato rispose "sono qui perché alcuni miei
compaesani mi hanno venduto agli uomini in divisa, scusa ma non mi ricordo
come si chiamano, so solo che loro mi sparano con dei potenti fucili
contro dei giovani terroristi". Il piccolo sasso vide aumentare il
mal di testa. Quanti termini che non conosceva, fucili, compaesano, e poi
i giovani possono essere già dei terroristi? Per non vedere scoppiare la
sua piccola testa fece finta di aver capito tutto e con aria serena chiese
al proiettile "scusa ma dopo che ti hanno sparato cosa fai? Il
proiettile sbuffò e rispose "primo, si chiama fucile, secondo, io
viaggio ad una velocità altissima e nella mia traiettoria buco tutto,
addirittura gli uomini. Quando li passo fanno dei versi strani, quasi di
sofferenza, un po’ come il tuo mal di testa, ma penso più grave. A
volte esco dai loro corpi un po’ sporco e altre rimango dentro di loro
al buio e mi tirano fuori solo dopo aver chiamato degli strani uomini in
maschera, capito?" Il sasso vedeva aumentare tutti i suoi dubbi ad
ogni frase di quello spaccone, ma facendo ordine nelle sue idee disse
convinto "scusa proiettile, ma perché i ragazzi che mi tirano non
hanno le vostre stesse armi? E perché non hanno quelle strane grosse
macchine ? E' perché muoiono tutti questi bambini per mano tua?" Il
sasso fece l’ultima domanda indicando un giovane corpo disteso a pochi
metri da loro con tanti buchi rossi, e poi riprese, "e perché c’è
tutta questa violenza in questa terra, che mio nonno una volte mi disse è
stata abitata tanti anni fa da un grande uomo che professava pace e carità,
mi sembra venisse da Nazareth?" Prima di riprendere fiato e
continuare le domande, il proiettile lo interruppe e sbuffando ancor più
forte di prima disse "guarda io so solo che il motivo deve essere per
della terra, poi posso solo aggiungere che di questa guerra non gliene
frega niente a nessuno, perché quelli della mia parte hanno tanti soldi e
conoscono persone influenti che li aiutano anche quando sbagliano, e poi
la terra che tutti recriminano non ha ricchezze e per questo nessuno
interviene per farli smettere, e poi non mi fare altre domande perché ora
sono stanco e voglio riposare!". Il piccolo sasso guardandosi intorno
vide cose che i suoi occhi non avevano mai visto, c'erano morti, macerie,
fiamme, e dentro la sua testa si domandava come fosse possibile usare
tutta quella violenza solo per avere un po’ di terra. Solo allora nella
sua mente ammaccata balenò un'idea "scusa proiettile, ma allora
quelli in divisa sono dei contadini?", ma il
proiettile non rispose, si era addormentato. Il piccolo sasso deluso
chiuse gli occhi e si addormentò anche lui scaldato dal sole di
settembre…nero. E tutti vissero felici
e contenti…..tutti chi non si sa!
http://www.il-salmone.com/
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28.01 |
La
morte di Hobeika secondo Buffa e lo ICCII
I
misteri d Elie Hobeika
Ucciso
a Beirut l'uomo che (forse) incastrò Sharon
di
Dimitri Buffa
(da L'OPINIONE delle Libertà del 25.01.02, p. 1)
E' morto così come è vissuto: travolto e dilaniato dagli stessi
esplosivi
che nella sua carriera di terrorista e di killer al soldo dei siriani
aveva
sempre dimostrato di sapere maneggiare.
Ebe Hobeika, già comandante delle milizie cristiano maronite coinvolte
nelle stragi di inermi palestinesi nei campi profughi di Sabra e Chatila
il
16 settembre del 1982, è stato dilaniato da una carica di esplosivo (che
ha
provocato anche altri tre morti e quattro feriti) nella notte di martedì
a
Beirut nella propria abitazione, iperprotetta dai servizi segreti siriani,
nel quartiere Hazmiyeh.
Hobeika stranamente non era stato citate neppure come testimone nel
processo farsa che i soliti belgi politically correct con gli altri (ma
non
con sé stessi, specie quando si tratta di pedofilia) stanno cercando di
fare celebrare a carico di un responsabile di repertorio, Ariel Sharon,
coinvolto in quel massacro dalla trappola che i servizi segreti siriani
gli
tesero all'epoca.
Come sarebbero andate veramente le cose chi vuole può leggerselo nei
capitoli 7 e 8 del libro "From Israel to Damascus", scritto
dalla ex
guardia del corpo di Hobeikah, Robert Hatem, in codice "Cobra",
pubblicato
integralmente su internet nel sito "fromisraeltodamascus.com".
II tutto su
licenza dell'editore Pride international publications di La Mesa in
California.
Tale libro fu infatti bandito in Libano e lo stesso Hobeikah è riuscito a
non farlo pubblicare nemmeno in Francia pagandosi i migliori avvocati con
i
soldi dell'attuale governo fantoccio del Libano, legato a doppio filo al
sanguinario dittatore di Damasco Assad.
Naturalmente nessuno si è mai chiesto come mai colui che avrebbe
perpetrato
la strage di Sabra e Chatila per conto degli israeliani avesse potuto
vivere fino a ieri tranquillamente in un Libano ormai filosiriano,
esercitando per anni anche la funzione di ministro.
Più precisamente è stato a capo dei dicasteri dell'elettricità, della
sistemazione dei profughi (lui se ne intendeva molto su come sistemarli) e
persino dell'aiuto agli handicappati.
Tragicomico il modo con cui i media telematici hanno dato la notizia
questa
mattina: secondo CNN news era morto ammazzato un ex ministro libanese,
secondo la repubblica.it delle 9,31 era saltato in aria un ex leader della
milizia cristiana.
Nessuno dei due redattori a quell'ora aveva in funzione il cervello per
associare il nome di Hobeikah alla strage di Sabra e Chatila cui invece
era
e rimarrà indissolubilmente legato.
Secondo il suo ex braccio destro che adesso vive rifugiato chissà dove,
le
cose quel maledetto 16 settembre 1982, praticamente all'indomani
dell'attentato che aveva fatto secco il presidente Bashir Gemayel, uno che
doveva durare 6 anni e che invece restò in carica 20 giorni, sarebbero
andate così: "erano stati gli uomini di Maroun Mashaalani, sconvolti
dal
loro uso regolare e non modico di eroina e cocaina, quella mattina a
perpetrare uno dei peggiori macelli che la storia ricordi nel campo sul
confine dell'ospeale di Gaza, all'entrata di Sabra."
L'ordine sarebbe partito per iniziativa di Hobeika, che faceva il doppio
gioco tra Israele e la Siria. Hobeikah aveva convinto Sharon che in quei
campi profughi ci fossero "almeno 2000 terroristi dell'Olp".
Sharon aveva dato ordine di evacuare i civili e di arrestare i terroristi,
se del caso ricorrendo alla forza. Lui invece trasmise al suo sicario e
alla banda di miliziani drogati che quest'ultimo comandava un altro
comando: "cancellare tutti dalla faccia della terra.
Quando Sharon ebbe coscienza di quello che era successo, alle 6 del
mattino
seguente, "convocò immediatamente me e Hobeikah al quartiere
generale".
'"Lo raggiungemmo - dice oggi Hatem - sul terrazzo di quell'alto
edificio
prospiciente l'ambasciata del Kuwait... gli ufficiali israeliani intorno a
Sharon erano furiosi con Hobeikah, attribuendogli l'iniziativa della
strage. Lui rispose che tutto era successo per via dell'oscurità. Sharon
urlò: nessuno ti aveva d'etto di fare questa carneficina, se avessi
voluto
potevo procedere da solo con i miei carri armati... qualche minuto dopo,
Hobeika ebbe un messaggio sul proprio walkie talkie da uno che disse di
essere Paul. Gli chiedeva istruzioni: ci sono donne e bambini che devo
fare? E Hobeika rispose, senza sapere che potevo sentirlo, è un problema
tuo, non mi chiamare più."
"Vista la mala parata e le insignificanti scuse di Hobeikah, Sharon
mangiò
la foglia e ordinò agli israeliani di aprire il fuoco da quel momento
fino
alle 4 del mattino successivo su chiunque si fosse avvicinato a quei campi
profughi, ma ormai era troppo tardi."
Così finisce il racconto di "Cobra", il guardaspalle di
Hobeikah.
Che poi non può fare a meno di collegare l'omicidio di Bashir Gemayel con
il massacro di Sabra e Chatila, delitti tutti consumatisi a distanza di
poche ore.
"Non posso provarlo - dice oggi "Cobra" - ma per me il
piano diabolico era
stato concepito dai siriani per fare cadere il governo di Begin in cui
Sharon era ministro della difesa". Cosa che puntualmente accadde.
Oggi il mondo conosce la verità in kafiah, quella politically correct,
secondo cui il massacro sarebbe stato ordinato da Sharon. Senza domandarsi
se un simile atto nefando gli potesse in qualche modo giovare.
Qualcuno in Belgio vorrebbe processarlo per questo. Senza però degnarsi
di
citare come teste questo Robert Hatem, che dice di potere giurare davanti
a
un giudice la verità contenuta nel proprio libro che circola solo su
Internet, Di convocare anche Hobeikah, se non come imputato, almeno come
teste d'accusa nessuno dei pm belgi ci ha maipensato. Adesso qualcuno gli
ha chiuso la bocca per sempre. Casomai avesse avuto qualche scrupolo di
vuotare il sacco.
Resta il comodo bersaglio Sharon, una specie di Berlusconi d'Israele,
odiato anche dalla lobby ebraica di sinistra dentro e fuori dai confini
mediorientali, e sicuramente meno imbarazzante da processare della rete di
pedofili altolocati, molto vicini alla corona di Bruxelles, e
probabilmente
molto abili nel fare ritardare con tempi da giustizia all'italiana lo
stesso dibattimento contro Dutroux.
LIBANO, UCCISO IL LEADER CRISTIANO
MARONITA
Elie Hobeika, che
guidò le stragi di Sabra e Chatila, ammazzato insieme ad altre 4 persone
di Dimitri Buffa
(da
Libero del 25.01.02, p.
13)
Gli
hanno chiuso la bocca per sempre usando il metodo che lui stesso aveva
brevettato in Libano. Elie Hobeika, l'uomo che guidò le stragi di inermi
palestinesi nei campi profughi di Sabra e Chatila il 16 settembre del
1982,
è stato dilaniato da una carica di esplosivo (che ha provocato anche
altri
tre morti e quattro feriti) nella notte di martedì a Beirut nella propria
abitazione, iperprotetta dai servizi segreti siriani, nel quartiere
Hazmiyeh. Hobeika stranamente non era stato citato neppure come testimone
nel processo farsa che i soliti belgi politically correct con gli altri
stanno cercando di fare celebrare a carico di Ariel Sharon, coinvolto in
quel massacro dalla trappola che i servizi segreti siriani gli tesero
all'epoca.
Come sarebbero andate veramente le cose chi vuole può leggerselo nei
capitoli 7 e 8 del libro "From Israel to Damascus", scritto
dalla ex
guardia del corpo di Hobeika, Robert Hatem, in codice "Cobra",
publicato
integralmente su Internet nel sito "fromisraeltodamascus.com".
Tale libro
fu infatti bandito in Libano, e lo stesso Hobeika è riuscito a non farlo
pubblicare nemmeno in Francia, pagandosi i migliori avvocati con i soldi
dell'attuale governo fantoccio di Beirut, telecomandato dal sanguinario
dittatore di Damasco Assad. Nesuno lo sa, o magari fa finta, ma Hobeika in
Libano è stato fino a due anni orsono un ministro molto stimato: prima a
capo del dicastero dell'elettricità, poi di quello per la sistemazione
dei
profughi, infine responsabile dell'aiuto agli handicappati. Secondo il suo
ex braccio destro, che adesso vive rifugiato chissà dove, gli eventi quel
maledetto 16 settembre 1982, all'indomani dell'attentato che aveva fatto
secco il presidente Bashir Gemayel, «uno che doveva durare 6 anni e che
invece restò in carica 20 giorni», sarebbero andate così: «erano stati
gli
uomini di Maroun Mashaalani, sconvolti dal loro uso regolare e non modico
di eroina e cocaina, quella mattina a perpetrare uno dei peggiori macelli
che la storia ricordi nel campo al confine dell'ospedale di Gaza,
all'entrata di Sabra». L'ordine sarebbe partito per iniziativa di
Hobeika,
che faceva il doppio gioco tra Israele e la Siria. Hobeika aveva convinto
Sharon che in quei campi profughi ci fossero «almeno 2000 terroristi
dell'Olp». Sharon aveva dato ordine di evacuare i civili e di arrestare i
terroristi, se del caso ricorrendo alla forza. Lui invece trasmise al suo
sicario e alla banda di miliziani drogati che quest'ultimo impartiva un
altro comando: «Cancellare tutti dalla faccia della terra». Sharon,
avuta
notizia della strage, alle 6 del mattino «convocò immediatamente me e
Hobeikah al quartiere generale». Ma la storia, si sa, si può leggere
come
si vuole...
Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana
http://shell.spqr.net/islam/
mailto:islam@spqr.net
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28.01 |
Aggiornamento
dalla Palestina
(Arabcomint)
27 Gennaio 2002: Missili e bombe
su Gaza
Continuano da stanotte i bombardamenti
dell'aeronautica israeliana sulle citta' della striscia di Gaza, ancora
assediata dai carriarmati e spaccata in tre aree separate. Almeno 12
persone sono rimaste ferite da due missili caduti nei dintorni di Gaza
city.
27 Gennaio 2002: Un palestinese
si fa esplodere a Gerusalemme
Un palestinese imbottito di esplosivo si
e' fatto esplodere a Gerusalemme ovest, uccidendo, oltre a se' stesso, un
colono e ferendo piu' di 70 altre persone, tre delle quali gravemente. La
potente esplosione, che ha letteralmente polverizzato il corpo del
giovane, ha danneggiato numerosi negozi dell'area. E' stata subito chiusa
da cordoni l'area dell'incidente, mentre la polizia da' la caccia ad altri
presunti attentatori. Il capo della polizia Mekki Levy ha ammesso che e'
impossibile prevenire tali attacchi. "Come si fa a fermare qualcuno
che va a morire?", ha detto Levy.
Nessun gruppo di resistenza palestinese
ha, sinora, rivendicato l'attacco.
Ricordiamo che la tregua mantenuta
unilateralmente dai palestinesi per oltre tre settimane, nonostante
l'assedio di tutte le citta', i bombardamenti continui e gli arresti
indiscriminati tra la popolazione da parte dell'esercito di occupazione,
era stata considerata finita dopo l'ultimo omicidio mirato perpetrato dal
criminale governo israeliano, quello del giovane militante palestinese
Ra'ed Karmi. Il coraggioso giornalista israeliano Gideon
Levi ha scritto pochi giorni fa una lettera aperta a Shimon Peres,
denunciando le terribili violazioni, crimini e provocazioni che il popolo
palestinese e' costretto a subire
per mano di un governo di criminali di guerra, col silenzio-assenso del
mondo cosiddetto "civile". Gli attacchi suicidi non sono altro
che la risposta estrema di un popolo disperato, a cui Israele ha tolto
qualsiasi diritto umano, civile e nazionale grazie al supporto
incondizionato degli USA.
La storia della lotta nazionale
palestinese testimonia che fin quando il popolo palestinese ha avuto una
benche' minima speranza di poter mettere fine alle sue sofferenze
pacificamente, e fino a che ha potuto vedere assicurata la sua esistenza
nazionale con mezzi pacifici, non ha mai fatto ricorso alla violenza, ne'
alle armi.
Arresti dopo
l'esplosione a Gerusalemme occupata
27 Gennaio 2002: Era una donna!
E' una donna il kamikaze palestinese che
questa mattina si è fatto saltare in aria a a Gerusalemme Ovest, causando
la morte di un israeliano e il ferimento di altri 149. Lo hanno riferito
fonti ufficiali.
E' la prima volta dalla ripresa
dell'Intifada, nel settembre 2000, che una donna compie un attentato
suicida in territorio israeliano. Sul luogo dell'esplosione sono stati
trovati i cadaveri di una donna e di un uomo. Quest'ultimo, secondo fonti
della polizia, era un israeliano di 81 anni.
Non è ancora chiara l'identità
della donna kamikaze, identificata in un primo tempo come una studentessa
universitaria di nome Shainaz al-Amuri. Ma il nome si è scoperto poi
corrispondere a quello di una donna di 48 anni che si trova a Nablus con
la sua famiglia. Fonti palestinesi aggiungono che all'Università al-Najah
di Nablus non è registrata alcuna studentessa con questo nome.
La palestinese indossava un
corpetto imbottito di esplosivo che ha fatto detonare, alle 12:25 ora
locale, all'incrocio tra le vie Jaffa e King George, davanti a un negozio
di scarpe; non tutto l'esplosivo indossato dalla donna era deflagrato; la
parte intatta è stata fatta brillare dagli artificieri.
27 Gennaio 2002: Manifestazione
per Arafat
Centinaia di palestinesi hanno dato vita
ad una manifestazione a Betlemme per la liberazione del presidente Arafat,
illegalmente trattenuto da Israele dal mese di dicembre. La manifestazione
e' proseguita fino agli uffici di Ramallah in cui e' tenuto prigioniero il
leader dell'Ap, e ad essa hanno partecipato i membri di tutte le fazioni
palestinesi, del parlamento, del Consiglio Nazionale palestinese e
autorita' cristiane ed islamiche di Betlemme e dei villaggi circostanti.
Le Forze nazionali ed islamiche - una coalizione di 13 gruppi islamici e
laici - hanno distribuito un comunicato che chiede "la continuazione
dell'intifada, la necessita' di affermare l'unita' nazionale messa
ultimamente in pericolo dal tentativo israeliano di mettere palestinesi
contro palestinesi ed il rilascio di tutti i prigionieri politici,
arrestati dall'Ap su pressioni israeliane ed americane".
Circa 700 palestinesi - rappresentanti di
delegazioni di funzionari pubblici, civili di Hebron e medici - si sono
riuniti sotto gli uffici di Ramallah del presidente Arafat, che li ha
ringraziati dicendo: " Se i carrarmati israeliani non ci hanno
intimiditi a Beirut, come possono pensare di spaventarci in
Palestina?"
I soldati
d'occupazione, intanto, hanno ucciso un altro civile ad un checkpoint
presso Ramallah.
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28.01 |
"Che
sia degna dei giusti" appello di Martinez per la Giornata della
Memoria
GIORNATA DELLA MEMORIA
Che sia degna dei giusti
di Miguel Martinez
(del 26 gennaio)
Non crediamo si possa celebrare il 27 gennaio quest'anno solo come
giornata della memoria. E' anche giornata dell'onta, onta che il governo
Sharon arreca al ricordo della Shoa, aggredendo e tentando di distruggere
un altro popolo vittima della storia. E' di fronte a noi la distruzione
dei valori etici che l'atrocità dello sterminio addita come necessario e
salvifico contraltare. La politica dello Stato israeliano è in questo
momento la negazione dei valori che vogliamo celebrare: la convivenza, la
tolleranza, l'accettazione dell'altro da sé, il diritto di ogni popolo ad
avere una terra in cui vivere senza oppressori. L'annientamento del popolo
palestinese perseguito lucidamente dal governo Sharon è un'offesa alla
memoria della Shoa. Nessuna giustificazione si può addurre per il
terrorismo di uno Stato occupante che accusa l'occupato di terrorismo,
cieco e sordo di fronte alle proprie responsabilità. Come ebrei italiani
che rifiutano totalmente l'attuale politica di Israele come omicida e
suicida, vogliamo denunciare questa orrenda contraddizione, ed essere
vicino a quegli israeliani e palestinesi che si battono insieme per
dimostrare che la convivenza e la pace sono possibili.
Il nostro silenzio oggi sarebbe complice.
Stefania Sinigaglia, Paolo Amati, Francesca Polito, Michele
Luzzati, Sveva Haertter, Rebecca Zanuso, Marina Ascoli, Paola Canarutto,
Valeria Klein, Stefano Sarfati-Nammad, Sergio Sinigaglia, Claudio Treves,
Daniela Calef.
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28.01 |
Il
suicidio economico della Serbia
IL SUICIDIO ECONOMICO DELLA SERBIA
Quel che è avvenuto e che continua ad avvenire a tutt'oggi nell'ex
Jugoslavia rappresenta l'ennesima azione statunitense contro il principio
fondamentale della Sovranità nazionale. Il "dopo Milosevic",
tanto sperato dagli antinazionalisti e filoatlantisti, va sempre più
svelando la propria vera fattura con il beneplacito delle diplomazie
internazionali. La politica statunitense oramai non conosce più freni di
nessun genere, e di questo ne giovano i suoi fedeli sudditi europei. Ed
ecco allora la svendita di tutte e tre le fabbriche di cemento della
Serbia a ditte straniere. La fabbrica della settentrionale Beocin è stata
venduta alla francese Lafarge, quella della centrale Novi Popovac alla
impresa svizzera Holzim, e quella della occidentale Kosjeric è andata
alla ditta greca Titan. Il realizzo complessivo delle vendite è stato di
138,9 milioni di dollari Usa, inferiore persino al gettito fiscale annuo
delle tre imprese! La svendita della economia serba è stata voluta e
sostenuta dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale e dagli
Usa, secondo il modello noto in Bulgaria, Romania ed Ucraina (per non
parlare dell'Italia, dove, in nome del totem liberista, sono state
privatizzate le aziende strategiche) si comincia con la cessione al
capitale straniero, a prezzi stracciati, dei settori economici in grado di
produrre lavoro e di importanza strategica per il paese, per arrivare così
ad una vera e propria sudditanza economica e politica del paese
"svenduto". A favorire questa azione dall'interno ci hanno
pensato quei filoatlantisti anti-Milosevic che come fantocci hanno
eseguito gli ordini di Washington. Il vero "regista" del
suicidio economico della Serbia, a lungo collaboratore della Banca
Mondiale ed oggi ministro delle Finanze, è stato Bozidar Djelic, il quale
fu annoverato tra i "cento leader mondiali" al summit economico
di Davos.
Mentre procedono le operazioni di spartizione e svendita del paese,
l'impegno americano si rivolge anche all'eliminazione di qualunque e
chiunque voglia difendere la propria nazione e la sua sovranità. La
tecnica applicata, tanto cara agli yankees è quella dell'infamia, della
"confidenza", e per agevolare l'operazione Washington usa il
ricatto. L'America infatti ha legato la concessione di nuovi prestiti al
governo serbo alla cooperazione con il tribunale dell'Aja. Una tranche di
aiuti consistente in 115 milioni di dollari Usa sarà predisposta
solamente se il governo della Serbia rispetterà tutte le richieste del
tribunale entro il prossiíno 31 maggio.
Con una simile tattica gli Usa avevano già ottenuto la consegna dell'ex
presidente Milosevic. Un metodo che invece di far indignare qualunque
"retto individuo" trova subito disponibilità da - e
l'appellativo non è fuori luogo - veri e propri traditori della patria.
E così il ministro degli esteri jugoslavo Goran Svilanovic, appartenente
alla formazione filoocciderítale "Alleanza Civica (GSS)", ha
definito la "collaborazione con il Tribunale dell'Aia" e la
consegna di serbi a questa istituzione come "la più grande priorità"
della politica estera jugoslava per quest'anno. Sicuramente il ministro
Svilanovic godrà di lunga vita al servizio degli americani. Diversamente,
per chi si oppone al tradimento e all'umiliazione, la vita non sarà certo
facile. E' un fatto che il presidente jugoslavo Vojisiav Kostunica ha
firmato l'autorizzazione per il prepensionamento di 21 generali jugoslavi.
Si tratta di alti ufficiali che si erano impegnati per l'indipendenza
militare e politica della Jugoslavia, e contro l'ingresso nel programma
"Partnership for Peace" della NATO. Il pensionamento di queste
persone è stato, subito dopo la fine dell'era Milosevic, una delle
principali richieste degli Usa al governo jugoslavo.
Ma di tutto questo il mondo occidentale non fa parola o forse non vuole
sapere, considerando finita la questione balcanica con l'arresto di
Milosevic.
Della stessa opinione però - dato importante per comprendere un possibile
riaccendersi della tensione - non è il 70% dei cittadini della Serbia.
Questi ritengono che l'Occidente "tuttora minaccia ed opprime la
Serbia". Nonostante l'abnorme campagna filooccidentale di tutti i
media, che perdura da più di un anno, la popolazione della Serbia non
condivide l'opinione del governo fantoccio sulla necessità della
"cooperazione con l'Occidente".
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28.01 |
Città
chiuse all'ultimo paradosso
CITTA'
CHIUSE ALLE AUTO L'ULTIMO PARADOSSO
di Massimo Fini
Su
Internet una signora milanese, che ha acquistato mesi fa un'automobile a
rate per usarla durante i weekend, dato che per andare al lavoro si serve
dei mezzi pubblici, nota che, col divieto di circolare la domenica che sta
ormai entrando nella consuetudine anche al di là dell'emergenza di questi
giorni ed è sempre più auspicato come permanente da amministratori ed
ecologisti, lei ha in realtà comprato, pagato e continua a pagare
qualcosa che non può utilizzare. E centra così il culmine di una serie
di paradossi, di circoli viziosi, di assurdità in cui ci ha cacciato il
modello di sviluppo industriale.
Tali
assurdità sono già abbondantemente realizzate nell'inversione che si è
avuta nel rapporto fra produzione e consumo. Il lettore avrà sentito dire
spesso, da economisti, da imprenditori, da sindacalisti, che «bisogna
stimolare i consumi per aumentare la produzione».
Se
la analizziamo attentamente questa frase è folle. Perché vuol dire che
noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre, cioè
per mantenere in piedi il meccanismo che abbiamo innescato. Questo
meccanismo non è più al nostro servizio, ma siamo noi al suo.
Tale
inversione fra produzione e consumo in realtà non è nuova ma data
dall'inizio della Rivoluzione industriale se era già stata notata da Adam
Smith che è pur uno dei fondatori e fautori dell'economia moderna e di
mercato.
Osserva
Smith: «Il consumo è unico fine e scopo di ogni produzione, e
l'interesse del produttore dovrebbe essere considerato solo nella misura
in cui esso può essere necessario a promuovere l'interesse del
consumatore.
Questa
massima è così chiaramente evidente di per se stessa che sarebbe assurdo
cercare di spiegarla. Ma nel sistema mercantile l'interesse del
consumatore è quasi costantemente sacrificato a quello del produttore e
tale sistema sembra considerare la produzione, e non il consumo, come il
fine e lo scopo definitivo di ogni attività e di ogni commercio» (La
ricchezza delle nazioni, IV, VIII).
Tale
inversione fra produzione e consumo, latente agli albori della Rivoluzione
industriale, è diventata oggi prassi.
Ma
il divieto di usare la macchina nei giorni festivi mentre le resistenze ad
estenderlo a quelli feriali e lavorativi, sono fortissime aggiunge un
tocco in più al paradosso.
Adesso
noi non dobbiamo più nemmeno consumare per produrre, ma dobbiamo solo
acquistare perché si producano cose che però non dobbiamo consumare.
L'automobile
ci deve servire nei giorni feriali per andare a lavorare e quindi produrre
automobili che però non dobbiamo usare per il nostro piacere. Produciamo
quindi cose che ci servono solo per continuare a produrle.
E così il
circolo vizioso si chiude, si completa e si affina rendendoci evidente la
nostra follia.
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28.01 |
Addio
libertà
ADDIO LIBERTA'
di Ignacio Ramonet
Le Monde diplomatique n.1, anno XI - gennaio 2002
www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/
Poiché si ammette che i tragici eventi dell'11 settembre 2001
hanno aperto un nuovo periodo della storia contemporanea, chiediamoci a
quale altro ciclo questo evento abbia posto fine, e con quali conseguenze.
L'epoca ora conclusa era iniziata il 9 novembre 1989 con la caduta del
muro di Berlino e la dissoluzione dell'Unione sovietica, il 25 dicembre
19991. Celebrate con grande insistenza, le principali caratteristiche di
questa fase - che ha visto tra l'altro il trionfo della globalizzazione
liberista - sono l'esaltazione dei regimi democratici, la celebrazione
dello stato di diritto e la glorificazione dei diritti umani. In politica
interna ed estera, questa Trinità era considerata una sorta d'imperativo
categorico, invocato ad ogni piè sospinto. Benché non priva d'ambiguità
(come conciliare la globalizzazione liberista con la democrazia
planetaria?) questa Trinità contava sull'adesione dei cittadini che la
vedevano come un progresso del diritto contro la barbarie.
In nome della "giusta guerra" contro il terrorismo, tutte queste
belle idee sono state improvvisamente dimenticate. Da un giorno all'altro,
per intraprendere la guerra in Afghanistan, Washington non ha esitato a
stringere alleanze con i dirigenti fino a ieri infrequentabili, come il
generale golpista Pervez Musharraf in Pakistan, o il dittatore uzbeko
Islam Karimov. La voce del legittimo presidente del Pakistan Nawaz Sharif,
così come le grida dei difensori uzbeki delle libertà, non riescono ad
oltrepassare le mura delle galere in cui sono rinchiusi. I valori
considerati fino a ieri "fondamentali" abbandonano alla
chetichella la scena politica, e sul piano del diritto gli stati
democratici subiscono un brusco regresso, come testimonia la bufera di
misure liberticide che si è abbattuta sugli Stati uniti.
L'indomani degli attentati sono state adottate misure giudiziarie
eccezionali. Il ministro della giustizia John Ashcroft ha fatto approvare
una legge anti-terrorismo, definita "legge patriottica", che
consente alle autorità di arrestare persone sospettate di terrorismo
quasi senza limiti di tempo e di deportarle, chiuderle in celle
d'isolamento, sorvegliare la loro corrispondenza e le loro comunicazioni
via telefono e via Internet, perquisire i loro alloggi senza
autorizzazione giudiziaria… Non meno di 1200 stranieri sono stati così
arrestati in segreto, e più di 600 sono tuttora trattenuti in carcere
senza giudizio, e in molti casi senza essere stati neppure presentati ai
giudici, né avere avuto la possibilità di essere assistiti da un
avvocato (1). Inoltre, il governo ha intenzione di far interrogare circa
5000 uomini stranieri, di età compresa tra i 16 e i 45 anni, che
soggiornano negli Stati uniti con visto turistico, divenuti sospetti per
il solo fatto di essere di origine medio - orientale (2) …
Sebbene negli Stati uniti i tribunali ordinari dispongano di tutta la
necessaria competenza in materia (3), il presidente George W. Bush ha
deciso, il 14 novembre scorso, di creare tribunali militari con procedure
speciali per giudicare gli stranieri accusati di terrorismo. I processi
potranno essere tenuti in segreto, a bordo di navi da guerra o all'interno
di basi delle forze armate; le sentenze saranno pronunciate da commissioni
militari costituite da ufficiali; non sarà richiesta l'unanimità per
pronunciare la condanna a morte dell'imputato; le sentenze saranno senza
appello; le conversazioni degli accusati con i loro avvocati potranno
essere ascoltate clandestinamente; le procedure giudiziarie saranno
coperte dal segreto, e i dettagli dei processi saranno resi pubblici solo
a distanza di decenni…
C'è stata persino, da parte di responsabili del Federal Bureau of
Investigation (Fbi), la proposta di estradare alcuni imputati verso paesi
amici a regime dittatoriale, affinché le polizie locali possano
interrogarli usando metodi "duri ed efficaci". Il ricorso alla
tortura è stato chiesto apertamente dalle colonne di importanti riviste
(4). Sulla Cnn, il commentatore repubblicano Tucker Carlson è stato
esplicito: " La tortura non è una buona cosa, ma il terrorismo è
peggio. Perciò, in talune circostanze, la tortura è il male
minore". Sul Chicago Tribune, Steve Chapman ha ricordato che uno
stato democratico come Israele non ha esitato ad applicare la tortura
all'85% dei detenuti palestinesi (5) …
Abrogando una decisione del 1974, che vietava alla Central Intelligence
Agency (Cia) di assassinare dirigenti stranieri, Bush ha dato carta bianca
ai suoi servizi segreti per condurre tutte le operazioni necessarie
all'eliminazione fisica dei capi di Al Queda.La guerra in Afghanistan è
stata condotta nello stesso spirito: dimenticando le convenzioni di
Ginevra, i membri di Al Queda vengono liquidati anche quando si arrendono.
Il segretario americano alla difesa Donald Rumsfeld si è mostrato
inflessibile: respingendo ogni idea di soluzione negoziata o di resa, ha
chiaramente invitato a uccidere i prigionieri arabi che hanno combattuto
con i taliban. Ne sono stati massacrati oltre 400 dopo la sollevazione
nella fortezza di Qala-e-Jhangi, e sicuramente molti di più durante la
presa di Tora Bora.
Per evitare che i militari americani possano essere perseguiti per le
operazioni condotte all'estero, Washington si mostra ostile al progetto di
Tribunale penale internazionale (Tpi). Perciò il Senato ha recentemente
approvato in prima lettura, la legge Aspa (American Service-members
Protection Act), che consente agli Stati uniti di adottare misure estreme
- compresa l'invasione militare di un paese! - per recuperare qualsiasi
cittadino americano minacciato di essere tradotto davanti al futuro Tpi.
In nome della "guerra mondiale contro il terrorismo", altri
stati - il Regno unito, la Germania, l'Italia, la Spagna, la Francia, ecc.
- hanno a loro volta rafforzato o si accingono a rafforzare le proprie
leggi repressive. I difensori dei diritti pubblici hanno di che
preoccuparsi: il moto generale delle nostre società, già orientato verso
un rispetto sempre maggiore dell'individuo e delle sue libertà, è stato
bruscamente bloccato. E tutto sta ad indicare una deriva verso forme
sempre più vicine allo stato di polizia.
1)
El Pais, Madrid 10 novembre 2001
2)
Le Monde, 30 novembre 2001
3)
International Herald Tribune, 1 dicembre 2001
4)
Cfr. Newsweek, New York 5 novembre 2001
5)
Citato da El Pais 7 novembre 2001
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28.01 |
Croncache
dagli inferni di guerra
CRONACHE DAGLI INFERNI DI GUERRA
Il cMc - Centro
Culturale Milanese di via Zebedia, 2
ha organizzato per giovedì 31 gennaio, alle ore 18
la presentazione del volume delle edizioni Ares
IL
PARADISO VIOLATO
di Lucio Lami
che nell'occasione
parlerà anche dell'ultimo suo libro MORIRE PER KABUL delle edizioni
Asefi.
Alla tavola rotonda
intitolata CRONACHE DAGLI INFERNI DI GUERRA - La Storia in presa diretta:
gli inviati raccontano
interverranno, oltre a Lucio Lami, Fausto Biloslavo, Fernando Mezzetti e
Giorgio Torelli.
Faranno gli onori di casa Cesare Cavalleri, direttore delle edizioni Ares
e Camillo Fornasieri, direttore del cMc.
Riflessione con Lucio Lami e Fausto Biloslavo sul ruolo dei Media
durante i conflitti
GIORNALISMO
DI GUERRA E DI CONTRADDIZIONI
Durante l'ultimo conflitto mondiale Indro Montanelli,
corrispondente di guerra in Norvegia ai tempi dell'invasione tedesca, con
tutte le sue forze negava la notizia di una battaglia aereonavale,
"lanciata" invece con enfasi dall'agenzia di stampa Stefani. Un
fatto inventato di sana pianta, ma per il direttore del Corriere della
Sera era stato l'inviato Montanelli ad aver preso un "buco".
Sono passati cinquant'anni, eppure il giornalismo di guerra continua a
portarsi dietro le proprie contraddizioni e gli scoop inventati di sana
pianta. L'hanno rimarcato Lucio Lami e Fausto Biloslavo nel corso della
conferenza "Guerra e informazione, il ruolo dei media nei
conflitti", organizzata all'Università di Trieste dall'Associazione
italiana sviluppo scienze della comunicazione (Aiscom). Due diverse
generazioni di giornalisti che hanno seguito al fronte le varie fasi della
guerra in Afghanistan, dall'invasione sovietica del '79 all'attuale
conflitto contro il terrorismo internazionale. Per Biloslavo quella terra
martoriata è diventata "una seconda patria" e per Lami un
libro, "Morire per Kabul" (edizioni Asefi-Terziaria). Una
lezione sull'Afghanistan, con ampi riferimenti all'aneddotica e la
difficile definizione delle fazioni in causa, raccontando le proprie
esperienze personali e lavorative. "La città di Kunduz per le
agenzie occidentali è caduta cinque volte - ha raccontato Biloslavo - ma
il sottoscritto, a costo di fare una figuraccia, non ha mai voluto
prendere in considerazione quelle notizie". Spazio dunque al
reportage fatto alla vecchia maniera, sviluppato nel proprio intervento da
Lami, soffermatosi anche sulle ragioni di quest'ultima guerra.
"L'intervento contro il terrorismo è stato tardivo perché
l'Occidente non ha mai cercato di comprendere l'Islam della ribellione -
ha spiegato Lami -, saputo leggere i segnali della rivolta e capire quel
che comportava la politica del petrolio".
Pietro Comelli
(Il Piccolo - Trieste - Domenica 27 gennaio 2001)
Lucio Lami - "Morire
per Kabul"
Terziaria Testimoni 10
I edizione dicembre 2001 - Pag. 140- € 12,40 (£. 24.000) - ISBN
88-86818-77-7
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28.01 |
Un Istantanea
dal conflitto in Israele/Palestina

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28.01 |
Il
debito esterno e la lacerazione dello Stato nazione
Il debito esterno e la lacerazione dello Stato nazione
di Salvador Maria Lozada
(estratto)
Il debito esterno e la dottrina internazionale dell'Argentina.
Ricordarsi di Carlos Calvo e di Luis Maria Drago, insieme, in questo
contesto, non è un esercizio di vana erudizione.
Il benessere dei popoli ed anche gli aspetti economici dei diritti umani,
o
quelli che sono condizionati dalla macro-economia, sono talmente
influenzati
dal problema del debito esterno che conviene insistere su questi grandi
compatrioti che, in un'altra epoca, hanno affrontato una sfida analoga
rispondendovi con una soluzione audace.
Questo ricorso alla storia pretende dimostrare che c'era, con altri
uomini,
con altri temperamenti ed immaginazioni politiche, con un'altra profondità
di cultura giuridica, la possibilità di un'altra forma, di un altro
stile,
di un'altra forza, di un altro livello di grandezza, per affrontare il
problema.
Tre anni prima di morire, durante tutto il 1903, Carlos Calvo portò un
contributo specifico al problema del debito esterno. Una volta avvenuta l'
aggressione anglo-tedesca contro il Venezuela a causa del non pagamento
dei
servizi delle obbligazioni estere, il ministro delle Relazioni estere
dell'
Argentina, espose, il 29 dicembre 1902, la dottrina che oggi porta il suo
nome, la dottrina Drago, che dichiara inammissibile nell'America
ispano-americana la riscossione del debito con la forza.
In quel periodo, Calvo era capo della missione del nostro paese davanti al
governo francese. Tradusse la nota di Drago e la fece circolare tra gli
internazionalisti più eminenti dell'Europa, chiedendo loro l'appoggio
intellettuale necessario al consolidamento di quello che oggi è uno degli
elementi più onorevoli della tradizione giuridica ed internazionale degli
argentini.
Ripeteva alla fine della sua carriere a quello che aveva fatto arrivando a
Londra per la prima volta all'inizio degli anni '60 del secolo scorso,
disponendo adesso dell'enorme considerazione dei suoi colleghi delle
università europee e soprattutto di quella dei suoi vecchi colleghi dell'
Istituto di Diritto Internazionale. I destinatari della lettera circolare
erano Fréderic Passy, membro dell'Istituto e Presidente della Società
Francese per l'arbitraggio tra le nazioni; F. Moynier, presidente della
Croce Rossa e membro onorario del già citato Istituto di Diritto
Internazionale; J. Westlake, consigliere reale, professore a Cambridge e
membro dell' Istituto di Diritto Internazionale; L.V. Bar
"consigliere
privato", professore all'Università di Gottingen e membro dell'
Istituto di
Diritto Internazionale; Manuel Torres Campos, membro dell' Istituto di
Diritto Internazionale, delegato spagnolo alla Corte Permanente di
Arbitraggio dell'Aia e professore a Granada; Féraud Giraud, membro
onorario
dell' Istituto di Diritto Internazionale e presidente onorario della Corte
di Cassazione di Francia; André Weiss, membro dell' Istituto di Diritto
Internazionale e professore alla Sorbona; J.E. Holland, consigliere reale,
professore a Oxford e membro dell' Istituto di Diritto Internazionale; K.
Olivecrona, associato straniero all'Istituto di Francia, membro onorario
della Corte Suprema della Svezia e membro onorario dell' Istituto di
Diritto
Internazionale; F.M. Asser, consigliere di stato, membro della Corte
Permanente di Arbitraggio dell'Aia e membro dell' Istituto di Diritto
Internazionale; Francis Charmes, membro dell'Istituto di Francia e
Pasquale
Fiore, professore all'Università di Napoli e membro dell' Istituto di
Diritto Internazionale.
Calvo proponeva una vasta operazione di influenza intellettuale, di
autorità
morale, di forza e di effetti dei princìpii. Non era un obiettivo facile.
Come si deduce dalla risposta un po' reticente del Professor Westlake, il
punto posto da Drago - in realtà un prolungamento della dottrina Calvo -
era
lontano da essere acquisito dagli europei. Piuttosto portava attentato
agli
interessi economici più evidenti, suscitando qualche riserva. Tuttavia,
in
generale, le risposte furono altamente soddisfacenti e convergenti con la
posizione argentina. Tra queste due furono particolarmente fruttuose: le
risposte di Féraud Giraud e di Pasquale Fiori, talmente lunghe da essere
equivalenti ad una monografia e che compensavano, in qualche modo, la
brevità e la mancanza di elaborazione dottrinale della lettera del
ministro
Drago.
Questi due documenti costituiscono un importante appoggio alla posizione
argentina essendo formulati da persone che avevano solo un interesse
accademico al problema insieme ad un'alta autorità giuridica e
universitaria.
La dottrina Drago presenta oggi un significato eccezionale di fronte ai
problemi del debito estero dei paesi.
Sarà detto - credo in modo superficiale - che quello che la provocava nel
1902, era la riscossione forzata con il ricorso alla violenza militare,
cosa
che oggi non esiste più. Si tratta, tuttavia, di una imperfetta
osservazione
della realtà, poiché la dottrina Drago tratta della pressione esercitata
contro uno stato sovrano a causa del mancato pagamento del debito.
L'azione
militare, il blocco navale, il bombardamento dei porti, l'occupazione
territoriale sono solo delle varianti di genere della pressione, dell'
interferenza, dell'ingerenza.
La dottrina Drago condanna, come risulta chiaramente dalla sua lettera,
ogni
specie di pressione. Nella sua lettera, Drago dava a Garcia Merou il
compito
di tentare dagli americani del nord la consacrazione del principio secondo
il quale non ci può essere un' espansione territoriale né una
"pressione
esercitata contro i popoli del continente solo a causa di una sfortunata
situazione finanziaria che obbliga una delle parti a rinviare il rispetto
dei suoi impegni"
D'altronde, grazie a Calvo, la posizione argentina si è rafforzata con l'
opinione espressa dal professore Pasquale Fiore che affermava
testualmente:
"Se è possibile considerare l'ingerenza come un attentato ai diritti
della
sovranità interna, anche con l'obiettivo di proteggere gli interessi
statali, con più forza ancora si considererà illegittimo l'intervento
esterno". In questo modo, Fiore creava un legame tra la dottrina
Calvo e la
nuova dottrina argentina di Luis Maria Drago.
Così, la semplice ingerenza di uno Stato straniero per ottenere il
pagamento
del debito estero di un altro stato, diventa inaccettabile.
Nessuna legittimità perché il segretario del Tesoro degli Stati Uniti o
il
ministro delle finanze francese, facciano del debito argentino un tema di
relazione bilaterali con l'Argentina, dal momento che si tratta della
riscossione dei supposti servizi dovuti ai prestatori di ogni nazionalità.
E
' un'interferenza in una relazione che comincia e finisce tra lo Stato
supposto debitore e il prestatore, supposto creditore. Questa relazione
non
può alterarsi con l'indebita e squilibrante presenza di un terzo
intervenente, cioè un altro stato sovrano, per il quale il legame
debitore-creditore deve essere rigorosamente "res inter alia
actos", cioè
"cosa contrattata tra le altre".
Per di più, sia Drago che Féraud Giraud e Pasquale Fiore, fanno notare
qualcosa che in Argentina e in altri paesi del continente, è stata elusa
in
modo interessato. Si tratta della particolare personalità giuridica del
supposto debitore. In virtù di questo fine, lo Stato nazionale, il bene
pubblico o bene comune, ha un rango superiore a quello di un'altra persona
della società umana.. Questa superiorità deriva, come è stato appena
detto,
dalla natura della sua finalità che è costituita dal bene più elevato,
il
bene supremo, quello che mette da parte e subordina tutti gli altri beni
della comunità. Il servizio pubblico, il servizio della totalità dei
cittadini, della totalità della popolazione non è comparabile a nessun
fina
particolare, per quanto rispettabile possa apparire e ancora meno in
rapporto ai profitti privati di società commerciali prestatrici, cioè le
banche.
Detto in altro modo, nel concetto di debito pubblico c'è un differenza di
livello essenziale. Creditore e debitore non sono sullo stesso piano, non
hanno la stessa entità né lo stesso potere legale. Da questo principio
deriva qualcosa che è stata dissimulata tutti questi anni.
Lo Stato è un'entità sovrana, e una delle condizioni proprie a questa
sovranità risiede nel fatto che nessun procedimento esecutivo può essere
iniziato o applicato contro di essa, perché metterebbe in essere la sua
stessa esistenza e cancellerebbe l'indipendenza e l'azione del governo in
questione, secondo i termini stessi della lettera firmata da Drago.
Nell'Argentina dei nostri giorni, abbiamo agito - soprattutto negli anni '
0 - come se in ogni momento fossimo stati passibili di essere pignorati,
come se fossimo stati sull'orlo di un collasso al quale ci aveva spinto un
ufficiale giudiziario internazionale. Abbiamo così sacrificato ogni
prospettiva di sviluppo autonomo, ogni indipendenza ed azione del governo,
ogni contenuto economico del bene comune, ogni contenuto economico dei
diritti umani ad un dogma che il presidente della Camera dei Deputati, tra
il 1984 e il 1987, caratteristico portavoce del regime di transizione,
esprimeva qualche volta con un disinvolto ed aggressivo carattere
perentorio
che difficilmente avrebbero potuto usare gli avvocati dei creditori:
"il
debito deve essere pagato, senza nessuna alternativa".
In virtù della sua condizione di sovrano, lo Stato ha la "facoltà
di
scegliere il modo e i tempi di effettuare il pagamento", come ha
detto
testualmente Drago e come ha dovuto essere ricordato con accanimento
questi
ultimi tempi. Questa conclusione decisiva, che fa parte di una dottrina
internazionale della quale l'Argentina è fiera e che i governi hanno il
dovere di mantenere ed accrescere, è stata marginalizzata dai governi di
transizione, a causa di una auto-costrizione a pagare che è un tratto
inerente al modello o schema di transizione che è stato accettato con
sottomissione.
Per questa ragione, questa auto-costrizione fa sorgere dei dubbi riguardo
a
chi siano i suoi reali rappresentanti: il popolo, vittima della
fretta dei
suoi rappresentanti di effettuare una oblazione (come un'offerta al dio
dei
creditori), o gli stessi creditori ai quali ha risparmiato qualsiasi
sforzo
per la riscossione del debito.
Questa conclusione decisiva ebbe l'appoggio addizionale di Féraud Giraud.
Egli ricordava all'inizio, il fatto che nella maggioranza degli Stati, le
azioni degli abitanti contro i loro governi sono sottoposte a delle regole
eccezionali e restrittive, che hanno per scopo quello di non intralciare
il
buon funzionamento dei servizi pubblici e concludeva chiedendosi:
"come
sarebbe possibile accettando il principio di questa eccezione, non
applicarla alle persone che legano volontariamente i loro interessi all'
eventualità di operare a favore degli interessi di un governo straniero,
permettendogli di disturbare l'azione pubblica del loro governo tramite i
loro interessi privati?"
Pasquale Fiore afferma qualcosa che sembra essere stata scritta per la
nostra epoca, durante la quale il potere sovrano è molto diminuito, ed è
tollerata come se niente fosse, la condotta delle economie degli Stati da
parte del Fondo Monetario Internazionale, struttura che si arroga un
potere
sopranazionale, come lo ha detto Chomsky, diventando, nei fatti, un
governo
del mondo, con ancor meno ragioni - facendo precipitare il lato dell'
abdicazione alla sovranità - e ammettendo l'ingerenza degli ambasciatori
stranieri - fino alla liquidazione di una banca privata locale, società
anonima argentina.
Come lo dice Fiore: " Considero l'ingerenza di un governo nella
pubblica
amministrazione di uno Stato straniero come un attentato al diritto di
sovranità interna, e riconosco quindi come illegittima ogni azione di un
governo che, avendo l'obiettivo di proteggere gli interessi dei suoi
cittadini residenti all'estero, tenderebbe a stabilire un controllo tale,
sotto qualsiasi forma sia, sugli atti amministrativi di uno Stato
straniero"
.
Drago sottolinea un altro aspetto del problema molto pertinente ai nostri
giorni. Il prestatore è, per definizione, uno speculatore, un calcolatore
del rischio, qualcuno che misura, seguendo i rigorosi imperativi del suo
commercio, le eventuali difficoltà di riscossione del capitale e dei suoi
interessi. Per questo, valuta le risorse del debitore, gli impegni da lui
presi con altri prestatori, e tutte le circostanze complementari che
permettono di pesare e di dosare le condizioni dei prestiti futuri. Tra
queste circostanze figura quella che prevede, nel caso di un debitore
insolvibile, l'esistenza di un soggetto di diritto con qualità di
sovrano,
sul quale non sarebbe possibile esercitare delle pressioni di alcun tipo.
Come lo scrive Laurent, citato da Féraud Giraud nella sua risposta a
Calvo:"
Coloro che trattano con uno Stato straniero sono sottomessi alle lentezze
amministrative e, se è il caso, alle difficoltà finanziarie dello Stato
con
il quale negoziano".
Queste considerazioni sono degne di essere ricordate perché uno dei nodi
della discussa legittimità del debito estero contratto durante la
dittatura
militare, nasce dall'incredibile e sospetta imprudenza, forse apparente
imprudenza, con la quale hanno agito i banchieri o prestatori e che
suggerisce una collusione fraudolenta tra debitori e prestatori.
Finalmente
c'è un altro punto di eccezionale importanza pratica riguardo al debito
estero, come si pone nell'Argentina della transizione. Appare nella
risposta
del citato Féraud Giraud come citazione del professor Frantz Despagnet,
che
menzionava nel contesto dell'insolvibilità degli obblighi contratti dagli
Stati sovrani: "lo Stato debitore si riserva sempre, in tali casi, in
virtù
del suo diritto di conservazione e dei principii che regolano il diritto
pubblico, un beneficio di competenze nel senso romano dell'espressione, e
cioè la facoltà di non pagare se non nella misura permessa dalla sua
situazione finanziaria".
Un intelligente giurista, il Dott. Pedro F. Soria Ojedo Ilo, propose negli
anni '80, senza ottenere nessun ascolto negli ambienti ufficiali, il
beneficio della competenza; supposta la legittimità di una parte del
debito
estero, era di stretta pertinenza, nel nostro caso, quando sia il settore
giuridico che veicola nel modo migliore la priorità ontologica ed
assiologica del debitore sui suoi impegni, la priorità del principio
dell'
intangibilità della persona umana sul subordinato principio "pacta
sunt
servanda", e cioè "rispettare quello che è stato
sottoscritto"
Il beneficio di competenza fa parte del diritto argentino.E' incluso nel
nostro Codice Civile. E' trattato nel capitolo IX della sezione I, Libro
II,
di questo corpus normativo, che lo definisce come quello accordato ad
alcuni
debitori, per non obbligarli a pagare più di quello che possono fare,
lasciandogli, in conseguenza, l'indispensabile per una modesta
sussistenza,
secondo il genere e le circostanze, con l'obbligo di farvi fronte non
appena
le condizioni siano migliorate. Che questa clausola sia caduta in oblio,
dimostra fino a che punto i governi della transizione, erano assolutamente
obnubilati dalla compulsione a pagare il debito a qualsiasi prezzo,
elemento
chiave dello schema di transizione dalla dittatura militare alla
democrazia
limitata e condizionata.
Il documento completo si trova in:
« La Dette extérieure et le déchirement de l'état nation »
http://www.attac.org/fra/list/doc/lozadafr.htm
Traduzione a cura di Patrizia Rosa Rosa
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28.01 |
Lo
FMI combatte l'antipovertà
L' FMI combatte i programmi Antipovertà
di Sarah Anderson (Direttore dell'Institute's Global Economy Program) e
di John Cavanagh (Direttore dell'Institute for Policy Studies)
Estratto
All'inizio del 2000, il governo brasiliano annunciò un piano decennale,
con
uno stanziamento previsto di più di 22 miliardi di dollari per combattere
la
povertà. Benché il FMI avesse, poco tempo prima, proclamato il suo
impegno
nell'eliminazione della povertà, le autorità del fondo criticarono il
piano
con violenza. Il New York Times riportò le affermazioni del
rappresentante
del FMI in Brasile, secondo cui "il piano del governo aveva creato un
precedente che sarebbe potuto diventare pericoloso... quel denaro avrebbe
dovuto essere utilizzato più efficacemente". Benché questo
funzionario abbia
successivamente rivisto le sue posizioni, Michel Camdessus, allora
direttore
generale del FMI, reagì qualche tempo dopo al piano antipovertà
sostenendo
che i Paesi dovrebbero pagare i propri debiti e raggiungere la crescita
economica prima di fare la carità.
2. L'Argentina, colpita dalla sua dipendenza dalle esportazioni verso il
Brasile.
L'Argentina risentì degli effetti collaterali (conosciuti con il nome di
"effetto Samba") della crisi del Brasile, che costituisce il
principale
mercato delle esportazioni argentine. Prima della crisi, il 40% delle
esportazioni argentine era diretto verso il Brasile. In presenza di una
svalutazione del real, che ha reso i prodotti argentini più costosi per i
consumatori brasiliani, i settori dell'economia che si basavano sulle
esportazioni verso il Brasile si indebolirono. Il settore automobilistico,
che esporta abitualmente in Brasile il 60% della sua produzione, fu
devastato dai licenziamenti. Ad esempio, Fiat e Renault annunciarono 5200
licenziamenti alla fine del gennaio 1999 e Ford intraprese un programma di
prepensionamenti volti a ridurre la manodopera di 1430 lavoratori. Altri
settori dell'economia argentina che si appoggiano in gran parte al mercato
brasiliano sono l'industria tessile, il commercio di carne di porco e di
volatili, di calzature e di riso.
Immediatamente dopo la crisi brasiliana,l'Argentina soffrì inoltre di
ingenti perdite di impieghi nell'edilizia, nonché della prima
diminuzione
degli impieghi mai registrata nel settore dei servizi.
Un funzionario argentino attribuì le difficoltà in questi settori agli
elevati tassi di interesse determinati dalla crisi brasiliana.
Immediatamente dopo la svalutazione del real, i tassi fondamentali in
Argentina passarono dal 10.62% al 15%, mentre i tassi per le piccole e
medie
imprese si avvicinavano al 20%.
Le difficoltà del Brasile continuarono ad influenzare i problemi
economici
dell'Argentina alla fine del 1999. Si stimava che il PIL argentino fosse
crollato del 3% circa, mentre il tasso di disoccupazione raggiungeva il
14.5% in agosto per scendere poi al 13.8% durante l'ultimo trimestre
dell'anno.
Gli Argentini sono costernati alla vista di un nuovo aumento del tasso di
disoccupazione, dopo che erano riusciti ad abbassare i tassi di
disoccupazione assai elevati successivi all'"effetto tequila"
della crisi
finanziaria messicana del 1994. Dal 18% nel 1995, il tasso era sceso al
12.4% nel 1998. In una data relativamente recente, il 1991, il tasso di
disoccupazione in Argentina ammontava al 6.3%.
Il documento completo può essere trovato su:
"L'impatto della crisi finanziaria sui lavoratori ed i programmi
alternativi
per il FMI e le altre istituzioni".
http://www.attac.org/fra/toil/doc/ipsfr.htm
Traduzione a cura di Ester Botta
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28.01 |
Alle
origini della crisi argentina
Alle origini della crisi argentina
di Arnaud Zacharie
L'Argentina è conosciuta come uno degli allievi privilegiati dell'FMI.
Fin
dagli anni '80 il paese ha applicato rigorosamente le "lettere
d'intenti"
degli esperti di Washington. L'obiettivo di questi programmi è ormai
noto:
eliminare il debito estero e "aggiustare strutturalmente" il
paese al
mercato mondiale, al fine di rompere con le politiche dirigiste del
passato,
responsabili della crisi e del debito dei primi anni '80.
Applicando la teoria liberale, è stato "dimagrito" il
potere pubblico, si
sono vendute le imprese al capitale straniero, sono state aperte le
frontiere ai capitali internazionali e alle multinazionali. Oggi, quando
il
90% delle banche e il 40% delle industrie sono nelle mani del capitale
straniero, il debito estero è quasi quadruplicato dal 1983, salute ed
educazione sono al lumicino e il salario medio vale le metà rispetto al
1974. La sconfitta, economica e sociale, è drammatica, e la crisi che sta
esplodendo degraderà ancora la situazione. Il motivo, anche se se ne
parla
poco, è evidente: l'FMI e i governi argentini non hanno risposto ai veri
problemi, anzi, le misure da loro applicate li hanno aggravati.
Alle origini della crisi del debito argentino: un ben oliato meccanismo di
decapitalizzazione.
Un'inchiesta giudiziaria durata 18 anni, originata dalla denuncia di un
giornalista, Alejandro Olmos, depositata nel 1982, ha portato le prove: la
crisi del debito argentino ha origine da un meccanismo di dilapidazione e
di
diversione di fondi che ha come protagonisti il governo argentino, l'FMI,
le
banche private del Nord e la Federal Reserve statunitense. E' per questo
che
la Corte Federale argentina nel luglio 2000 ha dichiarato
"illegittimo" il
debito contratto dal regime Videla perché contrario alla legge e alla
Costituzione. Il Tribunale ha raccomandato al Congresso di utilizzare
questa
sentenza per ottenere la cancellazione di questo odioso debito.
Ritorniamo ai fatti. Nel 1976 la giunta Videla prende il potere e instaura
una dittatura che durerà fino al 1983. In questo periodo il debito estero
argentino si moltiplica per cinque (da 8 a 43 miliardi di dollari), mentre
la quota del PIL destinata agli stipendi passa dal 43 al 22%. La dittatura
porta così la crisi del debito estero e di seguito all'ingresso ufficiale
dell'FMI nel comando finanziario del paese.
La sentenza del Tribunale argentino, lunga 195 pagine, traccia la storia
del
debito originario.
Entrano in scena diversi attori: per l'Argentina, i protagonisti sono il
presidente Videla, il ministro dell'economia Martinez de la Hoz
("offerto"
dall'associazione degli industriali) e il direttore della Banca Centrale,
Domingo Cavallo (lo stesso che ha rassegnato le dimissioni il 20 dicembre
2001).
C'è poi l'FMI, che nel 1976 eroga un importante prestito, fornendo così
alle
banche occidentali la garanzia che il paese è un luogo privilegiato per
riciclare i surplus di petrodollari. Ma il ruolo del Fondo non si ferma
qui:
per tutto il periodo della dittatura troviamo un certo Dante Simone,
funzionario dell'FMI, al servizio del regime. L'FMI si giustifica
sostenendo
che il Simone era in permesso, e che si era messo spontaneamente a
disposizione della banca centrale del paese (p. 27 della sentenza). La
banca
forniva vitto e soggiorno; resta da capire chi versava lo stipendio e se
il
permesso era pagato.
Comunque fosse, il Simone ha redatto un rapporto per Domingo Cavallo (ne
è
stata trovata copia all'FMI), che garantiva che esistevano importanti
margini di indebitamento prima che si fosse in pericolo (p. 31 della
sentenza). E il ruolo del Simone è stato quello di cercare importanti e
discreti finanziamenti esterni.
Che non erano affatto difficili da trovare: le banche occidentali,
strapiene
di petrodollari che non riuscivano a sistemare per la crisi dei paesi
ricchi
del Nord, cercavano avidamente nuovi sbocchi. L'inchiesta dimostra così
che
la banca centrale argentina ha potuto effettuare dei versamenti riservati
su
banche americane, senza passare dal ministro dell'economia ma con la
generosa intermediazione della Federal Reserve USA.
L'intesa tra questi differenti protagonisti ha fatto sì che prestiti
bancari
fatti a favore dell'Argentina non hanno mai preso la direzione del paese,
ma
sono stati subito dirottati su banche domiciliate in paradisi fiscali, a
nome di società fantasma.
Il debito, così, non ha apportato alcun vantaggio alla popolazione locale
me
solo al regime dittatoriale e alle banche del Nord.
Il resto dei fondi sono stati dilapidati in generose sovvenzioni ai grandi
gruppi privati amici del ministro de la Hoz.
Dall'eldorado.
Il governo Alfonsin, succeduto a Videla, non è riuscito a ricostruire il
paese, eroso dall'iperinflazione e dalla corruzione, eredità della
dittatura.
L'arrivo al potere di Carlos Menem nel 1989 e la sottoscrizione del Piano
Brady all'inizio degli anni '90 fanno finalmente uscire il paese dal
letargo
economico.
Le riforme del governo Menem sono tra le più radicali dell'intero
continente: privatizzazione delle aziende pubbliche (compreso il settore
petrolifero, contrariamente a quanto fatto dal Messico), rialzo dei tassi
di
interesse, liberalizzazione dell'economia - compreso il settore agricolo -
e
soprattutto l'emissione di una nuova moneta, il peso, legata al dollaro (1
peso=1 dollaro, come il "real" brasiliano). Al timone del
superministero
dell'Economia troviamo di nuovo Domingo Cavallo.
Le riforme abbattono l'inflazione e portano ad una ripresa degli
investimenti stranieri. Dopo anni di marasma finanziario, il PIL cresce
del
25% in tre anni!
A fine 1994, l'entusiasmo per questo rapido sviluppo è generale. I
mercati
si fidano, i capitali internazionali arrivano e il deficit corrente si
riduce.
. alle crisi finanziarie a ripetizione
Per l'Argentina la seconda metà degli anni '90 è tragica. La crisi
messicana
e il conseguente "effetto tequila" precipitano il paese in una
brutale crisi
finanziaria, dovuta al massiccio riflusso dei capitali internazionali
iniziato nel 1995.
Il deficit corrente, inesistente prima delle riforme di Menem, aumenta in
parallelo con il debito estero. Il paese è obbligato a sborsare somme
sempre
crescenti per rimborsare questo debito (il servizio annuale del debito
passa
da 6 a 21 miliardi!), mentre le entrate statali divengono drammaticamente
rare (l'evasione fiscale raggiunge livelli demenziali) e il peso si
ritrova
sopravvalutato.
Il problema è nel fatto che la liberalizzazione totale dell'economia
facilita il rimpatrio degli utili e la fuga illegale dei capitali locali:
l'
evasione, che arriva nel 1998 a circa 40 miliardi di dollari, priva lo
stato
del 50% delle entrate fiscali. Solo il 17% degli altri redditi pagano le
imposte. Anche l'imposizione sugli utili è basso (il 33% contro il 45%
degli
USA). Come dappertutto nel Terzo Mondo, è la parte meno abbiente della
popolazione che sopporta la maggior quota della pressione fiscale: l'Iva
passa dal 14 al 21%, ciò che colpisce pesantemente quelli che destinano i
redditi al soddisfacimento dei bisogni fondamentali, cioè i più poveri.
La parentesi De La Rua: il cambiamento nella continuità
Mentre l'attenzione degli analisti è focalizzata sulle crisi asiatiche e
su
quella russa, il Brasile piomba in una crisi che arriva al culmine nel
gennaio 1999: il real e l'economia affondano. Ora, il Brasile assorbiva il
30% delle esportazioni argentine. Questi mancati incassi sono un dramma.
Tuttavia - ne abbiamo già parlato - sotto i due mandati di Menem il paese
ha
seguito alla lettera i programmi di aggiustamento dell'FMI e della Banca
Mondiale: ha privatizzato il 40% delle imprese e il 90% elle banche, ha
licenziato centinaia di migliaia di dipendenti pubblici, ha sacrificato il
settore scolastico.
Il 24 ottobre 1999 Fernando de la Rua succede a Carlos Menem, ed eredita
un
paese in piena recessione. Le finanze pubbliche sono in rovina e su 36
milioni di argentini 14 vivono ufficialmente sotto la soglia di povertà.
Nel corso del 1999 il debito estero aumenta ancora di 12 miliardi di
dollari, e il paese è quello il cui debito aumenta maggiormente. Più dei
tre
quarti di questo debito è stato contratto con i mercati finanziari (una
proporzione percentuale analoga a quella di Brasile, Messico, Corea del
Sud).
Ma questa politica di massiccio ricorso ai mercati finanziari non è
sufficiente per il rimborso del debito e allora l'Argentina sottoscrive un
accordo con l'FMI (7,2 miliardi) che la costringe a ridurre il deficit
fiscale da 7,1 a 4,7 miliardi in un anno, cosa che comporta un taglio di
2,5
miliardi nel bilancio del 2000.
Viene sollecitata anche l'assistenza della BM: a fine 1999 l'Argentina
emette una serie di obbligazioni in sei tranches garantite dalla BM Questo
sistema di garanzie permette ai mercati finanziari di evitare ogni rischio
di insolvenza sugli investimenti argentini, perché, in caso di mancato
rimborso da parte dell'Argentina, interverrà la BM (che poi si rivarrà
sull'
Argentina per capitale e interessi).
Tuttavia, ancora una volta, tutti questi artifizi creati per creare
fiducia
verso mercati instabili si riveleranno altrettanto inefficaci fughe in
avanti.
Nel dicembre 2000 la pressione è al massimo e il governo argentino
esaurisce
le riserve nel tentativo di mantenere la parità peso-dollaro. Era stata
stabilita nel 1991, quando
i sui vantaggi erano molteplici: stroncare l'inflazione, evitare rischi di
cambio sui prezzi delle materie prime (fissati per la maggior parte in
dollari) e ispirare fiducia negli investitori stranieri, con la
valutazione
in dollari dei loro investimenti argentini.
Quando però importanti vicini come il Brasile hanno svalutato la moneta,
l'
Argentina si è ritrovata con una moneta sopravvalutata per la regione. Ciò
che ha reso più care le sue esportazioni in rapporto a molti paesi
latinoamericani ed ha aggravato il suo deficit corrente.
L'alternativa era delicata: svalutare la moneta e rischiare un panico
incontrollabile, facendo precipitare il peso in abissi incontrollabili -
come poco prima era successo in Messico, in Tailandia, in Russia o in
Brasile? Oppure era meglio conservare la parità con il dollaro e fare
assegnamento sulla fiducia degli investitori stranieri, nei quali si
confidava per tappare la falla del deficit corrente?
Alla fine di dicembre 2000 si opta per la seconda soluzione e l'FMI
elabora
un pacchetto di aiuti per 39,7 miliardi di dollari. Evidentemente, la
nuova
linea di credito non è senza condizioni: liberalizzazione del sistema
sanitario, deregulation di settori chiave come energia e
telecomunicazioni,
contrazione delle importazioni, flessibilizzazione del mercato del lavoro,
implementazione delle privatizzazioni, eccetera. Inoltre, nell'estate del
2001 il governo annuncia un taglio del 13% degli stipendi dei dipendenti
pubblici.
Ma la spirale è inesorabile: la liberalizzazione finanziaria e l'iniqua
fiscalità imposte dall'FMI consentono un'evasione fiscale di centinaia di
miliardi di dollari all'anno, tanto che lo stato argentino per arrivare a
fine mese è costretto ad indebitarsi a tassi insostenibili sui mercati
internazionali: alla fine del 2001 il tasso di interesse raggiunge il 40%!
In questo modo, il governo de la Rua vede dipendere il suo destino da un
prestito FMI da 1,2 miliardi di dollari, condizionato a una politica di
"deficit zero". Questo provoca le rivolte per fame, la caduta
del governo e
l'affondamento di un paese che possiede importanti ricchezze economiche ed
umane.
Che cosa uscirà dal caos?
Oggi, la crisi del debito argentino fa notizia, mentre il paese è nel
caos.
In un paese nel quale praticamente tutte le forze industriali e
finanziarie
sono state vendute al capitale internazionale, dove i dipendenti pubblici
sono stati sacrificati in massa, educazione e salute sono riservate alle
poche persone solvibili e povertà e disuguaglianza non finiscono di
crescere, quali proposte faranno gli strateghi dell'FMI a una popolazione
fatta a fette da crisi finanziarie a ripetizione? E, per estensione, che
cosa proporranno i futuri governi argentini ai loro cittadini, con una
tale
quantità di debiti da prendere in carico?
Si sa che la n. 2 dell'FMI, Anne Krueger, da poco insediata, propone la
creazione di un sistema di protezione dei fallimenti statali simili alla
legge USA sui fallimenti delle imprese. Vorrebbe così limitare il ruolo
dell
'FMI come ultima speranza e lasciare che il settore privato regoli da solo
il problema dei suoi debiti.
Questa misura però è a doppio taglio: mette sullo stesso piano debitori
e
creditori e permette ai primi di decretare una moratoria, sospendendo i
rimborsi. Cosa che potrebbe culminare in una procedura di insolvenza
e in
un annullamento almeno parziale del debito argentino. Ora, l'Argentina
è in
possesso si una sentenza che dichiara illegittimo il debito della
dittatura
Videla. Evidentemente, la Krueger non arriva così lontano.
Si pone però un altro problema: l'Argentina trascinerà il Brasile nella
sua
caduta, innescando così un aumento generalizzato dei tassi, una specie di
domino nei mercati emergenti, già ora privati dei principali mercati
tradizionali di esportazione (USA e Giappone) in seguito alla crisi del
Nord?
Arnaud Zacharie, ricercatore al CADTM (Comité pour l'Annulation de la
Dette
du Tiers Monde, Comitato per 'Annullamento del Debito del Terzo Mondo) e
portavoce di ATTAC Belgio.
Traduzione a cura di Umberto g.b. Bardella - u.bardella@virgilio.it
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27.01 |
Televideo-Rai:
25 milioni di ebrei morti!
GAFFE
DI TELEVIDEO RAI: "25 MILIONI DI EBREI MORIRONO NELLA SECONDA GUERRA
MONDIALE"
Chi
ha studiato l’evolversi delle varie fasi che condussero ai processi di
Norimberga avrà letto che, dopo la Seconda Guerra mondiale, le
valutazioni del numero degli sventurati delle più diverse nazionalità e
convinzioni politiche che avevano finito i loro giorni in uno dei vari
campi di concentramento istituiti dal regime nazionalsocialista variarono
in maniera considerevole.
In
alcuni casi vennero ingigantite in maniera inverosimile. Kurt Gerstein, ad
esempio, raccontò all’inquirente francese Raymond Cartier che non meno
di 40 milioni di internati in campi di concentramento erano stati uccisi
nelle camere a gas. Nel primo processo verbale del 26 aprile 1945 ridusse
questa cifra a 25 milioni, ma le sue dichiarazioni non vennero considerate
minimamente attendibili dalla difesa francese.
Dopo
quasi cinquantasette anni da quella data, e soprattutto dopo una mole
impressionante di studi (pro e contro la tesi del "genocidio
programmato") che anche per quanto concerne la stima del numero delle
vittime hanno contribuito a fornirci una cifra quanto più possibile
verosimile, Televideo Rai pare invece inspiegabilmente attestato sui
numeri forniti quel giorno da Kurt Gerstein.
La
pagine dedicate da Televideo Rai alla "Giornata della memoria"
sono curate da Germana Lang e Sandro Calice, che il 25 gennaio 2002 a
pagina 282 scrivono:
«Una
volta un imbianchino di nome Adolf Hitler disse: "Se un giorno andrò
al potere, la prima cosa che farò sarà distruggere il popolo
ebraico". Si apre con questa frase uno dei mille siti internet
dedicati alla Shoah, l’assassinio di massa del popolo ebraico
durante la Seconda Guerra mondiale. Circa 25 milioni di ebrei morirono
in quella guerra. La Shoah, o Olocausto, (si discute sul
termine più corretto), si sviluppò in quattro fasi. La prima prevedeva
solo l’emigrazione "forzata" in Madagascar. Con la guerra,
l’idea divenne la ghettizzazione in Polonia e poi i campi di sterminio
in Russia. Quindi la "soluzione finale" e il genocidio nei lager
nazisti».
Qualcuno,
nella redazione di Televideo, deve essersi reso conto dell’accaduto, e
il giorno seguente dalla stessa pagina 282 viene espunto
quell’incredibile riferimento ai 25 milioni di ebrei morti nel corso
della Seconda Guerra mondiale.
Il
4 maggio 1945, dunque otto giorni dopo aver sostenuto la tesi dei 25
milioni, Kurt Gerstein sottoscrisse una cifra intorno ai 6 milioni, che è
quella che ebbe la preferenza a Norimberga. Televideo Rai ha invece
impiegato una sola notte per ravvedersi, attestandosi il 26 gennaio 2002,
fin nel titolo della nuova pagina 282, sull’ormai inoppugnabile cifra:
"Olocausto: stermino di 6 milioni di ebrei".
Quale
sarà invece la cifra ufficiale che proporrà l’istituendo museo della Shoah
di Ferrara?
Il Vigilante
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27.01 |
Sabra
e Chatila, l'incubo infinito
LA STORIA/ Ecco alcuni stralci delle terribili
testimonianze dei sopravvissuti alla strage voluta nel 1982 da Sharon nei
campi profughi palestinesi: torture, abusi sessuali, vilipendio di
cadavere.
Un viaggio all'inferno. Chiamato Sabra e Chatila. Un
viaggio agghiacciante dentro una delle pagine più raccapriccianti della
storia mediorientale. E al centro di questo viaggio nel tempo c'è lui,
Ariel Sharon, attuale primo ministro israeliano, che ai tempi delle stragi
nei campi profughi palestinesi ricopriva l'incarico di ministro della
Difesa e quindi era il massimo responsabile sul terreno delle operazioni
militari in Libano.
Diciannove anni dopo, quei massacri diventano oggetto d'indagine per il
Tribunale di Bruxelles al quale si sono rivolte 28 persone vittime di
violenze, o parenti di vittime di quella mattanza di vite umane perpetrata
dalle milizie cristiane libanesi. In 48 ore, dal 16 al 18 settembre 1982,
i falangisti massacrarono fra 800 e 1500 palestinesi. L'intervento dei
miliziani, una verità acclarata anche dalla commissione d'inchiesta
istituita allora da Israele, era stato accompagnato da un dispiegamento
attorno ai due campi di "Tsahal", l'esercito dello Stato
ebraico, che aveva occupato Beirut Ovest dopo l'assassinio del presidente
libanese Bashir Gemayel, avvenuto il 14 settembre.
Fin qui la storia. Che ricostruisce un evento, tragico, ma non restituisce
un volto, un nome, alle donne violentate e poi squartate, ai bambini fatti
oggetto di tiro al bersaglio, agli anziani sgozzati e poi ricoperti di
sterco.
La storia di Souad: un incubo che non si cancella.
Diciannove anni dopo, alcune di queste storie individuali ritornano alla
luce e con esse una ferita mai rimarginata, anche nella coscienza
democratica di Israele. Sono passati 19 anni da quei giorni maledetti, ma
per Souad Srour Al Mar'eh è come se le lancette del tempo si fossero
fermate a quelle ore che segnano una vita. Souad aveva allora 14 anni ed
era un'adolescente gioisa, piena di vita.
Ma la "vita" si è spenta nei suoi occhi che ancora oggi si
velano di lacrime quando ricostruisce ciò che accade la sera del 17
settembre 1982. "Hanno bussato alla porta di casa - racconta Souad -:
erano 13 soldati armati. Non abbiamo fatto in tempo a pronunciare una
parola che subito hanno iniziato a sparare".
Souad fa fatica a proseguire. "Ciò che non dimenticherò mai - dice
- è il sorriso sulle labbra di quegli assassini. Godevano nel dare la
morte, ci chiamavano animali, cagne maledette...". La prima a cadere,
prosegue il racconto di Souad, "è stata la mia sorellina, colpita
alla testa, mio padre al petto, ma respirava ancora". Souad resta
sola, in balià dei suoi aguzzini. Ciò che ha visto basterebbe per
segnare la sua vita.
Ma ciò che sta per accaderle è, se possibile, ancor più agghiacciante.
Ogni notte, da quella notte, Souad Srour Al-Mareh è visitata da
quell'incubo. Non può dimenticare, non vuole dimenticare. Perché da
quella notte, dice, "avverto il dovere morale di parlare, di gridare
anche per le centinaia di donne palestinesi che non possono più
farlo". E allora Souad si fa forza, e ritorna a quella notte di
inferno. "Smisero di sparare - ricorda -. Le loro attenzioni si
rivolsero contro di me, la loro preda. Li supplicai di non farmi del male,
lo stesso fece mio padre ancora in vita. E quelli continuavano a ridere.
Poi mi violentarono. A turno, ripetutamente. E continuavano a ripetere:
sporca cagna palestinese, è quello che ti meriti". Poi se ne
andarono. Non prima di aver orinato e defecato sul suo corpo. Ma l'inferno
non è ancora finito.
Perché uno dei tredici falangisti torna sui suoi passi e spara alla
schiena di Souad. Da allora Souad trascina le gambe, e il ricordo
dell'orrore è ancora più indelebile. A farle forza è un desiderio di
giustizia che riempie le sue giornate, che dà senso alla sua esistenza:
"Spero che Sharon sia processato e impiccato", dice.
Denunce e inchieste Senza emozione, senza più lacrime. Le 28 denunce
presentate alla Procura di Bruxelles contro Ariel Sharon sono secretate. Ma le due associazioni
filo-palestinesi che hanno garantito l'assistenza legale alle vittime o ai
parenti delle vittime di Sabra e Chatila hanno fatto trapelare frammenti
delle 28 denunce. Raccapriccianti i particolari descritti, segno di un
odio disumano.
Se "è un uomo" il falangista che deflora una bimba di sette
anni e poi squarta il suo corpo una baionetta. Se è un uomo quello che
per sommo sfregio accatasta i corpi dei vecchi uccisi vicino a quello dei
maiali, simbolo di impurità per i musulmani. Nel 1983 una commissione
d'inchiesta israeliana, la commissione Kahan, concluse il suo lavoro
riconoscendo una "responsabilità indiretta" di Sharon per aver
trascurato "il pericolo di atti di vendetta e di un bagno di
sangue" se i falangisti entravano nei campi. Sharon fu costretto a
dimettersi.
Il rapporto Kahan sottolineava che le atrocità “furono perpetrate dai
falangisti" ed escludeva "assolutamente qualsiasi
responsabilità diretta di Israele". Dello stesso avviso non è l'ex
procuratore dei Tribunali per
l'ex Jugoslavia e il Rwanda Richard Goldstone: "Ogni persona
ragionevole - afferma - può solo deplorare che nessuna incriminazione sia
seguita" alla commissione d'inchiesta Kahan sulle stragi, la quale
aveva concluso che "gravi crimini erano stati commessi". Richard
Goldstone non nomina mai Ariel Sharon. Ma i suoi riferimenti non lasciano
margine di equivoco: "Se la persona che dà gli ordina sa che civili
innocenti possono essere uccisi o feriti in una data situazione, allora ne
è responsabile".
Umberto de
Giovannelli (da www.ilnuovo.it)
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26.01 |
Somalia
colonia di al-Qaida
L'OPINIONE delle Libertà (Quotidiano
diretto da Arturo Diaconale)
Mercoledì 23 gennaio 2002 - anno VII - numero 17, p. 3.
Gli ispettori Onu italiani:
LA SOMALIA E' DA ANNI UNA COLONIA DI AL QAEDA
di Dimitri Buffa
"E' inutile continuare a nascondere la realtà dietro un dito. Ormai
è stata
raccolta una documentazione sufficiente a dimostrare che - a partire dal
fallimento dell'operazione "Restore Hope" - la Somalia è ormai
di fatto un
protettorato di Al Qaeda, l'organizzazione terroristica di Osama Bin
Laden.
Il presidentE ad interim Hasan Abulkassim è risultato essere null'altro
che
una marionetta nelle mani della struttura terroristica saudita, ed è da
anni sul libro-paga di Bin Laden."
A parlare in modo così franco ed esplicito sono Massimo Pizza ed Antonio
d'Andrea, gli ispettori italiani delle Nazioni Unite che negli ultimi mesi
hanno coordinato le attività delle forze di intelligence dell'operazione
"Enduring Freedom", alle dipendenza del comando alleato di
Tampa.
Secondo i due funzionari delle Nazioni Unite, "la scelta di non voler
ristabilire un'autorità statale in Somalia, di lasciar prevalere
l'anarchia
- con larghe aree del territorio controllate dai locali signori della
guerra, da trafficanti d'armi e di droga - di creare un
presidente-fantoccio che di fatto non controlla nemmeno l'intera area
urbana della capitale e che rappresenta poco più che se stesso risponde
ad
un disegno strategico ben congegnato, frutto di una raffinata
strategia."
Rifiutando di sedere allo stesso tavolo e costituire un governo
provvisorio
che rappresenti tutte le etnie, di fatto i vari capifazione sembrerebbero
aver danneggiato soprattutto i loro stessi interessi, in quanto così
facendo hanno paralizzato gli scambi con l'estero, le relazioni
diplomatiche e perso anche la possibilità di accedere ai prestiti
agevolati
del Fondo monetario internazionale.
Le cose però non stanno in questo modo.
"Se è stata fatta questa scelta apparentemente autolesionista -
spiegano
Pizza e d'Andrea - ciò è avvenuto perché tutti i personaggi coinvolti
ne
hanno avuto il loro tornaconto, tanto Abulkassim, quanto Hussein Aidid,
Atto, Abdullahi Yusuf e gli altri signori della guerra".
L'organizzazione di Bin Laden aveva infatti bisogno proprio di una nazione
che fosse ridotta a "terra di nessuno", chiusa alle relazioni
con
l'esterno, e nel cui ambito potessero muoversi e mobilitarsi soltanto
strutture ben precise: Al Qaeda, i suoi alleati locali di Ittihad
al-Islamiyyah (ramo locale della setta estremista dei "Fratelli
Musulmani"),la finanziaria saudita Barakaat, legata a doppio filo ad
Abulkassim e nella cui amministrazione giocavano un ruolo fondamentale le
alleanze sancite con i matrimoni fra figlie dei capiclan degli
Habar-ghidir
e dirigenti dei "Fratelli Musulmani".
"La politica di Al Qaeda - dicono gli ispettori dell'Onu -
risulterebbe
dunque ben più complessa di quanto possa apparire a prima vista. In un
paese come l'Afghanistan - dove il senso dell'unità nazionale è molto
forte
- per occultare che la direzione del paese era di fatto in mano ad una
struttura saudita è stato necessario creare a tavolino un personaggio
fittizio come il cosiddetto Mullah Omar, la cui "immagine" non
è altro che
una foto elaborata al computer, e che è assai probabile non sia mai
esistito. In Somalia - dov'è invece il senso dell'appartenenza tribale ad
essere prevalente - i Sauditi legati alla struttura fondamentalista del
principe Abdullah hanno dapprima comprato ad uno ad uno i vari signori
della guerra, quindi hanno ordinato loro di inventare sempre nuovi
pretesti
in base ai quali rifiutare di accordarsi, impedendo così la rinascita di
uno stato somalo dopo la caduta del regime di Siad Barre".
Le accuse di collusione con la rete di Bin Laden lanciate contro
Abulkassim
dal signore della guerra Hussein Aidid risultano pertanto pienamente
fondate, ma gli ispettori dell'Onu ritengono che lo stesso Aidid non sia
affatto immune da un coinvolgimento nella rete finanziaria del terrorista
saudita. Al pari di quelle di Abulkassim, anche le connessioni di Aidid
sono state appieno indagate, ed un dirigente dell'Associazione musulmani
italiani (Ami), Taher Scarelli, ha avuto modo di appurare come gli stessi
portavoce di Aidid in Italia siano direttamente coinvolti in Barakaat e
legati strettamente alle banche saudite, come risulterebbe provato dalle
testimonianze che egli ha raccolto presso personaggi che ruotano attorno
al
mondo dell'immigrazione somala in Italia, e che sono contenute in un
dossier sottoposto all'attenzione dei funzionari dell'Onu.
Nel frattempo, per bocca del suo coordinatore Shaykh Ali Hussen,
l'Alleanza
nazionale somala (Ans) - fondata da dieci generali somali addestrati nelle
accademie italiane al tempo dell'amminostrazione fiduciaria italiana - ha
lanciato per il tramite di Pizza e d'Andrea un appello al comando di
"Enduring Freedom", affinché si proceda senza indugio allo
smantellamento
di tanto del regime filo-saudita, quanto dei signori della guerra che
formalmente lo contrastano, ma che di fatto dipendono dalle stesse fonti
di
finanziamento. Hussen - che oltre a coordinare l'Ans è un capo religioso
islamico antifondamentalista ed il presidente dell'Ami - ha chiarito come
-
ad eccezione del capo della tribù dei Rahawein, il comandante Shar Ghadud
-
i signori della guerra che oggi si fanno avanti come alleati
dell'Occidente
nella lotta contro Abulkassim potrebbero benissimo celare una trappola
micidiale contro le forze dell'alleanza antiterrorismo.
"Che Bin Laden - dice Hussen - abbia materialmente trovato rifugio in
Somalia dopo essere fuggito da Tora Bora è ancora non dimostrato, ma
probabile. Che la maggior parte degli armamenti che Al Qaeda possiede
siano
stati in tutta fretta spostati dall'Afghanistan alla Somalia per fare del
mio martoriato paese l'estremo rifugio del terrorismo fondamentalista è
invece certo. A questo punto, ritengo che l'eventualità di uno sbarco di
truppe possa essere estremamente rischioso, e che è invece necessario
provvedere in sede preliminare a preparare il terreno con bombardamenti
aerei massicci sui rifugi di Al Qaeda già localizzati. Se di fatto la
tribù
degli Habar-ghidir ed i Migiurtini di Abulkassim sono diventati i Talebani
della Somalia, l'Alleanza nazionale somala è pronta ad agire in prima
linea
al fine di far rientrare il nostro paese nella legalità internazionale,
giocando così un ruolo analogo a quello svolto dall'Alleanza del Nord in
Afghanistan."
Nel frattempo, il comando di "Enduring Freedom" ha imposto ad
Abulkassim ed
alle fazioni dei signori della guerra di accettare la nomina di Osman Haji
Falco - uno dei leader dell'Ans - a comandante generale della polizia, e
questa stessa notizia è stata da sola sufficiente ad indurre molti
residui
sostenitori di Abulkassim a lasciare Mogadiscio per darsi alla macchia,
mentre le bande paramilitari che infestavano la periferia della città
sono
già allo sbando.
Falco però ha dichiarato senza mezzi termini che "la lotta contro
gli
alleati di Bin Laden non sarà una passeggiata, giacché essi contano su
ben
50.000 uomini, ben addestrati ed armati". Prima di procedere
all'intervento
militare, Falco ritiene necessario che l'Ans si costituisca come governo
prevvisorio, formato da personalità somale che da tempo risiedono
all'estero, che non hanno mai avuto simpatie fondamentaliste o legami con
il regime saudita, e che risultino completamente estranei alle faide
tribali che hanno funestato il paese durante l'ultimo decennio.
Questo governo provvisorio - nell'ambito del quale, secondo Falco, Hussen
dovrà in ogni caso ricoprire un ruolo primario - dovrà agire col
supporto
della comunità internazionale al fine di ristabilire l'ordine nel paese,
di
censire la popolazione (stabilendo così la consistenza effettiva delle
diverse etnie) e di indire libere elezioni democratiche.
"Come musulmani da sempre contrari al fondamentalismo della setta
wahhabita
al potere in Arabia Saudita - dice Hussen - rivendichiamo anche noi quel
diritto alla riconquista della libertà e dell'indipendenza nazionale che
i
nostri fratelli in Afghanistan hanno già fatto valere."
Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana
http://shell.spqr.net/islam/
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26.01
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"Ridate
voce a RadioPalestina" ma lo ICCII si scaglia contro Serventi Longhi
As-salamu `alaykum wa rahmat-Ullahi wa
barakatuH.
Carissimi Fratelli e Sorelle,
Rendiamoci un poco conto di quale razza di stampa gli Italiani sono
costretti a subire (e pagare)!
Pensavamo che per i media italiani il fondo dell'abiezione fosse stato
raggiunto da quel giornalista Cristiani, pronto a scusarsi con i banditi
di
Arafat per il fatto che l'Italia aveva osato trasmettere il video del
linciaggio dei due soldati israeliani, e addiruttura pronto - da vero
sciacallo - a puntare il dito contro Mediaset, e a dire: "ecco chi
sono i
cattivi che non accettano la censura di Arafat. Noi della RAI invece siamo
al cento per cento asserviti al dittatore-terrorista. Trasmettiamo solo ed
esclusivamente quel che vuole lui!"
Invece l'Italia continua ad essere un paese davvero surreale. Alla
vergognosa iniziativa di Cristiani vengono oggi ad aggiungersi le
sciagurate prese di posizione del segretario della Federazione Nazionale
della Stampa Italiana e di quello del sindacato giornalisti RAI
(profumatamente pagati coi soldi del contribuente per veicolare la
propaganda genocida di Arafat suoi nostri teleschermi!). Questi
inqualificabili individui dimostrano di considerare il diritto ad esortare
allo sterminio degli ebrei e ad educare i bambini al terrorismo suicida
come "aspetto irrinunciabile della libertà di stampa".
Ci fanno fare una bella figura nel mondo: dimostrano che la "stampa
libera"
che essi prendono a modello è quella di Joseph Goebells.
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L'OPINIONE delle Libertà (Quotidiano diretto da Arturo Diaconale)
Mercoledì 23 gennaio 2002 - anno VII - numero 17, p. 1.
L'iniziativa di Serventi e Natale
FNSI E USIGRAI VOGLIONO RIDARE VOCE A RADIO PALESTINA
di Dimitri Buffa
Per non piangere, in Israele adesso tutti ridono leggendo le allucinanti
dichiarazioni del segretario della Fnsi Paolo Serventi Longhi e di quello
dell'Usigrai Roberto Natale, a proposito della distruzione del palazzo
dove
aveva sede la radio tv di Arafat a Ramallah da parte degli artificieri
dell'esercito israeliano. "Ma come si fa" - è il commento più
benevolo - "a
invocare la libertà di stampa per un organo di propaganda che inneggia al
terrorismo e alla uccisione degli ebrei?" Già? Come si fa? Eppure
non è
lontano il simbolico giorno della memoria (cioè il prossimo 27 gennaio
della Shoà) compiuta in Europa dai nazi-fascisíi con il beneplacito dei
comunisti di Stalin che proprio attraverso il patto Molotov-Von Ribbentrop
posero le basi per lo sterminio dei primi ebrei in Polonia. Ma purtroppo
il
politically correct di sinistra in Italia riesce a fare anche questi
miracoli: trasformare i terroristi in vittime e uno stato democratico in
aguzzino della libertà d'informazione. Rileggiamo gli incredibili
comunicati di Serventi Longhi e Natale che i lettori
dell"'Opinione"
possono trovare anche su fnsi.it nella sezione "ultim'ora"
(anche se
aggiornata proprio al 19 gennaio scorso). "Qualunque ne sia la
ragione -
commenta il segretario generale della Fnsi Paolo Serventi Longhi - la
distruzione della radio palestinese da parte delle truppe israeliane,
suscita la ferma protesta dì chi ritiene che la comunicazione rappresenti
uno strumento di sviluppo della democrazia'. "Purtroppo" -
sottolinea
Serventi Longhi - "la spirale terrorismo-rappresaglia, che sta
annientando
ogni possibilità' di soluzione pacifica della crisi palestinese e che
miete
migliaia di vittime di entrambe le comunità, colpisce con drammatica
precisione e violenza inusitata uno degli ultimi simboli dell'autonomia di
un popolo". Leggiamo adesso come gli ha fatto eco 'ex-precario Rai
Roberto
Natale: "la Rai fornisca un aiuto tecnico in tempi rapidi perché la
radio
palestinese possa recuperare completamente il suo ruolo'. E ancora:
"la
distruzione dell'emittente palestínese compiuta dall'esercito israeliano
deve suscitare la più concreta solidarietà dei giornalisti. Ancora una
volta la brutalita' della guerra si manifesta mettendo a tacere la voce di
un popolo'.
Verrebbe voglia di inviare loro cassette video e audio dell'attività
"informativa" dei feddayn che lavoravano in Radio Tele Arafat.
Te la danno
loro "la voce di un popolo'. La propaganda armata, per inciso,
continua da
altre postazioni la propria attività di incitamento ad ammazzare gli
israeliani, che Fnsi e Usigrai vorrebbero fare passare come libertà di
espressione. Come i video musicali con le rock star con il mitra che
dileggiano le bare degli israeliani cantando: "così li abbiamo
cacciati dal
Libano, cosi li ributteremo a mare fuori da Israele".
Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana
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26.01 |
American
Beauty: un film molto americano
AMERICAN BEAUTY ( American Beauty...
guarda da vicino, 1999 Dreamworks Pictures )
Premessa.
Prima di trattare qualunque film americano bisogna sapere cosa è
Hollywood. Ciò è spiegato, che io sappia per la prima volta, nel mio
libro I Divi di Stato, Edizioni Il Settimo Sigillo, Roma, 1999, cui
devo rimandare. I concetti fondamentali comunque sono i seguenti. Hollywood
è una filmografia di Stato, controllata copione per copione, inquadratura
per inquadratura e battuta per battuta dal Ministero della Propaganda
statunitense, che si chiama USIA ( United States Information Agency
), ente istituito nel 1953. Ciò è perché gli USA non sono una
democrazia come la gente crede ma una dittatura vera e propria, anche se
speciale : sono una dittatura dell’imprenditoriato.
La differenza rispetto alla filmografia di uno Stato totalitario
tradizionale, come era ad esempio quella dell’URSS della dittatura
del proletariato, è che nel contempo Hollywood deve anche
ricavare profitti, e cioè produrre lavori commercialmente validi, da
vendere per soldi e non da distribuire gratis come depliant pubblicitari ;
altra differenza è la preoccupazione di nascondere tale status.
Così tutti i film sfornati da Hollywood dopo il 1953 vanno letti in tale
chiave ; tutti cioè, oltre a mirare a fare cassetta, hanno anche un
contenuto ideologico preciso e approvato dall’USIA, la quale può in
aggiunta avere imposto degli spunti propagandistici ad hoc dove la
trama si prestava. Ciò vale anche per film che a prima vista
sembrerebbero innocui, inadatti allo scopo, e cioè sostanzialmente per i
film di ambientazione americana " civile " e contemporanea, che
siano drammatici, comici o delle commedie. L’obiettivo fisso
dell’USIA con questi film è di evitare che, narrando la storia, non
finiscano per rivelare l’esatto " tono " della società
americana, la reale profondità e irrimediabilità dei suoi mali, cosa che
invece è da nascondere, travisare o camuffare ; poi se c’è
la possibilità e se se ne avverte l’esigenza possono essere fatte
inserzioni di qualunque tipo e su qualunque argomento. Sono
benvenuti i film che portano critiche secondarie o superficiali a tale
società, perché una critica che sfiora l’obiettivo poi lo protegge :
se di un tizio si dice solo che alla cerimonia aveva una cravatta di
cattivo gusto non si va a pensare che per il resto poteva anche essere in
mutande, come magari era essendo allora quella l’osservazione da fare. Ancora più benvenuti i film che trattano apertamente certe
topiche negative della società americana, però travisandole artatamente,
facendo cioè in modo di suggerire spiegazioni che all’ultimo le
assolvono. Film del genere permettono poi di dire che il sistema tollera
critiche, che è " democratico ". A tutto ciò a Hollywood non
ci sono eccezioni ; non possono esserci.
American Beauty appartiene alla
categoria dei film falsamente critici. Difatti puntella il sistema
americano ma, per esempio, sul Resto del Carlino del 18 gennaio 2000 ( tre
giorni prima dell’uscita del film in Italia ) un tale Andrea Martini,
che suppongo un critico cinematografico di mestiere, gli attribuisce una
" aria pungente da satira sociale ". La trama è la
seguente, tenendo conto come al solito che i film di Hollywood sono
realizzati normalmente in più versioni, che differiscono per dettagli più
o meno significativi allo scopo di renderli adatti - soprattutto proprio
dal punto di vista propagandistico - alle varie aree culturali del mondo.
Parleremo quindi della versione diffusa in Italia, col doppiaggio
relativo.
La trama del film.
La storia è ambientata a Los Angeles, ai tempi nostri, in un
quartiere residenziale periferico tipico della classe media americana :
strade larghe e diritte su cui si affacciano tante ville, unifamiliari ma
grandi e su due piani, di bell’aspetto elaborato e circondate da uno
scoperto erboso con alberelli e formazioni arbustive curate alla
perfezione. In una di queste grosse case di bambola ( la via si chiama
anche Robin Hood Trail ), con in giardino dei cespugli di rose American
Beauty, abita la famiglia Burnham, padre Lester di 42 anni, madre
Carolyn e figlia unica Jane di 17 anni ; accanto si è recentemente
trasferita la famiglia Fitts, padre Frank sui 50 anni, madre Barbara e
figlio Ricky di 20 anni. La voce di Lester fuori campo commenta i suoi
ultimi giorni di vita, prima di essere ucciso da Frank Fitts. In quei
giorni i conflitti che ognuno dei protagonisti aveva accumulato con sé
stesso, con i familiari e con la società erano esplosi in una reazione a
catena, innescata dalla perdita del lavoro da parte di Lester. La famiglia
comincia a sgretolarsi. La moglie, mediatrice immobiliare impegnata e yuppy
ma di scarso successo, ha una avventura con l’ammirato
concorrente-collega Buddy Kane, che appunto ha il vento in poppa, e che
però in breve la lascia per il timore di rendere il proprio divorzio in
corso ancora più finanziariamente rovinoso ; la figlia, che covava il
solito rancore adolescenziale con annesso desiderio di evasione, rompe gli
indugi e si mette col tenebroso Ricky, che dalla finestra di fronte la
filmava di notte con una telecamera. Lester in realtà è il meno scosso.
Con un cinico ricatto ottiene una buonuscita di 60.000 dollari, pari a un
anno di stipendio, e cerca e trova subito un lavoro dequalificato, e cioè
come inserviente in un chiosco tipo MacDonald’s, pagato con la minimum
wage ( salario minimo ) di 5.25 dollari all’ora. Comincia a pensare
di concedersi finalmente dei piaceri proibiti ; la sua attenzione è
sempre più attratta da Angela, una compagna di scuola della figlia già
ammirata come reginetta delle cheer leaders dell’high school
e che ogni tanto capita in visita ; si compra una rossa spider Pontiac
Firebird del ’70 ; e inizia a fumare spinelli che gli vende Ricky. La
famiglia di Ricky, anch’essa nonostante le apparenze, non ha meno
problemi e di qui verrà la fine di Lester. Frank Fitts è un colonnello
dei Marines in pensione che alla fine del film scopriamo aver
silenziosamente lottato per tutta la vita contro la propria omosessualità,
riversando le proprie angosce sulla moglie, oramai ridotta ad una larva
senza volontà, e su Ricky, avendolo portato a rifugiarsi nella droga e a
diventarne, appunto, spacciatore. Quando vede in un filmato girato
involontariamente da Ricky il bel vicino Lester che fa ginnastica nudo nel
garage le sue difese, che presumibilmente avevano resistito per tutta la
vita, crollano e non riesce a reprimere una avance inequivocabile.
Lester naturalmente rifiuta, anche se con garbo, da uomo di mondo, ma poco
dopo Frank Fitts, umiliato dalla situazione e inorridito di sé stesso,
ritorna e gli spara una revolverata in testa mentre seduto al tavolo di
cucina contempla una foto incorniciata della sua famiglia, quella dei
tempi felici. Al rumore accorrono Jane e Ricky, i Bonnie e Clyde in
pectore che in una stanza superiore stavano progettando di fuggire
insieme a New York, dove lui conosceva spacciatori che lo avrebbero
introdotto nel giro, e Angela, la Lolita cresciuta, anch’essa al piano
superiore dove in altra stanza attendeva il ritorno di Lester decisa a
concedergli la verginità ; nello stesso momento rincasa Carolyn, reduce
dall’ultimo incontro con Buddy, ed è the end.
L’irrilevanza sociale dell’argomento.
La realtà sociale degli USA è evidenziata dalle seguenti poche
cifre : da 40 a 60 milioni di poveri a seconda delle stime ( del governo o
di istituti privati ), persone che non hanno sussidi, non hanno assistenza
medica, non maturano una pensione ; 1 bambino su 4 cresce in povertà ;
disoccupazione ufficialmente del 7.6% ma ufficiosamente del 12%, con una
parte rilevante degli occupati che percepisce la minimim wage ; 4
milioni di homeless senza lavoro, dei quali ogni inverno ne muoiono
regolarmente circa 1.000 per il freddo ; 8 milioni di homeless con
lavoro ( sono i migrant workers, lavoranti agricoli stagionali che
vivono praticamente nella vecchia auto, o pick up, con cui si
spostano assieme alla famiglia da una piantagione all’altra ) ; 1
milione di street kids, dei quali ogni anno ne muoiono circa 5.000
per percosse, stenti o malattie, essendo frettolosamente fatti seppellire
in tombe anonime dalle autorità municipali ; 3 milioni di famiglie che
vivono in roulottes chiamati trailers ; 27 milioni di alcolizzati,
molti dei quali rientrano anche nei 25 milioni di tossicodipendenti ;
35-40.000 omicidi e 30-35.000 suicidi all’anno ; 2.000.000 di detenuti,
pari a un quarto dell’intera popolazione carceraria mondiale, con 4.000
in death row ( in attesa dell’esecuzione capitale ). Moralmente
la situazione è abbietta, e per fare pochi esempi : c’è libertà di
licenziamento e così tutti i lavoratori dipendenti americani, che
siano operai, impiegati o dirigenti, scodinzolano da mattina a sera come
tanti setter ; c’è una miriade di occupazioni umilianti, distruttive
della personalità ( uomo-bersaglio alle fiere, latore di messaggi canori,
ecc ) ; i ricchi hanno libertà di reato nei confronti dei poveri, invero
anche di omicidio ( i ricchi - de facto - sono incriminati solo per
reati verso i loro pari, o l’Amministrazione ) ; sono legali pratiche
come la vendita di figli e di sangue, sperma e organi non vitali ; per gli
americani ricchi organi vitali sono reperiti nel Terzo Mondo col
beneplacito del governo, che è il governo dei ricchi ; in piantagioni del
Sud sta tornando la schiavitù, questa volta nei confronti di chicanos.
E’ questa combinazione di miseria e abbiezione che spiega il fatto che
il 20% della popolazione adulta americana presenta turbe psichiche da
gravi ( ossessioni ) a gravissime ( schizofrenia ), come calcolato dal
National Institute of Mental Health ; non per niente ci sono tanti e così
orrendi serial killers negli USA, in effetti da 80 a 100 in
attività in ogni dato momento.
American Beauty non offre squarci
illuminanti su niente di tutto ciò. Critica certamente la società
americana, ma sceglie un obiettivo secondario : la classe media e le sue
magagne. Dell’uomo in mutande e cravatta ci dice che ha una brutta
cravatta. Il tema del film infatti è l’intreccio di problemi, angosce e
frustrazioni personali che stanno dietro l’aspetto solare della classe
media americana, e che continuano a crescere all’ombra delle sue
villette da fiaba sino a che un innesco qualunque provoca una reazione a
catena esplosiva. Oppure il tema è la vera vita, la natura umana con i
suoi pregi e le sue eterne debolezze, che inevitabilmente pulsa sotto
l’enorme peso delle restrizioni, delle convenzioni e dei compromessi
imposti dalla società americana a chi vuole essere " in ".
Oppure - c’è sempre da discutere su queste cose - il " messaggio
" è che il ceto medio americano, il ceto delle villette coi bei
roseti, è un Truman Show dove nessuno è come sembra, dove tutti
ricoprono ruoli che non sono i loro, come il Lester cui il licenziamento
dopo 14 anni di lavoro alla redazione di un giornale fa emergere la vera
anima da ribelle gaudente, da hippy , come il Frank Fitts cui basta
vedere il sunnominato nudo per arrendersi infine alla propria natura di cocksucker
( " ciucciacazzi " ) nato, l’accusa preferita che portava al
figlio perchè pensava sempre a sé stesso, e così via come gli altri
tutti, da Ricky a Jane a Carolyn a Angela a Buddy. In ogni caso sono tutte
cose vere e si può certamente farci un film sopra. Rimane il fatto che
neanche questa volta la verità sull’America salta fuori.
La presenza dell’USIA.
Ciò non basta a far palpare la presenza dell’USIA nel film :
esso omette di evidenziare certi mali clamorosi perché il suo soggetto è
un altro, il che è già un risultato si, ma non si può dire che sia
voluto, cercato. Dove invece la presenza dell’USIA è inequivocabile è
nel trattamento del medesimo e innocuo soggetto che è stato scelto. Le
vicende degli esponenti del ceto medio americano del film infatti sono
state messe in modo tale da ottenere precisi risultati di
falsificazione, di travisamento di certe topiche inquietanti della vera
realtà americana, il che si chiama propaganda, propaganda culturale. Le
falsificazioni ed i travisamenti sono stati inseriti nella costruzione dei
ritratti dei protagonisti e sono i seguenti.
1) A Lester capita uno di quegli incerti che negli Stati Uniti
portano quasi immancabilmente alla rovina totale, che equivalgono a
sentenze di morte : è licenziato da un lavoro altamente
qualificato quando aveva una età superiore ai 36 anni ( è circa questo
il limite ). Normalmente queste storie vanno nel seguente modo :
per cominciare l’uomo subisce uno stress che ammazzerebbe un cavallo (
perde l’autostima ; si sente tradito ; ogni certezza crolla ) ; cerca
per mesi, o per anni, un lavoro analogo, adatto al suo livello ;
immancabilmente non lo trova e dopo o non lavora mai più oppure con uno
sforzo supremo si adatta a occupazioni dequalificate, umilianti ;
in ogni caso il reddito crolla, non può più pagare né l’assicurazione
sanitaria né il mortgage ( mutuo bancario ) sulla casa e perde
entrambi ; va a vivere in un trailer scassato in estrema periferia
o diventa homeless del tutto, scivolando sempre più
nell’alcolismo, nelle droghe, nei disturbi mentali ; se aveva moglie e
figli li aveva di norma già persi all’inizio dell’incubo o li
trascina nel degrado. Niente di tutto ciò con Lester. Niente
stress, niente pianti, niente recriminazioni, niente ricerca di
occupazioni degne. Perché ? Perché la regia lo ha costruito come un uomo
che non aveva mai creduto in ciò che faceva, che sino allora aveva
ricoperto un ruolo che non era il suo e che accoglie il licenziamento
quasi con sollievo perché gli da la possibilità di vivere come davvero
voleva, ai margini della società e pronto a coglierne le più succose
occasioni, che di norma sono gratis. La regia si affretta anche a
puntualizzare che l’insoddisfazione di Lester come redattore del
giornale dipendeva solo da lui e non magari dal lavoro, in
altre parole dalla società : il lavoro pagava bene, 5000 dollari
al mese invero, ma comportava troppe responsabilità. Lester giustifica
infatti così la sua richiesta di un posto di garzone da Smiley’s :
" Cerco il livello di professionalità e responsabilità più
basso possibile ". E’ lo stesso accorgimento - caro all’USIA
in effetti - usato nel film Un giorno di ordinaria follia ( Falling
Down, del 1993 ) : " Non sono io che ho perso il lavoro
" dice il neo licenziato Bill-Michael Douglas che si appresta a fare
una strage in città, " è il lavoro che perso me ". C’è
una ulteriore apologia al sistema, questa ancora più obliqua : il
consulente aziendale Brad Dupree aveva deciso il licenziamento di Lester
non perché lui Brad era lo strumento di una società spietata e iniqua ma
proprio perché aveva capito il soggetto, sino allora forse inappuntabile
ma di natura un ribelle, inaffidabile per la ditta ; Lester dimostra
subito quanto avesse ragione estorcendogli 60.000 dollari di liquidazione
con la minaccia di inventare nei suoi confronti una denuncia per molestie
omosessuali. Per inciso l’impressione che in un modo o nell’altro sia
facile ottenere una buona liquidazione negli USA è falsa : di norma uno
se ne va in bolletta perché il contratto di assunzione che era stato
fatto firmare esclude buonuscite e i ricatti non sono così facili.
Quindi a Lester non capita nessuno dei tipici drammi esposti sopra.
Magari perché muore subito, ma fatto è che non capita. Di perdita
dell’health insurance ( assicurazione sanitaria ) non si
parla. C’è un accenno al mortgage ( mutuo ) che sarà difficile
continuare a pagare ma non ci sono sviluppi e poi la moglie ha pur
sempre il suo lavoro di mediatrice immobiliare : pagherà lei, pensa lo
spettatore. C’è un accenno al disfacimento della famiglia : Carolyn
corre subito nel letto di Buddy, che dovrebbe essere l’inizio del tutto,
ma rimane appunto accennato. Jane addirittura pare confermare
l’esattezza della sentenza inflitta al padre dalla società : lo aveva
sempre ritenuto un egoista ed un irresponsabile, un padre che anziché
parlare e riparlare con lei sbarlocchiava le sue amiche, e il suo
licenziamento non fa che fortificarla nella decisione di lasciare quella
famiglia inadeguata.
2) Con la figura di Frank Fitts siamo in piena USIA. Chi sono i Marines
? Sono come tutti i militari americani di qualunque Arma. E’ gente che
si arruola per la paga e per la buona pensione che volendo arriva dopo
appena 20 anni di servizio : dei mercenari. Sembrerebbe niente di troppo
disonorevole - sono dei " professionisti " - ma vediamo cosa
devono fare questi uomini per la tale paga. Gli USA non sono la
Svizzera, ma una potenza neo coloniale in piena attività, che tiene sotto
il tallone moltissimi Paesi e che ogni giorno compie azioni sanguinose in
una parte o nell’altra del mondo ; se non è una guerra
dichiarata che fa migliaia di morti come a Panama nel 1989 o in Yugoslavia
nel 1999, o che ne fa addirittura centinaia di migliaia come in Iraq nel
1991, allora è un bombardamento " preventivo " di una fabbrica
di armi chimiche ( in realtà magari un pastificio ), è una incursione di
commandos in un porto " nemico " per far saltare un mercantile
che trasporta cibarie, è un mitragliamento da elicotteri di contadini
guatemaltechi in sciopero contro la Multinazionale USA che li fa lavorare
per niente nelle sue piantagioni, è una azione di counterinsurgency
contro partigiani indipendentisti, è una assistenza logistica alle grosse
formazioni di banditi ( p.es. Contras, UCK, Ceceni ) create dagli USA per
qualche scopo, è una mano da dare a qualche governo " amico "
per reprimere una ennesima rivolta popolare, e così via. Chi deve fare
tutte queste cose, che implicano sempre dei massacri più o meno grandi di
civili incolpevoli, sono i militari americani, loro in carne e ossa, che
lo fanno non per gli " ideali " o perché coscritti, ma appunto
per la paga. I militari americani così sono giusto dei sicari,
degli assassini prezzolati, e della specie peggiore perché loro su ordine
uccidono anche donne e bambini, e in qualunque numero sia richiesto ( dal
1945 al 1990 gli USA si sono resi responsabili della morte di circa 30
milioni di civili nel mondo ; di questi circa 12 milioni sono stati uccisi
direttamente da militari americani ).
Il pubblico internazionale non deve avere questa percezione.
Inoltre c’è la necessità di offrire una spiegazione che paia
verosimile per i massacri che lo stesso pubblico sa essere compiuti ogni
tanto dai militari americani, qua e la per il mondo ( America Latina,
Haiti, Somalia, Vietnam, dappertutto ). Ecco la soluzione che
salva capra e cavoli : molti giovani americani si arruolano non giusto per
la paga, ma perché purtroppo sono di natura violenta o addirittura
nazista, e sono proprio loro i responsabili delle efferatezze che ogni
tanto vengono alla ribalta. Ed ecco il consolidato stereotipo
hollywoodiano del soldato, del sottufficiale o dell’ufficiale americano
violento, fanatico delle armi e quasi sempre con più o meno aperte
simpatie naziste, che è tollerato di fatto dai buoni e democratici
superiori fra le disapprovazioni a parole o ammiccate perché i nemici là
fuori ( i comunisti, i terroristi, i trafficanti di droga, eccetera ) sono
spietati ed elementi del genere fanno comodo ( magari salvano vite di
soldati americani buoni ). Questi individui comunque, può
aggiungere l’USIA in certe circostanze o momenti politici, anche se
tollerati nelle Forze Armate americane rimangono dei malati, perché il
nazismo è una ideologia degenere : ecco che gli si possono attribuire
delle perversioni, una delle migliori essendo quella dell’omosessualità
perché nella memoria collettiva mondiale ci sono ancora le
torbide tendenze di qualche famoso ufficiale delle SS ( non bisogna
dimenticare che molti Autori americani hanno pubblicato biografie su
Hitler dipingendolo - fra le altre cose - come un omosessuale represso ;
non era vero ma la diffamazione è rimasta ).
Frank Fitts è il prodotto di tali ragionamenti della United
States Information Agency. E’ un vecchio ufficiale dei Marines
il cui ideale era sempre stato quello di essere un John Wayne o un Clint
Eastwood del Corpo, ma era segretamente un nazista e - naturalmente - un
ciucciacazzi. Le solite balle ideologiche dell’USIA, ma è magistrale,
davvero da segnalare, il modo in cui la regia ha abbinato le due cose,
diffamandole in parallelo. Frank è irresistibilmente attratto da
entrambe, ma di entrambe si vergogna con pari intensità ed è deciso a
tenerle nascoste in modo ugualmente strenuo. Ha combattuto con la sua
omosessualità per tutta la vita e così ha fatto con la sua attrazione
per il nazismo : non ne parla mai e non ne tiene in casa nessuna traccia
materiale ; solo, in una teca di souvenir personali che è tabù per
chiunque, un piatto di ceramica anonimo e bianco ( un normale piatto per
secondi in effetti ) che sul centro del retro porta - sconvolgente
rivelazione, estremo abominio - una piccola croce uncinata nera : quando
scoprirà che Ricky lo ha toccato, che lo ha visto dietro, lo
assalirà a pugni ( a pugni, suo figlio ).
3) Barbara è la moglie di Frank. E’ una donna distrutta, priva
oramai di qualunque volontà, all’ultimo stadio della depressione e
presumibilmente a un passo dal ricovero. Ad averla ridotta così sono
state le psicosi del marito suggerisce il film. Ma mettiamoci nei panni
della vera moglie di un vero colonnello dei Marines. Un colonnello
operativo dei Marines, come è lasciato supporre il duro Frank,
nella sua carriera ha certo partecipato a missioni cruente all’estero,
diciamo mediamente a 5. Cosa ha fatto tale colonnello nelle sue "
missioni " ? Ha ucciso dei civili ? Ha torturato prigionieri ? Ha
seminato mine camuffate da bamboline ? Ha fatto il tenente Calley, che ha
falciato 62 vecchi, donne e bambini a My Lai, o ha fatto il capitano
Ernest Medina, che ha ucciso per divertimento un ragazzino di 12 anni ?
Qualcuna di queste cose sicuramente l’ha fatta e la moglie lo sa. Magari
non credeva che quello fosse il mestiere quando ha sposato il suo giovane
ma ora lo conosce : questa donna o ha due dita di pelo sullo stomaco o la
sua psiche comincia a rimuovere la realtà sino ad annullare sé stessa.
Se la moglie di un colonnello americano in pensione è nel baratro questo
è, direi 9 volte su 10, il motivo. Ma la regia propone le ossessioni
omosessuali del marito.
4) Nei personaggi di Carolyn e di Angela non sono inserite delle
artificiosità allo scopo di fare falsi suggerimenti sulla società
americana. Quando aveva sposato Lester Carolyn era una ragazza birichina e
poi si è alienata dal marito e dalla figlia - dalla vita - cadendo
nella trappola della classe media, e cioè dei suoi valori ( il successo )
e del suo conformismo ( tutte le sere cena familiare al lume di
candela e pallosissima musica da camera ; naturalmente è lei che coltiva
le rose American Beauty in giardino ), ma rimane profondamente
insicura ( al primo infortunio della vita corre da Buddy ). Si, la grande
maggioranza delle donne di mezza età del ceto medio americano è così.
Angela è una adolescente bella e provocante, prima cheer leader
dell’high school ( posizione ambitissima e invidiatissima
dalle liceali americane : è una consacrazione di bellezza e una promessa
di successo nella vita - e cioè subito marito bello e ricco ) e oggetto
dell’ammirazione maschile dall’età di 12 anni ( lo dice lei nel film
- perché il regista vuole evocare la figura di Lolita ). A lei piace
questa ammirazione, soprattutto se è torbida, anche bavosa, ma non è
sicura di avere una personalità all’altezza del ruolo di primadonna che
si sente ripetere da sempre, tanto è vero che sino allora aveva evitato
lo show down con un uomo. Anche lei un personaggio reale della
società americana, frequente almeno quanto lo sono le cheer leaders
liceali.
L’unica satira eseguita dal film sulla società americana
consiste in questi due personaggi, perché veri. Ma lascio stabilire a voi
quale sconvolgente e ultra graffiante satira, rivelatrice di chissà che,
sia mai questa.
5) Ancora male intenzioni invece nei personaggi di Ricky e Jane. Ecco
come si formano i criminali negli USA lascia supporre il film :
Ricky vista la famiglia non ha necessità economiche ma diventa criminale
( comincia come spacciatore di spinelli poi farà carriera ) perché
rovinato dalle psicosi del padre ; Jane allevata dal padre che ha è priva
di guida morale e accetta tranquillamente un futuro da complice di Ricky,
forse da criminale attiva anch’essa. Invece, la criminalità
negli USA non viene dalle mele marce della classe media ma da quelle buone
dei diseredati.
Riassumendo con il film si è fatto questo : a parte il soggetto
della classe media, si è scelto di costruire dei personaggi che nella
realtà americana esistono certamente ( ci sono dei Lester, dei Frank,
eccetera ), che sono quindi verosimili, ma che sono anche
estremamente rari e assolutamente non significativi, allo scopo preciso di
poter veicolare certe falsità concettuali, falsità che sono
oramai da considerare dei classici della propaganda USIA via Hollywood e
che appartengono alla famosa serie di " Tutte le colpe americane
a... ", della quale abbiamo appunto rivisto le puntate : 1) tutte
le colpe delle Forze Armate a elementi come Frank ; 2) tutte le colpe dei
licenziamenti a elementi come Lester ; 3) tutte le colpe della criminalità
a elementi come Ricky. La propaganda quindi è nei personaggi stessi,
nella trama.
Per quanto riguarda gli inserti propagandistici ne ho
rilevato uno solo : vendendo marijuana a Lester Ricky dice che è un tipo
speciale ottenuto geneticamente dal governo e che ha il pregio di non
indurre la paranoia. La precisazione non è necessaria alla trama ; è
gratuita ed ha un significato politico. E’ una denigrazione dei
contestatori americani, degli hippies, più numerosi in passato ma
ancora presenti, che trovano sempre intenzioni nascoste e cattive dietro
le azioni del loro governo ; sono notori consumatori di marijuana ed ecco
il motivo della loro dietrologia : è in realtà paranoia. Perché
il governo USA ha compiuto sforzi per modificare geneticamente la
marijuana, può chiedersi lo spettatore ? Appunto per togliergli tale
difetto ; a fin di bene ( la marijuana induce davvero col tempo la
paranoia ? Ma no ). E’ probabile che ci siano altri inserti, ma non sono
riuscito a rilevarli probabilmente perché nascosti in dettagli della cui
significatività politica non sono al corrente.
Il ruolo di Steven Spielberg e degli altri ebrei.
Qualcuno potrebbe osservare che il film è stato prodotto dalla
Dreamworks, il cui proprietario è tale signor Steven Spielberg, e quanto
sopra potrebbe essere farina del suo sacco : Spielberg infatti ha curato
la regia di alcuni dei film americani più carichi di propaganda degli
ultimi anni ( p.es. Saving Private Ryan ; Amistad ; Schindler’s
List ). Si, Spielberg è uno dei massimi persuasori occulti di
Hollywood, uno di quelli che meglio riescono a conciliare le esigenze di
cassetta con quelle propagandistiche, ma non lo fa né di sua iniziativa né
da solo. Perché dovrebbe ? Sarebbe una fatica in più. Lo fa
perché è l’USIA a chiederglielo, come lo chiede a chiunque voglia
lavorare a Hollywood, ad ognuno a seconda delle sue capacità e raggio di
azione ; e lo fa assieme allo staff di esperti che gli affianca
l’Agenzia. Magari Spielberg è anche personalmente d’accordo con tutto
ciò, anzi lo è sicuramente visti i risultati brillanti, ma rimane il fatto
che il contenuto ideologico di un film hollywoodiano ricade per
legge nelle competenze dell’USIA, e ciò per l’atto costitutivo
della medesima del 1° Agosto 1953, ratificato dal Congresso ( vedi il mio
Divi di Stato, Ed. Il Settimo Sigillo, Roma, 1999 ).
Stessa risposta a chi sostiene una decisiva e perniciosa influenza
degli ebrei nella cinematografia americana ed a questa attribuisce esiti
come quelli appena visti. A Hollywood ci sono certamente moltissimi ebrei
- anche Spielberg lo è - ma non comandano loro ; a Hollywood comanda
l’USIA. Ciò che fanno gli ebrei di Hollywood è assecondare con
particolare zelo la medesima allo scopo - al solito - di lucrare vantaggi.
In ciò sono anche favoriti dall’obiettivo parallelismo esistente fra la
mentalità ebraica e quella americana, che è giudaizzante ( gli
americani sono in rilevante parte circoncisi, per esempio ). Nel
realizzare questo film Spielberg, giusto in quanto ebreo, si è
probabilmente presa questa sola libertà : potendo scegliere, ha fatto
entrare un altro ebreo a Hollywood, il regista Sam Mendes. Si sa che gli
ebrei si aiutano tra di loro, anzi solo tra di loro. Fra l’altro è il
motivo dei tanti ebrei a Hollywood : sono stati fra i primi e uno ha
tirato l’altro. Mendes è un regista teatrale inglese di 34 anni, ebreo
probabilmente di ascendenza portoghese, che si è messo in luce con un
remake di Cabaret e con The Blue Moon, buon successo
londinese poi replicato a Broadway con Nicole Kidman : Spielberg lo ha
notato, sa che l’USIA sta cercando nuovi Registi di Stato ( vedi il
ripescaggio di Terence Malik con La sottile linea rossa ) e lo ha
preso a bordo. En passant Spielberg ha dato una mano anche
all’attore ebreo Scott Pakula ( serie televisiva Quantum Leap ),
probabilmente bisognoso, affidandogli una comparsata all’inizio del film
( ma forse in versioni distribuite in altri mercati Pakula appare ancora
).
Il film come film.
Per quanto riguarda una valutazione puramente filmica del lavoro,
non è il mio mestiere. Posso dire le mie impressioni se interessano, che
sono queste. Un film di maniera come pochi, un vero prodotto industriale
ottenuto miscelando ingredienti standard in base a una ricetta ; fra poco
anche McDonald’s si metterà a fare film del genere. A parte le necessità
della propaganda, una galleria di personaggi che sono puri stereotipi
senza un grammo di originalità, di vera anima ( Carolyn la moglie
perbenista, Lester il criptoribelle, Jane l’adolescente ingrugnita,
Angela la lolita, Ricky il giovane bruciato, eccetera ), descritti
attraverso sintomi ricavabili dal più elementare manuale di psicologia (
cene al lume di candela per Carolyn, spinelli per Lester, complesso del
seno piccolo per Jane, eccetera ). Si è cercato un elemento subliminale
capace di fare da sottofondo al film, per cucirlo nel subconscio dello
spettatore, e lo si è trovato nelle rose American Beauty, che sono
di un rosso sangue molto carico : le coltiva Carolyn ; nelle fantasie di
Lester Angela nuda è sempre circondata di loro petali ; lo sparo omicida
di Frank fa comparire sullo schermo un turbine dei medesimi al
rallentatore ; il capo di Lester lascia sul tavolo un lago di sangue dello
stesso colore, come un petalo enorme. Idea carina ma non è molto, e chissà
se è di Mendes e non della volpe Spielberg o magari di uno psicanalista
dell’USIA. In complesso un film non brutto, non insopportabile - è
appunto un prodotto industriale - ma neanche che valga la pena di vedere a
pagamento.
Nonostante ciò la sala in cui l’ho visto ai primi di febbraio
era piena e mi sono chiesto il perché. Risposta immediata : l’orrenda
macchina pubblicitaria di Hollywood, che in Italia è assecondata dal
governo fantoccio locale. Ogni nuovo film americano qui è altrettanta
Buona Novella : abbiamo tanti articoli di quotidiani, di settimanali, di
mensili ; tanti ricchi servizi su locandine e riviste specializzate ; e
soprattutto tante notizie nei telegiornali di Stato e di Berlusconi,
annunciate da mezzibusti giubilanti. In queste immancabilmente si
informa dei guadagni iperbolici già realizzati dal suddetto film nella
sua uscita americana e magari si mostrano immagini di file ai botteghini (
informazioni e immagini la cui attendibilità è dubbia dato che
provengono da Hollywood ). American Beauty è stato infilato
anche nelle parole crociate : il paginone centrale con la " Caccia ai
quattro " della Domenica Quiz del 6 febbraio 2000 era dedicato
proprio al medesimo. Il gioco è fatto : come al cane di Pavlov agli
italiani è venuta la bava dal desiderio di vedere il nuovo film.
Pettegolezzi di viaggiatore.
Termino con dei commenti da turista su alcuni aspetti della vita
americana che capita di vedere nel film. Le villette americane sono
effettivamente così, graziosissime a vedersi, da fiaba addirittura
; ma sono fatte di legno e cartone pressato, ottenute intelaiando pali
squadrati da 10X10cm in verticale e in orizzontale e inchiodandoci sopra
col martello pannelli prefabbricati ; i solai sono assiti coperti di
moquette e i tetti sono di bitume pitturato a tegole ; eventuali ornamenti
sono in gesso, stucco, PVC. Si erigono in non più di due settimane, non
durano più di 30 anni e un uragano che in Italia farebbe pochi danni le
distrugge completamente ; inoltre si riempiono di insetti (
donde il topos americano dei roaches, scarafaggi ) e sono
soggette a incendi. I bagni non hanno bidet, per quanto pretenzioso sia il
villone ; l’accessorio è praticamente sconosciuto negli USA ( da cui il
pratico consiglio : intimità solo con americane appena uscite dalla
doccia, anche se sono rinomatissime star ). Perché quando Jane si spoglia
non chiude le imposte ? Perché queste case hanno imposte finte,
inchiodate ai lati dell’apertura ( sono lamiere di alluminio
preverniciate e stampate alla pressa ). Le cenette di Carolyn al lume di
candela sembrano il massimo del lusso, ma pensate a quello che c’è nei
piatti, pannocchie abbrustolite, purè, uova fritte, wurstel bolliti,
eccetera. Carolyn e Buddy sono dei real estate dealers
( mediatori immobiliari ) ; sembra un lavoro decente, ma sono tutti dei
truffatori, come i used car dealers ( commercianti di auto usate ).
In America il fuori è bello e il dentro è brutto.
John Kleeves
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25.01 |
Qualcuno
deve fare un pezzo sul Giorno della Memoria?
Come al solito cerchiamo di darvi una mano (da
ilbarbieredellasera.com)
Il 27 gennaio 1945 l'Armata Rossa entrava nel Lager di Auschwitz-Birkenau
Monowitz, il maggiore campo dell'"arcipelago dello sterminio"
costruito dal Terzo Reich per la "soluzione finale della questione
ebraica" decisa dagli uomini di Hitler alla Conferenza del Wannsee.
Da allora quella data è stata consacrata al ricordo della Shoah, il
massacro di sei milioni di ebrei perpretrato dai nazisti e dai fascisti in
Europa.
Dall'anno scorso anche l'Italia ha deciso di ricordare ogni anno le
vittime della Shoah, del nazifascismo e di tutti i totalitarismi.
Questa webguide, per quanto limitata, vuole essere un modestissimo
contributo al ricordo delle vittime della Shoah e di tutti i genocidi per
non dimenticare la Storia e i suoi orrori, nella consapevolezza che chi
dimentica il suo passato rischia di doverlo rivivere, secondo le parole di
Primo Levi: "Meditate che questo è stato".
http://www.ucei.it/giornodellamemoria/index_a.htm
Sul sito dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane la pagina dedicata
al Giorno della Memoria con il calendario di tutte le manifestazioni
previste
http://www.yad-vashem.org.il/
Il museo Yad Vashem di Gerusalemme dedicato al ricordo perenne della Shoah
(testi in Inglese): la più grande, organica e terribile raccolta delle
testimonianze dello sterminio.
http://www.yad-vashem.org.il/righteous/index_righteous.html
Dal sito di Yad Vashem la sezione sui Giusti tra le Nazioni, uomini e
donne che non esitarono a mettere a rischio la propria vita (e talvolta la
persero) per difendere e salvare gli ebrei dai persecutori nazisti durante
la Shoah (tra essi il tedesco Oskar Schindler e l'italiano Giorgio
Perlasca)
http://212.143.122.31/exhibitions/temporary_exhibitions/visas/home_visas.html
Dal sito di Yad Vashem la sezione "Visti per la vita", storie di
diplomatici (o di chi si spacciò per tale) che salvarono migliaia di
ebrei dallo sterminio: tra queste la vicenda dell'italiano Giorgio
Perlasca
http://www.ushmm.org/
Il Museo memoriale della Shoah degli Stati Uniti a Washington D.C.
http://www.nizkor.org/
Il sito del Progetto Nizkor sulla memoria delle sei milioni di vittime
dello sterminio nazifascista (in Inglese)
http://www.educational.rai.it/testimonianzedailager/
Dal sito di Rai Educational il meglio del programma "Testimonianze
dai Lager": video, trascrizione integrale delle interviste dei
sopravvissuti, documentazione e una gran lista di siti
http://www.olokaustos.org/
Olokaustos.org è il primo sito italiano che ha come argomento la storia
dell'Olocausto dal 1933 al 1945.
http://www.giorgioperlasca.it/index2.htm
Il sito Internet dedicato alla memoria di Giorgio Perlasca
http://www.deportati.it/
Il sito dell'Aned- Associazione nazionale ex deportati politici nei campi
nazisti
http://www.deportati.it/reticolo.htm
La webguide sul sito dell'Aned: link ai principali siti sulla Shoah, la
deportazione e "l'universo concentrazionario"
http://www.auschwitz-muzeum.oswiecim.pl/html/eng/start/index.html
Il sito della Memoria del Lager di Auschwitz (testi in Inglese)
http://www.cc-memorial-site-dachau.org/gedenkstaette/english/index.html
Il sito della Memoria del Lager di Dachau (testi in Inglese)
http://www.mauthausen-memorial.gv.at/engl/
Il sito della Memoria del Lager di Mauthausen (testi in Inglese)
http://linz.orf.at/orf/gusen/index.htm
Il sito della Memoria del Lager di Gusen
http://www.buchenwald.de
Il sito della Memoria del Lager di Buchenwald (testi in Inglese)
http://www.hamburg.de/Neuengamme/welcome.en.html
Il sito della Memoria del Lager di Neuengamme (testi in Inglese)
http://www.windcloak.it/cultura/risiera/laris.htm
Il sito della Risera di San Sabba a Trieste, unico campo di sterminio
realizzato dai nazistifascisti in Italia
http://web.tiscali.it/gliebreiacampagna/
Sito Internet sul campo di concentramento di Campagna (Salerno)
http://www.annefrank.nl/ned/default2.html
Il sito Internet della Fondazione Casa di Anne Frank (in Inglese)
http://www.vhf.org/
Il sito Internet della Fondazione per una storia visuale dei sopravvissuti
della Shoah, creata da Steven Spielberg nel 1994 dopo la realizzazione del
film "Schindler's List" (testi in Inglese)
http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/travels/documents/hf_jp-ii_spe_20000323_yad-vashem-mausoleum_it.html
Dal sito Internet del Vaticano il discorso pronunciato da Papa Giovanni
Paolo II durante la visita al Mausoleo di Yad Vashem a Gerusalemme il 23
marzo 2000
www.ilbarbieredellasera.com
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25.01 |
Internet
e terrorismo: la tecnologia, nuovo rischio per la democrazia?
di Francesca Morandi- "La Padania" del 20
gennaio2002
Telefonini, Internet e televisione nelle mani dei terroristi sono
diventati
veri e propri strumenti di guerra. Usati per condurre attentati,
diffondere
la propria propaganda estremista, coordinare insieme ad altri gruppi le
proprie attività criminali, distribuire manuali online della jihad, ...
i
media della new economy sono stati strappati dalle mani dell’Occidente
e
trasformati in armi da puntare contro gli infedeli. Si pensi a Bin Laden
e i
suoi video-proclama trasmessi da Al-Jazeera, i telefoni portatili
ritrovati
nelle tane dei membri di Al Qaida, le videocassette provenienti dai
campi di
addestramento talebani vendute nel Centro di Viale Jenner, nascoste
negli
appartamenti a Gallarate dei vari affiliati di Osama. E non è finita, i
seguaci dello sceicco del terrore hanno pensato bene di curiosare tra i
siti
web di Cia e Fbi per trarne qualche astuzia, e scaricare da altri spazi
virtuali qualche succulenta ricetta per costruire bombe artigianali e
armi
improvvisate. Se da un lato le nuove tecnologie sono trasformate in
utensili
del terrorismo, dall’altro lato la loro diffusione nei Paesi islamici
può
avere effetti sulle società e sui sistemi politici del mondo arabo.
Mondo
caratterizzato dall’assenza di giornali e periodici non controllati
dal
governo, dove la libertà di stampa è negata e numerosi giornalisti e
scrittori sono incarcerati, in alcuni casi uccisi, per accuse false che
hanno occultato il desiderio di informazione e di espressione. La rete
telematica, per sua natura senza centro e dunque difficilmente
controllabile, virtualmente aperta a tutti, rappresenta un’opportunità
di
democrazia e progresso per tutti i Paesi in via di sviluppo non solo dal
punto di vista dell’informazione ma anche dell’economia (e-commerce,
servizi
online). Questo molti l’hanno capito. La vendita dei personal computer
nei
Paesi del Medio Oriente e nel Nord Africa è in rapido aumento, così
come la
diffusione degli Internet café. Questi ultimi hanno avuto, ad esempio,
una
vera e propria esplosione in Iran e sono frequentati soprattutto da
giovani
che usano la rete per uscire dall’isolamento e avere contatti con il
mondo
esterno. Risulta chiaro che il fenomeno potrebbe aprire una breccia
nell’
oscurantismo a cui molte popolazioni islamiche sono costrette. Ma
d’altro
canto le autorità, ossessionate dal timore che il libero accesso all’
informazione da parte dei cittadini possa indebolire il loro potere e
controllo sul Paese, allungano i propri tentacoli anche alla realtà
virtuale
alla quale è imposta la censura, la manipolazione, la sorveglianza
dittatoriale. Ci si chiede allora se venga prima la tecnologia e poi la
democrazia o viceversa.
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25.01 |
La
società multietnica minaccia il focolare
I nuclei familiari saranno vittima dei conflitti
razziali e religiosi causati dal “melting pot”
"La Padania" del 18 gennaio 2002
Improvvisamente, dopo anni di oblio, ci si accorge della
famiglia. Per
troppo tempo l’attenzione è stata rivolta alla famiglia
“alternativa” e
persino a quella “omosessuale” con annessa facoltà di adottare
bambini. In
alcune scuole di New York s’è visto, come libro di testo, un
istruttivo
saggio intitolato “Il compagno di letto di papà”. Grazie a certa
letteratura, come tutti sappiamo, pornografia e pedofilia sono entrate
nella
vita quotidiana. E, grazie alla tv, l’esaltazione del crimine e della
violenza ha contaminato le menti e la fantasia dei più piccoli. E
adesso
vorremmo recuperare il concetto di famiglia. Bene. Ma allora cerchiamo
di
tenere lo stato lontano dalla famiglia: il declino della famiglia ebbe
inizio, non dimentichiamolo, quando il marxismo predicò che lo stato può
meglio dei genitori aver cura della prole. Nell’Urss, in Cina, in
Vietnam, a
Cuba e perfino in nazioni non comuniste come la Grecia, si giunse in
pratica
a “sequestrare” i bambini perché dimenticassero i genitori e si
tuffassero
nell’indottrinamento di partito. I primi segnali di questo attacco
alla
famiglia s’erano avuti quando, immediatamente dopo la rivoluzione
bolscevica, un gruppo di studiosi marxisti (diretti dal miliardario
Felix
Weil e comprendenti Gyorgy Lukacs, Herbert Marcuse, Karl Grunberg,
Theodor
Adorno, Max Horkheimer ed Eric Fromm) fondò la Frankfurt School (poi
emigrata negli Stati Uniti col nome di Institute for Social Research)
che
aveva l’ambizione di sovvertire le tradizioni occidentali trasferendo
i
princìpi marxisti dal campo dell’economia a quello della morale.
Quando
tramontò l’impero comunista l’opera di dissoluzione della famiglia
venne
proseguita dalla moda libertario-radicale. Nel settembre 1994, al Cairo,
una
conferenza mondiale sui problemi demografici accennò ai figli solo per
raccomandare la diffusione delle pratiche anticoncezionali, per
raccomandare
che l’istruzione fosse pubblica e non privata (discorso, questo,
ricalcato
in questi giorni dalla sinistra italiana) e, venendo al sodo, per
auspicare
un «maggior flusso di ricchezza dai paesi ricchi a quelli poveri». Un
commento del Wall Street Journal era lapidario: «Unico, vero scopo
della
conferenza del Cairo era quello di succhiare altri soldi al mondo
occidentale, a vantaggio del Terzo Mondo». Con le nuove generazioni
ormai
indifferenti al concetto stesso di famiglia, il compito di chi vuole
recuperare il terreno perduto si presenta arduo. Anche perché la
situazione
rischia di peggiorare a causa dell’afflusso in Europa di immigranti
islamici
che, con secoli di poligamia alle spalle, non sanno cosa siano la fedeltà
coniugale e la consapevole programmazione della vita familiare. E’
proprio
nella comunità di colore che, sia negli Stati Uniti che in Europa, il
fenomeno delle “unioni di fatto” (destinate a sciogliersi con
conseguente
abbandono dei figli a un incerto destino), unito a quello delle
“ragazze
madri”, è in crescita vertiginosa. Come è stato osservato nel 1999
dallo
studioso francese Claude Imbert, esiste in Europa un diretto
collegamento
fra l’immigrazione e il decadere delle nostre regole morali e delle
nostre
tradizioni, a cominciare da quella familiare. Nessuno osa dirlo, ma il
declino della famiglia è legato alla questione etnica. Ma ciò
nonostante le
strutture dell’Unione Europea, come in una frenesia di
autodistruzione,
fingono di ignorare quanto la cultura islamica e quelle di molte etnie
africane siano diverse dalla nostra. Così il multiculturalismo,
presentato
dalla lobby progressista di Bruxelles come l’inevitabile, e per alcuni
auspicato, futuro della nostra civiltà, costituisce in realtà il più
drammatico problema che l’Europa dovrà affrontare. Si pensi alle
famiglie di
fatto e a quelle poligame, al nuovo concetto di nucleo familiare, alle
ragazze madri, al crescente fenomeno dell’abbandono dei figli
indesiderati,
alla vergogna delle mutilazioni femminili: quali riflessi tutto ciò
potrà
avere sulla civile coesistenza, sull’istruzione, sull’assistenza
sanitaria e
previdenziale, sulla legge? La società europea dei prossimi decenni sarà
sconvolta da spaventosi conflitti razziali e religiosi dei quali la
famiglia, la morale e le regole di vita saranno le prime vittime. E ciò
grazie al mito di un falso solidarismo oggi sbandierato da una
generazione
che sa di essere al sicuro dalle conseguenze che fra qualche decennio
colpiranno altre generazioni.
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25.01 |
AUTANT-LARA,
REGISTA COL DIAVOLO IN CORPO CHE ODIO' HOLLYWOOD
Nel febbraio dello scorso anno è morto Claude Autant-Lara, uno dei
più significativi rappresentanti del grande cinema francese. La sua
vita lunga un secolo ne ha fatto l'interprete di laceranti
contraddizioni. Comunista e fascista, libertario e antisemita,
innovatore e tradizionalista: costante solo in un europeismo
irriducibilmente avverso agli Stati Uniti d'America. Lì si era
rifugiato nel 1932 nella speranza di rifarsi delle incomprensioni patite
in patria. I due anni trascorsi a Hollywood, dove si occupò della
edizione francese di film americani, accrebbero - invece che lenirla -
la sua ansietà. Confermava così, a sua insaputa, quel che Orazio aveva
previsto in una sua epistola: "… cambiano cielo non animo coloro
che trascorrono i mari…". Ciò che cerchi, ammoniva, è dentro di
te… Dentro di sé Autant-Lara aveva la rabbia che lo accompagnò per
tutta la vita.
Maurizio Cabona, attento ed esperto cultore della poetica
cinematografica e della sua storia, ha raccolto in un prezioso libretto
(Il caso Autant-Lara) tre testimonianze di sceneggiatori e critici -
Altieri, Marmin e Tassone - , facendole precedere da una sua esauriente
introduzione. Cabona colloca la nascita di un nuovo cinema francese
durante l'occupazione tedesca, così come può dirsi di un nuovo cinema
italiano. Questo aveva avuto alcune anticipazioni del neorealismo ancora
prima dello scoppio della guerra; lo stesso poteva dire l'altro del
realismo. Si può perciò parlare di uno sviluppo parallelo delle due
cinematografie, ciascuna per la sua strada secondo la distinzione che ha
caratterizzato le due culture nazionali.
L'occasione che fece di Autant-Lara l'iniziatore di un nuovo grande
cinema francese gli fu offerta dalla emigrazione di suoi illustri
colleghi rifugiatisi ad Hollywood per sottrarsi all'invasione nazista.
Egli restò in patria per il pessimo ricordo che aveva della sua
esperienza americana, ma forse soprattutto per ubbidire al suo
irriducibile spirito di contraddizione. Fu così che negli anni seguenti
Autant-Lara venne ingiustamente considerato come collaborazionista.
Vittorio De Sica, che aveva diretto un film (La porta del cielo) a Roma
nei mesi dell'occupazione tedesca, si salvò dalla stessa accusa per
essersi messo sotto l'ala protettiva del Vaticano, "scudo" di
cui il francese non poteva disporre.
Il suo "collaborazionismo" fu rafforzato da una sua
professione di antisemitismo, sconcertante ma da non potersi definire
nazista perché ispirato dal suo rancore contro i produttori, tutti
ebrei, che lo avevano contrastato. Tale cattiva reputazione gli ritardò
il meritevole riconoscimento di grande autore cinematografico.
Cabona registra l'insuccesso de Il diavolo in corpo dovuto a un
pregiudizio politico e psicologico. A Parigi il film suscitò scandalo
nonostante avesse ottenuto il premio della critica internazionale. La
provincia si ribellò al "cinismo rivoltante del film, alla sua
esaltazione dell'adulterio che metteva in ridicolo la Famiglia, la Croce
Rossa e l'Esercito". Lo difesero Jean Cocteau e il grande critico
Georges Sadoul che lo giudicò "uno dei film più importanti del
dopo guerra".
Incontrai personalmente Autant-Lara durante la realizzazione de I sette
peccati capitali, del quale ero coproduttore, a cui prendevano parte
illustri registi italiani e francesi, da Rossellini, ad Allegret, da De
Filippo a Dreville e la cui liaison era affidata a Gérad Philipe.
Autant-Lara diresse l'episodio La superbia su sceneggiatura di Aurenche
e Bost; in quella occasione ebbi modo di apprezzare da vicino la sua
grande capacità di sintesi e la sua crudeltà senza speranza. Egli si
trovava a metà strada tra i suoi capolavori: Il diavolo in corpo (1946)
e La traversata di Parigi (1956).
Lo scandalo più clamoroso, che lo travolse fino a decretare il suo
triste isolamento definitivo, gli fu procurato dalla sua adesione al
Fronte Nazionale, il movimento di estrema destra guidato da Le Pen.
Eletto a rappresentarlo al Parlamento europeo pronunciò il discorso
d'apertura (Strasburgo 1989) il cui testo Cabona pubblica in appendice.
Alle sue parole provocatorie, comunisti, socialisti, liberali e moderati
lasciarono l'aula in segno di sdegnata protesta. Lo stupefacente
comportamento dell'ex-anarchico, dell'ex-comunista, dell'ex-apostolo
dell'estrema sinistra era dettato dal suo viscerale antiamericanismo, a
favore di un europeismo che tuttavia considerava ancora inesistente.
Detto così, il ritratto di Autant-Lara, ricostruito con esemplare
rigore da Maurizio Cabona, sembrerebbe quello di un pazzo anche se degno
dell'elogio di Erasmo da Rotterdam. In realtà, come dicevo all'inizio,
il famoso regista condensò, sia pure con una componente umorale, tutte
le clamorose ambiguità contrastanti del secolo appena trascorso. Per
questo l'opera di Cabona contribuisce a fornire una chiave di lettura
del nostro tempo e quindi di noi stessi.
Turi Vasile
(Il Tempo - Roma)
Maurizio Cabona - "Il Caso Autant-Lara"
Terziaria Quaderni 7
I edizione maggio 2001
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24.01 |
GRANELLO
DI SABBIA (n°29)
Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
Martedì, 22-01-2002
Per leggere il Granello più comodamente e per stamparlo su carta
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Format PDF http://attac.org/attacinfoit/attacinfo29.pdf
Indice degli argomenti
1 - Aggressione al centro accoglienza per minori extracomunitari di
Nettuno
Di ritorno da Bologna, dopo l'assemblea congressuale di ATTAC, il
mio
compagno mi ha informato al cellulare dell'aggressione compiuta da una
banda
di ragazzi al centro di accoglienza per minori extracomunitari della mia
cittadina, Nettuno, 60 Km. a sud di Roma, poco più di 40.000 abitanti.
(.)
di Patrizia Rosa Rosa
2 - Il Girotondo internazionale dell'informazione indipendente
Contro il giornalismo di mercato, l'informazione condivisa. Riunire
quelli
che resistono al pensiero unico, per organizzare la migiore copertura
del II
FSM. È probabile che la necessità di costruire alternative al
giornalismo di
mercato non sia mai stata tanto drammatica come ora, alla vigilia del
secondo Forum sociale mondiale. Vista da molte generazioni come uno
strumento per approfondire la democrazia, informare la società e
contribuire
all'emancipazione dei cittadini, la stampa si è trasformata,
dall'inizio
della nuova guerra imperiale, in un'arma di alienazione impugnata dal
potere. (.) www.ciranda.net
3 - 1,2,3 (marzo) in marcia per la pace da Genova a La Spezia
Siamo di fronte ad un nuovo e più aggressivo modello di società, che
vede
nella guerra una modalità di regolazione dei rapporti internazionali ed
un
motore di sviluppo occupazionale ed economico. In questo contesto, per
la
terza volta in dieci anni, l'Italia è coinvolta direttamente in una
guerra
(.) riceviamo da Edoardo Baraldi di ATTAC Tigullio
4 - Debito eterno, il gioco della realtà
"Deuda eterna" è un nuovo gioco argentino in lingua spagnola,
che si
presenta con il provocatorio sottotitolo: "Chi è capace di
sconfiggere il
Fondo monetario internazionale?". Più che un gioco, Deuda eterna
(debito
eterno) è satira pungente che ha senza dubbio lo scopo di consolare lo
sfiduciato settore privato argentino, che negli ultimi anni è stato
messo a
dura prova dal FMI. (.) di Mary Anastasia O'Grady
5 - Mors lucina. In ricordo di Luciano Parinetto
La sera del 22 dicembre scorso è morto Luciano Parinetto. Aveva 67 anni
e
alle spalle una vita dedicata allo studio e alla ricerca filosofica. Era
un
eretico a cui non ha fatto mai paura rileggere Marx in chiave
rivoluzionaria
e innovativa né quando era imperante l¹ortodossia marxista né quando,
negli
anni del riflusso, nominare Marx era diventato tabù. (.) di Nicoletta
Poidimani
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24.01 |
Per
un'informazione indipendente
Il
Girotondo internazionale dell'informazione indipendente
Contro
il giornalismo di mercato, l'informazione condivisa. Riunire quelli
che resistono al pensiero unico, per organizzare la migiore copertura
del II
FSM
È probabile che la necessità di costruire alternative al giornalismo
di
mercato non sia mai stata tanto drammatica come ora, alla vigilia del
secondo Forum sociale mondiale. Vista da molte generazioni come uno
strumento per approfondire la democrazia, informare la società e
contribuire
all'emancipazione dei cittadini, la stampa si è trasformata,
dall'inizio
della nuova guerra imperiale, in un'arma di alienazione impugnata dal
potere. In quasi tutto il mondo, i notiziari televisivi e i giornali
accettano la censura militare, tacciono sulle violazioni dei diritti
umani
[specialmente contro gli immigrati] negli Usa, minimizzano fatti come la
creazione di commissioni militari statunitensi autorizzate a decretare,
in
qualunque parte del pianeta, la morte degli avversari, presentano come
qualcosa di banale i preparativi della Casa bianca per estendere la
guerra
ad altri paesi; si inchinano davanti ai piani ben visibili per
rafforzare
[nella Wto, nell'Alca, nell'Unione europea] un modello che concentra le
ricchezze e moltiplica le esclusioni; assimilano senza battere ciglio il
tentativo di criminalizzare i movimenti che resistono.
Migliaia di cittadini di tutto il mondo, che si preparano a viaggiare
verso
Porto Alegre, sperano che il secondo Forum sociale mondiale sia capace
di
articolare la resistenza a questa controffensiva. Sul terreno della
comunicazione, gli ultimi anni sono stati caratterizzati, tra l'altro,
dalla
moltiplicazione dei sistemi di informazione indipendente e dall'uso che
essi
hanno fatto di Internet. In due momenti speciali - il primo Forum
sociale
mondiale e il Forum sociale di Genova, nel luglio di quest'anno - questa
ebollizione ha assunto una nuova forma. È stato in quei momenti che
sono
nate grandi reti di pubblicazioni indipendenti, capaci di diffondere in
tempo reale, in diverse lingue e per tutto il mondo, l'informazione
affidabile che i media commerciali si ostinavano a negare. Tra il 31
gennaio
e il 5 di febbraio del 2002, questa fiamma si accenderà di nuovo.
Nascerà la
Seconda Ciranda internazionale di informazione indipendente.
La II Ciranda è una iniziativa lanciata dai siti
www.forumsocialmundial.org.br
(dove troverete tutta l´informazione
instituzionale sul II Foro Sociale Mondiale) e di www.portoalegre2002.net
(una piataforma per discutere sulla globazzazione e le alternative ad
essa).
La proposta è aperta a pubblicazioni e giornalisti che resistono al
pensiero
unico e sono disposti a costruire una stampa capace di partecipare, sul
terreno decisivo della comunicazione, alla battaglia per la
trasformazione
della società. Non si esaurisce nel Forum: può essere l'inizio di uno
sforzo
permanente per articolare, in tutto il mondo, le iniziative legate al
giornalismo indipendente.
La seconda Ciranda sarà un pool di giornalisti [redattori, fotografi,
operatori radio e tv] accreditati al secondo II FSM, disposti a inviare
materiale per le loro pubblicazioni da Porto Alegre, serviti da un sito
in
cui il loro lavoro sarà immediatamente inserito e disposti a
condividere la
loro produzione con gli altri partecipanti all'iniziativa. La Ciranda
realizzerà, nei giorni del Forum, una delle proposte più diffuse del
dibattito sulle alternative al neoliberismo: il sapere e l'informazione
sono
beni comuni di tutta l'umanità, per questo, non possono essere
trasformati
in merci. Per dimostrare che questa frase è più che un insieme di
belle
parole, ci proponiamo una sfida: offrire una copertura molto più ampia,
profonda e veritiera di qualunque veicolo di comunicazione commerciale
presente al FSM.
Per raggiungere questo obiettivo, la II Ciranda porterà nel giornalismo
il
concetto che ha permesso la fioritura negli ultimi anni, del software
libero: il copyleft. Oltre al gioco di parole, è un'alternativa che sta
dando ottima prova di sé. Per contrastare il potere delle grandi
multinazionali che vogliono controllare l'informazione, non c'è nulla
di
meglio che il sapere condiviso. Un gruppo di programmatori o di
giornalisti
indipendenti, può essere più capace - e molto più creativo - dello
staff di
una megaimpresa di giornalismo o di produzione di programmi per
computer.
Per questo, è necessario che siano autonomi e disposti a lavorare con
un
obiettivo comune.
In termini pratici, la II Ciranda consentirà alle pubblicazioni e ai
centri
di documentazione indipendente o legati ai movimenti sociali, di coprire
completamente il Forum Sociale Mondiale. Per le sue condizioni
materiali,
ciascuno di questi organi potrà essere a Porto Alegre solo mezzi
limitati. E
la stessa grandezza dell'evento determinerebbe il fallimento di
qualsiasi
team giornalistico, se lavorasse isolato. Il programma del secondo FSM
prevede almeno sei seminari contemporanei ogni mattina e non meno di 800
conferenze serali, nei giorni tra l'1 e il 4 febbraio. E ci saranno,
oltre a
tutto questo, manifestazioni costanti e dibattiti in altri punti della
città.
E intanto, saranno centinaia le pubblicazioni indipendenti... Come
indica il
nome stesso, l'idea della II Ciranda, è unire in un'immensa ruota il
lavoro
fatto da tutti durante il Forum sociale mondiale. Ogni pubblicazione avrà
piena autonomia nel lavoro e nella produzione di testi e foto, secondo i
propri obiettivi editoriali. Ma potrà, oltre a questo, riprodurre i
testi di
tutti gli altri, senza dover pagare nulla. In cambio offrirà i lavori
dei
propri giornalisti perché siano riprodotti nelle pubblicazioni che
aderiscono alla Ciranda. In ogni caso, sarà rispettato e menzionato il
nome
dell'autore.
La II Ciranda nasce forte. Si basa sull´esperienza della Ciranda 2001,
che
riuni decene di giornalisti del I Foro Sociale Mondiale. È in
costruzione un
nuovo sito per tenere assieme la mole di materiali, programmi
radiofonici e
foto prodotte dalle pubblicazioni legate alla Ciranda. Sarà una fonte
indispensabile di consultazione per le migliaia di persone interessate
in
tutto il mondo ad avere accesso ai resoconti del II FSM, fatti dalla
stampa
indipendente. Inoltre, servirà come punto di riferimento per i
giornalisti
presenti a Porto Alegre, che fanno parte dell'iniziativa e che sono
interessati a utilizzare gli articoli prodotti dagli altri colleghi. Il
nuovo sito sarà alimentato attraverso il programma Publique! sviluppato
da
Fabbrica Digitale, un'impresa brasiliana nata nel Laboratorio di
informatica
dell'Università cattolica di Rio de Janeiro, è uno strumento
eccellente per
aggiornare in tempo reale le pagine Internet. Per usarlo non è
necessaria
una specifica competenza informatica: basta saper navigare nella rete
mondiale e partecipare a un seminario che non richiede più di due ore.
La II Ciranda è un'iniziativa aperta a tutti quelli che credono nella
forza
della stampa indipendente. Per unirsi ad essa bastano due passi. Innanzi
tutto bisogna registrarsi nella pagina ufficiale del secondo Forum
sociale
mondiale <http://inscricoes.forumsocialmundial.org.br/
content/index.php?page=imprensa> come giornalista interessato a
coprire
l'evento. Poi, basta iscriversi come partecipante alla seconda Ciranda,
utilizzando il modello disponibile tra il sito della Ciranda
(http://www.ciranda.net/publique/media/0italiano/form.htm).
Lì sarà
possibile anche trovare le informazioni sulle riunioni di preparazione
per
il lavoro e sui corsi per l'uso del Publique! che saranno organizzate a
Porto Alegre nei giorni precedenti l'inizio del Forum.
Il secondo Forum sociale non vuole essere un punto di arrivo, ma
l'inizio di
un lungo processo di avvicinamento, tra tutti quelli che resistono al
Nuovo
Ordine, e di ricerca collettiva di alternative. La II Ciranda può
essere
anche il primo passo per un'unione più solida tra le centinaia di
pubblicazioni e di agenzie di informazione che cercano, in tutto il
mondo,
di contrastare la dittatura dei media, rifondando il giornalismo
critico.
GRANELLO DI SABBIA (n°29)
Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
Martedì, 22-01-2002
Attac
Italia www.attac.org
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24.01 |
Le
spie di Tel Aviv
Lo spionaggio di Israele
Da E.I.R (Executive Intelligence Revue)
anno 10, n.51 20 dicembre 2001.
(...)
"Ora, a tre mesi di distanza, Sharon e i militari israeliani
procedono a
passo spedito verso la guerra. In questo contesto si collocano alcune
rivelazioni esplosive sul conto delle unità dello spionaggio israeliano
attive negli USA alla vigilia dei misfatti dell'11 settembre. Poiché le
rivelazioni provengono da una rete televisiva affermata come la Fox
News, e
sono poi state riprese dalla Associated Press e da CHANNEL 11 di Houston
ed
altri, va ritenuto che dietro vi siano forze abbastanza istituzionali
impegnate a bloccare la corsa verso la guerra in Medio Oriente.
In quel fatidico 11 settembre furono arrestate cinque spie
israeliane, poi
estradate. Stavano tutt'e cinque su di un tetto di Hoboken, e guardavano
oltre il fiume Hudson, in direzione delle Torri Gemelle. Qualcuno ha
chiamato la polizia ed è risultato che i cinque facevano parte delle
forze
armate israeliane e che avevano lavorato per una impresa di trasporti. I
cinque, i cui visti erano scaduti, si sono rifiutati di dire di più.
Gli israeliani arrestati nelle retate successive all'11 settembre sono
in
tutto una sessantina. La Fox News riferiva l'11 dicembre che, sottoposti
al
test della "macchina della verità", alcuni di questi
arrestati hanno
mentito.
"Non ci sono indizi di una partecipazione israeliana negli attacchi
dell'11
settembre; purtuttavia, gli investigatori sospettano che essi abbiano
raccolto informazioni in anticipo attinenti a quei fatti, ma non le
hanno
riferite" alle autorità USA, ha detto Carl Cameron della Fox News.
Le
autorità americane hanno detto a Cameron che il silenzio è d'obbligo
in
questa fase dell'inchiesta, mentre i portavoce dell'ambasciata
israeliana
non ammettono niente di niente in merito allo spionaggio negli USA.
Cameron
ha continuato:
"Ma Fox News ha appreso che un gruppo di israeliani da poco
individuato nel
North Carolina si serviva di un appartamento in California per spiare un
gruppo di arabi che le autorità statunitensi tengono sotto osservazione
perché sospettati di collegamenti con il terrorismo.
"La Fox News ha raccolto documenti che indicano come anche prima
dell'11
settembre almeno 140 altri israeliani siano stati arrestati nel corso di
complesse indagini molto riservate sullo spionaggio israeliano negli
USA."
I sospetti si appuntano su studenti dell'Università di Gerusalemme o
dell'Accademia Bezalel: "I documenti mostrano che [gli israeliani]
si sono
concentrati nella penetrazione di basi militari, degli uffici della DEA,
della FBI, e di diversi uffici governativi e ci sono riusciti, entrando
persino in uffici segreti e abitazioni private appositamente non
registrate, assegnate al personale che svolge attività speciali".
Un'altra parte dell'inchiesta riguarda l'arresto di decine di spie
israeliane che operavano in strada, come venditori ambulanti. Cameron fa
inoltre riferimento ad altre indagini condotte dalla Corte dei Conti e
dai
servizi militari (DIA) che definiscono le attività spionistiche
israeliane
negli USA rispettivamente "aggressive" e "voraci".
Il 12 e 13 dicembre Cameron è tornato sull'argomento con la
storia della
AMDOCS, impresa privata israeliana che opera nelle telecomunicazioni ed
è
appaltatrice presso le venticinque principali imprese telefoniche
americane. Il tipo di servizio prestato le da accesso in tempo reale a
gran
parte delle linee telefoniche del paese, con la possibilità di fare
tutte
le intercettazioni telefoniche che vuole. Secondo la Fox TV, la AMDOCS
è
finita più volte sotto inchiesta: FBI e altre forze di polizia l'hanno
ripetutamente sospettata di collegamenti con la mafia e di spionaggio.
Ci sarebbe poi un documento top secret della National Security Agency
(NSA)
che nel 1999 spiegava come tutte le telefonate in America fossero
registrabili da parte di governi stranieri, in pratica quello
israeliano.
Quando nel 1997 scoppiò lo scandalo "MEGA", riguardante la
talpa israeliana
nell'amministrazione USA, AMDOCS fu accusata di aver intercettato le
telefonate tra il Presidente Clinton e Monica Lewinsky. La Fox TV
aggiungeva che il pericolo tutt'altro che remoto è che le informazioni
riservate siano anche accessibili al crimine organizzato israeliano:
"Non
sarebbe la prima volta: nel 1997 si presentò un bel grattacapo quando
le
comunicazioni di FBI, Servizi segreti, DEA e LAPD furono completamente
compromesse dal crimine organizzato israeliano che utilizzava i dati di
cui
dispone la AMDOCS".
Il 13 dicembre la Fox ha parlato della Converse Infosys, un'altra
impresa
high tech, sussidiaria di un'impresa israeliana, che con uffici in tutto
il
territorio americano "fornisce attrezzature per le registrazioni
telefoniche alle forze dell'ordine". Gli enti preposti utilizzano
il
software della Converse nei propri computer per individuare le
telefonate
da intercettare e per lo smistamento delle registrazioni a seconda delle
competenze. La casa madre della Converse, che ha accesso a questi dati,
è
tanto vicina al ministero dell'Industria e Commercio (di cui è stato
titolare Sharon) che il 50% delle sue spese di R&D sono a carico del
ministero.
Rompendo la prassi delle sue conferenze stampa, il 13 dicembre il
Segretario di Stato Powell ha concesso la prima domanda al
corrispondente
dell'EIR. Interrogato in merito allo spionaggio israeliano negli USA,
Powell ha risposto di essere al corrente della storia degli arresti --
quindi confermandone la notizia -- ma di occuparsi solo dell'aspetto
diplomatico della questione, mentre per quanto riguarda l'aspetto
spionistico, ha detto, "la domanda deve essere rivolta al ministero
di
Giustizia ed alla FBI".
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24.01 |
Perchè
non c'è una politica estera dell'Europa?
L'egemonia americana sull'Europa
http://www.rinascita.net
Gli Stati Uniti non hanno delle
colonie: nessun segno, sul mappamondo, marca
i limiti di un impero americano. Tuttavia gli Stati Uniti esercitano una
pressione costante che si manifesta, dappertutto, negli eventi materiali
e
in ogni settore dell'attività del pensiero. Al giorno d'oggi sono
poche, le
persone che parlano seriamente di "imperialismo americano".
Quando ciò
accade lo si fa in una maniera molto vaga. Vengono usati degli slogans
per
denunciare l'uno o l'altro aspetto della politica americana, ma il
problema
non è mai posto nel suo insieme, in termini geopolitici: nessuno
ammette che
per gli europei gli Usa rappresentano il principale nemico, anzi
migliaia di
persone, in gran parte onestamente ed in buona fede, ancora sono
assoggettati ai miti del mondo libero", degli Stati Uniti come
potenza
garante della libertà e della difesa, e così via. Gli Stati Uniti e
gli
uomini politici da loro assoldati e che guidano le sorti dei Paesi
occidentali sono riusciti a dipingere a farsa una grande tragedia: dal
di là
dell'oceano viene imposta ogni giorno di più la dominazione, e tutto
viene
fatto passare quale aiuto generoso, quale "protezione contro il
comunismo".
L'imperialismo americano è il nostro nemico principale. I suoi artigli
sul
pianeta, e, da qualche giorno, sul cuore stesso dell'Europa, in Serbia,
lacerano la dignità nazionale di tutti i nostri popoli, da loro
considerati
vassalli e schiavi. Il potenziale economico e militare degli Usa è
integrato, indissolubilmente integrato, con quello della Gran Bretagna e
dei
loro camerieri economici ed ascari militari europei.
Ed è anche più forte grazie alla sua ipocrisia ed alla sua astuzia.
Economico, politico, militare o culturale, l'imperialismo americano è
onnipresente, piazza i suoi uomini di paglia in un posto (i colonnelli
ed i
generali greci, Caramanlis, il "nuovo corso" del Portogallo, i
Kabila (ora
anche il figlio) in Zaire), e complotta nell'altro (tutti gli attentati
che
si sono susseguiti in Italia dal '69 hanno avuto una precisa matrice
americana) ed opera sanguinosi ribaltamenti politici (Juan ( 1955) e
Isabelita ( 1975) Peron, in Argentina, Diem in Vietnam, Allende in
Cile...).
Per non parlare del le "operazioni" anti-Khomeini in Iran,
anti-Gheddafi in
Libia, anti-Noriega a Panama, anti-Saddam in Iraq e anti-Milosevic in
Jugoslavia. Gli ideali della libertà e della democrazia sono stati
sempre
estranei agli uomini che hanno presieduto la Casa Bianca. E
l'ulteriore
beffa è che le azioni più sanguinarie, le guerre, le devastazioni del
pianeta sono state operate da presidenti americani cosiddetti
"liberal" e
"democratici". Da Wilson a Roosevelt, da Kennedy a Bush, a
Clinton e ora a
Bush Jr.
Il declino di un continente
Una data marca il declino dell'Europa: il 1941. In quell'anno Roosevelt
lancia il suo Paese nella guerra provocata dall'antistorico
pangermanesimo
di Hitler. Il pretesto è Pearl Harbour ma l'obiettivo è quello di
estendere
la dominazione degli Usa sul mondo: i morti, tanto, saranno russi,
tedeschi,
francesi, europei. Il seguito si conosce. Solo gli Stati Uniti saranno
infatti i grandi vincitori di questa sinistra guerra civile. A Yalta
Roosevelt e Stalin discutono intorno all'avvenire europeo: Roosevelt, in
quell'occasione, dissimulerà male la propria ostilità ad una eventuale
reindustrializzazione delle aree distrutte dalla guerra. A
partire dal '47
il taglio tra le due Europe viene consumato: attraverso il piano
Marshall
gli Usa sviluppano la loro "impresa" in Europa occidentale. Da
allora
l'America tenterà tutto per rimodellare la sua parte di continente a
"sua
immagine"; affluiscono gli investimenti, nasce la società dei
consumi. Si
vuole risuscitare l'Europa, quale "mercato" per la merce e per
i prodotti
americani, quale terra dei profitti, del facile sfruttamento "in
conto
terzi".
Lo strangolamento dell'Europa
Dal '45 ai nostri giorni lo strangolamento economico dell'Europa si è
manifestato in diverse forme. Sul piano monetario, attraverso la
Conferenza
di Bretton Woods (poi adattata ai tempi con il vertice di Rambouillet e
la
ratifica di Giamaica): all'indomani della guerra, l'Europa, la cui
capacità
economica è a terra e i cui bisogni sono tanti, presenta un deficit con
l'estero considerevole. Con le importazioni raddoppiate e con il volume
di
export praticamente invariato, la bilancia dei pagamenti dei Paesi
dell'Ocse
accusano un deficit di 7,2 miliardi di dollari che è necessario
finanziare
ed assorbire. La principale istituzione nata dalla Conferenza di Bretton
Woods è il Fondo monatario internazionale, istituzione, che,
naturalmente,
risente al suo interno il peso decisionale degli Stati Uniti proprio
nella
fase di ricostruzione di una sistema monetario mondiale. Oltretutto il
Fmi
ha la sua sede a Washington e gli Stati Uniti (e la Gran Bretagna)
detengono
il pacchetto di controllo delle quote di partecipazione.
Timidi tentativi di reazione
In materia monetaria gli americani diventano quindi i padroni assoluti:
blocco dei tassi di, cambio, ogni moneta definita in rapporto all'oro (e
cioè in rapporto al dollaro americano...) A questa fase di completa
dipendenza economica europea dagli Usa succedono diversi tentativi di
reazione. Sul piano po1itico c'è la nascita dell'Ueo, Unione
dell'Europa
occidentale (marzo 1948), nel '49 del Consiglio d'Europa, nel 1950 il
piano
Schumann, "il cui fine è realizzare le prime assisi concrete di
una
"federazione" europea di difesa", la Ced, abortita per
colpa delle
opposizioni comuniste e golliste francese. Ogni piccolo passo
dell'Europa
verso un'indipendenza dalla tutela americana, in pratica e stato
ostacolato
dagli Usa che lanciano, nello stesso periodo, l'Oece, la Nato, e fanno
saltare ogni mattone del disegno dell'unificazione politica dell'Europa.
L'anno 1954 in particolare segna l'aborto di ogni struttura politica
europea, di ogni potere europeo. Dopo quest'anno i governanti europei si
allineano nel campo americano, escluso De Gaulle che con il suo
nazionalismo
coltiva invece una visione molto forse ingenua ma indipendente
dell'Europa:
l'Europa "Confederale".
La Francia gollista, diffidando degli "alleati" atlantici si
riaggomitolerà
su se stessa, così ostacolando ogni progetto di Europa sopranazionale
condizionata dagli atlantici. De Gaulle, relegato all'angolino, non
riusciva
ad opporsi al grande disegno di dominio anglo-americano. Sul piano
economico
gli europei rispondono timidamente alla sfida creando "Unione
europea dei
pagamenti (Uep): ma l'unità di conto resta il dollaro e
l'Uep non riesce a
sganciarsi dagli Usa che firmano l'accordo monetario europeo (Ame) nel
luglio del '55. L' Ame segna l'atto di nascita del nuovo "Gold
exchange
standard" che impone il dollaro (ed in subordine la sterlina) come
divisa e
nei pagamenti intemazionali. Così il dollaro, diventato moneta di
riserva,
permette agli Stati Uniti di finanziare senza difficoltà i deficit
della sua
bilancia dei pagamenti, e favorisce nel mondo il dominio economico di
Washington. Gli Usa ottengono dagli europei di farsi pagare in dollari,
che
saranno reinvestiti in Europa sia nella rapina di aziende strategiche,
sia
in nuove imprese e sia sviluppando il mercato dell'eurodollaro.
L'instabilità del sistema monetario viene codificato nelle
cosiddette
fluttuazioni. In realtà non c'è che una sola moneta, di cui
sono gli Usa ad
avere il potere di emissione e di gestione. E questo pezzo di carta, il
dollaro, emesso in quantitativi sempre più eccessivi, porterà
all'inflazione
ed alla recessione di tutta l'economia europea.
L'Europa salariata
Il nostro continente è oggi l'Europa salariata degli Usa. E' questo il
risultato politico di un dominio culturale ed economico che dura da
ormai
più di trent'anni. Dal 1945 gli europei hanno perduto la fiducia nelle
proprie possibilità ed hanno attribuito il "gap" nei
confronti degli Usa,
alla loro struttura alla loro mentalità, ed hanno così pensato che il
solo
rimedio fosse quello di imitare le pratiche americane (marketing
management,
produttività economica, flessibilità e mobilità nel lavoro) al fine
di
"conquistare" il livello di vita della "nazione
guida". Poi, in questi anni,
dopo aver subito l'aggressione economica della grande speculazione
finanziaria congiunta della City di Londra e di Wall Street, con la
devastazione, nel '92 - complici in Italia i vari Prodi e Andreatta, e a
Bruxelles i van Mirt - del Sistema monetario europeo inventato da
Giscard e
Schmidt per consentire una parvenza di autonomia monetaria continentale,
e
con la svalutazione delle valute europee, lira in testa, l'Europa, sotto
il
diktat del FMI, ha provveduto ad adeguare il suo modello a quello dei
padroni angloamericani. Prima di tutto subendo passivamente la
deliberata
distruzione degli Stati nazionali, e dei sistemi di giustizia sociale
patrimonio di cento anni di socialismo nazionale in Europa, e
secondodipoi
adattando le Comunità Europee ad una sorta di Nafta, e cioè ad un
grande
spazio commerciale di "libero scambio", libero, cioè,
soltanto per le grandi
speculazioni delle lobbies della Finanza Internazionale. Un "grande
spazio
finanziario-valutario", dominato dalla City e da Wall Street, e
chiamato
"Trattato di Maastricht" con i nostri governanti-sudditi proni
al volere dei
loro padroni. Ma la prosperità americana dipende in gran parte e quasi
esclusivamente dalle importazioni massiccie di materie prime dall'estero
e
dalla parallela politica di conservazione delle proprie risorse.
Con il 6 per cento della popolazione mondiale gli americani
consumano più
del 33 per cento della produzione mondiale di bauxite, il 26 per cento
di
nickel, il 25 per cento di rame, il 25 per cento di potassio, il 15 per
cento di zucchero, il 50 per cento di caffè, il 32 per cento di
stagno... e
così via. Lo stesso L.B. Johnson affermava nel suo libro apparso nel
'64:
"Se tutti gli abitanti della terra raggiungessero un livello di
vita così
elevato come quello degli Usa, dovremmo produrre, 20 miliardi di
tonnellate
di ferro all'anno, 300 milioni di tonnellate di piombo, 200 milioni di
tonnellate di zinco... cioè più del centuplo di quello che produciamo
oggi.
E le riserve non sono inesauribili". Per soddisfare un
consumo proporzionale
a quello americano gli europei hanno necessità di nuove fonti di
materie
prime e dei mezzi per pagarle o sfruttarle. Dal 1960 al 1969 gli
investimenti Usa in Europa passarono da 6,6 a 21,5 miliardi di dollari.
Un
esempio: in Francia dal '58 al '65 (e si trattava del Paese più
"libero"
dalla dipendenza da Washington) gli Usa comprarono 845 imprese e
crearono
616 nuove società. In Europa, nello stesso periodo furono acquisite in
tutto
oltre 4000 aziende e 3070 furono costituite ex-novo. Gli Usa controllano
tuttora il 29 per cento della produzione automobilistica, il 40 per
cento
della distribuzione del petrolio, il 50 per cento della produzione
elettronica, di semiconduttori, il 65 per cento di quella dei materiali
per
le telecomunicazioni, 65 per cento di quella dei materiali agricoli,
1'80
per cento di quella degli ordinatori e dei computers, il 95 per cento di
quella dei circuiti integrati.
Il gap tecnologico
Nonostante gli sforzi l'Europa non può assolutamente, oggi, sperare di
poter
colmare pacificamente il "gap tecnologico" che lo separa dalla
grande
padrona. Il governo di Washington finanzia in effetti il 90 per cento
della
ricerca aeronautica, il 65 per cento di quella elettronica, il 42 per
cento
di quella applicata nel settore delle strumentazioni scientifiche, il 3l
per
cento nelle industrie meccaniche. La dipendenza europea ai giganti
americani
fa sì che i governi europei siano pronti a tutto pur di ottenere
l'impianto
di nuove aziende. Un altro dato: gli alti stipendi elargiti dalle società
Usa ha portato alla "fuga dei cervelli" dall'Europa. Senza
mezzi e senza
uomini la "ricerca" europea è lasciata alla buona volontà
dei singoli e
delle società private o resiste come sorta di feudo politico e
clientelare
su cui riversare burocrati inutili. Per consolidare e
legittimare il dominio
economico e politico sull'Europa, gli americani hanno imposto anche il
dominio culturale e il più potente mezzo di soggiogazione delle menti
è
certo stato il cinema, subito perfezionato e sublimato con la nascita
dei
nuovi mezzi di comunicazione di massa, tv, radio, pc, internet etc.
L'immagine radiosa dell' "American way of life" persuadeva così
gli europei
che dopo tutto, anche se sono dominati ed hanno perduto la loro
indipendenza, si trovano in una prigione dorata più confortevole di
quella
fino all'89 chiusa da una "cortina di ferro" o dal "muro
di Berlino".
Crimini contro l'umanità? La Nato bombardi il Fmi a Washington
L’occupazione industriale messicana è ridotta di un terzo rispetto al
1981.
I lavoratori sono stati travasati nelle maquiladoras, il lavoro
schiavistico
offerto da investitori stranieri, l’unica "attività reale"
portata dalle
riforme liberiste (figura 8). Oggi circa un milione di messicani sono
costretti dalla disperazione ad accettare un lavoro al di sotto del
minimo
della sussitenza, con un salario che si approssima alle mille lire
l’ora. La
produzione degli alimenti di base in Messico è scesa del 67% per i
fagioli,
del 20% per il mais, e del 30% per il frumento . 26 milioni di
messicani,
circa un quarto della popolazione, vivono in povertà, e di essi la metà
vive
nell’indigenza vera e propria. In quest’ultimo strato la mortalità
dei
neonati nel primo anno di vita raggiunge i 60 su mille nelle campagne e
i 35
nelle città.Molti cercano rifugio negli USA, secondo le autorità
americane
il flusso migratorio clandestino raggiunge i due milioni l’anno, in
quello
che nei documenti dell’ONU è descritto come "il più grande
fenomeno
migratorio del mondo dovuto a problemi economici". Da parte
americana ci
sono politici che per tenere alla larga i messicani preparano leggi
razziste
per una vera e propria "pulizia etnica".L’ex ministro della
Difesa USA
Caspar Weinberger ha scritto il libro "The Next War" in cui
descrive per il
2003 uno scenario di guerra degli USA contro il Messico, il cui governo
verrebbe dichiarato "nemico della democrazia".La rivista
Foreign Affairs
(gennaio-febbraio 1999) scriveva che il Messico è sul punto di una
guerra
civile, che, tra l’altro, metterebbe in moto un’ondata migratoria di
dimensioni tali da creare conflitti sul confine con gli USA. Di
conseguenza
certi ambienti di potere negli USA starebbero considerando "piani
per
chiudere i confini" e anche la possibilità di un "intervento
americano"
armato in Messico.
L’emorragia dei clandestini ormai interessa un decimo dei messicani,
costretti ad abbandonare un paese "balcanizzato" dalle
condizioni del FMI.
Se l’intervento militare della NATO in Jugoslavia fosse stato davvero
motivato dalla tragedia umanitaria dei kosovari, allora gli Stealth
della
NATO dovrebbero pra bombardare gli uffici del FMI a Washington, dato che
la
dimensione della tragedia messicana è persino maggiore di quella dei
Balcani.Il caso JugoslaviaFino al 1989, fino al crollo del muro di
Berlino,
il rischio più immediato era una mossa militare del Patto di Varsavia
in
Romania, che avrebbe portato ad una spartizione delle Jugoslavia, dove
Mosca
avrebbe posto sotto la propria protezione militare Serbia, Montenegro e
Macedonia come contromossa dell'Urss di fronte ai disegni di
frammentazione
della Jugoslavia conltivati già allora adgli atlantici..Oggi la stessa
strategia che ha già portato alla frammentazione della Jugoslavia viene
proposta in funzione antirussa. La Jugoslavia entrò nella peggiore
crisi del
dopoguerra nel 1991, con una geografia della rivolta che rifletteva i
meccanismi di saccheggio. E tutto fu originato dai salassi mortali dei
creditori occidentali e del Fondo monetario internazionale, con Belgrado
forzata adsi ai programmi disastrosi dettati dal FMI, che comportavano
un
crollo generalizzato dei livelli di vita.Questa politica di austerità
ha
alimentato le tendenze centrifughe in Slovenia e Croazia ... Per
impedire l’
esplosione sociale nelle regioni orientali più povere, soprattutto la
Serbia, la Bosnia, il Montenegro, la Macedonia e il Kosovo, dove
risiedevano
i due terzi della popolazione jugoslava, il governo di Belgrado detraeva
risorse a Slovenia e Croazia, per ‘sussidiare’ in tal modo il resto
del
paese. Questa dinamica è stata la causa di fondo della rivolta
sloveno-croata. Si era giunti a tagli salariali del 20%,
all'eliminazione
del blocco dei prezzi sul 60% dei generi di consumo. Si arrivò ad un
aumento
dei prezzi del 50-60% per gli alimentari di base e l’energia con una
svalutazione del dinaro del 20-25% e con un’inflazione oltre il
100%.Il
taglio dei salari, l’aumento dei prezzi e la svalutazione del dinaro
furono
richiesti dal FMI e dalle banche creditrici come ‘condizioni’ per un
prestito ‘standby’ del FMI di 240 milioni di dollari, che a sua
volta era la
condizione di partenza per le banche ed i governi chiamati a rinegoziare
i
20 miliardi del debito estero jugoslavo".La crisi economica è
stata dunque
la causa prima della guerra civile maturata in Jugoslavia.
Dominata dalla politica di saccheggio e di austerità monetarista
imposta dal
FMI, la Jugoslavia ha sborsato 20 miliardi di dollari nel corso di un
decennio, per pagare interessi e capitale, ma al momento dello scoppio
della
guerra con la Croazia per la Bosnia e la Krajna era ancora gravata da un
debito estero di 20 miliardi di dollari. Il colpo di grazia era arrivato
alla fine del 1989, quando il governo di Ante Markovic aveva annunciato
un
programma di austerità feroce messo a punto in coordinazione con il
FMI.
Come parte dell’accordo, la Jugoslavia ha dovuto assumere lo
‘specialista di
austerità’ della Harvard University Jeffrey Sachs in qualità di
‘consigliere
speciale’ per l’introduzione dei meccanismi liberistici ed oltre a
lui anche
altri specialisti della Banca Mondiale e del FMI per effettuare ‘la
riforma’
delle banche jugoslave .Il danno economico stimato dal presidente
dell’
associazione industriale di Zagabria Ivica Gazi ammontava già nel '91
al 30%
del precedente PNL croato. [che a sua volta rappresentava il 26,7%
dell’
intero PNL jugoslavo].Alcune idee interessanti per una soluzione
pacifica
erano state discusse il 14 maggio 1991, solo pochi giorni prima dell’
intervento dell’Esercito federale contro le spinte indipendentiste in
Croazia. Nel corso di una conferenza organizzata a Belgrado
dall’Istituto
Jugoslavo per la politica e l’economia internazionali, è stata
discussa la
necessità dell’integrazione economica e infrastrutturale delle
repubbliche
jugoslave e di tutti gli stati della regione balcanica con il resto
dell’
Europa. Erano presenti rappresentanti di tutte le repubbliche e dei
governi
di Austria, Italia, Albania, Ungheria, Cecoslovacchia, Grecia, Romania,
Turchia ed altri paesi.Il programma presentato a Belgrado - e messo in
cantiere già dal 1989 - prevedeva collegamenti ferroviari ad alta
velocità
tra Parigi e Budapest, e tra Danzica e Budapest, e quindi un corridoio
di
sviluppo da snodare a Sud per raggiungere Belgrado e proseguire oltre.
Treni
ad alta velocità di collegamento con Italia e Austria, attraverso
Ljubljana,
Zagabria e Belgrado, con la Turchia ed il Medio Oriente. E, inoltre, la
navigabilità completa del Danubio e della Morava verso Sud per un
rapido
collegamento con il Mediterraneo e soprattutto con il Canale di Suez
.Tale
programma infrastrutturale avrebbe potuto risolvere i problemi di
arretratezza economica della regione, ma era stato bocciato su richiesta
della delegazione del Fondo Monetario Internazionale.Queste dunque le
vere
cause dello smembramento jugoslavo. Un disegno studiato a tavolino dagli
atlantici per imporre anche nei Balcani il loro "Nuovo Ordine"
economico,
una regione da rendere soggetta e suddita ai dettati del Libero Mercato
e
della Globalizzazione.
Lucio Losole
La perfida Albione è viva e vegeta
Martin Palmer, "consigliere religioso e spirituale"
del principe consorte
Filippo d’Edimburgo, ha confermato ad un giornalista, nel corso di una
discussione svoltasi alla fine dello scorso anno, che la politica estera
inglese si ripropone in primo luogo la frantumazione di Russia,
Indonesia,
Cina ed altri "grandi paesi".Palmer ha detto che "è di
importanza assoluta
per la politica inglese" incoraggiare il processo di
"frantumare gli
imperi". La politica estera inglese "degli ultimi
200 anni si fonda su un’
idea centrale, la frantumazione degli altri imperi. L’idea di seminare
le
divisioni tra gli stati arabi è l’assioma del Foreign Office
britannico.
Fiaccare la presa che la Russia ha sull’Asia Centrale è, per il
Foreign
Office, un’ossessione ... Questi temi suscitano un fascino profondo in
Inghilterra. Ogni ingerenza nei confronti dell’India o della Turchia
è
considerata antitetica agli interessi inglesi". Ha poi aggiunto,
sogghignando: "La perfida Albione è viva e vegeta. Il Foreign
Office
britannico ha un suo programma che è, ora e sempre, divide et
impera".Palmer
ha spiegato che "la situazione politica globale attuale può essere
paragonata soltanto ai movimenti delle piattaforme continentali, nel
senso
geologico. Attraversiamo dei cambiamenti tettonici. Stiamo attualmente
assistendo allo svolgimento finale dei processi messi in moto nel 1914.
È un
processo di disgregazione dei grandi imperi. La Russia si sta
disgregando, e
vediamo le ultime strette spasmodiche del vecchio controllo zarista
sull’
Asia Centrale, con l’improvviso emergere di nazionalismi di cui non si
sentiva parlare da secoli. Timor Est è una falda tettonica. Se Timor
Est si
stacca, lo stesso farà Aceh [provincia di Sumatra], e poi che ne sarà
delle
altre isole? Il fatto è che l’Indonesia non ha una logica per
esistere. È un
impero che si è costituito combattendo un altro impero. Noi assistiamo
al
crollo di imperi, come quello sovietico, che si erano formati nei
conflitti
contro altri imperi". Palmer ha quindi aggiunto che anche la Cina
va
incontro a processi disgregatori centrifughi, ma per questo occorrono
ancora
degli anni.Come conseguenza di questo processo di disgregazione di
grandi
paesi, "stanno emergendo piccole nazioni nuove. Non si consideri
soltanto la
crescente autonomia della Scozia e del Galles. Si guardi all’Asia
centrale,
dove assistiamo all’affermarsi di piccoli kanati di cui non si sentiva
parlare da 500 anni. Per questo si guardi al Daghestan o alle
sottoregioni
che emergono in Georgia. Le grandi masse tettoniche degli imperi
subiscono
una trasformazione". Palmer ha quindi consigliato uno studio
attento degli
scontri che per secoli hanno contrapposto gli imperi Romano/Bizantino e
quello Persiano, per comprendere meglio quanto sta oggi avvenendo.
Cesare Ferri
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23.01 |
LA
SCRITTRICE YAEL HEDAYA
«La
paura ci segue ogni giorno come un mal di testa continuo»
«La
violenza è diventata parte della nostra vita: non ci stupiamo
più»
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In tv, le immagini dell’ennesimo
attentato nel centro di Gerusalemme. Davanti allo schermo, seduta
sulla poltrona di casa, la scrittrice israeliana Yael Hedaya si
confronta con quella che definisce «assuefazione» alla violenza
quotidiana: «Non è paura - dice -, è qualcosa che va oltre: la
sensazione che sia accaduto così tante volte da diventare parte
della vita, come un mal di testa che non passa mai». «Animali
domestici», il suo libro tradotto in Italia da Einaudi, ha
suscitato l’entusiasmo di un grande della letteratura ebraica come
Abraham Yehoshua: tre storie di amore e solitudine che avrebbero
potuto avere come sfondo una città qualunque. Della tensione di
vivere in un Paese dove un uomo può imbracciare il fucile e sparare
sulla folla non vi è traccia: una caratteristica comune a molti
scrittori della nuova generazione (la Hedaya ha 37 anni). Ma anche
il segno di un momento diverso.
«Adesso non potrei più scrivere ignorando questa nuova paura -
dice Yael -. Il mio prossimo libro avrà certamente sullo sfondo
questo sentimento, anzi questa mancanza di sentimenti che ha
cambiato la vita privata di ognuno di noi».
Che cosa esattamente è successo negli ultimi mesi?
«All’inizio della seconda intifada, anche fino a sei mesi fa,
gli attentati suscitavano choc, rabbia, sorpresa. Adesso ci abbiamo
fatto l’abitudine, ce lo aspettiamo. Prima se ne parlava con gli
amici, i colleghi. C’era una sorta di paura reattiva, vigile: ci
consigliavamo su quale luogo affollato evitare, o quale strada
preferire in macchina. Adesso non lo facciamo più. La paura è così
generalizzata e interiorizzata da non produrre più alcuno stupore».
Neanche quando succede in luoghi fino a poco tempo fa risparmiati
dal terrorismo, come la settimana scorsa a Hadera?
«Da bambina (sono cresciuta a Gerusalemme) mi hanno educata a
stare attenta ai pacchi sospetti, a fare attenzione a personaggi
strani, come può essere per esempio un uomo che indossa un
impermeabile d’estate. Adesso non si sa più di che cosa aver
paura. Può accadere ovunque, in qualunque momento. Certo,
Gerusalemme ci è in qualche modo più abituata. Guardavo le
immagini in tv: il passante intervistato dal giornalista diceva che
era la terza volta che veniva fermato come testimone di un
attentato. E dietro c’era un negoziante che mostrava una giacca in
vetrina tutta forata dai proiettili. Sembrava un film di Fellini:
era assolutamente surreale. Se non fosse che è drammaticamente
vero...».
C’è qualcosa di cui in particolare ha paura?
«Mi sento insicura ovunque, anche a casa mia, anche in
macchina. La paura ha perso ogni proporzione. A ottobre per il mio
compleanno mi hanno regalato un buono da spendere in una profumeria
che si trova in un grande centro commerciale di Tel Aviv. Ci ho
messo tre mesi prima di trovare il coraggio di andarci».
Lei è una sostenitrice del dialogo con i palestinesi. Continua a
credere nel processo di pace?
«Non sono orgogliosa del comportamento del mio governo. Mi sembra
che l’unico risultato che ottenga sia l’escalation del
conflitto. Ma sinceramente non so più che cosa si potrebbe fare.
Entrambe le parti hanno in questo scontro un comportamento
infantile: stupido e molto pericoloso».
Alessandra
Coppola
da Repubblica
del 23 gennaio
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23.01 |
Conferenza
Associazione Limes "Nessun accordo con l'occupante sionista"
SABATO
2 FEBBRAIO
Alle ore 15.30, presso L'Hotel Melia
via Masaccio 19 (MM Lotto), Milano
Conferenza
PALESTINA:
NESSUN ACCORDO CON
L'OCCUPANTE SIONISTA
Interverranno:
Andrea Farhat
Mohammad Hannoun
Tommaso Staiti
Carlo Terraciano
Organizzano:
Associazione
Culturale Limes
Comitato di Solidarietà con il popolo palestinese
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22.01 |
Indice
di "Prima comunicazione" di gennaio
SUL NUMERO DI GENNAIO 2002
di 'Prima Comunicazione Online':
http://www.primaonline.it
Servizio di copertina - Gaetano Caltagirone. Un uomo complicato.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=325
Mediadigit. 'TgFin' anche sulla carta stampata.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=336
Il Sole 24 Ore. Solo core business.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=337
Enel.it. Nuovo portale farcito di contenuti.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=327
Pezzana e Nirenstein contro il pregiudizio
antisraeliano.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=334
Rai.it. Punta sui contenuti e vince.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=335
Oriana Fallaci. Carlo Rossella: la propongo senatore a vita.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=333
Enzo Ghigo. Ingualcibile.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=331
Jean-Marie Messier. La grande alleanza.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=328
Andrea Papini. Il privatizzatore irriducibile.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=330
Fulvio Zendrini. Fa il custode.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=329
'Corriere della Sera'. Zitto, zitto de Bortoli cambia i vertici.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=340
'Politica'. Di Claudio Signorile.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=339
Raitre. L'exploit di Cereda.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=338
Auditel. I numeri difficili.
http://www.primaonline.it/opinioni/dettaglio.asp?id=332
INOLTRE:
- I nomi del mese: tutti i personaggi e le aziende citati nel numero in
edicola di 'Prima Comunicazione'
http://www.primaonline.it/nomi.asp
- Il borsino dei direttori con le ultime nomine
http://www.primaonline.it/borsino/index.asp
- New entry: gli ultimi arrivi tra i professionisti della comunicazione
http://www.primaonline.it/personaggi.asp
- Parlamento: le leggi sull'editoria e le telecomunicazioni
http://www.primaonline.it/parlamento.asp
--------------------------------------------------------------
GLI ALTRI SERVIZI DI 'PRIMA COMUNICAZIONE ONLINE':
- NOTIZIE DI AGENZIA: ogni giorno gli aggiornamenti sul mondo
dell'informazione e dei media
http://www.primaonline.it/notizie/index.asp
- APPUNTAMENTI: l'agenda online per essere sempre informati sui
principali
avvenimenti, incontri e fiere del settore
http://www.primaonline.it/agenda/index.asp
- RISORSE: una guida pratica con nomi e indirizzi dei principali
quotidiani,settimanali, mensili, radio, tivu' e siti Internet
http://www.primaonline.it
- DATI E CIFRE: grafici e tabelle che aiutano a comprendere le cifre
sugli
ascolti e la diffusione
http://www.primaonline.it/dati/index.asp
- LAVORO: gli annunci gratuiti di chi cerca e offre lavoro nel campo
dell'editoria e della comunicazione
http://www.primaonline.it/lavoro/index.asp
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|
22.01 |
Catalogo
Arianna Editrice
Chi desidera ricevere il catalogo
cartaceo (in spedizione), o che desiderano farlo pervenire a chi
potenzialmente interessato, sono pregati di comunicarci un
recapito postale.
Dal 14 al 18 febbraio si terrà
a Napoli, presso la Mostra d'Oltremare, Galassia Gutenberg,
la rassegna dell'editoria nazionale più importante del mezzogiorno.
Veniteci a trovare presso il nostro
spazio espositivo dove potrete acquisire le ultime novità e il
catalogo 2002.
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|
21.01 |
Pregate
per Israele, amici cristiani
Dear Christian friends of Israeli
communities,
I
address you this way for a reason, asking that you think about what each
word means, and then act in response accordingly. I normally am
graced by Abba to cope reasonably well with the endless tragedies that
continue in Israel, but a grief has been building since I first heard of
the bat mitzvah attack yesterday, as well as the senseless slaughter of
a grief-stricken elderly Jewish man who lived amongst the Palestinians
in Beit Jala, and it is coming in waves.
As
Christians, we absolutely must stand in the gap to pray for our friends
in these horrendous times. Friends come alongside, in good times
and in bad, to show their support. In a time of death, we cannot
bring the loved one back, but we can share the loss, pray for the
survivors, and provide the comfort that brings. As friends of
Israeli communities, we can pour forth love through our prayers, our
visits during such a time as this, and our financial support. Each
one speaks, to different people, in different ways but each act speaks
loudly. For those who considered Avraham s hardship, thank you.
For a
people who have been thrust about by the world but who have finally
found a home, it takes a tremendous faith in G-d and also strength of
character to continue to live out their convictions on a day- to-day
basis. They are doing so with great grace.
For a
peace that passes all understanding for all Israeli people in the midst
of these circumstances, and that they may seek the source of that peace,
G-d.
That
the United States government, led by President George Bush, will fully,
truly recognize the breadth and depth of the evil that is running
roughshod throughout Israel today and deal with Arafat, Hamas, Fatah,
and the PA appropriately, as terrorists. May every thing that is
hidden be revealed, as the enemy always overplays his hand and is found
out.
Praise G-d for the healing that is taking place between Christians and
Jews, as a true respect and caring for our Jewish friends manifests G-d
s love for them, and us. May we be forgiven for the centuries of
unjust acts perpetrated in the name of our Lord, and may G-d s mercy be
shown through us.
May
the Israeli leaders not lean on their own understanding, but in all
their ways acknowledge and seek G-d for His direction and protection.
Shalom,
Diane Cudo, Director, United States Office
Christian Friends of Israeli Communities
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21.01 |
Ricordare
il passato per ricostruire il futuro
Un palestinese e una
bambina palestinese davanti i resti della loro casa distrutta dalle
forze d'occupazione sioniste nel campo profughi di Rafh (Reuters,
21.01.2002)

Alessandro
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18.01 |
Diario
della Settimana - Indice dal 18 al 24.01
Piave,
governo ladro. Dopo banane e fichi d'india, ecco gli appelli alla
resistenza sull'ideale fiume della patria, quella che seguì la disfatta
di Caporetto. Posta in gioco: l'impunità dei politici o la condanna del
presidente del Consiglio.
E'
in edicola il nuovo numero di Diario della settimana.
Domande
e Risposte:
Borrelli invita a «resistere, resistere, resistere»: la disfatta è già
avvenuta?
Il governo italiano e l'Europa: potrebbe tornare la lira?
Caso Enron: Storia di Kenneth Lay, l'amico degli amici. Il crack del
colosso dell'energia sarà il Watergate di George W. Bush?
Voglia di guerra all'Iraq: chi è il dottor Chalabi, di professione
unico oppositore di Saddam?
Altri
personaggi:
Il generale Vernon Walters. E' americano, è stato interprete
spia, diplomatico, militare. Dal 1945 a oggi, sullo sfondo della
politica estera Usa c'è sempre lui. Eccolo con De Gaulle e Adenauer,
con lo Shah di Persia e con Fidel Castro, con Pinochet e con Margaret
Thatcher, con Giovanni Paolo II e con i generali argentini. La sua
autobiografia è piena di amnesie. Tra le righe è scritto tutto.
Le
case a rischio di crollo In Italia, secondo il Censis, 10 milioni di persone
abitano in edifici pronti a sgretolarsi. Dal 1994 al 1998, dopo il
condono approvato dal primo governo Berlusconi, sono state costruite 232
case abusive, per un valore immobiliare di 29 mila miliardi di lire.
Viaggio in un'Italia senza fondamenta.
I
minatori di Pagliarelle, Crotone. Sono 150, lavorano per i cantieri
della Firenze-Bologna dell'Alta-Velocità. Torneranno in Calabria, in un
paese dove non c'è un'edicola, dove le scuole medie sono piantonate dai
carabinieri contro gli spacciatori, dove il primo ospedale è a 60
chilometri. Viaggio nell'Italia anni 50 del 2002.
I
cassonetti di Buenos Aires. L'unica fonte di ricchezza di 100
mila persone a Buenos Aires. La vita dei «cartoneros», ragazzini che
rovistano nei sacchi delle immondizie alla ricerca di carta da
recuperare.
Piccoli
critici, la
nuova iniziativa di Diario che pubblica recensioni dei bambini,
ha già ricevuto molte risposte. L'indirizzo a cui scrivere è bambini@diario.it.
Per maggiori informazioni: http://www.diario.it
Buona
lettura
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18.01 |
Il
significato e la potenza: l'aspetto domestico della questione mondiale
Il
significato e la potenza
di Bernard Dréano (estratto)
GRANELLO
DI SABBIA (n°28)
Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
Venerdì, 18-01-2002
L'aspetto
domestico della questione mondiale
La continuazione di questa guerra che, nelle opzioni strategiche
attuali, è rivolta contro i Talebani più che contro Al Qaeda,
aggiunge i suoi effetti a quelli prodotti dall'orrore dell'11 settembre.
Ciò riguarderà più o meno tutte le società del mondo ed in
particolar modo quelle europee. Ma fino a che punto, ed in quali
settori? Si tratta davvero di quel rovesciamento di
prospettiva in cui alcuni sperano e che altri temono?
La forza simbolica dell'evento non equivale ad un improvviso
capovolgimento della storia. Al contrario, quanto scritto finora in
questo testo è volto a dimostrare che il terribile lampo nell'azzurro
di un calmo mattino newyorkese è parte di una continuità. Come nelle
migliori tragedie greche, il fulmine del destino rivela ciò che gli
spettatori già intuivano. Non si
tratta tanto di "niente sarà più come prima", quanto
piuttosto di " ciò che aleggiava nell'aria è accaduto, più
rapidamente e violentemente del previsto".
Nell'insieme, questi eventi sono portatori di messaggi poco gioiosi.
Tuttavia, alcuni vi riconoscono anche dei segnali più favorevoli, più
nella possibilità di rimettere in discussione alcuni dogmi che
nell'ipocrita "unità del mondo contro i terroristi". In
effetti, sul piano economico, il primo impatto degli attentati è
l'accentuazione di una recessione già
latente, di cui nessuno può prevedere l'estensione nel futuro. Ma le
autorità americane, in questo settore come negli altri, hanno dovuto
reagire. Bill Clinton ci aveva spiegato nel 1997 che l'era del
"big government" era terminata, che lo stato avrebbe assunto
un ruolo sempre più marginale e che le tasse sarebbero diminuite.
A partire dalla sua investitura, George W Bush aveva fortemente
accentuato tale tendenza neo-liberale. Questi intenti non sono più
proponibili nell'affrontare "il giorno dopo". Lo stato
americano interviene per sostenere le compagnie aeree ed interverrà
ancora di più per garantire l'immenso sforzo di duplicazione
delle procedure di sicurezza in ogni tipo di sistemi. Taluni vedono in
queste misure un paradossale "ritorno di Keynes".
Non è una cattiva notizia per tutti coloro che, sbigottiti, assistono,
dal nostro lato dell'Atlantico, alla deriva neo-liberale europea. Una
deriva in nome dei principi monetaristi della banca centrale europea che
soffocano l'economia. Dei principi che, tuttavia, Bill Clinton e Alan
Greenspan, direttore della Federal National Reserve, applicavano già,
negli anni
precedenti, con molta più flessibilità rispetto agli Europei, e che,
quando la storia bussa alla porta, appaiono privi di senso. Gli
Americani sanno che la storia impone il volontarismo; gli Europei
resteranno intrappolati nelle regole che essi stessi si sono imposti con
il protocollo di Dublino, qualche anno fa? Purtroppo la necessaria
politica economica e finanziaria dell'Europa non sembra affatto
concretizzarsi. I nostri governi annunciano però la loro volontà di
azione. Ma su che piano? La politica? Purtroppo no. L'ideologia?
Sfortunatamente sì.
Continua a non esistere una politica europea capace perlomeno di
influenzare la politica americana - non parliamo neanche di proporre
alternative. Tony Blair ha scelto con chiarezza di non contribuire alla
definizione di tale politica allo scopo di appoggiare la strategia
di Bush
Jr. E Berlusconi sabota l'Europa. I Francesi ed i Tedeschi cercano di
giocare ai "grandi" senza sostenere la "piccola"
presidenza belga dell'Unione, che tuttavia svolge il suo compito assai
più onorabilmente dei due noti "motori" dell'Europa.
Il direttorio franco-tedesco non ha elaborato, negli ultimi
tempi, alcuna visione politica, né in termini intra-europei, né per la
"Politica europea di sicurezza comune". D'altronde, se ne può
imputare la colpa più all'incredibile duetto Chijin-Jospac che
agli sforzi di Joshka Fisher. In breve, al di là delle fatiche dei
Belgi per riparare le provocazioni di Berlusconi e dei viaggi di Fisher
o di Vedrine in quel di Gerusalemme, Mosca o Teheran, non rimane molto,
se non la tendenza a non utilizzare i considerevoli strumenti di cui
dispone l'Unione Europea, come il trattato di associazione
Euro-Israeliana, ridicolizzato da Sharon, le chiare possibilità
economiche e diplomatiche rispetto all'India, all'Iran, alla Russia,
all'Egitto etc.
Insomma, se autorevoli personalità europee sussurrano nei salotti che
una politica di sicurezza collettiva nel Vicino e Medio Oriente sarebbe
più efficace della politica americana di riconduzione delle alleanze,
è però per costernarsi immediatamente della sua impossibilità: poiché
"altri" non ne vogliono sapere, non se ne farà nulla.
Invece, è promesso, si lotterà contro il terrorismo. Non realmente
contro le sue cause, e facendo il possibile contro le sue
manifestazioni. La lotta contro i pazzi furiosi di Al Qaeda esige
certamente coordinazione, mezzi, informazione e formazione, ma
l'emergenza sembra essere altrove. L'emergenza attuata dai governi
europei è di prendere misure ideologiche senza grande efficacia contro
il terrorismo, stabilendo uno spazio di polizia europeo ma non l'armonia
delle garanzie giuridiche, ideando un progetto di definizione del
terrorismo che autorizza perfettamente qualsiasi provocazione contro
eventuali oppositori.
In Francia, Evelyne Sire-Marin, presidentessa del Sindacato della
Magistratura, teme, insieme alle organizzazioni di difesa dei diritti
umani, una "legislazione di eccezione" che adesso "sarà
applicata in tutta Europa a persone sospette di atti terroristi, come
quella di cui si era dotata la
Francia a partire dal 1986, com'è noto senza risultati". Queste
"promulgazioni solenni" della giustizia spettacolo"
che Sire-Marin denuncia, inaugurano un periodo propizio per i demagoghi.
In Austria, George Haider ritrova lo spazio che gli mancava per
rilanciare la sua guerra
personale contro la civiltà, mentre Berlusconi ed i suoi amici
gioiscono rumorosamente mentre fanno appprovare una legge che consente
il ritorno all'ovile dei capitali sottratti. Le operazioni occulte dei
finanzieri mafiosi -ed eventualmente terroristi- potranno continuare a
svolgersi da
Jersey o dal Lichtenstein, mentre l'Europa si occupa dei cofani delle
auto e della sorveglianza dei fedeli che ardiscono pregare in moschee
malpensanti (ma, non preoccupatevi, gli emiri wahhabiti sono sempre i
benvenuti sulla Costa Azzurra).
Tutti, ad eccezione di Bruno Mégret, si sforzano in Francia di
rifiutare ogni equivalenza fra Islam e terrorismo e di promuovere il
dialogo e la tolleranza. Tuttavia, di fronte allo spettacolo di alcuni
parlamentari che persero il controllo perché alcuni giovani francesi di
religione musulmana avevano fischiettato la "Marsigliese" in
occasione della partita "Francia-Algeria" c'è ragione di
preoccuparsi. Questi parlamentari, e con loro vari intellettuali, si
preoccupano della "non integrazione" di una parte della
gioventù del loro Paese, senza capire che, purtroppo da molto tempo,
una parte notevole di quella gioventù è propriamente disintegrata dopo
anni di
"cura sociale" senza una vera mobilitazione cittadina, nelle
periferie disertate dai partiti e dai sindacati, dove sussistono solo
delle associazioni, o dei candidati eletti, che cercano di ovviare come
possono alle stridenti mancanze della democrazia.
Una delle forme di questa disperazione disintegratrice assume l'aspetto
dell’'islamismo radicale, soprattutto presso i giovani di origine
algerina, che si confrontano sia con il silenzio sull'Algeria attuale e
sulla storia franco-algerina (silenzio che, oggi, inizia a dissolversi
riguardo alla trascorsa guerra d'Algeria, ma che perdura troppo forte su
quella odierna) sia con il sentimento di emarginazione e di
discriminazione vissuto in Francia. Alcuni di questi giovani si sono
identificati con i Shabàb (giovani) palestinesi e sopportano a stento
l'apparente indifferenza europea a quel dramma. Un numero sempre più
consistente di loro incontra, nelle
periferie o nelle prigioni, i predicatori wahhabiti. Allo stesso tempo,
una parte dei giovani ebrei francesi, talvolta abitanti nelle stesse
periferie, cede ai discorsi ultra nazionalisti dei sostenitori di Sharon
ed incontra i predicatori louvabiti o altri. Il numero degli scontri tra
comunità era
aumentato, prima dell'11 settembre, nella quasi completa negazione
delle autorità politiche e morali responsabili: " Va tutto bene,
si tratta di incidenti isolati". Da quel momento, nulla si è
risolto.
Se si confronta la situazione con quella che prevaleva, presso le stesse
frazioni della popolazione, al momento della guerra del golfo, ci si
trova di fronte ad un profondo peggioramento. Non si tratta, però, di
un fatto inevitabile. Le iniziative di dibattito o di azione, avanzate
in luoghi diversi prima e dopo l'11 settembre, dimostrano che il
fanatismo può
lasciare posto alla discussione, il settarismo alla generosità. Le
delegazioni in Israele-Palestina di "mediazione civile"
guidate da associazioni, o a volte da comuni, in grado di riunire
militanti di età e di origine diversa, in relazione con i pacifisti
israeliani e con le ONG palestinesi, hanno non solo una concreta
efficacia sul posto, ma anche un potere simbolico assai forte in
Francia. Tuttavia, esse non dispongono di alcun sostegno mediatico
consistente e ricevono un appoggio minimo da parte delle principali
associazioni politiche o sindacali.
Coloro che credono nello "scontro delle civiltà" sono
all'opera nelle nostre società, coperti dalle parole tranquillizzanti
di chi, checché ne dica, aderisce alla teoria della "Fine della
storia", credendo di non possedere né storie individuali, né una
vera Storia. E' davvero il momento di riprendere la battaglia
democratica contro gli uni e gli altri se non vogliamo lasciare
l'iniziativa al funesto insieme degli ossessionati della sicurezza,
degli irresponsabili nazionalisti, dei sostenitori di Le Pen, degli
accaniti di Sharon o degli ammiratori di Bin Laden.
Bernard Dréano, presidente del Cedetim e della rete internazionale HCA
(Helsinki Citizen's Assembly)
Estratto dal documento "Le centre du monde", che potrete
trovare su:
http:// attac.org/ fra/list/doc/dreano.htm
Pubblicazione in collaborazione con il sito internet del Cedetim
www.cedetim.org/newyork
Traduzione a cura di Ester Botta
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18.01 |
In
Corea, libertà ridotta grazie alle leggi di prevenzione del terrorismo
Corea: misure
antiterrorismo e nuovo regno del terrore
di Picis
GRANELLO
DI SABBIA (n°28)
Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
Venerdì, 18-01-2002
La legge di Prevenzione del Terrorismo: il nuovo "regno del
terrore".
Il governo coreano si è unito al coro delle elites internazionali che
vogliono delle leggi che diano dei poteri senza precedenti agli organi
di sicurezza nazionale limitando nello stesso tempo i diritti delle
popolazioni.
Le associazioni di difesa dei diritti umani, come "Saranbang",
viste le proposte che riguardano la legge di prevenzione al terrorismo,
hanno espresso la preoccupazione che questa legge potrebbe essere
utilizzata per reprimere ogni forma di contestazione al governo. Anche
i media più importanti hanno espresso la stessa preoccupazione.
Tuttavia l'Agenzia Nazionale di Sicurezza (NIS - National Intelligence
Service) continua a portare avanti i suoi progetti. Sembra che la legge
abbia già ricevuto l'approvazione ufficiale del Presidente e stia per
essere presentata in Parlamento. Secondo Ryu Eun-Sook di Sarangbang:
"le leggi che riguardano la
vita delle persone ristagnano in Parlamento, mentre la legge di
prevenzione al terrorismo è in dirittura di arrivo".
La NIS non fa mistero di avere utilizzato come modello per questa legge
il "Patriot Bill" degli Stati Uniti, la legge britannica
anti-terrorismo ed altre leggi simili dei paesi imperialisti. I
militanti affermano che la definizione di terrorismo è molto vaga e può
includere ogni forma di
opposizione al governo. Questa legge preoccupa molto la Corea, poiché
in fondo, non è che una semplice estensione della legge sulla Sicurezza
Nazionale, una legge draconiana che continua a mandare in prigione i
lavoratori, gli studenti e i militanti.
Con le disposizioni della legge di prevenzione al terrorismo, la celebre
NIS avrà dunque due leggi in suo potere (pur avendo cambiato spesso
nome questa agenzia non può nascondere una lunga storia di torture ed
omicidi. Colmo dell'ironia, una delle sue numerose vittime è proprio
l'attuale presidente della Corea, come lo testimonia la sua gamba
storpia).
Recentemente, le organizzazioni dei diritti dell'uomo e di difesa
sociale hanno formato un'alleanza per combattere questa legge, la
"Il Fronte Comune di Opposizione alla legge di prevenzione del
terrorismo" alla quale aderiscono più di 70 organizzazioni, e che
ha iniziato delle azioni di resistenza. Molti manifestanti si sono
radunati davanti al quartiere generale della NIS e lì sono stati
raggiunti dai membri delle famiglie di prigionieri politici incarcerati
a causa della legge di sicurezza nazionale.
I manifestanti affermavano che la legge darà alla NIS il diritto di
qualificare una persona o un gruppo come "terrorista". Hanno
consegnato una lettera di protesta alla NIS e manterranno una staffetta
di persone davanti al Parlamento per convincere i deputati a votare
contro la legge. Il Fronte Comune prepara ugualmente una petizione da
consegnare alla Commissione
Parlamentare sulla Sicurezza.
La definizione di terrorismo è sempre stata oggetto di discussioni
politiche e le potenze egemoni utilizzano questo termine per
giustificare i loro propri atti di terrorismo. Le organizzazioni
internazionali, ONU compresa, hanno già tentato, invano, di darne una
definizione. Curiosamente, all'assemblea generale dell'ONU nel 1987, i
soli paesi che si siano opposti ad un'energica risoluzione contro il
terrorismo sono stati gli USA e Israele.
Si opposero perché all'epoca le loro azioni verso altri stati e popoli
avrebbero ben potuto essere qualificate di "atti di
terrorismo" dalla risoluzione dell'ONU. L'importante in questo
momento, non è di proporre una definizione più "limitata" di
terrorismo, ma di capire che gli imperialisti e le elite dei governi nel
mondo si sono incaricati della sua definizione e
la utilizzeranno contro i popoli del mondo per difendere i loro
interessi politici, economici e sociali. E' esattamente quello che sta
succedendo con le leggi che sono state varate dopo la tragedia dell'11
settembre. Le élites del governo non nascondono la loro intenzione di
includere nella loro definizione i "contestatori" che si
oppongono al "capitalismo globale". Ciò che, senza dubbio
alcuno, indica l'opposizione sempre più grande alla globalizzazione
neo-liberista. Il calendario economico e politico che i difensori nel
neo-liberismo progettano (vedi Doha) è concepito per ostacolare tutto
quello che il movimento internazionale contro la globalizzazione ha
compiuto in questi ultimi anni, e la serie delle "leggi
anti-terrorismo" è fatta apposta per appoggiare questo calendario.
E' importante esaminare questa legge alla luce degli obiettivi economici
e politici del governo, dobbiamo combatterla fino in fondo.
PICIS - - Policy and Information Center for International Solidarity
http://picis.jinbo.net/
Traduzione a cura di Patrizia Rosa Rosa
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18.01 |
Le
Libertà in "custodia cautelare" in Canada
Le Libertà
in "custodia cautelare" in Canada
di
Yanic Viau (membro di ATTAC)
GRANELLO
DI SABBIA (n°28)
Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
Venerdì, 18-01-2002
1. I progetti di legge "antiterrorismo" del governo canadese:
inaccettabili e pericolosi.
La risposta del governo canadese agli attentati dell'11 settembre si è
tradotta, sul piano legislativo, nell'elaborazione di due progetti di
legge "antiterrorismo": innanzi tutto il progetto di legge
C-36, presentato dal ministro della giustizia Anne McLellan; in secondo
luogo, il progetto di legge C-42, presentato recentemente dal ministro
della difesa Art Eggleton.
Il governo del primo ministro liberale Jean Chretien vuole approvare in
tempi rapidi questi due progetti, di chiara ispirazione statunitense, e
per fare ciò è pronto a mettere il bavaglio ai deputati della Camera
dei Comuni.
Questi provvedimenti, se entrassero in vigore senza emendamenti
sostanziali, costituirebbero una grave minaccia per le libertà
fondamentali ed i movimenti sociali, com'è stato denunciato dalla Lega
dei diritti e delle libertà in una "Dichiarazione comune contro il
progetto di legge
antiterrorismo C-36 ed in favore delle libertà civili", cui hanno
aderito molti gruppi ed associazioni, tra i quali Attac-Québec.
"Dichiarazione comune contro il progetto di legge C-36 e per la
difesa delle libertà civili"
Noi ci opponiamo al progetto di legge C-36 che modifica più di venti
leggi, tra le quali il Codice Penale, la legge sui segreti di stato, la
legge sulle prove nel processo penale e la legge sull'accesso
all'informazione.
L'insieme delle modifiche proposte con questo progetto di legge omnibus
sconvolge il sistema giuridico e giudiziario e implica la rinuncia a
garanzie fondamentali, riconosciute dalla Carta canadese dei diritti e
delle libertà, dal diritto comune e dalle regole di equità
processuale, tra le
quali il diritto alla libertà, alla sicurezza, ad un processo pubblico
nonché il diritto al silenzio.
Si avrebbe un aumento notevole dei poteri del governo e dei corpi di
polizia, e sarebbero introdotte modifiche fondamentali alle regole
giudiziarie normalmente applicate, soprattutto in materia di fermo, di
detenzione e di intercettazioni: carcerazione preventiva senza accusa
fino a 72 ore, svolgimento di indagini senza preciso mandato e, nel
quadro di tali indagini, detenzione a meri fini di interrogatorio. Le
comunità arabe e musulmane, in particolare, temono di essere vittime
designate di queste misure. Gli ampi poteri conferiti alle forze
dell'ordine consentono loro di interrogare, sorvegliare, detenere e
schedare persone sulle quali gravano dei semplici sospetti di
"attività terroristica". La stessa definizione di attività
terroristica, di importanza centrale nel progetto di legge, è vaga,
imprecisa, di una portata talmente ampia da permettere di ricomprendervi
quelle forme di contestazione e dissenso che con il terrorismo non hanno
nulla a che vedere, come ad esempio scioperi illegali, azioni di
disobbedienza civile e perfino manifestazioni pubbliche.
La necessità di tali misure non è stata dimostrata, in relazione agli
obiettivi dichiarati, e su di esse non si è avuto, preliminarmente, un
vero dibattito politico. Inoltre, il Codice penale e la legge sui
servizi segreti canadesi, contengono già diverse disposizioni che
permettono una lotta efficace contro il terrorismo.
Non si tratta di negare l'adeguatezza di alcune disposizioni, che
possono essere giustificate dalla situazione attuale, soprattutto quelle
che riguardano i finanziamenti dei gruppi terroristici, l'eliminazione
dei paradisi fiscali e la lotta al riciclaggio di denaro sporco così
come il
rafforzamento delle misure di sicurezza in certi luoghi nevralgici come
gli aeroporti, le centrali nucleari o le frontiere.
Tuttavia il progetto C-36 nel suo complesso è inaccettabile. E' una
risposta precipitosa e eccessiva alle preoccupazioni suscitate dagli
attentati terroristici dell'11 settembre, che apre la porta a gravi
violazioni dei diritti e delle libertà.
E' necessario, al contrario, non farsi schiacciare dall'ondata di panico
provocata da quegli attentati e non sacrificare le nostre libertà
civili con progetti di questo tipo.
E' per questi motivi che chiediamo il ritiro del progetto di legge C-36.
Lega dei diritti e delle libertà 65, avenue De Castelnau Ouest, bureau
301 Montréal (Québec) H2R 2W3 Fax: (1-514) 849-6717 Posta
elettronica: ldl@videotron.net
2. Progetto di legge C-36: riduzione dei tempi del dibattito per i
parlamentari canadesi.
Lo scorso 28 novembre, il
governo canadese ha fatto adottare una mozione che ha posto limiti
temporale al dibattito sul progetto di legge C-36 contro il terrorismo,
cosa possibile in base alle regole del parlamentarismo di tradizione
britannica.
Il progetto di legge ha così superato rapidamente la soglia della terza
lettura con 190 voti a favore e 47 contro. I liberali (PLC, al potere)
hanno ottenuto l'appoggio dell'opposizione di destra (Partito
conservatore e Alleanza canadese). Il Blocco québécois (BQ,
indipendentisti del Québec) ed il nuovo partito democratico (NPD,
centro- sinistra) si sono opposti, ritenendo il progetto una minaccia
alle libertà civili.
Il
PDL è stato così adottato ed inviato al Senato (assemblea non
elettiva, i cui membri sono nominati dal primo ministro), dove solo
poche ore saranno destinate al dibattito. Il governo ha auspicato che il
progetto sia adottato definitivamente prima di Natale, in ragione della
sua importanza, lasciando anche intendere che dei deputati d'opposizione
hanno cercato di fare
ostruzionismo per ritardarne l'approvazione. In realtà tutti i partiti
si erano impegnati a dibattere il progetto senza ambiguità.
"Sembra che più un progetto di legge è importante, meno la Camera
dei comuni ha la possibilità di dibatterne. E' una tendenza che mi
preoccupa. Più è importante, meno tempo si ha per discuterne", ha
dichiarato Bill Blaikie, deputato del NPD, citato nel quotidiano di
Montréal, Le Devoir. Un deputato del Partito liberale, al potere,
Andrew Teledgi, fuggito dal regime stalinista ungherese in gioventù, ha
votato contro il progetto.
Il progetto ha incontrato l'opposizione di un'ampia coalizione di
organizzazioni e di privati cittadini. L'associazione del Foro canadese
e il commissario per l'informazione, John Reid (ombudsman in materia di
tutela della vita privata nominato dal governo federale - figura analoga
al nostro garante per la tutela dei dati personali) si sono mostrati
preoccupati e
insoddisfatti del progetto di legge così com'è attualmente, nonostante
qualche emendamento di scarsa importanza apportato dal ministro
McLellan.
Quest'ultima ha scritto alla presidente del comitato del Senato che
studierà il progetto di legge per chiedere di rimuovere quelli che
ritiene dei seri attentati ai poteri conferitigli dal Parlamento.
3. Le leggi "antiterrorismo" contro i movimenti sociali: il
punto di vista di un Ministro e di un alto funzionario canadese.
L'idea di ricorrere a leggi e misure c.d. "antiterrorismo"
contro i movimenti sociali non è che una paranoia dei militanti e delle
militanti, priva di fondamento.
Lo scorso 28 novembre, un alto funzionario del governo canadese spiegava
in cosa consiste la nozione di "zona di sicurezza militare",
prevista nel nuovo progetto di legge C-42 sulla sicurezza pubblica,
prendendo ad esempio il vertice di capi di stato e di governo delle
Americhe, riuniti lo scorso aprile a Québec per negoziare una Zona di
libero scambio delle Americhe (ZLEA). Il ministro canadese della difesa
ha in mente soprattutto il prossimo vertice del G8, previsto a
Kananaskis (Alberta, Canada) la prossima estate.
Se il progetto di legge C-42 sulla sicurezza pubblica fosse entrato in
vigore lo scorso aprile, il vecchio Québec avrebbe potuto essere
trasformato in "zona di sicurezza militare" durante lo
svolgimento del vertice delle Americhe. E' solo uno degli esempi portati
da un funzionario di alto livello per spiegare questo concetto ai
ministri federali e provinciali della giustizia e della sicurezza,
riuniti ieri a Ottawa.
Nonostante la sua apparenza di progetto di legge destinato a rafforzare
la sicurezza negli aeroporti, il C-42 contiene alcune disposizioni che
consentono al ministro della difesa, su raccomandazione del capo di
stato maggiore, di creare delle "zone di sicurezza militare",
ad accesso limitato "per assicurare la sicurezza di qualunque
persona e di qualunque cosa",
qualora ciò sia ritenuto necessario per "le relazioni
internazionali, la difesa o la sicurezza nazionale".
Queste zone potrebbero essere create al fine di proteggere
infrastrutture militari oppure "i beni, i luoghi o gli oggetti che
le forze canadesi hanno ricevuto istruzione di proteggere, per adempiere
ad un obbligo previsto dalla legge". Potrebbero essere stabilite
per un periodo massimo di un anno e la loro estensione "non dovrà
essere più grande di quanto è
ragionevolmente necessario" (dal progetto di legge citato in Le
Devoir, Montréal, 29 novembre 2001).
Un terreno, uno specchio d'acqua, lo spazio aereo o un'installazione
militare, i beni del governo federale o quelli di un paese straniero,
potrebbero essere interessati da questo tipo di provvedimento. In tali
zone la circolazione sarebbe vietata e gli intrusi, animali compresi,
potrebbero essere respinti con la forza.
Il Bloc québécois (gruppo indipendentista al parlamento federale) ha
paragonato il progetto di legge C-42 alla legge canadese sulle misure di
guerra, applicata durante la crisi d'ottobre. Vi è da ricordare che
nell'ottobre 1970, una cellula del Fronte di liberazione del Québec
(FLQ) rapì il
ministro del lavoro del Québéc, Pierre Laporte. Il governo federale,
allora presieduto da Pierre Elliott Trudeau, rispose instaurando lo
stato di guerra verso il Québéc e distribuendo l'esercito su tutto il
territorio di quella regione, utilizzando inoltre la crisi per
orchestrare una campagna del terrore contro i movimenti sociali e il
movimento indipendentista.
Centinaia di persone furono vittime di perquisizioni e detenzioni
arbitrarie, soprattutto artisti, intellettuali di sinistra, militanti
sindacali e politici senza alcun legame con il FLQ.
Oggi Il "Blocco" teme che la nuova legge sia utilizzata non
solo nei confronti di individui ma anche su interi territori. Il primo
ministro federale, Jean Chrétien, ha accusato il Bloc Québécois di
"esagerare e tentare di spaventare il mondo".
Per preoccupazione reale o per opportunismo, molte voci si levano contro
l'utilizzo del progetto di legge C-42 allo scopo di reprimere le
manifestazioni sociali legate al tema della globalizzazione.
Lo stesso leader del partito conservatore Joe Clark, ha rilevato come il
governo potrebbe ricorrere alla legge C-42 per chiudere completamente la
città di Kananaskis, nell'Alberta, dove è in programma il prossimo
vertice del G8, la prossima estate, dichiarandola "zona
militare".
Lo scorso 26 novembre, il ministro della giustizia, Anne McLellan, aveva
cercato di rassicurare il deputato di centro-sinistra (NPD) Bill Blaike,
assicurando che il progetto di legge C-42 non aveva obiettivi nascosti e
che non sarebbe servito a consentire la blindatura di Kananaskis durante
il prossimo vertice del G8. Due giorni più tardi, tuttavia, il ministro
della difesa, Art Eggleton, ha smentito la sua collega affermando che
"la legge permette, tra l'altro, di intervenire in circostanze
nelle quali la polizia ha bisogno d'aiuto. Questo intervento può
avvenire ad esempio in una zona dove si svolge un incontro, un vertice,
come Kananaskis. Altro esempio potrebbe essere una centrale
nucleare".
L'atteggiamento difensivo del governo ed il suo rifiuto di dar vita ad
un vero ed approfondito dibattito sui due progetti di legge determinano
una riduzione della fiducia e del relativo appoggio che i partiti
d'opposizione gli avevano accordato dopo i fatti dell'11 settembre, per
lottare uniti contro il terrorismo.
Informazioni fornite da:
Yanic Viau, ATTAC-Québec quebec@attac.org
Fonti: Le Devoir (Montréal), CMAQ (Indymedia Québec), ATTAC-Québec
Traduzione a cura di Silvio Favari
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18.01 |
Definire
il terrorismo
Definire
il terrorismo
di
John Brown
GRANELLO
DI SABBIA (n°28)
Bollettino elettronico settimanale di ATTAC
Venerdì, 18-01-2002
A proposito della proposta di una decisione-quadro sul terrorismo che è
stata proposta dalla Commissione Europea al Consiglio dell'UE (estratto)
La tradizione dello stato di diritto come ostacolo per una definizione
del terrorismo.
Il termine "terrorismo" viene per la prima volta usato nel
diritto internazionale in due testi recentissimi: la Convenzione
internazionale per la repressione degli attentati terroristici a base di
esplosivo (New York, 15 dicembre 1997) e la Convenzione internazionale
per la repressione del finanziamento del terrorismo (New York, 9
dicembre 1999).Questi due testi presentano un paradosso interessante:
non danno una definizione diretta del termine "terrorismo",
che tuttavia appare come aggettivo o come sostantivo nel titolo
dei due atti; altri concetti essenziali sono invece espressamente
definiti. Certo, si sono fatti sforzi notevoli per passare dalla
pluralità di atti punibili che erano contenuti nelle disposizioni
precedenti ad una
delimitazione generale del fatto terroristico, ma questa delimitazione
non riesce a divenire una definizione chiara.
Pare quindi che ci sia una certa reticenza a definire un termine che,
comparendo nei titoli, dovrebbe essere fondamentale in questi testi
legislativi, e che diverrà retroattivamente la chiave di volta di una
nuova dottrina giuridica.
La Commissione, nell'esporre i motivi della proposta, affermava:
"secondo la convenzione contro il finanziamento del terrorismo, il
fatto di fornire o raccogliere fondi, direttamente o indirettamente,
illecitamente e intenzionalmente, in vista di utilizzarli o essendo
consapevoli che saranno utilizzati per commettere ogni atto contemplato
nella Convenzione summenzionata (con l'eccezione della Convenzione
relativa alle infrazioni e a determinati atti compiuti a bordo di
aeromobili, che non vi è compresa) costituisce un'infrazione. Ciò
significa che, anche se i termini "terrorismo" o
"atti terroristici" non figurano nella maggioranza delle
Convenzioni, essi riguardano le infrazioni terroristiche".
Insomma, il legislatore internazionale degli anni dal '60 all'80,
avrebbe già fatto dell'antiterrorismo senza saperlo.
Noi non riusciamo a essere d'accordo. C'è un'enorme differenza tra la
definizione di azioni concrete che il legislatore giudica punibili e la
formulazione di una categoria giuridica generale come quella di
"terrorismo", che comprende queste azioni e molte altre,
unificandole sotto una finalità comune di ordine politico. Questa
distanza è chiaramente rilevabile nelle differenti finalità che
esistono tra i testi che definiscono queste azioni e quelli che
definiranno il terrorismo.
Lo scopo dei primi testi è in generale quello di favorire la
cooperazione internazionale nella lotta contro determinati atti di
violenza particolarmente pericolosi o odiosi. A quesito scopo, era
importante distinguerli dalle azioni politiche, di rifiutare loro il
riconoscimento di
ogni carattere politico e di comprenderli nel diritto comune. Questo è
d'altronde indispensabile in sistemi legali democratici e garantisti,
che non conoscono delitti politici e che non riescono a sanzionare che
azioni concrete e mai le opinioni.
A titolo di esempio, leggiamo l'articolo 6 della Convenzione sulla
repressione del finanziamento al terrorismo: "Ogni stato membro
adotta le misure che possono essere necessarie, ivi
compreso, se è il caso, una legislazione interna, per garantire che le
azioni criminali che derivano dalla presente convenzione non possano in
alcuna circostanza essere giustificate da considerazioni di natura
politica, filosofica, ideologica, razziale, etnica, religiosa, né da
considerazioni di analoga natura".
Questa affermazione coincide con quella dell'articolo 5 della
Convenzione sugli attentati terroristici a base di esplosivo e, a
livello europeo, con quella della Convenzione del Consiglio d'Europa del
1977.
E' dunque l'aspetto non politico dell'atto (azione) terroristico che
deve essere messo in evidenza. Per questa ragione, l'unico elemento che
distingue gli atti terroristici dagli atti di diritto comune - e cioè
la loro finalità politica - dev'essere sistematicamente messa tra
parentesi, ciò che rende impossibile la loro definizione. Al
contrario, la definizione del terrorismo esigerà che venga più o meno
chiaramente invocata una finalità politica.
Anche se non esiste una definizione precisa di terrorismo, la
Convenzione sul finanziamento al terrorismo (art. 2, comma 1b),
considera infrazione, oltre alle azioni concrete previste dalle varie
convenzioni internazionali: "ogni (.) azione destinata a causare la
morte o danni corporali gravi a ogni civile, o ad ogni altra persona che
non partecipa direttamente alle ostilità
in una situazione di conflitto armato, quando, per la natura del suo
contesto, questa azione è destinata a intimidire una popolazione o a
costringere un governo o un'organizzazione internazionale a fare o a non
fare una qualsiasi azione".
Questa definizione merita di essere analizzata con un po' d'attenzione.
Costituisce un primo tentativo di definizione del terrorismo, ma mette
insieme concezioni differenti - e cioè in contraddizione a questo
fenomeno. La prima, quella che insiste sui danni causati alla
popolazione civile, si situa sulla linea dei principi del tribunale di
Norimberga.
La seconda, che mette in rilievo il sovvertimento dell'ordine politico,
troverà la sua espressione nel "Terrorism Act" inglese e
ispirerà la proposta della Commissione.
John Brown (membro di ATTAC)
Traduzione a cura di U.g.b. Bardella
Per
leggere il Granello più comodamente e per stamparlo su carta
Format RTF http://attac.org/attacinfoit/attacinfo28.zip
Format PDF http://attac.org/attacinfoit/attacinfo28.pdf
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17.01 |
Diorama:
Padroni del mondo?
"Padroni
del mondo?"
Sommario del numero 249 (gennaio 2002) di "Diorama
Letterario", pp. 40, euro 2,30
OSSERVATORIO
11 settembre 2001 (Alain de Benoist)
Qualche dubbio dopo gli attentati di New York e Washington (Claude
Karnoouh)
Gli attentati di New York e Washington: cause oscure, effetti certi
(Ruben Frizzera)
POLITICA
John Cooley: Una guerra empia (Alessandro Bedini)
Ludovico Incisa di Camerana: Stato di guerra (Roberto Zavaglia)
Testimoni a Coblenza (Mario Sanesi)
Antonio Venier: Il disastro di una nazione (Stefano Serafini)
Murray Bookchin: Democrazia diretta (Claudio Ughetto)
IDEE
Joseph de Maistre: Breviario della tradizione (Paolo Pastori)
Manuela Alessio: Tra guerra e pace (Luca Rimbotti)
RIVISTE
Koinè (Walter Catalano), Trasgressioni
LETTERATURA
Hugo Claus: La sofferenza del Belgio (Mario Sanesi)
"Diorama Letterario" è acquistabile
presso tutte le librerie del circuito Feltrinelli.
sito web: www.diorama.it
ordini@diorama.it
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17.01 |
I
conflitti nell'era della globalizzazione
Comune di Somigliano
d’Arco – Assessorato alle Politiche culturali
SI
TERRA’ SABATO 19 GENNAIO PRESSO IL PALAZZO BARONALE
DI
POMIGLIANO D’ARCO IL CONVEGNO SU
“I
CONFLITTI NELL'ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE”
L’EVENTO
SI INSCRIVE NEL PROGRAMMA DI “CITTA’ GLOBALE”
Avrà luogo sabato 19 gennaio alle ore 18.00 nella
cornice del restaurato Palazzo Baronale di Pomigliano d’Arco (Piazza
Municipio), il convegno dal titolo “I conflitti nell’era della
globalizzazione”. Al dibattito interverranno: Michele Caiazzo, sindaco
di Pomigliano d'Arco;
Luigi
Casciello,
direttore del
quotidiano "Roma"; Alfonso Desiderio, responsabile attività esterne di "Limes";
Francesco
Romanetti,
responsabile
esteri del quotidiano "Il Mattino"; Rosario Sommella, docente
di geografia dello sviluppo presso l’Istituto Universitario Orientale; Sergio
Travi,
vice
presidente di Amnesty International di Italia.
L’evento, organizzato dall’Assessorato alle Politiche
Culturali del Comune di Pomigliano d’Arco, in collaborazione con
Limes, rientra nell’ambito del progetto più ampio di “Città
Globale”, un contenitore di eventi eterogenei, che hanno avuto inizio
il 20 dicembre con la mostra fotografica “Non sopportiamo la
tortura”, ospitata nella stazione Circumvesuviana e realizzata in
collaborazione con Amnesty International (resterà aperta fino al 27
gennaio). La prima fase del contenitore di città globale chiuderà
l’arco di eventi domenica 27 gennaio con la proiezione “Il viaggio
della memoria” sugli orrori della guerra, evento che si terrà presso
il Capannone La Gatta, nella zona industriale di Pomigliano d’Arco.
“Città Globale raggruppa eventi di diversa natura”
spiega Onofrio Piccolo, assessore alle politiche culturali del
Comune di Pomigliano d’Arco, nonché fautore del progetto, “dai
concerti alle mostre alle proiezioni ai dibattiti, eventi rivolti a
target diversi, ma con una finalità comune:
porre al
centro dell'attenzione il fenomeno della globalizzazione della società
proponendo, se possibile, chiavi di lettura alternative alla tendenza diffusa di
interpretare gli eventi mondiali attraverso il filtro dei valori
della nostra società occidentale e di considerare questi
ultimi come unico parametro di riferimento”.
Il
convegno cade in un momento particolare: si alluderà agli eventi
in Afganistan senza però ridurre unicamente il dibattito all'intervento
militare occidentale in Asia. “Gli osservatori attenti”
sostiene l’assessore Piccolo, “avranno già notato in tempi non
sospetti, forse lo spartiacque è stato veramente la guerra
mediatica del Golfo, che il fenomeno della globalizzazione, di pari
passo al crollo dell’Unione Sovietica, ha posto nuovi problemi ed ha fatto
tornare a galla vecchie teorie: alludo alle tesi di Hountington
sullo scontro tra civiltà”. Il convegno indagherà dunque
l’evoluzione dei rapporti tra popoli, società ed individui,
affrontando temi cruciali quali il carattere “asimmetrico” delle
nuove guerre, il ruolo dei media, il fattore religioso ed etnico, la
marginalizzazione dei sud del mondo.
L’ADDETTO STAMPA
Per Informazioni: www.cittaglobale.org
- Ufficio Stampa: 0818034139 - 3391167698
Onofrio Piccolo, Assessore alle politiche
culturali
tel. 081 5217306 – fax. 081
5217206 – cell. 348 8055676 - 339 6540264 - onofriopiccolo@libero.it
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16.01 |
Sondaggio
CNN per gli ispettori ONU in Palestina
La
CNN sta effettuando un sondaggio in cui chiede se si debba o meno
inviare degli osservatori internazionali in Israele e nei territori
palestinesi. Andate all'indirizzo
http://home.netscape.com/ex/shak/international/packages/mideast/
e
votate sì in basso a destra!
La percentuale è attualmente di 35 % "sì" e 65 %
"no" (12/I/02 h15).
Votiamo e facciamo votare per ribaltarla! Facciamo sentire che esiste
un'opinione pubblica a favore dell'invio di osservatori al fine di
proteggere la popolazione civile. Da tempo i responsabili palestinesi e
il movimento per la pace israeliano lo reclamano. Mentre ad opporsi è
solo chi, da entrambe le parti, vuole aver la possibilità di risolvere
(?) le cose come in un film western. Inviate questo messaggio a tutti
gli indirizzi che avete.
Rosetta
****
il 18.01 Annamaria Face ha risposto
così all'appello:
Non credo che queste iniziative
servano a molto, specialmente se si pensa che a capo della CNN c'è un
certo Abrahamson!
|
15.01 |
Arabcomint:
non può parlare seriamente, Mister Peres
Non puo' parlare
seriamente, Mister Peres
Il primo ministro israeliano ed il suo ministro
degli esteri sono intensamente impegnati nei negoziati sul futuro dei
Territori occupati e sulla creazione di uno stato palestinese, secondo i
media israeliani. Sfortunatamente, i due non stanno negoziando con i
palestinesi, ma tra di loro.
In maniera tipicamente israeliana, i due
non vedono il futuro della regione come un qualcosa che debba essere
determinato dai suoi popoli, secondo i principi della legge
internazionale e della giustizia, ma piuttosto come una faccenda
essenzialmente interna su cui le varie fazioni politiche israeliane
hanno il diritto di accapigliarsi.
Cosi', il ministro degli esteri Shimon
Peres ha lanciato un'altra delle sue famose "iniziative" -
trattasi della costituzione di uno "stato palestinese" nella
Striscia di Gaza, da estendersi, non si sa quando ne' a quali
condizioni, ad alcune parti della Cisgiordania. L'unica faccenda che i
due devono risolvere riguarda la rimozione di alcune colonie dalla
striscia di Gaza occupata. Sembra dunque che la "pace" sia a
portata di mano.
Se la situazione nei Territori occupati
non fosse cosi' drammatica a causa della continua aggressione israeliana
contro l'esistenza dei palestinesi, la discussione Sharon-Peres potrebbe
essere la base di una satira ilare e ben riuscita. Al contrario, essa
dimostra quanto la classe politica israeliana sia lontana dal
riconoscere la profondita' della crisi che essa ha creato e dei rimedi a
cui ricorrere per metterci una pezza.
Tra le idee presentate recentemente da
Peres ai leaders dell'Unione Europea riuniti a Bruxelles vi e' quella
secondo cui l'Europa deve impegnarsi in alcuni progetti come parte del
suo "piano di pace", i quali includono la creazione di un
impianto energetico, un impianto di desalinizzazione, un oleodotto per
il gas naturale, un'autostrada che colleghi Gaza alla Cisgiordania ed ai
siti industriali. Tale linguaggio non e' altro che un trucco usato per
tergiversare sull'assoluta ed inderogabile necessita' di una completa e
rapida fine dell'occupazione militare israeliana in tutte le sue forme.
E' uno sforzo estremo di riesumare il gioco delle scatole cinesi che
risponde al nome di "accordi di Oslo".
Signor Peres, i palestinesi non vogliono
doni ne' da lei ne' dall'Unione Europea. Essi vogliono la liberta' dai
soldati israeliani, dai torturatori, dagli squadroni della morte, dai
coloni e dagli ipocriti piani di "sviluppo" creati per loro e
che non mettono l'accento sulla fine delle strutture di oppressione e
strangolamento che negano loro qualsiasi diritto da 4 decenni. Queste
dichiarazioni non sono diverse da quelle dei leaders del Sudafrica
dell'apartheid, i quali, piuttosto che parlare dei problemi in termini
di diritti umani e politici, risolvevano il tutto con la promessa -
ugualmente inadempiuta - di "sviluppo economico" per i neri.
I dettagli dell'ultimo delirio di Peres
sono ininfluenti. E' sufficiente dire che quello che oggi lui propone e'
ancora meno di quanto proposto da Ehud Barak a Camp David. Peres non
puo' certamente credere che ci sia un solo palestinese sulla terra
disposto a considerare seriamente la proposta che lui e Sharon si
apprestano a lanciare.
E' molto verosimile, invece, che lo
scopo di Peres sia semplicemente fare in modo che il governo israeliano
- governo che ha sempre tenacemente rifiutato qualsiasi negoziato con i
palestinesi - sia pressato il meno possibile. Un altro scopo potrebbe
essere quello di tenere caldo il suo quasi defunto corpo politico in
vista di una futura corsa alla poltrona di primo ministro. Questo impone
che Peres si presenti sulla scena internazionale come
"colomba" alternativa mentre, al tempo stesso, si tiene al
centro del potere in Israele.
Si consideri che Peres accompagna il suo
nuovo piano con la speranza per la creazione di un "Benelux
economico" che comprenda, tra gli altri, Israele ed il glorificato
campo di concentramento palestinese che, con molta fantasia ed
altrettanto cinismo, si chiamera' "stato". Il tutto con la
cooperazione dell'Unione Europea.
Non si vergogna, quest'uomo, di
riferirsi alle strutture dell'Europa uscita dalla Seconda Guerra
Mondiale create con lo scopo di impedire il ripetersi di guerre e
genocidi quando lui e' membro di un governo che include, tra gli altri,
un partito che apertamente chiede il ripetersi della pulizia etnica dei
palestinesi? Naturalmente, si suppone che noi crediamo che, pur sedendo
allo stesso tavolo del partito Moledet e del suo leader recentemente
assassinato, Rehavam Zevi, Peres sia, in realta', un moderato.
Ammesso che sia cosi', come si puo'
ritenere che Sharon ed i suoi ministri pro-pulizia etnica, i quali non
ascoltano Bush, possano ascoltare Peres? E poi, non e' sufficientemente
chiaro che la posizione di Peres e' molto cambiata di recente? Cio'
significa che, piu' che avere Peres un ruolo "moderatore" nei
confronti del suo governo, e' piuttosto questo governo, composto da
Sharon e dai suoi ministri ultrarazzisti, a radicalizzare anche le
cosiddette "colombe", sicche' le loro ideologie fanatiche di
dominio razziale e religioso, totalmente aliene al mondo civile,
finiscono per divenire il corso naturale della politica israeliana.
Peres, dando in prestito al governo
Sharon la sua dubbia ma durevole rispettabilita', agisce, in realta',
per la continuazione di una cultura politica israeliana persino piu'
feroce, la quale non immagina altro futuro per il Medioriente che non
sia quello basato sul confronto e la conquista.
Come scrisse un famoso filosofo francese
del diciottesimo secolo, che diede il suo nome ad un certo genere di
perversa crudelta'molto familiare per le vittime della barbara
occupazione israeliana, "nessuno e' piu' pericoloso di un uomo
privo di vergogna che sia diventato troppo vecchio per arrossire".
Ali
Abunimah, intellettuale residente negli USA, autore del libro "La
Nuova Intifada: resistenza all'apartheid israeliano".
http://www.arabcomint.com/non%20puo'%20parlare%20seriamente.htm
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15.01 |
I
Taleban in catene: spettacolo incivile
I TALEBAN IN
CATENE: SPETTACOLO INCIVILE
di Massimo Fini
(il Giorno, 15.01.02)
L'altra sera «Porta a
Porta» ha dato il peggio di sé con una trasmissione sull'Afganistan
cui erano presenti, oltre al ministro della Difesa Antonio Martino, al
diessino Ranieri e alla giornalista Lucia Annunziata, Vittorio Sgarbi e
il cantante Lorenzo Jovanotti, che han fatto la parte del leone.
Lascia perplessi che il ministro Martino si lasci coinvolgere in
dibattiti con guitti di questo genere, ma forse la colpa è dei tempi,
in cui a farla da opinion maker non son più i Benedetto Croce,
i Carlo Arturo Jemolo, i Pasolini, ma i Jovanotti, le Parietti e,
insomma, i rappresentanti dello
star system cui Sgarbi, occasionalmente sottosegretario alla
Cultura, appartiene a giusto titolo. Naturalmente è stata la sagra dei
luoghi comuni, delle viscere in luogo degli argomenti, dal «pacifismo
universale», utopico e calabraghe alla Jovanotti, dei consueti insulti
di Sgarbi per il quale chiunque è contrario a questa guerra è un
nipotino di Hitler.
In genere si crede - e «Porta a Porta» ne è buona testimonianza - che
chi è contrario alla guerra all'Afganistan sia un pacifista integrale e
di sinistra. Non è così. Si può esser convinti che la guerra sia a
volte indispensabile per risolvere conflitti non componibili altrimenti,
ma essere contrari a questa guerra, al modo in cui è stata condotta,
agli obiettivi che sono stati raggiunti. Proprio dalle parole di
Martino, della Annunziata, di Ranieri veniva fuori con chiarezza che gli
americani sono andati in Afganistan per combattere i terroristi e han
finito per far la guerra al governo talebano e al burqa. Ci si
può chiedere se è lecito bombardare per tre mesi un Paese, ammazzare
3.767 civili (più delle Torri gemelle) secondo stime della università
del New Hampshire, 8.000 secondo altre, solo perché c'è una dittatura.
L'Annunziata, invece di vergognarsi d'esser lì, squittiva di
autoammirazione occidentale, osservando
che posizioni contrapposte come quelle di Jovanotti e Sgarbi sono
possibili solo nella tolleranza della democrazia. Ma è troppo facile
essere tolleranti con chi è comunque omogeneo allo schema ideologico ma
poi reagire bombardando chi non lo è, come i Taleban. Né mi sembra
avere
nulla a che fare con la tolleranza il vizietto che abbiamo preso da
qualche tempo di considerare il nemico, si tratti di Khomeini, di Saddam
o del mullah Omar, come «il Male», consentendoci, per ciò,
cose che non si erano viste neanche nella Seconda guerra mondiale:
bombardamenti su detenuti, bombe da sette tonnellate per stanare un
talebano inguattato, forse, nella foresta, bombe su un intero villaggio
perché vi è nascosto, forse, un terrorista, arresti di ambasciatori
accreditati e, da ultimo, prigionieri trattati non come prigionieri di
guerra e nemmeno come criminali, ma
trascinati, legati l'uno all'altro, in catene incappucciati, riempiti di
psicofarmaci costretti a cagarsi addosso in un viaggio aereo di
ventisette ore e, infine, rinchiusi, come bestie, in gabbie all'aperto
sotto la luce dei riflettori giorno e notte.
Non è necessario essere pacifisti per dir no a tutto questo. E'
sufficiente aver rispetto della guerra e delle sue regole.
http://www.ilgiorno.it
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15.01 |
il 22
gennaio alla Casa delle Letterature: "Panta
editoria"
Martedì 22 Gennaio 2001 - Ore 17,00
Casa delle Letterature - P.zza dell'Orologio, 3
L'Università Popolare di Roma
presenta Panta
Editoria
edizione Bompiani
a cura di Laura Lepri e Elisabetta Sgarbi
Introduce: Alain Elkann
Coordina: Francesco Florenzano
Interverranno:
Marco Cassini, Ivan Cotroneo, Daniele Di Gennaro, Carmine Donzelli,
Elido Fazi, Enrico Ghezzi, Giuseppe Laterza,
Eugenio Lio, Anna Maria Lorusso, Corrado Perna, Sandro Veronesi.
Saranno presenti le curatrici del volume
Per informazioni: 06.69.20.43.310
Vi consiglio di richiedere la
lettera di programma.asefi@asefi.it
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|
15.01 |
In
Afghanistan USA e GB interessate al petrolio e non alla condizione della
donna
Ex-ministro
britannico: "l'interesse USA e GB in Afghanistan è il
petrolio, e non certo liberare le donne dal regime talebano"
di Adel Darwish
(al-Watan, Arabia
Saudita, 15 gennaio 2002)
|
وزير
بريطاني
سابق:
اهتمام
واشنطن
ولندن
بأفغانستان
سببه
البترول
وليس تخليص
النساء من
حكم طالبان
لندن:
عادل درويش
اتهم
السياسي
البريطاني
العمالي
الشهير
توني بن
حكومتي
بلاده
والولايات
المتحدة
الأمريكية
بالتورط في
أفغانستان
لأسباب
تتعلق
ببترول
آسيا
الوسطى
وليس من أجل
مصلحة
الشعب
الأفغاني
أو البلدان
المحيطة أو
مكافحة
الإرهاب
كما تدعيان.
وكان بن
الذي عمل
وزيرا
للبترول
والطاقة في
حكومة
العمال في
منتصف
السبعينيات
يتحدث أمس
في برنامج
أسبوعي في
الـ "بي بي
سي" عن
الفلسفات
والتيارات
المعاصرة،
مع عدد آخر
من ضيوف
البرنامج
من
المفكرين،
عندما قال "من
السذاجة أن
نصدق
ادعاءات
حكومتي
لندن
وواشنطن
حول أنهما
ذهبتا إلى
أفغانستان
لنصرة
النساء
اللواتي
حرمتهن
طالبان من
التعليم
والعلاج
الصحي، أو
لمساعدة
الشعب
الأفغاني
على تأسيس
حكومة
ممثلة
لجميع
الطوائف".
وأضاف أن
اهتمام
بريطانيا
وأمريكا
بالوجود في
أفغانستان
"وبتأسيس
حكومة
صديقة
موالية
لهما يعود
إلى
إدراكهما
الأهمية
الإستراتيجية
لأفغانستان
من حيث إنها
طريق مهم
لاستخراج
بترول آسيا
الوسطى
والمناطق
المتاخمة
لبحر قزوين".
وتابع بن أن
"الرئيس
الأمريكي
جورج بوش
ومجموعة
مصالح
البترول من
تكساس التي
تمثل معظم
رجال
الإدارة
كانوا على
علم دائم
بممارسات
وسياسات
حكومة
الملا محمد
عمر عندما
دعوا ممثلي
طالبان قبل
ثلاثة
أعوام ونصف
إلى تكساس
للتفاوض
حول قيام
الشركات
الأمريكية
بإنشاء خط
أنابيب
لنقل
البترول من
كازاخستان
ووسط آسيا
عبر
أفغانستان
وطريق
الحرير
القديم".
وأضاف "أن
مفاوضات
طالبان حول
الموضوع
استمرت مع
الرئيس بوش
وأبيه
ومجموعة
المصالح
البترولية
في تكساس
قبل وبعد
توليه
الرئاسة".
وقال بن "إن
الحكومات
البريطانية
المتعاقبة،
سواء كانت
من
المحافظين
أو العمال،
تضع نصب
عينيها
المحافظة
على
المصالح
البترولية".
وأضاف "أن
حرب
الفوكلاند
التي
خاضتها
حكومة
مارجريت
تاتشر عام 1982م
ضد
الأرجنتين
كانت بسبب
البترول.
فالجزر
المتعارك
عليها
والخاضعة
للتاج
البريطاني
قرابة
سواحل
الأرجنتين
تحوي
مياهها
الإقليمية
كميات
هائلة من
البترول
تبلغ أضعاف
كميات
احتياطي
بترول بحر
الشمال".
واعترف
الوزير
السابق
بأنه كتب
عدة مذكرات
ورسائل
لمجلس
الوزراء
عندما كان
وزيرا
للبترول
والطاقة
يقول فيها
إن بترول
الفوكلاند
هو صمام أمن
الطاقة في
المستقبل
لبريطانيا.
وبناء
عليه،
عندما كان
الدكتور
دافيد أوين
وزيرا
للخارجية
في حكومة
العمال
بزعامة
جيمس
كالاهان
أرسل إلى
شواطئ
الفوكلاند
فرقاطتين
وغواصة
لتأكيد
حمايتها
بعد اكتشاف
البترول،
وهو الأمر
التي حاولت
بريطانيا
إبقاءه سرا.
ومعروف عن
بن، الذي
قضى قرابة
أربعة عقود
في العمل
السياسي،
اهتمامه
بحقوق
الإنسان
ورفضه
الحروب في
الربع
الأخير من
القرن
الماضي،
ومطالبته
منذ
الستينيات
بنزع
السلاح
النووي. وقد
عارض حرب
الفوكلاند
وطالب بحل
الأزمة في
مجلس الأمن
عندما نزلت
القوات
الأرجنتينية
في
الفوكلاند
عام 1982م،
وعارض أيضا
الحرب ضد
العراق عام
1990م وما زال
يطالب برفع
الحصار عنه
وبإرغام
إسرائيل
على تطبيق
جميع
قرارات
مجلس
الأمن،
وكان .أيضا
ضد الحرب في
أفغانستان.
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15.01 |
Sparisce
la mozione sgradita ad Israele
|
(da Liberazione del
14 gennaio)
Si è conclusa con una nota
polemica la missione della delegazione parlamentare italiana in
Medio Oriente. Una missione che aveva come obiettivo quello di
raccogliere informazioni sullo stato del processo di pace in Medio
Oriente, ma soprattutto di promuovere nei Paesi toccati - Egitto,
Giordania, Siria, Libano, Israele e Territori palestinesi - la
mozione approvata il 19 dicembre, praticamente all’unanimità,
dal parlamento italiano.
Una mozione che impegna il governo a promuovere le condizioni per
la ripresa del dialogo tra israeliani e palestinesi. Tre i punti
qualificanti della posizione italiana: la convocazione di una
Conferenza internazionale di pace, l’appoggio all’ipotesi di
invio di osservatori internazionali e il varo di un piano per lo
sviluppo dell’area, in particolare dei Territori palestinesi. Su
questa base comune, i dieci parlamentari - guidati dal presidente
della Commissione Esteri, Gustavo Selva - hanno avuto colloqui con
esponenti politici e di governo dei Paesi arabi, ai quali hanno
consegnato il documento.
Peccato però che Israele non voglia sentir parlare di conferenza
internazionale né tanto meno di osservatori, considerando il
processo di pace una partita ad appannaggio proprio e degli Stati
Uniti. Casualità o intenzione, fatto sta che, una volta arrivati
a Tel Aviv, il documento di fatto “sparisce” dalla scena dei
colloqui con gli interlocutori israeliani. Nel corso degli
incontri di domenica con il presidente della Knesset Avraham Burg,
o con il ministro degli Esteri Shimon Peres, il presidente Selva,
di An, non presenta e nemmeno illustra l’“imbarazzante”
documento italiano. Tanto che, ad una precisa domanda di una
giornalista dell’Adn-kronos su quale sia la sua opinione del
documento italiano, Peres dà una risposta di maniera, dicendo di
apprezzare la missione parlamentare e dimostrando di ignorare
l’oggetto della conversazione. Eppure, secondo le parole del
presidente della Camera Casini - riportate nel dossier preparato
dal Servizio rapporti internazionale e dal Servizio Studi di
Montecitorio - la missione viene promossa come la «rappresentazione
significativa della mozione». «E’ un fatto inaccettabile - ha
commentato Ramon Mantovani, deputato di Rifondazione comunista -,
questa era una missione della Camera dei deputati, e non una
trasferta personale. Valuterò quali iniziative prendere in sede
parlamentare».
|
S.P.
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14.01 |
Israele
nella UE
L'ennesima
iniziativa sciagurata dei Radicali:
Chi ringrazieremo quando le conflagrazioni della politica mediorientale
usciranno dalla virtualità degli schermi televisivi per toccare
visibilmente - con il loro strascico di sangue - anche i popoli europei?
Non
essendo visibile all'orizzonte alcuna inversione di rotta
nell'atteggiamento smaccatamente
filo-israeliano dei governi occidentali - le cui linee di fondo di
politica estera sono dettate dagli angloamericani, invariabilmente dalla
parte d'Israele - c'è di che preoccuparsi, perché se ancora gli arabi
operano una distinzione tra americani ed europei, tra non molto potrebbe
non essere così.
Ma le riflessioni che la notizia di un'iniziativa già sponsorizzata da
Adriano Sofri suscita sono molte e di diverso tenore.
Non è ridicola l'enfasi sui buoni rapporti con un mondo arabo da
"democratizzare" che
l'"ingresso" d'Israele nell'Ue garantirebbe? E poi, le
"dolorose concessioni" ai palestinesi, perché dovrebbero
farle a nostro rischio e pericolo?
Ma tant'è, grazie alla "promozione dei diritti umani e della
democrazia, alla risoluzione del conflitto mediorientale, alla lotta al
terrorismo e all'antisemitismo" (che probabilmente aumenterà,
perché un numero crescente di persone - assistendo a queste manovre -
sarà indotto ad identificare Israele con tutti gli ebrei), lodevoli
iniziative che l'Assemblea
Parlamentare internazionale dei parlamentari e dei legislatori ebrei
saprà presentare adeguatamente ai popoli europei con la consueta
profusione di mezzi, ci convinceremo di non aver fatto un cattivo
affare.
Forse, senza l'Europa dell'euro di trovate del genere non ne avremmo mai
sentito parlare.
Annamaria Face
da
http://www.radicali.it/
"ISRAELE NELL'UE".
REIBMAN: STORICA DECISIONE
Milano, 11 gennaio 2002
Si è appena conclusa a Gerusalemme la 6^ Conferenza Internazionale dei
Ministri e Parlamentari ebrei, che da oggi si costituisce in
Assemblea Parlamentare internazionale, dei parlamentari e legislatori
ebrei.
Ha eletto come presidenti, Lord Greville Janner e Abraham Burg, attuale
Presidente del Parlamento israeliano (Knesset) e un comitato direttivo,
di cui fa parte Yasha Reibman, consigliere del Gruppo Radicali - Lista
Emma Bonino al Consiglio regionale della Lombardia.
La conferenza si è posta come propri obiettivi la promozione dei
diritti umani e della democrazia, la risoluzione del conflitto
mediorientale, la lotta al terrorismo e all'antisemitismo. L'Assemblea
ha deciso inoltre di promuovere la possibile realizzazione di
un'associazione mediorientale parallela all'OSCE e l'ingresso di Israele
nell'Unione Europea.
Yasha Reibman, che ha partecipato ai lavori di questa conferenza,
stamane ha detto:
"Questo rappresenta un primo e storico passo per l'ingresso di
Israele nell'Unione Europea. La proposta sta suscitando vivo interesse
nella stampa e nei politici israeliani, tra cui non posso non ricordare
le dichiarazioni in proposito del presidente israeliano Moshe Katzav.
L'ingresso di Israele nell'UE rappresenterà una garanzia per la
democrazia israeliana e darà a Israele la sicurezza politica necessaria
per realizzare le ' dolorose concessioni ' per raggiungere gli accordi
di pace. E' interesse dell'UE promuovere democrazia, diritto, libertà e
quindi sviluppo anche economico in Medio Oriente e nel Nord Africa,
paesi troppo vicini per esser lasciati
preda di regimi intolleranti e dittatoriali".
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14.01 |
La
Serbia svenduta agli amici
La Serbia venduta agli amici per
pochi soldi
Quel che è
avvenuto e che continua ad avvenire a tutt'oggi nell'ex Jugoslavia
rappresenta l'ennesima azione statunitense contro il principio
fondamentale della Sovranità nazionale. Il "dopo Milosevic",
tanto sperato dagli antinazionalisti e filoatlantisti, va sempre più
svelando la propria vera fattura con il beneplacito delle diplomazie
internazionali. La politica statunitense oramai non conosce più
freni di nessun genere, e di questo ne giovano i suoi fedeli sudditi
europei. Ed ecco allora la svendita di tutte e tre le
fabbriche di cemento della Serbia a ditte
straniere. La fabbrica della settentrionale Beocin è stata
venduta alla francese Lafarge, quella della centrale Novi Popovac alla
impresa svizzera Holzim, e quella della occidentale Kosjeric è andata
alla ditta greca Titan. Il realizzo complessivo delle vendite è stato
di 138,9 milioni di dollari Usa, inferiore persino al gettito fiscale
annuo delle tre imprese!
La svendita della economia serba è stata voluta e sostenuta dalla Banca
Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale e dagli Usa, secondo il
modello noto in Bulgaria, Romania ed Ucraina (per non parlare
dell'Italia, dove, in nome del totem liberista, sono state privatizzate
le aziende strategiche) si comincia con la cessione al capitale
straniero, a prezzi stracciati, dei settori economici in grado di
produrre lavoro e di importanza strategica per il paese, per arrivare
così ad una vera e propria sudditanza economica e politica del paese
"svenduto". A favorire questa
azione dall'interno ci hanno pensato quei filoatlantisti anti-Milosevic
che come fantocci hanno eseguito gli ordini di Washington. Il vero
"regista" del suicidio economico della Serbia, a lungo
collaboratore della Banca Mondiale ed oggi ministro delle Finanze, è
stato Bozidar Djelic, il quale fu annoverato tra i "cento
leader mondiali" al summit economico di Davos.
Mentre procedono le operazioni di spartizione e svendita del paese,
l'impegno americano si rivolge anche all'eliminazione di qualunque e
chiunque voglia difendere la propria nazione e la sua sovranità.
La tecnica applicata, tanto cara agli yankees è quella
dell'infamia, della "confidenza", e per agevolare l'operazione
Washington usa il ricatto. L'America infatti ha
legato la concessione di nuovi prestiti al governo serbo alla
cooperazione con il tribunale dell'Aja. Una tranche di
aiuti consistente in 115 milioni di dollari Usa sarà predisposta
solamente se il governo della Serbia rispetterà tutte le richieste del
tribunale entro il prossiíno 31 maggio.
Con una simile tattica gli Usa avevano già ottenuto la consegna dell'ex
presidente Milosevic.
Un metodo che invece di far indignare qualunque "retto
individuo" trova subito disponibilità da - e l'appellativo non è
fuori luogo - veri e propri traditori della patria.
E così il ministro degli esteri jugoslavo Goran Svilanovic,
appartenente alla formazione filoocciderítale "Alleanza Civica
(GSS)", ha definito la "collaborazione con il Tribunale
dell'Aia" e la consegna di serbi a questa istituzione come "la
più grande priorità" della politica estera jugoslava per
quest'anno. Sicuramente il ministro Svilanovic godrà di lunga vita al
servizio degli americani. Diversamente, per chi si oppone al
tradimento e all'umiliazione, la vita non sarà certo facile. E' un
fatto che il presidente jugoslavo Vojisiav Kostunica ha firmato
l'autorizzazione per il prepensionamento di 21 generali jugoslavi.
Si tratta di alti ufficiali che si erano impegnati per l'indipendenza
militare e politica della Jugoslavia, e contro l'ingresso nel programma
"Partnership for Peace" della NATO. Il pensionamento di
queste persone è stato, subito dopo la fine dell'era Milosevic, una
delle principali richieste degli Usa al governo jugoslavo.
Ma di tutto questo il mondo occidentale non fa parola o forse non vuole
sapere, considerando finita la questione balcanica con l'arresto di
Milosevic.
Della stessa opinione però - dato importante per comprendere un
possibile riaccendersi della tensione - non è il 70% dei cittadini
della Serbia.
Questi ritengono che l'Occidente "tuttora minaccia ed opprime la
Serbia".
Nonostante l'abnorme campagna filooccidentale di tutti i media, che
perdura da più di un anno, la popolazione della Serbia non condivide
l'opinione del governo fantoccio sulla necessità della
"cooperazione con l'Occidente".
(da http://www.rinascita.net)
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14.01 |
Ultimi
aggiornamenti da www.asslimes.com
DOCUMENTI:
- La grande guerra dei continenti - prima parte (A.
Dughin)
- L'Italia e il grande gioco asiatico (Valerio Ricci)
- Il "terrorismo", la Palestina e la "signora con i
capelli rossi" (Enrico Galoppini)
KATTIVI MAESTRI
- Scheda biografica su Drieu La Rochelle
TERRA DI
MEZZO
- Il pensiero tradizionale e la molteplicità attuale delle forme religiose
(P. Di Vona)
Diego
Arrighi
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14.01 |
Monitorare
Paolo Longo da Gerusalemme
Vi propongo un monitoraggio dell'attività
dell'inviato del Tg1 in Palestina Longo.
Questo signore - che è quello che non capisce niente
d'arabo (ricordate la vigilia di Natale?) - ha veramente oltrepassato
ogni decenza.
Notizia di oggi:
(giornalista in studio: "Peres annuncia che Israele ha
interrotto le demolizioni di case paletinesi" [quindi, non fanno
notizia le demolizioni di case, ma i buoni propositi israeliani...])
la sostanza della 'corripsondenza' di Longo, specialista
della teoria degli "opposti estremismi":
Peres è sempre la "colomba" che le prova tutte
per far ragionare i "falchi".
Dalle case di Gaza si passa a quelle di Gerusalemme e Longo
ha il coraggio di dire "...ma questa è un'altra storia" [dove
sta la differenza? Anzi, proprio a Gerusalemme ci stanno circa 200.000
coloni insediatisi illegalmente, che talvolta vengono contati assieme
agli altri circa 200.000 della Cisgiordania, altre volte no].
Consueto "omicidio mirato" [mai
"terrorismo", come prova ogni dizionario] di un dirigente di
al-Fath... naturalmente a sua volta "responsabile" di vari
omicidi.
Ma poveretto, Longo ci era rimasto male quando l'avevano
mandato in Palestina. Difatti era pronto per Parigi quando venne
silurato per il prestigioso incarico e forse con questa sua metodica
solerzia cerca di guadagnarsi qualche santo in Paradiso.
Claudio Ziino
L'exploit di Longo del 24 dicembre, segnalatomi da
un amico:
"Secondo te, che requisiti bisogna avere per
essere nominato corrispondente estero per il TG?
Non sono in grado di rispondere, però pensavo di poterne
intuirne almeno uno. Cioè la conoscenza della lingua del paese in cui
si viene mandati. Sembra così elementare, ma alla RAI evidentemente non
stanno tanto a badare a questi dettagli.
Beh, la notte del 24 dicembre il TG1 si collega con il buon
Longo, che ci dovrà dire se Arafat potrà andare a questa
benedetta messa di mezzanotte. Longo, che si era già distinto subito
dopo l'11 settembre per il fatto di sottolineare in tutti i
collegamenti i "giubilandi palestinesi", confessa
indirettamente questa sua mancanza. Si trova infatti in una
piazza dove la gente ascolta il comunicato radio in cui Arafat dovrebbe
anche accennare al fatto di non potersi recare a Betlemme. Le candide
parole di quest'uomo: "ecco, in sottofondo il discorso di Arafat ai
palestinesi. Non riesco a sentire bene.........e comunque non capirei
dato che sta parlando in arabo".
Longo, Longo,
ma come fai a darci ogni giorno il tuo bel resoconto su quello che
avviene in Palestina se non ne capisci niente?
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13.01 |
La
burrasca nel bicchiere - le dimissioni di Ruggero
Dimissioni Ruggiero
LA BURRASCA NEL BICCHIERE
di: Alberto B.
Mariantoni
Il principale
handicap delle nostre società, è l’incapacità da parte dei nostri
responsabili politici e dei nostri più accreditati pennivendoli di
analizzare serenamente e realisticamente gli avvenimenti per quello che
effettivamente sono. E non, purtroppo, come il loro cinquantennale e
stantio arcaismo ideologico, politico e pratico vorrebbe o pretenderebbe
che fossero. Ultimo esempio in data, il 5 Gennaio scorso, le "inattese",
"sorprendenti" e "traumatizzanti"
dimissioni dell’ex Ministro degli Esteri, Renato Ruggiero.
Quelle dimissioni, erano veramente inattese e sorprendenti? E dobbiamo
davvero considerarle traumatizzanti? Per rendersene conto, basta
semplicemente osservare in "controluce" le relative personalità
e l’iter pubblico, sia di Renato Ruggiero che di Silvio Berlusconi.
Chi è Renato
Ruggiero? Nato
a Napoli 71 anni fa e laureato in Giurisprudenza, Renato Ruggiero è il
classico "Commis d’Etat" (Funzionario
dello Stato). Un personaggio, cioè, che, prima ancora di iniziare a
sbarbarsi, ha immediatamente e volontariamente votato la sua esistenza
alla spersonalizzazione individuale, al conformismo
sistematico, all’accondiscendenza metodica ed alla
"genuflessione" continua e costante,
senza dimenticare le inevitabili "courbettes"
(inchini) e gli imprescindibili e protocollari "salamelecchi"
nei confronti di chiunque si fosse trovato, sulla sua strada di aspirante
burocrate, in posizione di diretto o indiretto superiore gerarchico
o di politico responsabile o influente. In altri termini, Ruggiero è un
"rond-de-cuir" (burocrate) per
definizione. Un funzionario in S.p.e., insomma, che è
passato dai banchi di scuola alla carriera diplomatica, senza per altro
avere avuta nessun’altra esperienza nella vita che quella del bravo
giovincello di provincia che, "sbarcato" non si sa come a Roma
(e molto probabilmente appoggiato o favorito nella sua intima ambizione
da non so quale "santo in paradiso"…), si è ritrovato, tra
il 1953 ed il 1969, grazie pure al vuoto strutturale che regnava nel
dopoguerra nei diversi Ministeri della Penisola, a rivestire un certo
numero di ruoli progressivi nel contesto della diplomazia del nostro
paese, sia in Brasile, sia in URSS, sia negli USA, sia in Iugoslavia.
Dopo aver dato
ampia ed esauriente prova di innata "remissività",
di spontanea "malleabilità" e di genuina
e volontaria "versatilità", tra il 1969
ed il 1978, Ruggiero viene una prima volta ricompensato dal
sistema ed inviato in "missione" presso l’allora costituenda
Commissione Europea di Bruxelles. E dopo avere trattato, per conto dei
"poteri finanziari" nostrani, l’entrata dell’Italia nel
Sistema monetario europeo, viene di nuovo gratificato e nominato,
nel 1980, Ambasciatore e Rappresentante permanente della Repubblica
Italiana presso la C.E.E. a Bruxelles.
Richiamato a Roma,
nel 1984, sarà successivamente Direttore generale degli Affari
Economici (1984-1985) e Segretario generale presso il M.A.E.
(1985-1987), ed in seguito Presidente del Comitato esecutivo dell’OCSE
(1987). Inoltre, tra il 1987 ed il 1991, sarà invariabilmente Ministro
per il Commercio con l’Estero nei Governi Goria, De Mita ed Andreotti.
Nel 1991, entrato sorprendentemente in "aspettativa", sarà
subitamente accolto nel Consiglio di amministrazione della FIAT. Un
"passaggio obbligato", si capirà dopo…, prima di ottenere
l’incarico, tra il 1995 ed il 1999, di Direttore generale del World
Trade Organisation (WTO/OMC), l’ex-GATT, a Ginevra. Uomo ormai di
sperimentata e comprovata fiducia della finanza, alla fine del suo
mandato presso il WTO/OMC, viene immediatamente (1999)
"paracadudato" alla presidenza dell’ENI ed, in
seguito, addirittura "prescritto" alla direzione della Schoeder
Salomon Smith Barney, una delle più importanti merchant
bank del mondo. Questo, tra l’altro, senza avere mai avuto, in
questa materia, nessuna formazione o competenza. Dulcis in fundo, dopo
una riunione segreta tra i "fratelli" trilateralisti Kissinger
ed Agnelli e l’allora appena eletto Presidente del Consiglio
Berlusconi, Ruggiero è praticamente assegnato ed imposto alla "Casa
delle Libertà", come suo ineluttabile ed inderogabile
Ministro degli Esteri.
Chi è Silvio
Berlusconi? Nato
a Milano 66 anni fa e laureato in Giurisprudenza, Silvio Berlusconi è,
in sostanza, l’esatto contrario psicologico e pratico di Renato
Ruggiero. E’ un personaggio, cioè, che, nella sua vita (anche grazie
alla "faccia tosta" che si ritrova…), ha immediatamente e
volontariamente votato la sua esistenza al protagonismo integrale,
al solipsismo sistematico, al soggettivismo
strutturale ed all’egocentrismo organico. Un
"capiscetti", insomma, che non ha mai disdegnato, per
perseguire i suoi fini e/o raggiungere i suoi scopi (dichiarati o
reconditi), l’arroganza o accondiscendenza dei suoi comportamenti, né
la liceità o l’illiceità dei suoi metodi.
In altri termini,
il Cavaliere è un "brioso istrione" che, nella commedia
dell’arte della vita, è fino ad ora riuscito, con innegabile
successo, ad impersonare, interpretare e materializzare un certo numero
di ruoli: da quello di semplice "palazzinaro" (Brughiero,
Milano 2, Milano 3, il Gurasole, ecc., tra il 1969 ed il 1979) al
servizio dell’ineffabile C.A.F. (Craxi-Andreotti-Forlani), a quello di
"Sua Emittenza" (Canale 5, il Giornale, Publitalia, Fininvest,
Italia Uno, Retequattro, Sorrisi e Canzoni, Panorama, ecc., tra il 1980
ed il 1990); dal ruolo di "assicuratore" e di "venditore
di prodotti finanziari" (Mediolanum, Programma Italia), a quello di
"politico innovatore" (sdoganamento del MSI-DN e lancio di
Forza Italia nel 1994; inventore e catalizzatore del Polo prima e della
Casa delle Libertà poi; filo-arabo nel suo primo Governo ed, al
contrario, filo-israeliano e filo-americano nel secondo). Tutto ciò,
con una sola ed unica costante, quella di fare sempre ed esclusivamente
i suoi "affari" personali!
Ora, mi domando:
era immaginabile che il Berlusconi che conosciamo,
continuasse
indefinitamente a sopportare un collaboratore della sua
"squadra" che, oltre ad agire in aperta dissonanza con i suoi
piani, prendeva costantemente ordini da altri "padroni"?
Ma allora, per
quale ragione, all’inizio del suo secondo mandato, Berlusconi ha
comunque accettato, obtorto collo, di "imbarcare" per
qualche mese Ruggiero all’interno del suo Governo? A mio modesto
avviso, per tentare di neutralizzare i prevedibili attacchi
frontali che avrebbero potuto essergli sferrati dai "poteri
finanziari" e dai noti arlecchini di Bruxelles. Poi,
una volta consolidata la sua nuova "santa alleanza" con
Israele e gli USA, ha messo Ruggiero in condizione di andarsene. E
Ruggiero, per non dovere platealmente ridursi a fare il "tecnico
pierino" di papà Berlusconi, se n’è andato. Ed è corso
immediatamente a rifugiarsi tra le braccia accoglienti e consolatrici di
"mamma" Mediobanca.
Il seguito di
questa storia? Continuità… e fine della "burrasca"! Inutile
attendersi, infatti, a ciò che fino ad oggi abbiamo letto sui giornali
o inteso sui canali radio e televisivi del Regime. Oppure, celatamente
sperato in cuor nostro, confidando ottimisticamente in una possibile
resipiscenza degli attuali "padroni del vapore". Che
Berlusconi mantenga l’interim del palazzo della Farnesina o lo
affidi temporaneamente o stabilmente all’omino omonimo della
"marca dei tortellini", in Italia non ci sarà, per il
momento, né "euroscetticismo", né "ricentraggio
nazionalista"… E questo, per la semplice ragione che la
"burrasca" di cui sopra, si è semplicemente svolta
all’interno dello stesso "bicchiere": quello, cioè, che volens,
nolens, ha accomunato e continuerà infallibilmente ad accomunare,
la "Casa delle libertà" e "l’Ulivo", la Banca
Mondiale ed il FMI, la Federal Reserve e la BCE, Wall Street e
Mediobanca, Milano-Mib e Londra, Frankfort DAX e Parigi CAC40,
Roma e Bruxelles, Washington e Tel Aviv!
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13.01 |
Per
ricordare Sabra e Chatila
Duemila
abitanti palestinesi e libanesi dei campi di Sabra e Chatila, alla
periferia di Beirut, vennero massacrati dal 16 al 18 settembre del 1982
da miliziani delle forze filo-israeliane, sotto la supervisione e con il
sostegno logistico dell'esercito di Tel Aviv che aveva occupato da poche
ore Beirut ovest. Pochi giorni prima le forze multinazionali che
avrebbero dovuto difendere i campi profughi dopo la partenza da Beirut
dei fedayin palestinesi e far rispettare l'impegno israeliano a non
entrare nella parte occidentale della città assediata dal giugno
precedente, si erano prematuramente ritirate. A diciott'anni di distanza
non solamente nessuno ha pagato ma le vittime dell'eccidio ancora non
hanno ricevuto una degna sepoltura. Di quasi mille corpi non si è
saputo più nulla. La più grande e nota delle fosse comuni, situata
all'ingresso del campo di Chatila, a pochi passi dall'ambasciata del
Kuwait, è ridotta ad uno squallido campo polveroso nel quale vengono
gettate le immondizie di un vicino mercato e detriti di ogni genere. Non
una lapide, un segno che ricordi la presenza delle fosse comuni, che
inviti al loro rispetto. Per questa ragione facciamo appello
all'opinione pubblica italiana e internazionale, agli uomini di cultura,
alla galassia delle Ong, ai politici, ai semplici cittadini, perché
chiedano alle autorità libanesi, con le quali il nostro paese ha ottimi
rapporti di cooperazione, che venga resa giustizia alle vittime del
massacro dando loro una degna sepoltura. Che il loro sacrificio venga
ricordato con una lapide, un monumento, un segno che aiuti a non
dimenticare il dramma del popolo palestinese ancora esule dalla propria
terra. A tal fine una delegazione di parlamentari, uomini di cultura e
rappresentanti delle Ong si recherà a Beirut il 13 settembre in
occasione del prossimo anniversario della strage.
Il manifesto, Il comitato "Per non
dimenticare Sabra e Chatila"
Inviare le adesioni a: schiarin@ilmanifesto.it
Attualità
di un insulto alla vita e ai morti
Stefano Chiarini
(il manifesto 02 Settembre 2000)
Chatila,
memoria in piazza a Beirut
Stefano Chiarini
(il manifesto 17 Settembre 2000)
Hanno
firmato l'appello:
On. Giorgio Napolitano, Presidente Commissione
Affari Costituzionali del Parlamento europeo - Sen. Ersilia Salvato,
Vice-presidente del Senato - On. Achille Occhetto presidente Commissione
esteri della Camera - On. Lucio Manisco, Europ. (Pdci) - On. Luisa
Morgantini, Europ. (Prc) - On. Fausto Bertinotti, Segretario Prc - On.
Luigi Vinci Europ. (Prc) - On. Giuseppe Di Lello, Europ. (Prc) - On.
Carlo Leoni Responsabile Giustizia Ds - On. Giuseppe Giulietti Resp.
comunicazione Ds - Sen. Giovanni Russo Spena (Prc) -On. Armando
Cossutta, Pres. Pdci -On. Oiviero Diliberto, Segr. Pdci - On. Pasqualina
Napoletano, Pres. gruppo Ds Parlamento Europeo - On. Vittorio Sgarbi
(Gruppo Misto) -On. Marco Pezzoni Capogruppo Ds Comm. Esteri Cam. Dep.
-Nicola Manca, Responsabile Rel. Int. Ds - On. Vincenzo Vita,
Sott.rioalle Comunicazioni - On. Fulvia Bandoli (Ds) -On. Ramon
Mantovani Resp. Est. Prc - On. Giorgio Malentacchi (Prc) -On. Maria
Celeste Nardini (Prc) - On. Walter De Cesaris (Prc) - On. Franco
Giordano Presidente Gruppo Parlamentare (Prc) - Alfio Nicotra, Resp.
settore "Pace" Prc -On. Vito Leccese (Verdi) -On. Paolo Cento
(Verdi) - On. Mauro Paissan (Verdi) - On. Mario Brunetti (Pdci) - On.
Rino Piscitello (I Democratici)-On. Famiano Crucianelli (Ds) -On. Mauro
Palma (Ppi) - On. Alberto Simeone (An) - On. Sandro Dal Mastro Delle
Vedove (An) - On. Marisa Abbondanzieri, Comm. Est. Cam. Dep. (Ds) - On.
Marcello Basso Comm. Dif. Cam.Dep. (Ds) -Gianfranco Brusasco, Resp.
Medio Oriente Ds -Alfiero Grandi, Sottosegretario alle Finanze - On.
Luca Cangemi (Prc) -Maria Lenti (Prc) - Tiziana Valpiana (Prc) - Ugo
Boghetta (Prc) - Giuliano Pisapia (Prc). Luca Cefisi, Dip. Pol. Int.
Sdi.
Alessandra Mecozzi, Uff. Intern. Fiom Naz. -Mario
Capanna - Luciano Neri - Amnesty International, Sez. Italiana - Riccardo
Barenghi Direttore "Il Manifesto" - Nicola Zingaretti, Segr.
Fed. Romana DS - José Luis Rhi-Sausi, Dir. Es. Cespi -Davide Riondino -
Paolo Virzì - Carmen Llera Moravia - Ettore Masina - Saverio Tutino-
Giulietto Chiesa - Gianni Tognoni, Presid. della Fondazione Internaz.
"Lelio Basso" -Tom Benettollo, Presid. Naz. Arci - Luciano
Ardesi, Segr. Naz. Lega Diritti dei popoli - Associazione "Un ponte
per..." - Pier Luigi Sullo "Carta" - Vauro Senesi
-Giancarlo Lannutti - Maurizio Mengoni - Riccardo Cristiano - Guido
Moltedo, Lucio Magri, "Rivista del Manifesto" - Aldo Garzia,
"Aprile" - Comitato Golfo -Associazione Guerre & Pace -
Associazione Assadakah - Vittorio Bellavite - Manuela Palermi - Annalisa
Mauro, Ifad - Andrea Amato, Pres. Imed - Giuseppe Soriero, Resp. Naz.
Festa dell'Unità - Bruno Carchedi "Altra Europa" - Pino
Sgobio (Pdci) -Tommaso Di Francesco - Maurizio Matteuzzi -Giuliana
Sgrena - Michele Giorgio - Angela Pascucci, Le Monde Diplomatique/Italia
- Silvia Boba - Nico Perrone, Univ. di Bari - Giorgio Riolo, "Punto
Rosso" -Renzo Maffei, "Salaam Ragazzi dell'Olivo"
-Giampiero Rasimelli, Ong Arcs - Agostino Bistarelli, Arci - Raffaella
Bolini, Arci -Ass. di Amicizia Sardegna-Palestina - "Salaam Ragazzi
dell'Olivo", Comitato milanese - Piero De Gennaro -Monica Morabito
- Franco Ferioli, Chango - Raffaele K. Salinari, Cocis - Anna Schiavoni,
Cocis -Umiliana Grifoni, Cospe, Firenze - Monica Mazzotti, coordinamento
Gvc in Palestina - Vincenzo Di Serio, coop Gcv, Palestina - Caterina
Amicucci, Segr. Naz. Sci - Luigi Anzellini (Pdci) - Gilberto Gilberti,
Univ. di Parma - Geremia Buonafede, Cgil Funzione Pubblica Lazio -
Fabrizio Ottavi, Cgil Funzione Pubblica, Lazio - Silvana Matta, Cgil -
Maurizio Cabona - Flavia Giorgi - Daria Morandini - Massimo Greco -
Guido Colombo -Pino Grillo - Alfonso De Filippi - Carlo Fabrizio Carli -
Fabio Gabrielli -Tommaso Staiti di Cuddia - Mario Martone, Regista -
Patrizio Esposito -Sirio Conte, Giannina Dal Bosco, Davide Berruti -
Farshid Nuray, Assopace Nazionale - Sergio Finardi - Giorgio Stern e
Letizia Giustolisi Rondi, "Salaam Ragazzi dell'Olivo", Trieste
- Professori, studenti e infermieri del Gruppo Tenda dell'Università
Cattolica, Facoltà di Medicina, Roma -Comitato G.Lazzati per la
Costituzione - Tiziana Salmistraro Ass. Orlando, Bologna - Sinistra
Giovanile, Federazione di Modena - Giuseppe Palmeri Direz. Prov. Com.
Pol. Ds Genova - Gabriella Severino, Univ. di Roma - Carlo Pona, Serv.
Civ. Int. - Donne in Nero, Milano - Prof. Antonio Moscato, Univ. di
Lecce - Francesco Paolo Bonadonna, Univ. di Pisa - Acea Onlus, Agenzia
Stampa - Retedigreen.com Portale sull'ambiente e sulla memoria - Ass.
Narni per la pace - Sergio Giulianati - Eugenio Pedone Lecce -Carlo
Petrini -Manlio Triggiani -Gianluca Savoini - Bruna Miorelli (Radio
Popolare) - Tiziana Boari -Sandro Provvisionato (TG5) - Vera Baldini
(TG4) -Anna Migotto (TG4) - Enzo Bianchi -Francesco Andreini 100 Idee
per la pace - Giovani Comunisti, Barletta - Ivana Stefani, Cantieri
Sociali Riuniti di Alessandria - Tiziana Colombo - Tony Peratoner
ReteRadie Resch - Roberto Frey Coord. regionale Verdi Marche - Silvia
Rossi -Fiammetta Laconi -Stefano Gaeta - Massimo Lizzi - Franco e
Natalia Corradini, Vercurago (Lecce) - Ciro Pesacane -Giorgio Forti e
Annalucia Messina - Liliana Duca, Milano - Cristina Cattafesta -
Pinuccia Cardullo - Gaby Naef - Salvatore Talia - Gabriella Grasso -
Fulvio Carloni -Laura Trinchero - Susanne Scheidt - Loredana Vigo -
Paola Loi - Silvia Rossi - Bruno Bonifacio -Nicoletta Rizzitelli -
Nicola Melis - Redazione di "Indipendenza" - Lino Zambrano,
Aicos.
Adesioni internazionali: Noam Chomsky -Mem
& Malcom Fox, Adelaide (Australia) - Prof. Sonia Dayan Herzbrun,
Sociologa, Università Paris VII - Jamil Hilal, Palestina - Prof. Nassir
Aruri, University of Massachussets - Khalil Osman -Barbara E.
Harrel-Bond, American University in Cairo - Sue Turrell, GB - Wafaa
Shaheen & Trees Zbidat Kosterman, Al Zahraa Arab Women Organisation
in Sakhnin - Dominique Vidal, Le Monde Diplomatique - Francis A. Boyle,
Professor of International Law, Champaine, Illinois, Usa - R. Khatib -
Virginia Lea, Vallejo (California) - Hellen Siegel, Sirid Nolsoe - Tom
Francis Ba, Centro per i sopravvissuti alla tortura, Dallas, Usa - Mona
Younis PhD, New York - Bassam Marshoud - Murad Abu Khalaf - Davide
Barsamian, Direttore "Alternative Radio", Usa - George Yaghnam
- Nidal A.Barakat - Haitham Aranki, Arab Comm. Center Los Angeles -
Shehrazad Muzher -John Wheat Gibson - Leah Barnet -Noel J. Saleh, Esq.
Detroit (Usa) - Samah Abu Sharar -Dr. Jess Ghannam - Karma
Nabulsi, Pride Research Fellow Nuffield College, Oxford - N. Eaisha
Pressimone -Mai Ghoussoub - Ribhi Huzien, Moustafa Huzien, Nina Huzien,
Linda Huzien (Clifton, NJ Usa) -Faten Hazin, Abdeen Hazin, Haboob Hazin
(Totowa, NJ Usa) - Haleema Hazin, Zeina Hazin, Sarah Hazin (Wayne, Nj
Usa) - Omar Hazin, Mohammad Hazin (Teterboro, Nj Usa) -Haltham Huzien,
Ayah Huzien, Hasan Huzien, Said Huzien, Ibrahim Huzien (Franklin Lakes,
Nj Usa) - Issa Hazin, Faten Hazin, Adam Hazin, Bassam Hazin, Salah Hazin
(Kinnelon, Nj Usa) -Wladimir Dimitrijevic - Jean Jacques Langedorf
-Alain D. Altieri -Alain de Benoist - Mohammed Sidati, Ministro Rasd
(Repubblica Araba Sahrawi Democratica) -Joseph Halevi, Univ. di Sydney e
di Grenoble -Yanis Varoufakis, Dipt. Economia Università di Atene -
Louis Haddad, Dipt. Economia Università di Sydney - Pino Scuro Radio
Sbs Stazione Radio-TV Multiculturale, Sydney, Australia - Karen
Nievwland, Clarens (Ch) - Christine Mc Leod -Amer Makhoul, Direttore di
"Ittijah" Union of Arab Community Based Association (Palestine
48) - Muhammad Abu Daouf, presidente di "Ittijah" - Samia
Shehadeh Nasser & Aboudi Nasser - "Najdeh" Lebanese Ngo,
Chatila - Christopher Sjuve, Università di Oslo -Ghassan Bishara,
Washington, Dc - Graham Usher, Giornalista - Grace Said,Chevy Chase,
Md-Usa - Sari Abdallah -Elaine C. Hagopian, prof.emer. Sociologia,
Boston - Imad Shehadeh, Chicago, Ill. - Aracoeli Ortiz, sindacalista
Consejo Confederal delle CC.OO., Espana - Malika Ben Radi - Nadia
Shehadeh -Nihaya Qawasmi-Dugan, copresidente del Palestinian Right to
Return Committee Coalition, New York-NY - Aisling Byrne, Londra - Rima
AlAlamy - Abraham Weizfield, JPLO, Montreal -Andrew Courtney, Al Awda,
New York - Mustafa Hazin - Elias Zureik, Università di Toronto - Rana
Othman - Adele Colantuono - Carla Benelli -Ciss, Gerico - Osama Hamdan,
Gerusalemme -Laurie King-Irani, Chester Town, Maryland, Usa - Eyas
Hmouz, Tennessee, Usa - Jennifer Loewenstein, School of Business,
University of Wisconsin, Madison - Jim Rissman - Norman Finkelstein,
Professore Hunter College, City University of New York - Susan Abulhawa,
Biologist, Yardley, Pa, Usa - Salim Tamari, direttore dell'Istituto per
gli studi di Gerusalemme - Nahed Dirbass, giornalista, Haifa -Sahera
Dirbass, TV producer, Haifa - John Dixon, direttore del "Jerusalem
Quarterly File", Gerusalemme.
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13.01 |
Nuovi
segnali di antisemitismo
dai Paesi arabi all'Europa,
nuovi segnali di antisemitismo
EBREI, UN ODIO CHE RITORNA?
Loewenthal e Sorbi: «Tutto è peggiorato dopo le Twin
Towers»
La replica di
Cardini e Tarchi: «Allarmismo ingiustificato»
Qualche settimana fa una tv saudita ha mandato in onda una
serie di spot che mettevano in scena una caricatura di Sharon intento a
bere il sangue di bambini. E i Protocolli dei Savi di Sion,
manifesto dell'antisemitismo, sembrano conoscere un revival all'interno
di alcuni Paesi arabi: in Siria il volumetto è stato recentemente
ristampato mentre - faceva notare allarmato Paolo Mieli alcuni giorni fa
sul Corriere della sera rispondendo a un lettore- c'è chi ha
pensato a perverse attualizzazioni: «Come è possibile - si chiedeva -
che una tv saudita decida di trasmettere una serie tratta dal più
celebre libello antisemita e la notizia cada nell'indifferenza dei più?».
È davvero in corso una nuova stagione di odio antiebraico, una stagione
di diffidenza che divampa nei Paesi arabi ma che si riflette anche
nell'opinione pubblica occidentale ed europea?
«Lo spot diffuso dalla tv araba evoca uno degli stereotipi più crudeli
e duri a morire contro gli ebrei, stereotipi che si credevano ormai
superati», commenta la scrittrice Elena Loewenthal, secondo cui
anche all'interno delle società occidentali assistiamo a un
atteggiamento ambiguo: «Si usano due pesi e due misure: quando da parte
israeliana spiccano posizioni avvertite come offensive del mondo arabo
ci si scandalizza, cosa che non avviene nel caso opposto». E dopo l'11
settembre gli equilibri sono stati ulteriormente rivoluzionati: «Io mi
aspettavo - continua Loewenthal - che l'Occidente avrebbe reagito allo
shock con una sorta di immedesimazione nei confronti della situazione
ebraica e delle istanze della sicurezza contro il terrorismo. Invece ho
la netta sensazione che sia avvenuto proprio il contrario: forse per
un'esigenza di prendere le distanze da un male tanto spaventoso,
l'opinione pubblica ha risposto al dolore con un certo fastidio e
distacco nei confronti di Israele e degli ebrei in generale, quasi con
una consapevolezza fasulla che "gli ebrei portano guai". In
questo atteggiamento intravedo la speranza, illusoria, che se Israele si
ritirasse dai Territori immediatamente il terrorismo scomparirebbe.
Purtroppo la questione non è così semplice». E cosa ne dice di quegli
intellettuali ebrei, da Amos Oz a Abraham Yehoshua, da sempre
sostenitori del dialogo e che oggi hanno rivisto le loro posizioni? «Non
penso che si siano tirati indietro ma capisco il loro grande sgomento,
che riflette quello presente nella società israeliana: si è avvertito
il fallimento della disponibilità al dialogo, e ora c'è stordimento e
disillusione».
Per il politologo Marco Tarchi, animatore della "nuova
destra" italiana, le prese di posizione antiebraiche nel mondo
arabo «vanno tuttavia paragonate ad analoghe correnti di
fondamentalismo israeliano ferocemente antiarabo, correnti per fortuna
minoritarie ma pericolose». Ma nel nostro Paese assistiamo a un
fenomeno grave e peculiare: «Esiste uno sbilanciamento culturale
dell'Italia, dove non vengono tradotti e quindi non sono presentati
all'opinione pubblica alcuni libri di intellettuali ebrei moderati,
critici nei confronti di una certa politica israeliana. Ma questa sorta
di autocensura è controproducente: c'è bisogno di un dibattito onesto».
Un dibattito che secondo Tarchi viene messo in pericolo anche da inutili
allarmismi su un ritorno dell'antisemitismo: «La trovo una
strumentalizzazione inaccettabile e rischiosa, perché crea la
sensazione di voler vietare ogni tipo di confronto, con l'effetto di
isolare e rafforzare sempre di più le opposte posizioni».
Lo storico Franco Cardini concorda sul fatto che «troppo
allarmismo sortisce un effetto contrario, non solo per l'ambiguità di
forme di "iper-difesa", ma anche perché evocando
eccessivamente un male oscuro c'è il rischio di renderlo affascinante
agli occhi delle frange meno equilibrate della società». Ma in Europa
è in corso oppure no una nuova stagione di antisemitismo? «No, e
neppure vedo il rischio che esso prenda piede a livello di intellettuali
né di massa: l'Occidente è rimasto profondamente vaccinato
dall'esperienza nazista, anche se ciò non significa che possiamo
abbassare la guardia nei confronti dell'insorgere di forme di fanatismo
e intolleranza. E ciò che più mi preoccupa oggi è il forte rischio
che si diffonda anche in Italia, visto tra l'altro lo spaventoso
successo del libro di Oriana Fallaci (un libro che mi ha sconcertato,
nonostante il calibro dell'autrice), un anti-islamismo fanatico e
pericoloso».
Se anche per il sociologo Paolo Sorbi in Europa assistiamo a
fenomeni «fisiologici e non patologici, invece nei Paesi arabi è in
pieno atto una recrudescenza dell'odio che non è più solo antisionista
ma è antisemita». Conseguente alla nuova Intifada? «Sì, ma con
radici molto più lontane: il non aver voluto affrontare, da parte delle
élites arabe, in modo scientifico e laico la presenza degli ebrei in
Palestina dal '48 ha portato a una catastrofica e permanente opposizione
culturale e anche teologica nella questione mediorientale». E oggi le
cose sono addirittura peggiorate: «Dopo l'11 settembre parlare di
dialogo è quasi ridicolo. A breve termine purtroppo mi sembra che gli
equilibri siano dominati dalla forza, che siano i rapporti di forza a
formare la cultura stessa. C'è solo da sperare nel futuro».
Che si parli di Medio Oriente o di Europa, secondo lo scrittore Piero
Stefani la complessità del problema deriva da un'ambiguità di
fondo, «quella che permette la sovrapposizione di ebrei, anche quelli
della diaspora, e Stato di Israele. Ma naturalmente unificare le due
entità crea forti equivoci e strumentalizzazioni». Per esempio? «Se
qui in Europa le manifestazioni di solidarietà con lo Stato di Israele
vengono organizzate non di fronte a un'ambasciata ma nelle sinagoghe,
allora si capisce come le sinagoghe stesse finiscano per rappresentare
un obiettivo "lecito" per le manifestazioni di chi si oppone
al governo israeliano. Naturalmente questo non giustifica alcun genere
di strumentalizzazione, ma ignorare tali dinamiche di identificazione
tra religione e politica impedisce di analizzare i fatti». Anche per
quanto riguarda il nostro Paese: «In Italia mi risulta che le prese di
distanza da parte di esponenti della comunità ebraica nei confronti
della politica di Sharon siano state davvero poche. E gli intellettuali
ebrei, per esempio Elie Wiesel, sono stati molto duri verso i
palestinesi». Segno che l'influenza delle tensioni politiche sul clima
culturale non può essere realisticamente ignorata.
Chiara Zappa
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13.01 |
Due
torri piene di dubbi
DUE
TORRI PIENE DI DUBBI
di
John Kleeves
Ancora non sappiamo chi
I
quattro mesi passati non hanno molto diradato i dubbi connessi con gli
attentati dell’11 settembre 2001 contro gli USA e con la successiva
reazione di questi ultimi contro Bin Laden-mullah Omar-Afghanistan. Per
quanto riguarda la matrice degli attentati ancora non possiamo dire come
siano
andate davvero le cose, se ci fosse qualcuno dietro il gruppetto di
attentatori e nel caso chi fosse, se davvero Bin Laden oppure la Russia
o qualche altro Stato o anche lo stesso governo USA o un suo settore
deviato.
L’Ipotesi Russia non mi sembra da scartare a priori perché
1)
bisogna ricordare che Putin è un kappagibista
2)
2) negli attentati sono state dispiegate abilità e cognizioni
sorprendenti, normalmente a portata solo di uno Stato ( ad esempio la
capacità di inserirsi nei più segreti canali di
trasmissione militari americani, usati per una strana rivendicazione
post
attentato, quasi una firma )
3)
ci deve essere stata per forza una relazione fra l’attacco
dell’11 settembre e l’assassinio del comandante Massud, capo
carismatico filo russo dell’opposizione contro i Talebani,
avvenuto solo due giorni prima, relazione che può anche essere stata di
reazione
4)
può darsi che il Kursk sia stato affondato da un sottomarino
americano e non inglese come si credeva, e bisognava fare pari
5)
in ogni caso fra USA e Russia c’è la guerra, sotterranea al di
là dei sorrisi di
facciata e all’ultimo sangue.
Ancora
non sappiamo come
I misteri sugli attentati, anzi, si sono infittiti nel frattempo perché
1)
viene messo in dubbio che sul Pentagono si sia schiantato
veramente un aereo ( quindi potrebbe essere stato un missile)
2)
dell’aereo caduto o abbattuto in Pennsylvania che io sappia non
sono mai stati mostrati resti
3)
sembra che mentre le due Torri (1WTC e 2WTC) bruciavano, in un
grattacielo vicino (il 7WTC, completamente distrutto) si sia verificata
una esplosione molto grande (che potrebbe essere stata provocata ancora
da un missile)
4)
non si è più accennato al fatto che in diretta si davano per
dirottati sette o otto aerei contro i quattro di cui si è sempre
parlato dopo (due sulle Torri, uno al Pentagono, uno in Pennsylvania)
5)
io potrei aggiungere che in verità non ci sono prove che i
dirottatori fossero i 19 arabi indicati, e addirittura che non ci sono
prove che gli aerei, almeno i due delle Torri che tutti abbiamo visto,
siano stati dirottati da uomini a bordo : i comandi potrebbero essere
stati “ catturati elettronicamente da aerei spia, escludendo i piloti
e ogni possibilità di comunicazione dall’aereo (la famosa
conversazione eroica al telefonino dall’aereo della Pennsylvania è
quasi sicuramente un falso), e quindi diretti sugli obiettivi (ciò fra
l’altro risolverebbe il problema delle traiettorie troppo perfette per
dei dilettanti).
In
questo caso tutta l’operazione potrebbe anche essere stata eseguita -
oltre che naturalmente da un apparato USA, deviato o meno - da una
Potenza straniera con uno o più velivoli invisibili “ e che avrebbero
anche lanciato dei missili da crociera, Potenza che visto il fenomenale
livello non potrebbe che essere la Russia. Il fatto che i due aerei
delle Torri fossero entrambi dei Boeing 767 può significare una facilità
di cattura elettronica dei comandi per quel modello, mentre il black out
sui resti dell’aereo caduto in Pennsylvania potrebbe significare che
non si trattava del velivolo civile che si diceva, quello della Olsen.
Tanti
misteri dunque, e quello che possiamo ragionevolmente dire dopo questi
quattro mesi è solo che il governo americano, visto che a quanto pare
non ha fatto ricerche al di fuori di Bin Laden e sempre che non vi fosse
lui governo dietro l’attentato, sembra credere che si trattasse di una
iniziativa personale degli attentatori, di cui poi lui ha pensato di
approfittare incolpando Bin Laden, oppure sembra credere davvero che
dietro vi fosse Bin Laden.
Le ipotesi del petrolio e dell’oppio
Qualunque sia la vera ipotesi sulla matrice degli attentati dell’11
settembre gli interrogativi sul perché gli USA abbiano poi attaccato
l’Afghanistan rimangono. Questo anche nel caso gli USA credessero alla
responsabilità di Bin Laden, perché avrebbero avuto altri sistemi più
efficaci per punirlo. Alcuni osservatori, persone capaci e non di
regime, hanno avanzato due ipotesi interessanti:
1)
L’ipotesi
del petrolio.
Attorno al Mar Caspio, in Turkmenistan si dice, ci sarebbero grandi
giacimenti di petrolio, che una compagnia americana (quasi tutti gli
alti papaveri del governo USA provengono dal settore petrolifero, a
cominciare da Bush) vorrebbe spillare con un oleodotto da far arrivare
in Pakistan attraverso un Afghanistan “ sicuro “ evitando Russia e
Iran, due nemici; prima quindi l’Afghanistan andava sicurizzato,
ripulito da elementi come i Talebani i quali, creati dalla CIA in
funzione antirussa prima nello stesso Afghanistan e poi in Cecenia,
chiedevano ora forse troppo per l’oleodotto. Sarebbe un bello e chiaro
motivo.
2)
L’ipotesi
dell’oppio.
Perché la guerriglia del 1979-1989 contro i russi si potesse
autofinanziare, si dice, la CIA ha incoraggiato la coltivazione del
papavero da oppio in Afghanistan, coltivazione che nel 1995 è passata
sotto il controllo dei Talebani che l’hanno potenziata sino a far
diventare l’Afghanistan il maggior produttore di oppio del mondo ;
ebbene gli USA avrebbero attaccato l’Afghanistan per riprendere il
controllo su questa
produzione, perché i Talebani
avevano cominciato a operare sul mercato per loro conto e per i loro
interessi rompendo il monopolio USA. E’ una ipotesi seria, perché è
vero che il governo USA mantiene il controllo del traffico mondiale di
droga, che è prodotta sempre in “ sue “ zone ( la cocaina in
America Latina e l’eroina nel Triangolo d’Oro ) e che è smerciata a
monte da organizzazioni criminose di sua fiducia ( la mafia di Cosa
Nostra, la mafia israeliana, la mafia turca, molte altre ). Il governo
USA ci tiene a mantenere questo controllo, una posizione che ha voluto
raggiungere a tutti i costi a partire dal 1949, perché il traffico di
droga gli serve per la sua politica neocoloniale, per ribaltare governi
onesti e per mantenere governi
corrotti che permettono alle
Multinazionali di sfruttare i loro propri Paesi.
Può
darsi benissimo che una di queste due ipotesi sia quella giusta, o che
lo siano entrambe, ma tutto si basa su dei dati la cui attendibilità
non è certa. Per il discorso del petrolio bisogna che il gioco valga la
candela, e cioè bisogna che sia vero, come effettivamente si dice, che
le riserve note
di petrolio del mondo stanno per finire, entro verso il 2020 o anche
prima.
In questo caso riserve come quelle del Turkmenistan, capaci si dice di
coprire l’intero fabbisogno USA per 30 anni, varrebbero la pena di
rischi grandi come quelli che gli USA corrono adesso in Afghanistan ma
il fatto è, secondo me, che noi comuni mortali in realtà non
conosciamo la situazione
delle riserve petrolifere del mondo. E’ ingenuo credere di saperle. Si
tratta di informazioni importantissime, strategiche, che vengono
raccolte, anziché con trivellazioni, soprattutto da satelliti militari
di grandi Potenze ( specie la Mir con i suoi 14 anni di permanenza
dovrebbe aver mappificato bene la situazione ) e che non vengono rese di
dominio pubblico
; ai media, alle università, all’ONU eccetera dovrebbero essere
forniti dati incompleti o falsati ed è anche dubbio che tutte le grandi
società petrolifere americane conoscano la vera situazione, forse
qualcuna sì ma non tutte.
Lo stesso per l’oppio. Si
dice che l’Afghanistan nel 1999 ha prodotto 4.500 tonnellate di oppio,
e nel 2000 3.500 tonnellate, ma ciò non si accorda con i dati che
circolavano prima. Nel 1992 si diceva che i maggiori produttori erano :
Triangolo d’Oro con 2.534 t, Afghanistan con 640 t, Iran con 300 t,
Pakistan con 175 t ( Morel, Rychen “ Il mercato delle droghe “,
Editori Riuniti 1995, pag.23 ). Allora, supponendo che il Triangolo
d’Oro non abbia chiuso bottega, come effettivamente non c’è mai
stato sentore, a questa produzione si sarebbero aggiunte di netto
diciamo 4000 - 640 = 3360 t di oppio : dal 1992 al 2000 il consumo di
eroina nel mondo sarebbe raddoppiato! Non è possibile, perché ciò
avrebbe comportato il raddoppiamento degli
eroinomani, con
conseguenze sociali che sarebbero state segnalate. C’è qualcosa che
non va e anche questa ipotesi rimane in sospeso perché non siamo certi
dei dati, di quei dati che ci buttano dall’alto come badilate di
sterco su funghi coltivati al buio.
Le ipotesi politiche
Rimangono in piedi le ipotesi più tipicamente politiche:
3)
L’ipotesi della guerra alla Russia. Dopo l’attacco portato e
vinto sul fronte europeo in Yugoslavia e dopo l’apertura di un fronte
nel Caucaso tramite i narco-ribelli ceceni e i narco-mercenari arabi e
afghani mandati da Bin Laden, era forse scontata l’apertura di un
altro fronte nell’Asia centrale, dove ci sono le repubbliche turche
musulmane da spingere contro la Russia. Le basi che gli USA con la scusa
dell’attacco all’Afghanistan hanno ottenuto in Pakistan, in
Uzbekistan, in Turkmenistan, in Tagikistan e in Afghanistan, oltre
quella magistralmente ottenuta in Georgia per rinfocolare il fronte del
Caucaso, dovrebbero servire per creare zizzania nella zona, come fatto
in Macedonia partendo dal
Kosovo, e cioè per inserire sbandati locali nel traffico di eroina,
forse anche di quella prodotta in Afghanistan ma certamente di quella
del Triangolo d’Oro, e per armarli, addestrarli
e infine buttarli contro i russi. Per cominciare a vedere gli effetti
del tutto ci vorrà un paio di anni.
4)
L’ipotesi dell’Iran. L’attacco all’Afghanistan sarebbe
una scusa come prima ma l’obiettivo non sarebbe la Russia ma l’Iran,
alla cui perdita nel 1979 gli USA non si sono mai rassegnati.
5)
L’ipotesi della resa generale dei conti. Secondo questa ipotesi
gli USA hanno colto l’occasione dell’attacco dell’11 settembre per
inscenare una guerra generale al “ terrorismo “ col cui pretesto
sistemare tutti quei Paesi che erano sulla loro lista nera:
l’Afghanistan di quei Talebani che forse si erano rivoltati ( per
l’oleodotto, per l’oppio, per qualche altra
cosa ), il Sudan, l’Iraq, la Siria, la Somalia, l’Iran, forse anche
Cuba e qualche altro.
Altre
ipotesi politiche
Che io sappia invece non sono stati menzionati due argomenti che hanno
delle probabilità di entrare nel gioco per il verso politico:
6)
L’ipotesi della Grande Turchia. Gli USA da alcuni anni
tengono un comportamento tale da fare pensare che auspichino, che anzi
vogliano agevolare un ritorno della Turchia alle dimensioni del XVII
secolo, e cioè in pratica un ripristino dell’Impero Ottomano. Ciò
sarebbe in funzione sia anti Europa che anti Russia, perché sarebbe
formato un triangolo di
ostilità, un equilibrio di forze che lascerebbe mano libera agli USA
nel resto del mondo. Questo Impero aveva il centro in
Anatolia-Caucaso-Medioriente e si stendeva a ovest sull’Africa
mediterranea verso sud e nella penisola balcanica sino a Vienna verso
nord, e a est arrivava sino alle attuali repubbliche turche musulmane
dell’ex URSS e all’Afghanistan : sono tutte posizioni da riprendere,
nei limiti del possibile, mentre forse qualcuna è da guadagnare ex
novo. Nell’Africa settentrionale ancora non si
sono
visti movimenti, mentre le operazioni sono iniziate certamente nel
Caucaso ( Georgia,
Azerbaigian, Cecenia
e
Daghestan devono far parte dell’Impero ) e sono già a buon punto nei
Balcani
(con la Grande Albania turco-etnica, formata da Albania,
Kosovo,Macedonia, parti della Bosnia, della Bulgaria, della Romania e
della Grecia): una presenza americana in Afghanistan e nelle confinanti
repubbliche musulmane ex URSS potrebbe agevolare il loro assorbimento da
parte della Turchia, specie se come sembra il grosso delle forze di
terra che gli USA ( o l’ONU, non c’è nessuna differenza )
manderanno in zona saranno proprio turche.
7)
L’ipotesi dell’India. L’India invece non è da fare
crescere; è da sovvertire, da aprire alle proprie Multinazionali ( ha
un miliardo di abitanti, di compratori intendo ). Ciò può avvenire
tramite una guerra col Pakistan, guerra innescata dalle attività dei
ribelli musulmani che
infestano il Kashmir indiano. Il nesso con l’attacco USA
all’Afghanistan è duplice : da una parte offre la scusa agli USA di
essere presenti militarmente in Pakistan e dall’altra i Talebani
scacciati dall’Afghanistan devono andare a guadagnarsi la pagnotta
mercenaria in Kashmir, a provocare gli indiani ( e altri devono andare
in Cecenia contro i russi... ) ; ne può
sortire una guerra dove il Pakistan appoggiato dagli USA vince e il
subcontinente indiano è sovvertito secondo i voleri dello Zio Sam. Per
arrivare alla guerra gli USA potrebbero far protrarre gli attriti e i
tira e molla in Kashmir per un paio di anni, secondo la prassi vista
contro la Yugoslavia. Il colpo di Stato in Pakistan della fine ’99,
con cui Musharraf
rovesciò e sostituì Sharif, potrebbe essere stato non solo tollerato
come ovvio, ma anche voluto dagli USA per eliminare uno Sharif che forse
non voleva imbarcarsi in tale progetto, assai pericoloso per il Pakistan
infatti. L’India non può evitare una sconfitta convenzionale
ricorrendo alle bombe atomiche perché anche il Pakistan userebbe le
sue, cioè quelle che gli
hanno fornito gli USA a suo tempo ( qualcuno credeva che i pakistani
fossero capaci di costruirsi bombe atomiche ? ma va ), e in più questi
ultimi contribuirebbero anche direttamente.
Il
dubbio estremo
Da quanto detto emerge come gli USA avessero una sorprendente pluralità
di motivi per mettere i piedi in Afghanistan, e motivi tutti “ buoni
“, ognuno quasi in grado di giustificare l’operazione da solo. Non si può allora non tornare al sospetto, già preso in considerazione
all’inizio, che dietro gli attentati dell’11 settembre, a questo
punto così provvidenziali, ci fosse proprio il governo USA. E a questo punto, dato che si decide di
sospettare della buona fede americana, tanto vale farlo sino in fondo, e
chiedersi se non si sia trattato di una vicenda costruita interamente,
tutta falsa da capo a piedi compresi i ruoli dei protagonisti principali
: chiedersi cioè se è proprio vero che Osama Bin Laden e il mullah
Omar sono dei mortali nemici dell’America, e se invece non è una
finzione anche questa.
Pensandoci,
non è poi così impossibile. Bin Laden è una creatura degli USA: la
sua famiglia si è arricchita in Arabia Saudita con l’appoggio della
famiglia reale e quindi degli USA, poi lui ha combattuto contro i russi
in Afghanistan assieme alla CIA, e infine ha mandato i suoi mercenari in
Cecenia sempre contro i russi e sempre con la CIA ; può anche darsi che
si
sia
rivoltato contro gli americani, come a suo tempo fece Noriega, ma è
quasi più probabile che non l’abbia fatto, che fosse e che sia
rimasto un avventuriero d’alto bordo e al servizio degli
USA,
dove c’è la tetta dei
soldi.
Anche Omar è una creatura degli USA : è il capo dei Talebani, ma i
Talebani sono una massa ( qualche migliaio ) di giovani sbandati
dell’Afghanistan e di altri Paesi musulmani che il Pakistan, per conto
del suo padrone USA, ha raccolto in una formazione tipo Contras per
eseguire delle politiche ; i Talebani sono dunque un branco di
mercenari, dei mercenari che si sono impadroniti di un Paese così come
i Mamertini si erano impadroniti di Reggio Calabria, e Omar può
benissimo essere anche lui, come Bin Laden,
un avventuriero al quale importa poco sia dell’Afghanistan che dei
Talebani.
Fosse così, la vicenda sarebbe una creazione americana completa: gli
attentati dell’11 settembre sarebbero opera del governo statunitense
(di una sua cellula di vertice ultrasegreta e all’occorrenza
sconfessabile) e il mullah Omar non avrebbe consegnato Bin Laden per
dare la scusa di attaccare l’Afghanistan con tutto ciò che consegue
in termini di basi e di possibilità, mentre Bin Laden stesso si sarebbe
dato da fare per alimentare il mito dello “ Sceicco del Terrore “.
Fosse così Putin, ben lungi dall’aver ordito un piano tecnicamente
perfetto e molto coraggioso, sarebbe invece
caduto in una trappola colossale, una cosa da dimissioni e peggio.
Si
spiegherebbero così alcune cose strane:
1)
che dal 4 al 14 luglio 2001 Bin Laden, ufficialmente ricercato da
tre anni perché ritenuto mandante degli attentati alle due ambasciate
americane in Africa del 1998, abbia potuto curarsi nell’ospedale
militare americano di Maktum Bridge in Dubai,dove ha anche ricevuto la
visita sembra deferente del responsabile della CIA nel Paese
2)
la resistenza militare praticamente nulla che è stata opposta
dai Talebani - a questo punto traditi da ordini balordi - all’Allenza
del Nord, opportunamente privata in precedenza dell’uomo forte di
Mosca, Massud
3)
il fatto che non ci sia stata nessuna rivolta islamista né in
Pakistan né in Arabia Saudita né altrove mentre gli yankees infedeli
stavano bombardando i “ fratelli “ afghani ; c’è stata solo
qualche dimostrazione di piazza in Pakistan con un paio di morti mi
pare, ma nessun tentativo serio di sovvertimento ; potrebbe essere una
conferma che quelle genti sono
giusto, come i palestinesi ad esempio, dei cani che abbaiano ma non
mordono, ma potrebbe anche significare una mancata richiesta di Omar
4)
l’assenza di qualsivoglia azione terroristica contro gli USA o
i suoi alleati più compromessi come Gran Bretagna, Italia eccetera, da
parte di una Al Qaida descritta come onnipresente e potentissima
organizzazione terroristica internazionale ; nei video Bin Laden ha
minacciato, ma al vento, mentre il pericolo carbonchio tanto
strombazzato dai media USA si è dimostrato
di origine interna ( in questa ottica, anzi, di origine CIA ).
Sì,
teoricamente potrebbe essere. Ma nella pratica sembra esagerato, troppo
improbabile. Teniamo presente comunque l’eventualità, perché non
sarebbe la prima volta che per ottenere degli scopi di politica estera
gli USA si fanno delle auto stragi, come in pratica fu a Pearl Harbor :
il grande Roosevelt vietò
di avvertire la base dell’imminente attacco giapponese, che così
riuscì in pieno (e facendo 2600 morti, guarda caso come nelle Torri
Gemelle). E neanche sarebbe la prima volta che mettono in piedi delle
sceneggiate colossali, così incredibili che la gente non può fare a
meno di
crederci : questo fu la Guerra Fredda, replicata con successo per più
di cinquant’anni.
John Kleeves
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13.01 |
Nuovo
coordinatore dell'Alleanza somala in Italia
In
attesa dell'attacco alle basi di Al Qaeda vicino Mogadiscio crescono le
perplessità verso il governo
provvisorio
NOMINATO
IL NUOVO COORDINATORE DELL'ALLEANZA SOMALA IN ITALIA
(di
Dimitri Buffa, l’Opinione delle Libertà, 3 gennaio 2002 p. 1)
Ali Hussen è il nuovo coordinatore dell'Alleanza nazionale somala in
Italia. Lo hanno deciso gli ameicani in attesa di stabilire l'ora X
dell'attacco agli alleati di Al Qaeda nei dintorni di Mogadiscio.
Hussen, già Ambasciatore di Somalia presso la S. Sede e presidente
dell'Associazione musulmani italiani, confida a "L'opinione" l
e proprie perplessità sui continui rinvii della missione di bonifica in
loco. Spiega in particolare di "capire che gli Americani abbiano
bisogno di prendere tempo per disporre l'assetto strategico
dell'operazione militare nel modo più favorevole" ma di "non
ritenere che il governo provvisorio guidato da Hassan Abshir possa
concludere alcunché di positivo."
Perché?
"Non ha la fiducia dei rappresentanti delle tre principali tribù
che compongono la Somalia; non ha l'appoggio né dei Rahawein, né degli
Abgal, né dei Darot il che, in un paese come la Somalia, equivale a
dire che non ha l'appoggio della stragrande maggioranza della
popolazione. Se però il
comando di 'Enduring freedom' ritiene che al momento la strada da
seguire sia questa, da parte mia tengo per me il mio scetticismo e
da ufficiale quale sono obbedisco. In questi giorni mi consulto di
continuo con Osman Falco, e sono solidale con la sua decisione di
tornare in Somalia per il
ruolo per cui è stato chiamato. Ritengo anzi che la ridiscesa in campo
di Falco sia il passo decisivo verso la sconfitta dei fondamentalisti,
verso il disarmo dei signori della guerra, e verso la rinascita
democratica del mio martoriato paese. Sono poi lieto che ciò avvenga
grazie all'impegno
delle strutture di intelligence italiane e mediante ad un generale
educato all'italiana, poiché la maggioranza dei Somali continuano ad
avere un ottimo rapporto con gli Italiani, e continuano a considerare
l'Italia come la loro seconda patria."
La volontà del Presidente degli Stati Uniti George W. Bush di non
limitare la portata dell'operazione "Enduring freedom" al solo
regime dei Talebani ed alle basi di Al Qaeda in Afghanistan diviene di
giorno in giorno più concreta nel caso della Somalia. E' ormai chiaro
che le basi degli alleati di Bin Laden presenti in territorio somalo, ed
in particolare nella Migiurtinia e nel Basso Giuba non potranno
sopravvivere a lungo, ma che saranno al più presto smantellate. A
restare ancora incerte sono le modalità operative, e soprattutto si
ignora in quale posizione verrà a
trovarsi l'attuale presidente ad interim Hassan Abulkassim, cioè se
verrà considerato un ex-alleato oggettivo di Bin Laden pentito e
disposto a collaborare, oppure se lo si considererà come tuttora legato
agli interessi che ruotano attorno ad Al Qaeda, e quindi destinato ad
essere anch'egli
coinvolto nella sua eliminazione.
In altre parole, si ignora se nel prossimo futuro Abulkassim giocherà
un ruolo analogo a quello del dittatore pakistano gen. Musharraf, oppure
a quello del Mullah Omar.
Nel frattempo, le flotte dei vari paesi che compongono l'alleanza
internazionale antiterrorismo si stanno schierando: gli americani stanno
disponendo le loro forze navali attorno alle coste del Puntland, in
prossimità di Argeisa, nell'Alto e nel Basso Giuba e in prossimità di
Benadir; gli Inglese sono invece a Mombasa, in Kenya, i Francesi e i
Tedeschi sono già sbarcati a Gibuti, ed un gruppo di esperti militari
italiani si trova invece in Eritrea, impegnato in una missione di
ricognizione.
Com'era ampiamente previsto, la Conferenza per la Somalia di Nairobi,
promossa dal presidente ad interim Hassan Abulkassim si è conclusa il
25 dicembre con una frattura che al momento appare insanabile: i leader
delle tre principali etnie del paese, cioè Shar Ghadud, (Camicia
Rossa), Hussein
Aidid e Musa Sudi hanno rifiutato gli incarichi di governo che
Abulkassim aveva offerto loro, hanno rifiutato di partecipare alla
conferenza, ed hanno sconfessato quei loro subalterni che invece sono
andati a Nairobi.
L'Alleanza nazionale somala - costituitasi grazie all'impegno dei
funzionari Onu Massimo Pizza e Antonio D'Andrea e formata da dieci
generali somali addestrati nelle accademie italiane ai tempi
dell'amministrazione fiduciaria - si è dichiarata risolutamente
contraria ad ogni forma di compromesso con gli ex-alleati di Bin Laden,
ed ha lanciato pesanti accuse di connivenza coi fondamentalisti contro
Abulkassim ed il primo ministro incaricato
Hassan Abshir.
Dopo aver troncato ogni forma di contatto con Abulkassim e rifiutato di
riconoscere come valida la nomina di Abshir a primo ministro, l'Alleanza
ha anzi consegnato ai funzionari Onu il testo di un appello alla Comunità
internazionale ed al Presidente degli Stati Uniti Bush, nel quale si
chiede
che Abulkassim venga prontamente dichiarato decaduto dal mandato, che si
torni all'amministrazione fiduciaria delle Nazioni Unite, demandando
all'Alleanza nazionale somala di arruolare sotto bandiera dell'Onu le
forze che intendono concorrere alla bonifica del territorio. I generali
hanno dichiarato senza mezzi termini di considerare Abulkassim ancor
legato agli
interessi di quanti vogliono proteggere l'organizzazione Ittihad
al-Islamiyy (fazione locale di al-Qaieda) hanno proposto un intervento
rapido e con limitatissimi danni collaterali fra la già martoriata
popolazione civile, e si sono impegnati alla cattura degli emissari
non-Somali di Al Qaeda e al distruzione delle piantagioni di hashish e
di qat che finanziano la rete di Ittihad al-Islamiyyah nella Migiurtinia
e nel Basso Giuba.
Abulkassim ha invece concluso i lavori della Conferenza chiedendo alle
Nazioni Unite fondi per la ricostruzione delle strutture statali, aiuti
umanitari, medicinali, nonché la sospensione di qualsiasi iniziativa
militare sino alla convocazione di una nuova Conferenza, da tenersi a
Khartum. I generali, dal canto loro, hanno invece eletto a presidente
della loro Alleanza l'ex vice-comandante della polizia Osman Falco, e lo
hanno proposto al comando di "Enduring freedom" come capo di
stato maggiore delle forze somale da impegnarsi al fianco della comunità
internazionale contro
le basi somale del terrorismo fondamentalista. E' ben difficile
immaginare un contrasto di posizioni che possa essere più netto ed
inconciliabile.
Ciononostante, gli Americani sembrano al momento puntare per lo meno su
una conciliazione provvisoria, che consenta sia il l'appostamento delle
truppe in territorio etiope, sia l'arrivo delle portaerei nel Mar Rosso,
e permetta inoltre di dare inizio all'intervento militare da posizioni
di
forza, dopo avere già dispiegato sul territorio forze militari locali
che risultino fidate.
Per questa ragione, al momento non sono state accolte in toto né le
richieste del presidente provvisorio, né quelle dell'Alleanza nazionale
somala. Ad Abulkassim è stato fatto capire senza mezzi termini che la
proposta di una nuova conferenza a Khartum deve essere immediatamente
accantonata, ed è stato imposto di accettare il rientro in patria di
Osman Falco e la sua nomina a capo della polizia, con ampia facoltà di
assumere il controllo del territorio nazionale e di disarmare le fazioni
dei signori della guerra.
In cambio, gli sono stati concessi gli aiuti umanitari ed i medicinali
richiesti (ma non i fondi in valuta), e gli è stato posto a
disposizione un servizio bancario che consenta le rimesse del denaro
proveniente dalle famiglie somale all'estero in sostituzione della
smantellate struttura di Barakaat (la banca legata a Bin Laden).
Al generale Falco è stato però chiesto di vincere la sua riluttanza a
porsi a disposizione di Abulkassim, e di accettare la nomina a
comandante generale delle forze di polizia, nomina che, se pure firmata
da Abulkassim, è stata di fatto imposta dal comando di "Enduring
freedom".
Secondo l'orientamento proprio al comando strategico di Tampa, porre a
fianco di Abulkassim un capo della polizia sicuramente moderato,
filo-occidentale e antifondamentalista rappresenta un modo di porre il
presidente ad interim alla prova, di vagliare se le sua intenzione è
veramente quella di distruggere le strutture di Ittihad al-Islamiyy, e
di impedire che egli seguiti a tentennare e a prendere tempo come ha
fatto sinora.
E' chiaro infatti che ogni ostacolo frapposto dal presidente ad interim
o dal governo provvisorio all'operato di Falco verrebbe interpretato
come segno di inaffidabilità, e porterebbe alla loro immediata
destituzione.
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Islamica Italiana
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13.01 |
Il
Generale Falco in Somalia
Mogadiscio
avrà presto un comando militare unificato e potrebbe essere un
somalo-italiano a guidarlo,
con il beneplacito degli Usa e con l'accordo della diplomazia di Roma
FALCO,
IL GENERALE EDUCATO ALL'ITALIANA, CAPO DI STATO MAGGIORE IN SOMALIA
(di
Dimitri Buffa, Libero del 29 dicembre 2001, p. 11)
Osman Hajj Omar, cadetto nelle nostre accademie, oggi torna alla ribalta
dopo l'esilio inglese. Di stirpe Hawiya, il militare è noto per esser
stato fautore di un ravvicinamento all'Etiopia.
Roma - Hanno tutti studiato nelle accademie militari italiane e sono
figli o nipoti di quelli che furono gli Ascari del Regno d'Italia sotto
il Duca Amedeo d'Aosta, i dieci generali che costituiscono la neonata
Alleanza degli ufficiali somali, sorta a Tampa in Florida sotto l'egida
statunitense
e delle Nazioni Unite. Uno di loro, il generale Osman Hajji Omar, detto
"Falco", sarà forse, se gli Usa daranno l'Ok, il futuro capo
di stato maggiore provvisorio, una volta che sarà approvato
l'intervento armato a Mogadiscio per la bonifica del Paese dai complici
di Osama Bin Laden.
Se la Somalia entro i primi mesi del 2002 avrà così un nuovo comando
militare unificato, alleato della Comunità internazionale nella
campagna antirerrorismo, molto sarà dovuto proprio alla diplomazia
italiana che nella fattispecie è stata rappresentata dai funzionari Onu
Massimo Pizza e
Antonio D'Andrea, e dall'ex Ambasciatore somalo e presidente
dell'Associazione musulmani italiani Qadi Ali Hussen.
La sera del 25 dicembre la Conferenza di Nairobi per la Somalia,
promossa dal presidente ad interim Hasan Abulkassim si è conclusa con
un nulla di fatto: i comandanti generale Shar Ghadud degli Abgal
(Camicia Rossa) e Hussein Aidid hanno rifiutato di accogliere le
rispettive nomine a ministro della Difesa e degli Esteri, e ribadito la
loro indisponibilità a servire nel governo presieduto dal migiurtino
Hasan Abshir - di etnia Darot – che essi anzi considerano legato alle
famiglie che hanno offerto protezione alle strutture tribali legate alla
rete terroristica di Al Qaeda.
Ali Sudi, il nuovo capo degli Habarghadir che ha rimpiazzato il signore
della guerra Ali Mahdi, si è detto anch'egli d'accordo con la loro
decisione, ed ha disertato l'incontro di Nairobi. Abulkassim ora ci
riprova, chiedendo agli Stati Uniti di postporre l'intervento militare
sino alla fine di gennaio, in attesa dell'esito di una ennesima
conferenza, da tenersi a Khartum, sotto l'egida del Sudan e del Kenya.
Ma che Bush accetti di mandare i militari statunitensi a discutere a
Khartum, magari sedendo al tavolo col dittatore pro-fondamentalista Omar
El-Bashir è fuori discussione. L'unica decisione ancora in forse era
proprio quella del generale Osman Hajji Omar, detto Osman Falco,
ufficiale della Guardia di Finanza italiana al tempo
dell'amministrazione fiduciaria, socio fondatore dell'AMI, quindi
vice-capo della Polizia nazionale sotto Siad Barre, attualmente avvocato
a Londra. Tutto comunque faceva presagire agli esperti che avrebbe
anch'egli rifiutato di contribuire alla nascita del nuovo governo
Abshir. E così è stato.
In compenso adesso le tribù somale che fanno capo ai nove generali
(Abdullahi Said, Bashir Salat, Abdurahman Girò, Yusuf Aden, Osman Iyoò,
Abdullahi Warsame, Hasan Farey, Omar Hashi e Ali Hussen, già
ambasciatore presso la S. Sede, oggi Presidente dell'Ami e
vice-comandante di stato
maggiore) che insieme a lui formano il nuovo direttorio degli ufficiali
somali, lo hanno indicato a Bush come papabile nuovo comandante
dell'esercito, non appena la Somalia ne avrà uno in grado di schierarsi
al fianco delle Nazioni Unite.
Di stirpe Ahwia, il generale Falco è noto come moderato in quanto
iscritto all'Ami, e per essere stato in passato fautore di un
ravvicinamento all'Etiopia; al termine della guerra d'indipendenza
eritrea si è spinto molto avanti nel proporre una transazione in grado
di prevenire nuovi
conflitti fra Somalia e Etiopia, consistente nella cessione all'Etiopia
di un corridoio di accesso al Mar Rosso, in cambio di una adeguata
compensazione con territori di confine della medesima estensione. Quel
progetto vide nascere il suo ruolo di mediatore, ed il suo fallimento in
seguito al boicottaggio della Lega Araba lo ha condotto all'esilio
inglese.
L'atto di costituzione dell'Alleanza degli Ufficiali - al momento
segregato dal comando di Tampa - contiene un appello alla Comunità
internazionale ed al Presidente degli Stati Uniti Bush affinché l'ex
presidente provvisorio Abulkassim venga prontamente dichiarato decaduto
dal mandato per via della sua manifesta incapacità di far fronte al
problema della presenza sul territorio di gruppi legati alla rete di Bin
Laden, e chiede che si torni all'amministrazione fiduciaria delle
Nazioni Unite, demandando all'Alleanza degli Ufficiali di arruolare
sotto bandiera dell'Onu le forze che intendono
concorrere in tempi rapidi alla bonifica del territorio. Il documento,
adesso nelle mani del generale Frankie che coordina "Enduring
freedom", fa espresso riferimento al "modello Alleanza del
Nord" già sperimentato in Afghanistan, e suggerisce che siano gli
ufficiali locali ad impegnarsi
nella repressione del fondamentalismo col supporto dell'Alleanza
internazionale, nel disarmo delle fazioni dei signori della guerra, e
nel controllo del territorio da parte di una forza di polizia unificata.
Cortesia del Fratello Abdul'Alim
Istituto
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13.01 |
Aggiornamento
Comando dell'Alleanza degli Ufficiali italo-somali
Aggiornamento
sulle operazioni in Somalia
del 13 Shawwal 1422 - 28 dicembre 2001
a
cura del Dipartmento Informazione
dell'Associazione Musulmani Italiani
Com'era da attendersi, la sera del 25 dicembre la Conferenza di Nairobi
per la Somalia, promossa dall'allora presidente ad interim Husan
Abulkassim si è conclusa con un nulla di fatto: l'annunciato governo
prenditempo non è affatto nato. Come già annunciato, i comandanti
generali di stato maggiore Shar Ghadud, (Camicia Rossa) e Hussein Aidid,
hanno rifiutato di accogliere le rispettive nomine a ministro della
Difesa e degli Esteri, e ribadito la loro indisponibilità a servire nel
governo presieduto dal migiurtino Hasan Abshir, che essi al contrario
ricusano in quanto lo considerano legato alle famiglie che hanno offerto
protezione alle strutture tribali legate ad Al Qaeda.
A questo punto, Abulkassim non ha potuto far altro che autoconcedersi un
secondo tentativo, chiedendo agli Stati Uniti di postporre l'intervento
militare sino alla fine di gennaio, in attesa dell'esito di una ennesima
conferenza, per giunta da tenersi a Khartum, sotto l'egida del Sudan e
del Kenya. Ma che Bush accetti di mandare i capi del Pentagono a
discutere a Khartum, magari sedendo al tavolo col dittatore schiavista
Omar El Bashir è fuori discussione. Lo stesso Abulkassim non può
fingere d'ignorarlo.
L'unica decisione ancora in forse era quella del generale Osman Hajji
Omar, detto Omar Falco, ufficiale della Guardia di Finanza italiana al
tempo dell'amministrazione fiduciaria italiana, quindi vice-capo della
Polizia nazionale sotto Siad Barre; attualmente è residente
a Londra, dove svolge la professione di avvocato. I suoi trascorsi in
quanto socio fondatore della Associazione Musulmani Italiani, fondata da
ufficiali con doppia cittadinanza somalo-italiana, il suo passato
impegno nel reprimere i traffici illeciti di stupefancenti che servivano
da finanaziamento per i Fratelli Musulmani del Basso Giuba legati alla
banca Barakat, la sua moderazione e la sua nota avversità per il
fondamentalismo lasciavano comunque presagire agli esperti che avrebbe
anch'egli rifiutato di contribuire alla nascita di un governo guidato
dal reticente Abshir. E così è stato.
Di stirpe Ahwia, il generale Falco è noto per essere stato in passato
fautore di un avvicinamento fra Somalia e Etiopia, ed al termine della
guerra d'indipendenza eritrea si è spinto molto avanti nel proporre una
transazione in grado di prevenire nuovi conflitti regionali, consistente
nella cessione all'Etiopia di un corridoio di accesso alle acque del Mar
Rosso, in cambio di una adeguata compensazione con territori di confine
della medesima estensione. Quel progetto vide nascere il suo ruolo di
mediatore sulla scena del Corno d'Africa, ed il suo fallimento in
seguito al boicottaggio della Lega Araba lo ha condotto all'esilio
inglese.
Dopo essersi consultato con Ghadud e Aidid al termine della Conferenza,
Falco ha deciso di sottoscrivere l'atto di disconoscimento dell'ex
presidente temporaneo, di rifiutare la candidatura a ministro
dell'Interno offertagli a Nairobi, e di accettare la nomina a capo di
stato maggiore provvisorio del comando dell'Alleanza degli Ufficiali,
costruita durante una serie di contatti in Somalia, Italia, Austria,
Inghilterra e Stati Uniti sotto il comando dei funzionari militari delle
Nazioni Unite per la Somalia dott. Massimo Pizza e dott. Antonio
d'Andrea, assieme al colonnello della Guardia di Finanza Shaykh Ali
Hussen, già ambasciatore di Somalia presso la Santa Sede e presidente
dell'AMI.
Il documento di costituzione dell'Alleanza degli Ufficiali contiene un
appello alla Comunità internazionale ed al Presidente degli Stati Uniti
George Bush affinché l'ex presidente somalo disconosciuto venga
prontamente dichiarato decaduto dal mandato per via della sua manifesta
incapacità di far fronte al problema della presenza sul territorio di
gruppi legati alla rete terroristica di Bin Laden, e rimette alle
nazioni Unite un mandato di amministrazione fiduciaria, demandando
all'Alleanza degli Ufficiali somali di arruolare sotto bandiera
dell'Onu, degli Stati Uniti, dell'Italia e della Somalia le forze che
intendono concorrere alla bonifica antiwahhabita del territorio. I
generali, dal canto loro garantiscono un intervento rapido e con
limitatissimi danni collaterali fra la già martoriata popolazione
civile, promettono la consegna degli alleati non-somali di Al
Qaeda al tribunale internazionale di guerra, e la distruzione delle
piantagioni di hashish e di qat che finanziano la rete di Ittihad
al-Islamiyyah nella Migiurtinia e nel Basso Giuba.
Il documento fa espresso riferimento al "modello Alleanza del
Nord" già sperimentato in Afghanistan e riproposto in sede
strategica dal circolo del Middle East Forum di Philadelfia,
Massachussets, e suggerisce che siano gli ufficiali locali ad impegnarsi
come avanguardie nella repressione del fondamentalismo assassino col
supporto dell'alleanza internazionale, nel disarmo delle fazioni dei
signori della guerra, e nel controllo del territorio da parte di una
forza di polizia unificata, sotto comando internazionale sino alla
nomina - se Allah vuole - di un governo provvisorio democraticamente
eletto in pace.
Già discusso dagli ufficiali durante il mese di dicembre, il documento
è stato firmato da Falco e consegnato ai funzionari delle Nazioni
Unite, che nel mattinata del 27 dicembre lo hanno trasmesso nelle mani
del generale Frankie, comandante delle forze dell'Alleanza
internazionale antiterrorismo.
Fra gli altri firmatari, nove alti ufficiali a suo tempo diplomati dalle
Accademie militari italiane:
Il gen. Abdullahi Said, ex comandante del distretto militare della
Migiurtinia, attualmente leader della Comunità somala di Toronto,
rappresentante dell'AMI in Canada;
Il gen. Bashir Salat, parente dell'ex presidente temporaneo Abulkassim e
residente a Mogadiscio, che però si è dissociato da lui ed ha
firmato il documento in occasione di una visita all'Ospedale romano del
Celio per il check-up annuale dello stato di salute;
Il gen. Abdurahman Girò, vice-governatore di Baidoa e comandante
militare dell'Alto Giuba, che ha già ricevuto in città la visita di
cinque ufficiali dei marines americani scortati dall'esercito etiope;
Il gen. Abdirrazaq Farah, comandante del Puntland che monitora a stretto
contatto le strutture di Ittihad al-Islamiyyah protette da Abulkassim e
dagli Habarghadir;
Il gen. Yusuf Aden, che attualmente lavora a Sidney, Australia, come
giornalista, ex ufficiale della Guardia di Finanza ed ex-controllore
generale delle dogane e del traffico di stupefacenti sotto Siad Barre,
quindi capo ufficio stampa del governo. E' oggi confermato nell'incarico
come portavoce dell'Alleanza degli Ufficiali,
Il gen. Osman Iyoò, capo dell'etnia Rahawein, socio fondatore AMI, ex
consigliere legale dell'Ambasciata somala in Italia, ed attualmente
avvocato a Verona;
Il gen. Abdullahi Warsame, di etnia Darot, ex comandante
dell'intelligence militare somala, oggi residente a Parigi e consulente
dell'Unione Europea per gli studi strategici;
Il gen. Hasan Farey, socio AMI, oggi assistente della facoltà di
ingegneria del Politecnico di Torino, già ministro per le
infrastrutture ed attuale custode dei beni immobili ed agricoli
dell'Italia e della S. Sede in Somalia;
Il gen. Omar Hashi, medico ed ex-comandante della polizia scientifica,
oggi primario ospedaliero a Richmond, Virginia;
Il col. Ali Hussen, presidente dell'AMI, già ambasciatore presso la S.
Sede, oggi coordinatore delle trattative da Roma e segretario
dell'Alleanza.
Per i Somali in Italia è dunque già scattata la chiamata alle armi, o
almeno per quelli che una divisa da ufficiale I'hanno già indossata in
passato.
Su mandato dell'Alleanza, gli ufficiali d'origine somala che risiedono
in Italia e il cui arruolamento nelle Forze Armate italiane risale al 64°
corso allievi ufficiali Valtomorizza sono dunque dal giorno 27 dicembre
in servizio effettivo, agli ordini del comando Onu ed in attesa di
ordini da Washington. Lo Shaykh Ali Hussen ribadisce l'imminenza
dell'impegno, dicendo: «La stagione degli indugi e delle esitazioni
volge ormai con l'aiuto di Allah al termine. Coloro le cui posizioni di
potere e di ricchezza dipendono dai fondi della Lega araba che Barakat
ha stornato a favore dei suoi protetti debbono oggi farsi da parte per
il bene del paese. L'intervento internazionale - aggiunge - deve
consentire la liberazione della Somalia dall'occupazione dei gruppi
fondamentalisti wahabiti e la creazione di un governo moderato, di
confessione sunnita, democratico, nemico dello spargimento di sangue,
alleato dell'Occidente e seriamente interessato a ricostruire i rapporti
d'interscambio religioso, culturale ed economico fra l'Italia a la sua
ex colonia».

Foto
per gentile concessione dall'Albo Cadetti della Accademia della Guardia
di Finanza, anno 1951:
Da sinistra generale Osman Hajj Falco; a destra colonnello Shaykh Ali
Hussen, all'epoca del loro giuramento da cadetti della Guardia di
Finanza nel 64° corso Allievi Ufficiali Valtomorizza.
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13.01 |
Assise
interreligiosa al Palazzo delle Nazioni di Ginevra
Ufficio
Stampa della Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite
Ginevra, dicembre 2001
Rabbi Sztejnberg invita il Decano Gross e Shaykh Palazzi a colloquio
con
Mons. Amedèe Grab, Presidente delle Conferenze Episcopali d'Europa
i.
c.o.
s.e.f.
ISTITUTO PER LE COMUNICAZIONI DI SCIENZA E FEDE
Rabbi Leonard SZTEJNBERG,
Presidente Fondatore
Lunedì 18
dicembre 2001
A S. E: il Vescovo Amédée GRAB,
Presidente delle Conferenze Episcopali d'Europa
Bischöfliche Kanzlei
Chur, CH.
Caro Vescovo che presiede le Conferenze Episcopali dìEuropa,
Nel ricco contesto spirituale instauratosi a seguito del nostro incontro
del 5 luglio scorso e delle successive relazioni epistolari, circostanze
provvidenziali mi inducono a dichiarare quanto segue:
Si impone un'iniziativa efficace di portata internazionale, consistente
nel costituire e nel riunire a Ginevra una assise di personalità
competenti, rispettose della dignità umana e rappresentative, al fine
di trattare delle
motivazioni religiose profonde che sono all'origine del conflitto
medio-orientale.
Vi consiglio pertanto di riunire quanto prima a Ginevra:
voi
stesso, in particolare come rappresentante dell'Europa;
il Professor Decano Benjamin GROSS di Gerusalemme, erudito
rappresentante del sionismo di governo;
lo Shaykh Professor Abdul Hadi PALAZZI, presidente degli imam d'Italia
ed in particolare contatto con le istituzioni vaticane;
me stesso, in qualità di iniziatore e animatore della riunione.
In assenza di tale incontro alla vostra indispensabile presenza
personale, non credo più utile perseverare nei miei impegni presenti,
col solo risultato di intrattenere dei rapporti che non portano a
risultati reali (consistenti invece nell'affrontare lo studio dei veri
problemi contemporanei, che sono d'origine essenzialmente religiosa, non
politica o economia, come invece vorrebbero farci credere certe
"eminenze"), così dalla fine della seconda guerra mondiale
seguita ad accadere con l'impegno ecumenico o di natura consimile.
Questi incontri - come ciascuno di noi può verificare - sono al
presente tanto sterili quanto lo erano in passato.
Come sapete, se oggi mi permette di proporre ripetutamente questa
iniziativa, è per via del fatto che coloro che vi sono coinvolti
dispongono personalmente di conoscenze scientifiche e religiose adeguate
al loro
compito, tali da permettere l'edificazione di ponti fra credi che nella
pratica risultano essere profondamente incompatibili, e che sono sovente
causa di conflitti, spesso terribili.
Ho inviato copia di questo mio messaggio al Professor Gross e allo
Shaykh Professor Palazzi.
Vi prego di accolgiere di cuore, caro Vescovo e Presidente delle
Conferenze Episcopali d'Europa, la mia comunione nella luce dell'Essenza
divina che discende su noi e irradia l'umanità intera, sublimando le
etnie e le razze.
Rabbi Leonard Sztejnberg
Istituto Culturale della Comunità
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12.01 |
Storia
non romanzata degli Stati Uniti d'America
Nel suo ultimo libro lo studioso John
Kleeves racconta la storia "non romanzata" degli Stati
Uniti: "Presto comincerà la loro crisi" "Gli Usa, un
Paese pericoloso per la pace mondiale"
di Gianluca Savoini
"L’obiettivo del governo americano è quello di governare il
mondo allo scopo di sfruttare tutte le risorse economiche mondiali.
Per questo motivo gli Usa vanno definiti per quello che sono: non un
Paese fondato sui princìpi della
democrazia e della libertà, ma sul desiderio di sottomettere tutti
gli altri popoli. Un Paese pericoloso, quindi".
E proprio così (Un Paese pericoloso) si intitola il nuovo libro di
John Kleeves (Società Editrice Barbarossa, tel. 02-201310),
ricercatore di filosofia di progettazione e studioso di fenomeni
socio-economici legati al processo di industrializzazione. "Per
ottenere questo scopo gli Usa adottano metodi oltremodo sanguinari -
evidenzia Kleeves -: dal 1945 al 1990 gli
interventi militari americani hanno provocato la morte di 30 milioni
di persone".
Professor Kleeves, avendo gli americani vinto la Seconda guerra
mondiale e la Guerra Fredda, è vietato parlare male di loro, non
glielo ha mai detto nessuno?
"Compito di un osservatore di politica internazionale è quello
di valutare i fatti senza paraocchi ideologici. Non è colpa mia se il
potere Usa si è dimostrato imperialista e fortemente orientato ad
imporre la sua volontà in ogni angolo del pianeta. E poi, come scrivo
nel mio libro, non è vero che Washington abbia vinto la Seconda
guerra mondiale".
Non l’ha vinta nemmeno Hitler, però...
"So di esprimere una valutazione che nessuno condivide, ma se
guardiamo bene quali erano gli obiettivi che gli Usa si erano
prefissi, ci accorgeremo che nessuno di essi è stato raggiunto. In
Europa gli americani avrebbero voluto
mantenere la vecchia balance of power, che era stata minacciata dalla
Germania nazista, mentre in Oriente il problema era rappresentato dal
Giappone, che nel 1937 aveva iniziato la conquista del mercato cinese
e andava quindi fermato a tutti i costi (non per nulla la bomba
atomica americana ebbe come cavie umane proprio i giapponesi)".
Invece è andata diversamente?
"Certo, visto che la Russia è arrivata fino all’Elba,
diventando la potenza egemone e rompendo la balance of power, mentre
in Oriente il mercato cinese rimase fuori dalla portata della
penetrazione statunitense e nel 1949 la
Cina divenne addirittura comunista. E dopo aver perso la Seconda
guerra mondiale l’America ha perso anche la Guerra Fredda".
Anche se sono crollati i sistemi comunisti?
"Non per merito degli americani, ma per fallimento interno.
L’obiettivo centrale della geopolitica americana è quello di
annientare la Russia, o almeno di immobilizzarla tra i suoi ghiacci.
Dal ’45 al ’50 sembrava ormai imminente un attacco nucleare di
Washington contro l’Urss e fu la "cortina di ferro"
innalzata da Stalin a far fallire il progetto. Vent’anni fa l’
amministrazione Carter lo dichiarò esplicitamente: "un giorno
dovremo combattere contro i russi, questo è sicuro", dissero i
consiglieri dell’ allora Presidente americano. Anche perchè se
l’Europa si accordasse con i russi, a livello economico-commerciale
e anche strategico-militare, per gli americani sarebbe la fine del
grande sogno di dominio mondiale. Questo "rischio" per gli
americani esiste tuttora, a dimostrazione che nemmeno la Guerra Fredda
è stata vinta da loro".
Lei nel suo libro fa balenare l’ipotesi del non lontano crollo
dell’impero americano. Ne è davvero sicuro?
"Negli Usa esistono forti contraddizioni interne e non è
assolutamente vero che il suo esercito sia in grado di dominare il
mondo. A livello di truppa, il soldato americano vale pochissimo. E
senza truppe forti di terra, nessuno può fare il "gendarme del
mondo". Per questo sono certo che il piano americano sia
destinato a fallire".
I
DIVI DI STATO - IL CONTROLLO POLITICO SU HOLLYWOOD
John
Kleeves
Il
Settimo Sigillo 1999
Il
mito di Hollywood ha sempre esercitato un fascino sul pubblico europeo
e su quello italiano in particolare. Ma quale è stato il ruolo del
potere politico americano sull’esportazione all’estero della
“fabbrica dei sogni”? Quale il condizionamento sulla
cinematografia e quale invece l’esercizio di una vera e propria
censura? A questi quesiti e a tutti i retroscena della filmografia
americana risponde Kleeves con una analisi serrata e inattaccabile.
Dopo aver letto questo libro andrete al cinema con la mente più
aperta e scoprirete come si vede un film americano.
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11.01 |
Il
bombardamento etico
Costanzo Preve. Il Bombardamento Etico:
Saggio sull'Interventismo Umanitario, sull'Embargo Terapeutico e sulla
Menzogna Evidente. ISBN 88-87296-77-4
Mentre preparo l'html di questa recensione, l'occhio mi cade su un
titolo del quotidiano, *Corriere del Ticino* (20 dicembre 2001). In
sostanza, dice che gli Stati Uniti, padroni incontrastati dei cieli, si
stanno preparando a usare di nuovo la bomba atomica per annientare i
loro oppositori persino sottoterra. Il titolista svizzero riesce a
ricavarne invece una bomba *antiatomica*: "Una miniatomica contro
il terrorismo: la bomba capace di distruggere armi di distruzione di
massa a grande profondità". Ecco, in una parola sola, cosa è la
"Menzogna Evidente" che compare nel titolo del libro
di Costanzo Preve.
Costanzo Preve insegna filosofia a Torino ed è un profondo conoscitore
del mondo balcanico, greco e ottomano. Con questo libro, scorrevole e
soprattutto originale, ci regala alcuni spunti decisivi per capire la
Guerra del Bene contro il Male, la manipolazione retorica e il mondo
post-occidentale.
Lasciamo perdere le ovvie differenze di idee. ma fa tristezza trovare il
confuso delirio di Oriana Fallaci, pieno di clamorosi errori, in tutte
le librerie; mentre difficilmente troverete il testo di Costanzo Preve,
scritto molto meglio e da un autore che pensa prima di aprire bocca.
Comunque se il vostro libraio dovesse rivolgervi uno sguardo perplesso
quando chiedete il libro, ecco tutte le coordinate per farglielo
ordinare:
Editrice C.R.T. via S. Pietro, 36 - 51100 Pistoia tel. 0573 - 976124 fax
0573 - 366725 e-mail info@editricecrt.it
Potete ordinare il libro contrassegno andando direttamente sul sito
della casa editrice http://www.editricecrt.it/
(non vi preoccupate se non lo hanno ancora messo in catalogo, il libro
c'è).
La recensione che segue è stata scritta da Roberto Giammanco, docente
di scienze sociali in varie università statunitensi, curatore in
passato di documentari per la RAI e autore di fondamentali saggi sulla
cultura americana.
-------------------------------------
Roberto Giammanco
2 gennaio 2002
Com'è noto, l'ossimoro è la tipica figura retorica dell'ambiguità
rassicurante. Prolifera in epoche di conformismo e repressione, in
società in cui il dominio ha i mezzi per incoraggiare "la voglia
di non sapere", magari facendola passare per una delle più
lodevoli virtù. La voglia di non sapere è la versione soft della truce
prescrizione Charitas omnia credit.
La cultura della Controriforma fu un vero e proprio florilegio di
ossimori, il florilegio dell'ambiguità e della paura di prender
partito.
I quattro ossimori qui considerati sono gli slogan del potere di
definizione degli Stati Uniti tradotti in bombe, nel controllo
planetario dei media e in un doppio standard di valutazione dei propri
morti e di quelli del nemico, delle azioni terroristiche e di quelle,
continuative e assai più quantitativamente criminose che l'Impero
commette per combattere
il terrorismo e cercare di annientarlo.
O, si dice, "per curarlo". Undici anni di embargo, centinaia
di migliaia di morti, specialmente bambini, un'intera regione
contaminata dall'uranio impoverito, non sono bastati per curare gli
irakeni dal loro inguaribile
"saddamismo", o se si preferisce, "hitlerismo"? Il
rimedio è pronto da tempo. George W. Bush Jr. si appresta a ordire un
secondo bombardamento di maggior significato "etico".
"Non fu sì forte il padre.."
Debellare superbos (e magari "perdonare" chi si sottometteva
incondizionatamente) era il motto della secolare autoreferenzialità di
Roma: definiva i suoi "nemici" e mandava le legioni ad
annientarli.
"Oggi essere Roma - scrive Richard Gwyn - è assai di più che
avere il potere e i missili, invece dei gladi e delle lance. È una
questione di autopercezione. è sapere che sei Roma e che non
t'interessa cosa pensano tutti gli altri né avere la benché minima
preoccupazione per loro. Essere Roma vuol dire prendere a calci
chiunque, ovunque, senza scusarsi, senza dubbi e, all'occasione, senza
spiegare niente a nessuno."
Essere Roma vuol dire imporre la globalizzazione, termine che, come dice
Preve, "non descrive uno stato di fatto, ma prescrive uno stato cui
conformarsi coattivamente". Qual è la chiave del potere imperiale
autoreferente, oltre all'"onnipotenza" delle sue armi di
distruzione a distanza?
È la capacità d'imporre a tutti i livelli di azione e comunicazione,
su scala planetaria, il criterio del trattamento differenziato (il
double standard da decenni assunto da Noam Chomsky a criterio per
smascherare la politica estera degli Stati Uniti).
I "modelli" dell'autoreferenza imperiale sono Auschwitz e
Hiroshima.
Auschwitz è entrato nella percezione collettiva come il frutto
dell'Ideologia demoniaca del nazismo, il genocidio
"giudeocentrico" per eccellenza, non paragonabile a nessun
altro, il Male assoluto. La colpa assoluta per cui tutti chiedono,
invano, perdono.
Auschwitz fu consumato a terra, in un periodo di tempo relativamente
lungo, da aguzzini numerosi che si servivano di strutture tradizionali,
visibili: linee ferroviarie, vagoni piombati, filo spinato, forni ecc.
Hiroshima fu tutt'altra cosa. Fu il trionfo di una tecnologia superiore,
neutra, anonima, affidabile, onnipotente e, soprattutto, senza
coinvolgimenti diretti. Cenere, non lacrime e sangue.
Fu subito interiorizzata la menzogna fondante: le bombe atomiche di
Hiroshima e Nagasaki avevano "posto fine alla guerra",
salvando "tante vite americane", si trattò di un'azione di
guerra, condotta dall'aria, in un minimo arco di tempo, un rendez-vous
tecnologico senza responsabilità soggettive né ideologiche e quindi
senza nessun obbligo "morale" di
chiederne perdono.
Corollario. Se Auschwitz, almeno in quella forma, non si ripeterà più,
di Hiroshime, dopo il 1945, ne abbiamo viste tante e c'è da aspettarsi
che, in futuro, ce ne saranno anche di più.
L'assuefazione collettiva all'astratto incenerimento di esseri umani che
non hanno diritto ad avere né nome né volto è garantita dall'uso
spettacolare di questi ossimori.
Tutte le connessioni che garantiscono le definizioni e gli incenerimenti
anonimi imposti dal dominio globale fanno capolino, aggrovigliate,
dietro questi ossimori che, come scrive Costanzo Preve, "comunicano
al lettore/spettatore una sorta di gradevole torpore dei sensi e dello
spirito, un torpore in cui annegano progressivamente insieme sia la
consapevolezza teorica sia la coscienza morale".
Per chi non vuol lasciarsi sopraffare da quel torpore Il Bombardamento
Etico è la lettura adatta.
© Roberto Giammanco
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10.01 |
Lunedì 14
gennaio 2001 ore 15 - 18 Piazza Montecitorio - Roma
Sit-in durante la discussione sulla politica estera della Camera dei
Deputati
Per un'altra
politica estera
rispettosa dell'articolo
11 della Costituzione
che promuova lo sviluppo dei paesi del sud del mondo come base della
pace
-
NO alla
partecipazione alla guerra in Afganistan
-
NO all'allargamento
del conflitto
-
revocare
unilateralmente l'embargo all'Iraq
-
sostenere la
creazione dello stato di Palestina
-
cancellare il debito
dei paesi del sud del mondo
-
introdurre la Tobin
Tax
Durante la
manifestazione verranno consegnate al Presidente del Consiglio, Silvio
Berlusconi, le cartoline contro l'embargo all'Iraq inviate dai
cittadini italiani al Ministro degli Esteri
Prime adesioni:
(Comunicare ulteriori adesioni a posta@unponteper.it
)
Associazione per la Pace
Attac - Roma
ICS
Roma Nordest Social Forum
Hanno aderito:
Federazione dei Verdi, Partito dei Comunisti Italiani, Partito della
Rifondazione Comunista
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|
10.01 |
Genetica,
Storia e diritti dei popoli
Cari amici, leggete e
diffondete
Davide di Porto
GENETIC EVIDENCE LINKS JEWS AND
ANCIENT ISRAEL
Genetic research continues to provide additional proof that the Jewish
people are descended from a common ancient Israelite father, with new
evidence indicating the genes of North African Jewry are virtually
indistinguishable from Jews from Iraq, even though they have been
separated
for over 1,000 years.
According to The Hebrew University of Jerusalem, genetic researchers
have
also proved that Sephardi Jews are very close genetically to the Jews of
Kurdistan, and only slight differences exist between these two groups
and
Ashkenazi Jews from Europe. These conclusions are reached in an article
published recently in the American Journal of Human Genetics.
The researchers conducted blood tests of Ashkenazi, Sephardi and Kurdish
Jews and examined their Y chromosomes, which are carried only by males.
They
then compared them with those of various Arab groups - Palestinians,
Beduins, Jordanians, Syrians and Lebanese - as well as to non-Arab
populations from Transcaucasia - Turks, Armenians and Muslim Kurds.
Surprisingly, the study shows a closer genetic affinity by Jews to the
non-Jewish, non-Arab populations in the northern part of the Middle East
than to Arabs. These findings indicate that the Jews are direct
descendants
of the early Middle Eastern core populations, which later divided into
distinct ethnic groups speaking different languages.
Previous investigations by the HU researchers suggested a common origin
for
Jewish and non-Jewish populations living in the Middle East. The current
study refines and delineates that connection.
It is believed that the majority of today's Jews - not including
converts
and non-Jews with whom Jews intermarried - descended from the ancient
Israelis that lived in the historic Land of Israel until the destruction
of
the Second Temple and their dispersal into the Diaspora.
The researchers say that a genetic analysis of the chromosomes of Jews
from
various countries show that there was practically no genetic intermixing
between them and the host populations among which they were scattered
during
their dispersion - whether in Eastern Europe, Spain, Portugal or North
Africa.
A particularly intriguing case illustrating this is that of the Kurdish
Jews, said to be the descendants of the Ten Tribes of Israel who were
exiled
in 723 BCE to the area known today as Kurdistan, located in Northern
Iraq,
Iran and Eastern Turkey. They continued to live there as a separate
entity
until their immigration to Israel in the 1950s. The Kurdish Jews of
today
show a much greater affinity to their fellow Jews elsewhere than to the
Kurdish Moslems.
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|
8.01 |
Il
vicolo cieco di Israele
di Edward Said
tratto da www.zmag.org/italy
"La terra si sta richiudendo su di noi, ci spinge attraverso
l'ultimo passaggio; ci laceriamo le membra nell'attraversarlo".
Così Mahmoud Darwish, scrivendo subito dopo che l'OLP aveva lasciato
Beirut nel settembre del 1982. "Dove dovremmo andare dopo aver
superato l'ultima frontiera? Dove volano gli uccelli oltre l'ultimo
cielo?"
Diciannove anni dopo, ciò che allora
stava accadendo ai palestinesi in Libano sta loro accadendo in
Palestina. Da quando l'Intifada di Al-Aqsa è cominciata nel settembre
passato, i palestinesi sono stati posti sotto sequestro dall'esercito
israeliano in non meno di 220 piccoli ghetti isolati e soggetti a
coprifuoco intermittenti che spesso durano per settimane di fila.
Nessuno, né giovani né vecchi, né
moribondi né donne incinte, né studenti né dottori, nessuno può
spostarsi senza passare ore alle barriere, controllate da soldati
israeliani deliberatamente rudi e umilianti. Mentre scrivo, a 200
palestinesi sono negati i trattamenti di dialisi, perché per
"ragioni di sicurezza" i militari israeliani non gli
consentono di andare nei centri medici.
I rappresentanti dei media
internazionali che si occupano del conflitto hanno forse scritto
qualche articolo su questi giovani militari israeliani abbrutiti,
addestrati a punire i civili palestinesi come parte principale del
loro dovere militare? Penso di no.
A Yasser Arafat non è stato consentito il 10 dicembre di lasciare il
suo ufficio di Ramallah per partecipare al meeting straordinario dei
ministri degli esteri della Conferenza Islamica in Qatar; il suo
discorso è stato letto da un sostituto. L'aeroporto a 15 chilometri
da Gaza e i due elicotteri obsolescenti di Arafat erano stati
distrutti la settimana precedente dagli aeroplani e dai bulldozers
israeliani, senza nessuno e nessuna forza a controllare, per non dire
impedire, le incursioni giornaliere di cui questa particolare mostra
di ardore militare fu parte. L'aeroporto di Gaza era il solo porto di
ingresso nel territorio palestinese, l'unico aeroporto civile nel
mondo sfrenatamente distrutto a partire dalla seconda guerra mondiale.
Da maggio scorso, gli F16 israeliani
(generosamente forniti dagli USA) hanno regolarmente bombardato e
mitragliato i villaggi e le città palestinesi, nello stile Guernica,
distruggendo le proprietà ed uccidendo civili e funzionari di
sicurezza (non esiste esercito, marina o aviazione palestinese a
proteggere la popolazione); gli elicotteri d'attacco Apache (sempre
forniti dagli USA) hanno usato i loro missili per uccidere 77 leaders
palestinesi, in nome di presupposti attacchi terroristici, passati o
futuri. Un gruppo di non meglio identificati agenti segreti israeliani
ha l'autorità di decidere su questi assassinii, presumibilmente con
l'approvazione del governo israeliano in ogni caso e, più
genericamente, degli USA. Gli elicotteri hanno anche fatto un lavoro
efficiente bombardando le sedi delle autorità palestinesi, quelle di
polizia come quelle civili.
Durante la notte del 5 dicembre, l'esercito israeliano penetrò negli
uffici su cinque piani dell'Istituto Centrale di Statistica di
Ramallah e sottrasse i computer, come la maggior parte dei documenti e
delle relazioni, facendo virtualmente scomparire in questo modo
l'intera documentazione sulla vita collettiva palestinese. Nel 1982,
lo stesso esercito sotto lo stesso comando entrò a Beirut ovest e
trasportò via documenti e fascicoli dal Centro di Ricerca
Palestinese, prima di spianarne gli edifici. Pochi giorni dopo fu la
volta dei massacri di Sabra e Shatila.
Gli attentatori suicidi di Hamas e del
Jihad islamico sono stati chiaramente al lavoro, come Sharon
certamente ben sapeva quando, dopo una interruzione dei combattimenti
per 10 giorni verso la fine di novembre, comandò l'assassinio del
leader di Hamas Mahmoud Abu Hanoud: un atto progettato per provocare
la rappresaglia di Hamas e consentire così all'esercito israeliano di
riprendere il massacro dei palestinesi. Dopo otto anni di sterili
discussioni attorno alla pace, il 50% dei palestinesi è disoccupato e
il 70% vive nella povertà con meno di 2 dollari al giorno. Ogni
giorno porta con sé sottrazioni di terra cui non è possibile opporsi
e demolizioni. Gli israeliani considerano finanche importante
distruggere alberi ed orti in terra palestinese. Benché cinque o sei
palestinesi siano stati uccisi negli ultimi mesi per ogni israeliano,
il vecchio guerrafondaio ha la faccia di continuare a ripetere che
Israele è vittima dello stesso terrorismo di bin Laden.
Il punto cruciale in tutto questo è
che Israele è impegnato dal 1967 in un occupazione militare
illegittima; è la più lunga siffatta occupazione nella storia e
l'unica al mondo oggi. Questa è la violenza originaria e perdurante
contro cui si sono diretti tutti gli atti di violenza palestinesi. Il
10 dicembre, per esempio, due bambini di 3 e 13 anni furono uccisi
dalle bombe israeliani a Hebron, eppure allo stesso tempo una
delegazione dell'Unione Europea domandava ai palestinesi di dare un
taglio alla loro violenza e agli atti di terrorismo. Altri cinque
palestinesi furono uccisi l'11 dicembre, tutti civili, vittime dei
bombardamenti degli elicotteri sui campi profughi di Gaza. A
peggiorare le cose, per effetto dei risultati degli attacchi dell'11
settembre, la parola "terrorismo" è usata per infangare
gli atti legittimi di resistenza contro l'occupazione militare, ed
ogni connessione tra le ignobili uccisioni di civili (cui mi sono
sempre opposto) e i trenta anni e passa di punizione collettiva è
vietata.
Ogni sapientone o funzionario
occidentale che pontifica sul terrorismo palestinese deve domandarsi
come si pensi che dimenticare l'occupazione possa fermare il
terrorismo. Il grande sbaglio di Arafat, conseguenza di frustazione e
cattivi consigli, è stato quello di fare un accordo con l'occupazione
quando ha autorizzato discussioni "di pace" tra i rampolli
di due importanti famiglie palestinesi ed il Mossad nel 1992
all'American Academy of Arts and Sciences di Cambridge. Queste
discussioni discussero solo la sicurezza di Israele; niente si disse
della sicurezza palestinese, niente di niente, e la lotta di questo
popolo per raggiungere uno stato indipendente fu lasciata da parte.
Infatti, la sicurezza israeliana è diventata la riconosciuta priorità
internazionale escludendo tutto il resto, ciò che consente al
generale Zinni e a Javier Solana di fare prediche all'OLP pur
rimanendo in totale silenzio riguardo all'occupazione. Eppure gli
stessi israeliani hanno difficilmente guadagnato più dei palestinesi
da queste discussioni.
L'errore di Israele è stato
immaginare che spingendo Arafat ed il suo entourage in discussioni
infinite e concessioni minime avrebbe guadagnato l'acquiescenza
palestinese. Ogni politica ufficiale di Israele fino ad ora ha
peggiorato le cose anziché migliorarle per Israele stesso.
Chiediamoci se Israele è più al sicuro e più accettato ora di dieci
anni fa.
I terribili e, secondo me, stupidi raid suicidi contro i civili ad
Haifa e Gerusalemme nel corso del fine settimana a cavallo del primo
dicembre deve essere senz'altro condannato, ma perché questa condanna
abbia alcun senso, i raid devono essere considerati nel contesto
dell'assassinio di Abu Hanoud nel corso della stessa settimana,
assieme all'uccisione di cinque bambini in un tranello israeliano a
Gaza - per non parlare delle abitazioni distrutte, dei palestinesi
uccisi in tutta Gaza e nella West Bank, le continue incursioni di
carri armati, la frantumazione continua delle aspirazioni
palestinesi, minuto dopo minuto, negli ultimi 35 anni.
Alla fine, la disperazione produce
solo cattivi risultati, nessuno peggiore della luce verde che Geroge
Bush e Colin Powell sembra abbiano dato a Sharon quando fece loro
visita a Washington il 2 dicembre (in tutto troppo simile alla luce
verde che Alexander Haig diede a Sharon nel maggio del 1982). Assieme
al loro sostegno ci sono state le solite dichiarazioni squillanti che
trasformano gli occupati ed i loro leader sventurati ed inetti in
aggressori che devono "condurre dinanzi alla giustizia" i
loro criminali anche quando i soldati israeliani stavano distruggendo
sistematicamente l'intera struttura di polizia palestinese che avrebbe
dovuto condurre gli arresti! Arafat è circondato da ogni lato, un
risultato ironico del suo desiderio senza limiti di essere tutto per
tutti, nemici e amici uguali. È allo stesso tempo una figura
tragicamente eroica e goffa.
Nessun palestinese oggi sconfesserà
la sua leadership, per la semplice ragione che, nonostante tutto il
suo titubare ed i suoi errori, viene ora punito ed umiliato per il suo
essere leader palestinese, e in quella funzione la sua stessa
esistenza offende i puristi (se questa è la parola giusta) come
Sharon e i suoi sostenitori americani. Eccezion fatta per i ministri
della sanità e dell’istruzione, i quali entrambi
hanno fatto un lavoro decente, l'Autorità Palestinese di Arafat non
è stata un grande successo. La sua corruzione e brutalità deriva
dalla maniera, apparentemente capricciosa ma in realtà molto
meticolosa, in cui Arafat rende ciascuno dipendente dalla propria
generosità; egli solo controlla il budget ed egli solo decide ciò
che finisce sulle prime pagine dei cinque quotidiani. Soprattutto
manipola e mette l'uno contro l'altro i 12 o 14 - alcuni dicono 19 o
20 - servizi di sicurezza indipendenti, ciascuno dei quali è
strutturalmente legale ai suoi leader e ad Arafat allo stesso tempo,
senza essere capace di fare molto di più per la sua gente se non
arrestarli quando gli viene ingiunto di farlo da Arafat, Israele e gli
USA. Le elezioni del 1996 furono pensate per un mandato di 3 anni, ma
Arafat ha tentennato con l'idea di invocarne di nuove, ciò che
metterebbe sicuramente e seriamente in discussione la sua autorità e
popolarità.
Arafat e Hamas hanno avuto una intesa
ben pubblicizzata, per così dire, dagli ultimi bombardamenti di
giugno: Hamas non avrebbe mirato ai civili israeliani se Arafat avesse
lasciato liberi i partiti islamici. Sharon ha distrutto questa intesa
con l'assassinio di Abu Hanoud: Hamas ha colpito in rappresaglia e non
c'era nulla ad impedire che Sharon strizzasse la vita di Arafat, con
il supporto americano. Dopo aver distrutto la rete di sicurezza di
Arafat, le sue prigioni ed i suoi uffici, e dopo averlo imprigionato
fisicamente, Sharon ha avanzato richieste che sapeva non avrebero
potuto essere soddisfatte (anche se Arafat, tirando fuori un paio di
assi dalla manica, è riuscito sorprendentemente a soddisfarle per metà).
Sharon crede stupidamente che, avendo
messo fuori gioco Arafat, possa realizzare una serie di accordi
indipendenti con i signorotti della guerra locali e dividere il 40%
della West Bank e buona parte di Gaza in vari cantoni non contigui i
cui confini sarebbero controllati dall'esercito israeliano. Come ciò
possa rendere Israele più sicuro sfugge a molti, ma non, ahimé, a
quelli che detengono il potere.
Ciò esclude tuttavia tre attori, o gruppi di attori, a due dei quali,
nel suo modo razzista, Sharon non dà alcun peso. Primo, i palestinesi
stessi, molti dei quali sono di gran lunga troppo intransigenti e
politicizzati per accettare qualunque cosa meno che il ritiro
incondizionato di Israele.
Le politiche di Israele, come tutte le
aggressioni simili, producono l'effetto opposto a quello desiderato:
reprimere significa provocare la resistenza. Se Arafat dovesse
scomparire, la legge palestinese prevede 60 giorni di governo da parte
del portavoce dell'Assemblea (un'appendice di Arafat impopolare e
priva di ascendenza di nome Abul-'Ala, molto ammirato da Israele per
la sua flessibilità).
In seguito, una lotta per la
successione nascerebbe tra altri buoni amici di Arafat come Abu Mazen
e due o tre dei più importanti (e capaci) capi della sicurezza -
segnatamente, Jibril Rajoub della West Bank e Mohamed Dahlan a Gaza.
Nessuno di questi ha la statura di Arafat o una popolarità simile
alla sua (forse ora persa). Il caos temporaneo è il risultato più
probabile: dobbiamo guardare in faccia questa realtà, la presenza di
Arafat ha costituito un centro organizzativo della politica
palestinese, in cui milioni di altri arabi e musulmani hanno molto in
gioco.
Arafat ha sempre tollerato, di fatto
sostenuto una moltitudine di organizzazioni che manipola in molti
modi, bilanciandole l'una con l'altra cosicché nessuna predomini
eccezion fatta per la sua Fatah. Nuovi gruppi emergono, comunque;
laici, proletari, impegnati, rivolti ad un ordinamento politico
democratico in una Palestina indipendente. Su questi gruppi l'autorità
palestinese non ha alcun controllo. Ma si dovrebbe altresì dire che
nessuno in Palestina desidera acconsentire alla richiesta di USA e
Israele per una fine del "terrorismo", benché sarà
difficile tracciare una linea nella percezione del pubblico tra
l'avventurismo suicida e la resistenza attuale all'occupazione,
fintanto che Israele continuerà con i suoi bombardamenti e con
l'oppressione dei palestinesi, giovani e vecchi.
Il secondo gruppo è costituito dai
leader nel resto del mondo arabo che ripongono un interesse in Arafat,
nonostante siano evidentemente esasperati da lui. Egli è molto più
intelligente e più costante di loro e conosce la presa di cui dispone
sulle menti popolari nei loro paesi, dove ha coltivato due separati
gruppi arabi, gli islamisti e i nazionalisti laici. Entrambi si
sentono sotto attacco, anche se i secondi a stento sono stati notati
dagli esperti occidentali e dagli orientalisti che considerano bin
Laden - piuttosto che il ben più ampio numero di musulmani e arabi
laici non musulmani che detestano ciò che bin Laden rappresenta e ciò
che ha fatto - come il musulmano paradigmatico. In Palestina, per
esempio, recenti sondaggi hanno riscontrato che Arafat ed Hamas sono
più o meno a pari livello di popolarità (entrambi tra il 10 ed il 12
per cento), con la maggioranza dei cittadini che non prediligono né
l'uno né l'altro. (Ma anche se è stato messo in un angolo, la
popolarità di Arafat è aumentata).
La stessa divisione, con la stessa
significativa maggioranza di contrari ad entrambe le parti, esiste nei
paesi arabi, dove la maggior parte delle persone provano ripulsa per
la corruzione e la brutalità dei regimi o dalla riduttività e
dall'estremismo dei gruppi religiosi - molti dei quali sono
interessati più al controllo del comportamento personale che a
questioni come la globalizzazione o la produzione di lavori o
elettricità.
Gli arabi ed i musulmani potrebbero
rivoltarsi contro i loro stessi governi qualora Arafat apparisse
soffocato a morte dalla violenza di Israele e dall'indifferenza araba.
Perciò è necessario allo scenario attuale. La sua uscita di scena
potrà sembrare naturale solo quando una nuova leadership collettiva
emerga all'interno delle nuovi generazioni palestinesi. Quando e come
ciò potrà accadere non è possibile dire, ma sono sicuro che accadrà.
Il terzo gruppo di attori comprende
gli europei, gli americani ed il resto, e, francamente, non penso che
sappiano ciò che stanno facendo. La maggior parte di essi farebbe
volentieri a meno del problema palestinese e, nello spirito di Bush e
Powell, non resterebbero scontenti se la visione di uno stato
palestinese si realizzasse in qualche modo, a patto che lo faccia
qualcun altro. Inoltre, troverebbero l'andamento delle cose in Medio
Oriente difficile se non ci fosse Arafat da biasimare, offendere,
insultare, pungolare, su cui esercitare pressione e cui dare denaro.
La missione dell'Unione Europea e del generale Zinni sembra insensata
e non avrà effetto su Sharon e sul suo popolo. I politici israeliani
hanno concluso correttamente che i governi occidentali stanno, in
generale, dalla loro parte e che possono continuare a fare ciò che
fanno meglio, senza considerare le inutili implorazioni di Arafat e
della sua gente a negoziare.
Il gruppo palestinese che emerge
lentamente, sia in Palestina che nella diaspora, sta apprendendo ad
usare tattiche che fanno ricadere sull'occidente e su Israele l'onere
morale della questione dei diritti palestinesi e non solo della
presenza palestinese. In Israele, per esempio, un audace membro della
Knesset, il palestinese Azmi Bishara, è stato privato della sua
immunità parlamentare e sarà presto messo sotto processo per
incitamento alla violenza. Perché? Perché per lungo tempo si è
schierato in favore del diritto alla resistenza dei Palestinesi contro
l'occupazione, argomentando che, come ogni altro stato al mondo,
Israele dovrebbe essere lo stato di tutti i suoi cittadini, non solo
degli ebrei.
Per la prima volta, un forte attacco
palestinese a favore dei diritti dei Palestinesi viene
portato all'interno di Israele (e non nella West Bank), con tutti gli
occhi ad osservare ciò che accade. Allo stesso tempo, l'ufficio del
procuratore generale belga ha confermato che un processo per crimini
di guerra contro Sharon può avere corso nei tribunali belgi. Un
attento movimento di opinione laico palestinese si sta sviluppando e
prenderà rapidamente il posto dell'Autorità Palestinese.
Il terreno morale verrà presto
rivendicato da Israele, mano a mano che l'occupazione diventi il
centro dell'attenzione e un numero maggiore di israeliani comprenda
che non c'è modo di continuare indefinitamente con una occupazione di
35 anni. Inoltre, mentre la guerra USA contro il terrorismo prende
piede, è quasi sicuro che l'incertezza aumenti; piuttosto che
chiudere i problemi, il potere USA probabilmente rimescolerà le cose
in modi che potrebbero non essere contenibili.
Non è ironia da poco che la nuova
attenzione verso la Palestina sia emersa perché gli USA e gli europei
avevano bisogno di conservare una coalizione anti-talibana.
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8.01 |
La
crisi argentina
Il
granello di sabbia - ATTAC vi spedisce questo testo, editoriale de La
Jornada (quotidiano messicano) del 20 dicembre 2001.
Molti uccisi e ancor più feriti, centinaia di esercizi commerciali
distrutti, sospensione delle libertà civili, il governo praticamente
in fuga, sono i fatti principali del disastro provocato dall'attuale
governo argentino, il fondamentalismo neoliberale del ministro uscente
dell'economia - il pessimo Domingo Cavallo - l'intransigenza delle
istituzioni finanziarie internazionali e l'eredità del memenismo,
orchestrate con la violenza.
A
differenza di ciò che si potrebbe pensare, la generalizzata
distruzione degli esercizi commerciali non è stata la dimostrazione
di scontento politico, ma di fame: la cattiva amministrazione
economica ha messo larga parte dei 2 milioni e mezzo di disoccupati e
dei 12 milioni di poveri di questo paesi di fronte alla scelta tra
saccheggiare un supermercato o morire di fame.
In
una prospettiva globale, è chiaro che la squadra, ora allo sbando,
del presidente Fernando de la Rua si è trovata di fronte al dilemma
se rompere con l'IMF, la Banca Mondiale e la comunità internazionale
degli speculatori finanziari, o pagare il debito estero del paese
ammontante a 132 miliardi di dollari - la qual ultima cosa avrebbe
richiesto un aumento delle tasse, un taglio brutale (del 20%) delle
spese pubbliche, dei salari, delle pensioni di anzianità, tra altre
cose disastrose.
La
storia non è del tutto ignota ai paesi dell'America Latina ed è
possibile che la distruzione dei livelli di vita della maggioranza in
nome dei mercati internazionali avrebbe potuto essere percorribile -
come è stato in molti paesi, incluso il nostro [il Messico, ndt] per
decenni - se solo non fosse stato per l'arresto della crescita
economica negli ultime tre anni.
L'Argentina
è un chiaro esempio dei limiti e delle conseguenze dei dogmi
economici regnanti. Una di queste conseguenze è che l'imposizione
della disciplina fiscale imposta dalle istituzioni finanziarie
internazionali ed adottata entusiasticamente dai governi della
regione, rende alla lunga ingovernabile il paese e impossibile la
democrazia.
L'attuale
governo messicano, il cui primo anno al governo ha coinciso con un
periodo di crescita economica nulla, dovrebbe osservarsi nello
specchio argentino. È certo che la stagnazione attuale trova le sue
radici in fattori esterni, ma non esiste alcuna scusa per non adottare
misure urgenti all'interno: riattivare il mercato locale, adottare
misure d'emergenza per ridurre la disoccupazione, rafforzare i salari
e rallentare l'impoverimento di larghi settori della popolazione, e
ricostruire le capacità produttive che sono state distrutte dai tre
passati regimi neoliberali.
L'alternativa
è che in breve anche il Messico viva una destabilizzazione della
stessa proporzione di quella che sta soffrendo l'Argentina.
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|
8.01 |
La
politica dei papi durante il nazionalsocialismo
Ecco, per capire bene quel che accade in Medio Oriente, non
si può fare gli struzzi di fronte a simili questioni per paura di
essere tacciati di "antisemitismo".
Giorgio Mossa
K. Deschner - Con Dio e con il Fuhrer. La
politica dei papi durante il nazionalsocialismo - Tullio Pironti
1997
Sono ormai fuori
discussione gli aspetti clericali dei vari fascismi europei fra le due
guerre e durante il secondo conflitto mondiale. Alcuni furono autentici
clericofascismi. la differenza fondamentale fra i fascismi ed i regimi
ispirati dal nazismo fu proprio l' atteggiamento nei confronti della
Chiesa cattolica. fermo restando che la Chiesa vide con favore l' ascesa
del nazismo che avrebbe contrastato il comunismo ateo e gestito in
prevalenza da dirigenti ebrei. Malgrado il tentativo messo in atto verso
la fine del conflitto da parte di Pio XII e della gerarchia
ecclesiastica di negare evidentissime alleanze e collaborazioni, in
senso tanto anticomunista che in antitesi al protestantesimo ed all'
ebraismo, i fatti documentati dalla storia sono incancellabili.
Che gli aspetti dell' antisemitismo italiano degli anni trenta
siano coincidenti con quanto il pensiero cattolico veniva elaborando -
vedasi a tal proposito quanto da circa 50 anni veniva scritto sul
periodico dei gesuiti "La Civiltà cattolica" -
è altrettanto inoppugnabile. Da quanto ci risulta seguendo con
attenzione le subentranti " rivelazioni" pubblicate dai Media,
scandali spesso sopiti, le polemiche che ogni tanto scoppiano in qua e
in là, è in atto da tempo il tentativo da parte di Organizzazioni
ebraiche di coinvolgere il Vaticano in problematiche olocaustiche. Ne
risulterebbero, come minimo, colossali richieste di risarcimento come
quelle che hanno sconvolto
il mondo degli affari, delle banche e delle assicurazioni, e che
hanno appena investito le Ferrovie Francesi, accusate di aver
trasportato i deportati ebrei verso i lager.
Giorgio
Vitali
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7.01 |
La
guerra ad al-Qaida arriva in Yemen e... nessun tg lo dice!
Solo
chi conosce l'arabo ha il "privilegio" di poter
conoscere fatti così marginali...mentre ci
rincoglioniscono con le cassette dimenticate per caso a Jalalabad,
con le fughe di Omar a bordo di una guzzi sui dolci pendii afgani,
ecco la nostra informazione cosa omette.
A
presto, Alfonso.
La
guerra ad al-Qa‘ida si sposta in Yemen: 12 uccisi e 25 feriti
da
al-Hayat, 19 dicembre 2001
San‘a’,
al-Hayat - La guerra
all'organizzazione "al-Qâ‘ida" si è spostata nello
Yemen, dove almeno 12 elementi dell'esercito e uomini armati
delle tribù sono caduti, mentre circa altri 25 sono rimasti
feriti in scontri avvenuti ieri mattina nel Governatorato di
Ma'rib protrattisi per tre ore, nel quadro di un'offensiva
sferrata dalle autorità per perseguire un certo numero di
appartenenti all'organizzazione comandata da Usama Bin Laden
insediatisi nei Governatorati di Ma'rib, al-Jawf e Shabwa.
Una
fonte della sicurezza di San'a' ha dichiarato che unità delle
forze di sicurezza appoggiate da unità delle forze armate ed
elicotteri, alle sei di ieri mattina si sono messi sulle tracce di
«alcuni elementi ricercati dagli apparati di sicurezza sospettati
di aderire all'organizzazione al-Qâ‘ida sui quali vi erano
informazioni circa la loro presenza nella provincia di Balharith -
Bayhan (gov. di Shabwa) e nella regione di Ubayda (gov. di
Ma'rib).
Le
forze di sicurezza hanno eseguito un'ampia operazione di
perlustrazione nelle due aree, mettendo sotto pressione coloro che
danno rifugio ad alcuni elementi di al-Qâ‘ida nella provincia
di Bayhan. Durante l'ispezione dell'area di Ubayda i militari che
la stavano compiendo sono rimasti esposti a colpi d'arma da fuoco
da parte delle persone che ospitano i sospettati di aderire
all'organizzazione al-Qâ‘ida, con il risultato che vi sono
stati morti e feriti».
La
stesssa fonte ha assicurato che gli apparati di sicurezza «proseguono
con l'appoggio delle unità delle forze armate la perlustrazione
dell'area per dare la caccia ai ricercati ed arrestarli».
Il
Ministero degli Interni ha messo sull'avviso tutti coloro che
danno rifugio o nascondono alcuni elementi di al-Qâ‘ida ed ha
invitato tutti a collaborare con gli apparati di sicurezza al fine
di catturarli.
Fonti
tribali hanno informato "al-Hayât" che l'Esercito e la
Polizia stavano dando la caccia ad un certo Bin Thunyân degli Âl
Hâritha della zona di Bayhan (gov. di Shabwa, ad est di Ma'rib),
il quale si era spostato con la sua famiglia per avere
protezione presso gli Ubayda, finendo per giungere presso una
istituto religioso del villaggio di Husûn Âl Jalâl.
I
militari si sono precipitati sulla strada del villaggio, che si
trova 4 chilometri ad est di Ma'rib, dando il via ad un'ampia
operazione di setacciamento della zona. Le stesse fonti hanno
aggiunto che un aereo da guerra è passato sopra l'area a velocità
supersonica. A quel punto è scoppiata la sparatoria tra militari
ed uomini armati delle tribù, e nello scontro sono caduti - di
una parte e dell'altra - in 12, mentre i feriti sono circa 25.
Senza contare i danni subiti da apparecchiature militari,
colpite da razzi "RBG".
Le
notizie sulla partecipazione di ciascuna delle due parti alla
battaglia si sono contraddette a vicenda. Mentre fonti tribali
hanno dichiarato che l'aereo ha bombardato una delle case del
villaggio in cui i militari sospettavano che si nascondesse il
ricercato, testimoni oculari hanno asicurato che l'aereo è
passato a velocità supersonica senza bombardare.
In
uno sviluppo succesivo si sono intromessi alcuni capi anziani
delle tribù di Ma'rib, stabilendo contatti con le autorità e gli
anziani della tribù Ubayda e riuscendo a portare la calma. Gli
uomini della tribù Ubayda hanno acconsentito ad apire di nuovo le
porte del villaggio per le operazioni di ricerca e di
perquisizione. Tuttavia, fonti tribali di San'a' hanno rivelato ad
"al-Hayât" che Bin Thunyân è riuscito a scappare: si
ritiene che sia fuggito in direzione di Bayhan (gov. Shabwa), il
suo luogo di nascita.
Le
autorità yemenite conducono da due settimane un'offensiva alla
ricerca di tre persone ritenute elementi basilari in Yemen
dell'organizzazione al-Qâ‘ida capeggiata da Usama bin Laden. Fonti
ufficiali della capitale hanno assicurato la settimana scorsa che
unità delle forze speciali guidate dal figlio maggiore del
presidente 'Ali 'Abdallah Saleh ed appoggiate da elicotteri hanno
compiuto operazioni di perlustrazione nelle regioni di
Ma'rib, al-Jawf e Shabwa alla ricerca dei tre e di tutti gli
yemeniti dell'organizzazione. L'operazione comprendeva anche la
ricerca degl altri tra i quali verosimilmente vi sono elementi di
varie nazionalità arabe che hanno preso queste regioni tribali
come rifugio per nascondervisi e forse trovare protezione presso
alcune tribù.
Gli
osservatori considerano che lo scontro armato a cui è ricorsa
l'autorità con la tribù Obayda è da vedersi come un messaggio
forte rivolto a tutte le tribù dei tre governatorati per impedire
ogni tipo di protezione ai ricercati; in caso contrario esse si
pongono in una situazione di scontro totale con lo Stato.
Viene
ricordato che le autorità yemenite avevano già provveduto ad
eseguire numerose operazioni di caccia agli elementi estremisti
nelle regioni di Shabwa, Ma'rib e al-Jawf sin dal 1996, nel quadro
di una vasta offensiva messa in atto per cacciare gli
"afghani arabi". Tra i risultati di un'operazione
protrattasi per 5 anni vi è l'espulsione di più di 14.000
"afghani arabi" di nazionalità egiziana, saudita,
tunisia, algerina, libica...
Inoltre
le autorità hanno dato la caccia a componenti della
"Jihad" egiziana che si erano rifugiati in queste
regioni nel 1997-98, arrestandoli o scacciandoli dopo che avevano
provato a cercare protezione presso alcuni capi anziani delle tribù.
Dopo gli
eventi dell'11 settembre scorso, le autorità yemenite hanno
moltiplicato gli sforzi in queste regioni per dare la caccia a
tutti coloro che sono sospettati o accusati di appartenere
all'organizzazione "al-Qâ‘ida", così come il
Presidente 'Ali 'Abdallah Saleh ha emanato alcune direttive
esplicite a tutti gli elementi che mettono in pericolo la
sicurezza, in special modo coloro che effettuano i rapimenti. Così,
ultimamente, un ostaggio tedesco è stato liberato per la prima
volta con la forza e non dopo trattative, come accadeva nella
maggior parte dei casi. E' d'altra parte noto che i rapimenti, che
dal 1991 hanno colpito cittadini stranieri, sono avvenuti per il
95% nel Governatorato di Ma'rib per mano di componenti delle tribù.
traduzione
dall'arabo di Enrico Galoppini
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6.01 |
Il
capolavoro della cinematografia sunnita
Vi passo la scheda del film “Il Destino” secondo gli amici
dello ICCII
Davide di Porto
As-salamu
`alaykum wa rahmat-Ullahi wa barakatuH.
Carissimi Fratelli e Sorelle di Islamsunnita,
Di solito il ns. Istituto non riclamizza le trasmissioni delle emittenti
televisive, ma in questo caso val bene la pena di fare un'eccezione, e
di invitare se Allah vuole tutti voi a sintonizzarsi su RAI Uno il
prossimo sabato 12 gennaio 2002, alle ore 23.40, per vedere se Allah
vuole il film "Al-Masir / Il destino", (coproduzione
arabo-francese) del nostro fratello il regista Yusuf Shahin, con Nour
el-Sherif e Laila Eloui.
Si tratta di un pregevole film sulla secolare lotta fra Ulema sunniti e
fanatici fondamentalisti, e programmi del genere non ne vengono certo
trasmessi tutti i giorni. E' ambientato nell'Andalusia dell'Età
dell'Oro, cioè a Cordova nel 1195 e.v., e narra di come alcuni
militanti di una setta integralista diedero fuoco alla biblioteca di Averroè, e di
come un suo discepolo riuscì invece a salvarne il sapere, facendolo
giungere sino ai giorni nostri. E' un film che abbiamo visto più volte
e che non esitiamo a definire un capolavoro islamico dalle innegabili
valenze educative, un efficace e sorprendente saggio di morale e storia
contro ogni tentazione integralista. Se poi pensiamo che Yusuf Shahin è
a suo tempo scampato ad un attentato dai parte di terroristi egiziani
legati all'infame Fratellanza, capiamo bene quale sia il nesso con
l'attualità, e quali le forze dissolutrici cui il regista abbia voluto
fare riferimento.
Dichiamo
dunque: chi è informato della trasmisione avverta se Allah vuole il suo
fratello, e se Allah vuole lo inviti a vederlo. Non sappiamo quando se
Allah vuole il film verrà ritrasmesso in televisione, e per questo
invitiamo di cuore chiunque abbia un videoregistratore se Allah vuole a
dotarsi di videocassetta da 180 minuti, e se Allah vuole a tesuarizzare
una copia al fine se Allah vuole di consentire ad altri fratelli di
vederlo.
Se Allah vuole buona visione a tutti, wa-s-salamu `alaykum wa
rahmat-Ullahi wa barakatuH.
ICCII
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6.01 |
Due piccioni con una
fava
da http://www.arabcomint.com/aggiornamento%20179.htm
Sia l'Ap che la Repubblica Islamica dell'Iran hanno negato
con fermezza l'accusa che i media israeliani hanno loro rivolto riguardo
ad un presunto carico d'armi che dall'Iran avrebbe dovuto raggiungere i
Territori occupati. Il membro dell'Ap Nabil Abu Rudeina ha accusato
Israele di aver fabbricato l'intera storia allo scopo di sabotare la
missione di Anthony Zinni in Medioriente. "L'Autorita' palestinese
non ha assolutamente niente a che vedere con il presunto affare della
nave carica di armi. E' chiaro che si tratta di una nuova mossa messa in
scena dal governo Sharon per isolare sempre piu' Arafat e la sua
leadership internazionalmente".
Da Teheran arriva l'altra smentita, per bocca di un
portavoce del primo ministro iraniano: "Se Israele ha delle prove
su cio' che afferma, le produca. L'Iran non ha mai avuto rapporti di tal
genere con l'Autorita' palestinese". E' la terza volta, in meno di
una settimana, che Israele e la CIA tirano in ballo l'Iran per fatti che
restano tutti da provare e da dimostrare. Non e' un segreto che i falchi
di Washington e di Tel Aviv vedrebbero con favore l'apertura di un nuovo
fronte di guerra contro Teheran, uno dei pochi paesi al mondo che non
accetta ordini da USA ed Israele. E le accuse mosse a Teheran hanno
tutta l'aria di essere l'inizio di una campagna di pubbliche relazioni
che mirerebbe a gettare la Repubblica Islamica nell'occhio del ciclone.
Il fatto poi che sia tirato in ballo nuovamente Arafat mostra
chiaramente che Israele sta puntando a prendere due piccioni con una
fava: screditare l'Iran, accusandolo di fomentare il terrorismo (???) in
Medioriente e, contemporaneamente accrescere la pressione internazionale
su Arafat proprio alla vigilia del suo incontro con Zinni.
Il regime sionista non ha mai nascosto la sua avversione per
l'Iran, paese che sostiene con fermezza il popolo palestinese (non la
sua leadership) e la sua lotta per l'indipendenza e che ha il coraggio
di condannare, da sempre, la politica di occupazione ed apartheid
instaurata da Israele in Palestina.
Ed il "Guardian" fa chiare insinuazioni a proposito.
Il quotidiano britannico indipendente "The Guardian
Unlimited" pubblica oggi un articolo che mette in evidenza la
strana tempestivita' con cui fa la sua comparsa sulla scena
mediorientale la nave carica di armi. Dice testualmente l'articolo:
"L'intercettazione di una nave di proprieta' dell'Ap,
con membri palestinesi dell'equipaggio e con un cargo di armi illegali
non poteva arrivare in un momento piu' propizio per Ariel Sharon. La
notizia e' giunta proprio pochi minuti prima che il leader palestinese
ed Anthony Zinni si incontrassero.
I dettagli dell'operazione non sono stati raccontati e
crediamo ci vorra' del tempo prima che cio' avvenga. Ma, anche cosi', la
lezione che Israele vuole dare al mondo e' che di Arafat non ci si puo'
fidare. (...) Gli israeliani sono fiduciosi del fatto che e' stata
stabilita una connessione tra le armi e gli ufficiali - possibilmente i
piu' importanti tra essi . Le agenzie di stampa riportano che le armi
sono state fornite dall'Iran. Israele, l'unica potenza nucleare del
Medioriente, teme da tempo una minaccia nucleare da parte
dell'Iran". (www.guardian.co.uk).
E il sito della BBC Online rivela la
conclusione che tutti si aspettavano: "Shimon Peres chiedera' alla
comunita' internazionale di dichiarare l'Iran paese sostenitore del
terrorismo".
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6.01 |
Capire
gli USA
Capire
gli USA
di
John Kleeves
Noi non viviamo in
un tempo come un altro, in cui ognuno può prendersi il lusso di
dedicarsi soltanto alle sue cose personali, al suo lavoro e ai suoi
interessi particolari, perché tanto " il mondo va avanti lo
stesso ". Il mondo ora sta correndo un pericolo e se nessuno fa
niente non dico che finirà, ma certamente non andrà più avanti come
prima. Il pericolo si chiama Stati Uniti d’America : tale
federazione - in realtà un Paese unico e monolitico - è sul punto di
ottenere il dominio planetario e questo è un pericolo perché gli USA
non vogliono comandare il mondo allo scopo di governarlo, ma allo
scopo di sfruttarlo. Gli USA non sono una riedizione dell’Impero
Romano, come pure vogliono fare credere con la falsa modestia
d’obbligo. Lo fossero qualcuno li potrebbe anche accettare, ma non
lo sono : i Romani assoggettarono sì il mondo con la forza ma poi lo
governarono, gli diedero cioè qualcosa in cambio, una
amministrazione, degli ordinamenti, delle città edificate, delle
infrastrutture ( ad esempio 85.000 chilometri di strade, quasi tutte
in contrade che non le avevano mai viste prima ) ; agli Americani
invece gli altri popoli interessano solo come fornitori di materie
prime e di manodopera, come schiavi. Eventualmente come consumatori.
Il problema è che la gente non si rende conto del pericolo. Non se ne
rende conto perché gli USA sono un Paese singolare, di un tipo unico
nel suo genere e che non si era mai visto prima ; non se ne rende
conto perché gli USA, nonostante la notorietà e l’abbondanza delle
informazioni, della cronaca e anche dei contatti diretti, sono in
verità degli sconosciuti. C’è quindi un compito impellente in
questi tempi per gli uomini all’altezza e di buona volontà :
contribuire a colmare questa lacuna, informare la gente sulla vera
natura degli Stati Uniti.
Gli USA non sono un argomento semplice. Del resto lo fosse stato non
saremmo qui a parlarne ora. Gli USA innanzitutto sono un sistema, dove
tutte le sue manifestazioni sono collegate e interdipendenti : non si
può veramente capirne un solo aspetto se non si è capito il
tutto. Il fatto poi che questi aspetti siano tutti negativi, alcuni
addirittura micidiali ( le vittime delle guerre e delle repressioni
per procura, che sono decine di milioni ), aggrava l’inconveniente
perché la gente stenta a credere a una negatività così completa :
sembra pregiudizio. Quindi gli USA presentano una difficoltà davvero
singolare : la costante dicotomia fra ciò che dicono di essere e di
fare e ciò che invece effettivamente sono e fanno. Sono un Paese che
sembra preda di una ipocrisia congenita e profondissima, si direbbe
patologica, dove i fatti contraddicono costantemente le parole e dove
la pratica sconfessa sistematicamente la teoria. Le nobili parole
della Dichiarazione di Indipendenza nascondevano la ribellione dei
grandi mercanti Puritani del New England nei confronti della Corona
inglese che li aveva tagliati fuori dal mercato della Cina per
favorire la East India Company di Londra. La Costituzione del 1787
cominciava con le parole WE THE PEOPLE così in maiuscolo ma stabiliva
un sistema oligarchico basato sul danaro così ferreo da essere
arrivato da allora sino ad oggi assolutamente inalterato. La libertà
di stampa e di espressione così decantata e vantata dagli americani
è cosa campata per aria, sterile : si può stampare e dire ciò che
si vuole a patto che ciò non arrivi davvero al pubblico. Come con gli
oppositori : anche se pacifici, possono esistere se non mettono in
pericolo davvero il sistema, altrimenti sono incarcerati con pretesti,
perseguitati nella vita o anche uccisi dall’FBI per strada.
Teoricamente ci possono essere tutti i partiti politici, e difatti ce
ne sono attualmente 29 negli USA, compreso un Communist Party USA, ma
di fatto per il meccanismo dei finanziamenti e delle liste se ne
possono affermare solo due, quelli infatti sulla ribalta da sempre, il
Democratico e il Repubblicano, che oltretutto sono un partito solo, o
le due facce della medesima medaglia. La politica estera americana è
sempre stata un campionario di belle intenzioni e di roboanti slogan
dietro cui stavano costantemente obiettivi addirittura sordidi. Si
potrebbe continuare per pagine.
Gli USA sono dunque un argomento complesso e difficile. Ma se si vuole
fare qualcosa per il mondo, sì qualcosa per il mondo, questa è una
occasione. Il tempo e le energie che si dedicano alla diffusione della
comprensione degli USA non sono buttati via.
Novembre 2001
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3.01 |
Indice
di Diario della Settimana
Bentrovati nel 2002.
Diario,
anno nuovo, parte con due inchieste: la prima è dedicata ai segreti
del mercato del petrolio e alla rete di spie che controlla il
via vai delle petroliere per determinarne il prezzo. L'altra è il
racconto di una scrittrice, Laura Pariani, sull'Argentina, pochi
giorni prima che esplodesse, tra liquidazioni totali a prezzo di costo,
rateizzazioni per articoli da 3 pesos e negozi che espongono cartelli:
«Aceptamos patacones». Dopo i governanti corrotti e la gente allo
stremo dell'Argentina, su Diario si incontrano i bambini cattivi:
negli Usa infuriano le polemiche e fioccano le denunce, ma il Ritalin,
il farmaco che tiene buoni i bambini, sta per arrivare in Italia.
Il
nostro inviato nei conflitti del governo, descrive «i ministri degli
Affari altrui»: Fini che fa il lavoro di Scajola, Tremonti quello
di Marzano, Sgarbi quello di Urbani, Martino che litiga con Ruggiero,
Ruggiero con Bossi, e Pisanu che è svanito nel nulla. La carrellata
finisce con «il ministro degli Affari suoi», il solo: si chiama
Pietro Lunardi, dirige i Lavori pubblici, decide e realizza Grandi
Opere. Le raccontiamo con Lega Ambiente.
Il
nostro inviato nelle conseguenze dell'11 settembre incontra gli
intellettuali arabi in Occidente, schiacciati «tra integralismo e
imperialismo». In un altro articolo, i maggiori artisti americani
dibattono sul che fare.
Se
tutto questo vi intristisce, potete consolarvi leggendo quello che
Marilyn Monroe scrisse in margine alla sceneggiatura di A qualcuno
piace caldo. L'occasione è un lungo ritratto del grande Billy
Wilder, che oggi ha 95 anni e da 30 anni non fa un film.
In
tutto questo, Marco Lodoli è andato a vedere Harry Potter e non
gli è mica piaciuto. Molti in redazione, compreso il direttore,
educatamente dissentono.
SUL SITO:
Gli
abbonamenti (http://www.diario.it/abbonamenti.htm)
online vanno a gonfie vele.
Inaugurato
Totomondo2002. (http://www.diario.it)
Le previsioni di Diario sull'anno iniziato a confronto con quelle dei
lettori che stanno scrivendo come forsennati.
Buona lettura
Caro
Diario
Il
buon senso
Un’ora d’aria con Sofri di Carlo Ginzburg
L’inchiesta
vecchio stile
Il fondo del barile di Elena Comelli
I
nostri inviati
La diaspora silente di Mario Nicolao
State bravi, o vi do il Ritalin! di Giuseppe Bascietto
I ministri degli Affari altrui di Gianni Barbacetto
Il ministro degli Affari suoi di Legambiente
Tutta
la città ne parla
Una settimana di notizie da: Pordenone, Bologna, Roma, Genova,
Sondrio
(ma anche l’Agenda, In fondo a destra e i Numeri)
Vedi
alla voce Cultura
Vorrei vivere alla Wilder di Alberto Crespi
Io confesso, tu confessi di Francesco Dragosei
Lo
spettatore esigente
Cinevisioni Harry Potter e la pietra filosofale di Marco
Lodoli
E inoltre: pop, rock, teatro, videogiochi, opera, appuntamenti
Lettura
New York, due aerei sull’arte di Matilde Battistini
Le
recensioni
Rudyard Kipling, William L. Shirer, Alfonso Scirocco, Simona Forti,
Hannah Arendt, Alice Ferney, Dario Voltolini
Tutto
il mondo ne parla
Storie, notizie e curiosità da: Sierra Leone,
Indonesia, Cambogia, Cipro, Belgio
I
nostri inviati nel mondo
I cadaveri sulla strada di Bill di Alessandro Marzo Magno
L’inghippo umanitario di Emanuele Giordana
All’alba di un brutto giorno di Laura Pariani
Un
certo stile
Cooperare contro l’Aids di Alessandra Ottaviani
Se
ne sono andati
Winfried Sebald, Giorgia e le altre, Léopold Senghor, Paolo Bufalini
di Andrea Jacchia
Le
rubriche
Florence Nightingale, Nicola Montella, Laura Pariani, Nicola Sani, Jaime
D’Alessandro, Elvio Giudici, Massimo Onofri, Maria Novella Oppo, Allan
Bay, Alessandro Robecchi, Massimo Cirri, Paolo Della Rosa, Stefano
Bartezzaghi, Elfo
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1.01 |
Chi
è Ariel Sharon?
Who
is Ariel Sharon
di
Nafeez Mosaddeq Ahmed (http://www.islamweb.net/english/Article.asp?Article=2835)
The
current Prime Minister of the Zionist State of Israel, Ariel Sharon,
is no one to complain about terrorism. His unconscionable attempt to
subvert the truth by characterising Israel as a nation under terror,
the principal victim of terrorism in the ongoing Middle East
conflict, is probably best exposed by reference to Sharon’s own
systematic involvement in grotesque acts of terrorism in Palestine.
In 1953, Ariel
Sharon founded and led Unit 101, a special commando unit which
conducted attacks on Palestinian villages, killing women and
children. Perhaps the most notorious massacre occurred in the West
Bank village of Qibya. On 14th October 1953 Sharon’s forces blew
up 45 houses, murdering en masse 69 Palestinian civilians, around
half of whom were women and children.
Even the U.S. State
Department issued a statement on the massacre four days later,
articulating its deepest sympathy for the families of those who lost
their lives in the attack. The statement further asserted that the
perpetrators should be brought to account and that effective
measures should be taken to prevent such incidents in the future.
In 1956, Sharon
became a commander of a paratroop brigade and fought as such in the
Sinai campaign. It was not long before his impact was felt.
Following is a report on the subsequent massacre that occurred under
Sharon’s command, worth quoting from extensively here, by Ohad
Gozani in Tel Aviv:
“Reports of how
Israeli paratroopers killed about 270 Egyptian prisoners of war 40
years ago are straining relations between the two countries. Egypt
has demanded an investigation into the alleged atrocities, which
date back to Israel's involvement in the 1956 Anglo-French campaign
to take the Suez Canal. The killings were revealed in a paper on the
Sinai campaign commissioned by the army’s military history
division. They were described in graphic detail in newspaper and
television interviews. In all, 273 Egyptians, some of them Sudanese
civilian road workers, were killed in
three separate incidents, according to the accounts.
Arye Biro, a retired
army general, admitted shooting the Sudanese at a quarry two days
into the campaign at strategic Mitla Pass in central Sinai. Mr.
Biro, then a company leader in the 890 Paratroop battalion, said the
49 terrified prisoners were taken into a quarry and shot dead. He
said: We couldnt take care of anything else before we got done with
them. One escaped with bullets in the chest and in the leg, but came
back on all fours because he was thirsty. He soon joined his [dead]
comrades.
Mr. Biro said he and
his troops later killed 56 Egyptian soldiers and irregulars as they
were advancing in a truck to the oil port of Ras-al-Sudr on the Gulf
of Suez. Six survived the initial bursts of gunfire, he said. They
later went to sleep with the rest. Blood was coming out of every
hole in the flatbed truck and in huge quantities!
A witness told the
newspaper: When the rear flap was lowered, all the bodies poured out
in one mass. I couldnt bear the thought that we shot people without
a fight. Another 168 Egyptian soldiers were cut down as the
paratroopers headed South. Mr. Biros commanding officers were Ariel
Sharon and Rafael Eytan!”
By 1969, Sharon had
been appointed Head of the Israeli Defence Forces (IDF) Southern
Command. Once again, it was not long before he made his presence
known. British journalist Phil Reeves reported that:
“In August 1971
alone, troops under Mr Sharon’s command destroyed some 2,000 homes
in the Gaza Strip, uprooting 12,000 people [Palestinian refugees]
for the second time in their lives. Hundreds of young Palestinian
men were arrested and deported to Jordan and Lebanon. Six hundred
relatives of suspected guerrillas were exiled to Sinai. In the
second half of 1971, 104 guerrillas were assassinated.
By 1981, Sharon was
appointed to the post of Israeli Minister of Defence, serving during
the Lebanon War. Sharon orchestrated Israel’s invasion of Lebanon
in 1982 that resulted in the mass murder of tens of thousands of
civilians. The Third World Quarterly (Volume 6, Issue 4, October
1984, pp. 934-949) published figures estimating that over 29,500
Palestinians and Lebanese civilians were either killed or wounded
between 4th July 1982 and 15th August 1982. Nearly half of these
victims - 40 percent - were children.
Additionally, Ariel
Sharon was most notoriously responsible for the genocidal massacre
of Palestinian and Lebanese civilians at the Sabra and Shatila
refugee camps in Beirut, on the evening of 16th
September 1982 to the morning of the 18th, in an area under the
control of the Israeli army. The massacres were carried out by
members of the Christian Lebanese Phalange militia, which was armed
by and closely allied
with Israel since the onset of Lebanon’s 1975 civil war. Ariel
Sharon had meetings with the Phalange forces before the massacres
occurred.
Dr. Ben Alofs, a
Dutch doctor working as a nurse in West Beirut in the summer of
1982, provides a detailed eye-witness account with some crucial
background information indicating Israeli - and specifically
Sharon’s - complicity:
“The Israeli
journalists Zeev Schiff and Ehud Yaari describe how Sharon insisted
on sending Phalangist militiamen into the Palestinian refugee camps
of Sabra and Shatila... To accomplish this, Sharon had held meetings
on September 15th with Elie Hobeika, Fadie Frem and Zahi Bustani
(leaders of the militiamen) as well as with Amin and Pierre Gemayel,
the political leaders of the Phalangist party.
The leaders of the
Israeli army, Sharon included, were very well aware of the mood of
the Phalangists, shortly after the murder of their leader. Anyone
with even the slightest knowledge of the feelings of the Phalangists
towards the Palestinians knew what would happen if they were let
into the refugee camps.
Tell al-Zaater is a
well-known name in Lebanon as well as in Israel. This camp in
East-Beirut, where I met Palestinian refugees for the first time in
1975, had been besieged for 53 days by the Phalangists and Maronite
Tiger-militiamen during the summer of 1976. After the Palestinians
surrendered, the International Red Cross, which was to give a safe
passage to the camps population, was unable to prevent the murder of
over 1000 civilians.
Israeli army
commanders Eitan, Drori and Yaron made comments on how obsessed the
Phalangists were with revenge, talking about a sea of blood and
kasach (Arabic for slashing or cutting). As they made these
observations Ariel Sharon gave the green light for the Phalangists
to enter Sabra and Shatila. They did so as dusk fell on the 16th of
September.
While the massacre
was being committed, I was working in the Gaza hospital in Sabra.
The situation was chaotic and confusing. Many wounded were carried
into the hospital and our morgue was full within a short time. Most
of the victims suffered bullet wounds, but a few were injured by
shrapnel.
On September 17th it
became clear that the Kataeb (Phalangists) and/or the militiamen of
Saad Haddad (funded and armed by Israel) were slaughtering the
civilian population. A 10-year old boy was carried into the
hospital. He had been shot, but was alive. He had spent the whole
night wounded, lying under the dead bodies of his parents, brothers
and sisters. At night the murderers were assisted by Israeli flares.
I was working with a
team of Scandinavian, British, American, Dutch and German doctors
and nurses. We had insisted that the Palestinian hospital staff flee
to the northern part of West-Beirut. On Saturday morning September
18th, we were arrested by the Phalangists/ Haddad militiamen. They
forced us to leave our patients behind and took us outside Sabra and
Shatila via the main road.
We passed by
hundreds of women, children and men who had been rounded up. We saw
bodies in the road and the small alleyways. The militiamen shouted
at us and called us Baader Meinhof. A Palestinian nurse who thought
he would be safe with us, was identified and taken away behind a
wall. A moment later came the gunshots!
Just before we
reached the exit of the camp I saw an image that will forever be in
my mind: a large mound of red earth with arms and legs sticking out.
Alongside the mound stood an army bulldozer with Hebrew markings.
Just outside the camp we were ordered to take off our hospital
clothing and we were lined up against a wall After interrogation in
their military headquarters the Phalangists took us to the Israeli
forward command post just 75 meters (250 feet) away. It was a 4 or 5
story building at the edge of Shatila. (Some weeks later I was on
the top floor. It offered excellent views of the destruction in
Shatila). The Israeli soldiers were clearly uncomfortable, being
confronted with more than 20 Europeans and Americans.”
Phalangist forces
had gone through the camps, slaughtering unarmed civilian refugees
indiscriminately, lining them up and mowing them down by machine-gun
fire. Women and girls were raped repeatedly and brutally. Children
were shot dead and mutilated. Men were disembowelled just before
execution. The International Committee of the Red Cross (ICRC)
counted 1,500 victims in total at the time of the massacre. By 23rd
September, the body count had risen to 2,750.
There should not be
any doubt that Israeli troops surrounding the refugee camps were
fully aware of the atrocities being committed inside. Dr. Witsoe who
was at Gaza Hospital at the time, testified to the New York Times
that from 5-5.30 AM there were low level flights of Israeli planes
over Sabra and Shatila, after which shelling promptly commenced.
Furthermore,
according to Newsweek: The Israelis established observation posts on
top of multi-storey buildings in the north-west quadrant of the
Kuwaiti Embassy. From these posts, the naked eye has a clear view of
several sections of the camps, including those parts of Shatila
where piles of bodies were found.
The U.S. Special
Envoy to the Middle East at the time, Morris Draper, testified to
the BBC that U.S. officials were horrified when told Sharon had
allowed Phalange militias into West Beirut and the camps because it
would be a massacre. Shortly after the killings began he cabled
Defense Minister Sharon, urging to him: “You must stop the
slaughter. The situation is absolutely appalling. They are killing
children. You have the field completely under your control and are
therefore responsible for that area.” His plea was to no avail.
An official Israeli
Commission of Inquiry chaired by Yitzhak Kahan, President of
Israel's Supreme Court, investigated the massacre and found Ariel
Sharon, among other Israelis, responsible. In February 1983 the
Kahan Commission released its findings that: “It is our view that
responsibility is to be imputed to the Minister of Defense for
having disregarded the danger of acts of vengeance and bloodshed by
the Phalangists against the population of the refugee camps, and
having failed to take this danger into account when he decided to
have the Phalangists enter the camps. In addition, responsibility is
to be imputed to the Minister of Defense for not ordering
appropriate measures for preventing or reducing the danger of
massacre as a condition for the Phalangists entry into the camps.
These blunders
constitute the non-fulfillment of a duty with which the Defense
Minister was charged in his meeting with the Phalangist commanders,
the Defence Minister made no attempt to point out to them the
gravity of the danger that their men would commit acts of
slaughter.... Had it become clear to the Defense Minister that no
real supervision could be exercised over the Phalangist force that
entered the camps with the IDFs assent, his duty would have been to
prevent their entry.
The usefulness of
the Phalangists entry into the camps was wholly disproportionate to
the damange their entry could cause if it were uncontrolled. We
shall remark here that it is obstensibly puzzling that the Defense
Minister did not in any way make the Prime Minister [Menachem Begin]
privy to the decision on having the Phalangists enter the camps.”
The former Chief
Prosecutor to the International War Crimes Tribunals for Yugoslavia
and Rwanda, Judge Richard Goldstone, agreed that Ariel Sharon should
be tried for war crimes in connection with the 1982 massacre of
Palestinian civilians in Lebanon. Speaking in an interview with BBC
Panorama, Judge Goldstone observed that: “If the person who gave
the command knows, or should know... that there is a situation where
innocent civilians are going to be injured or killed then that
person is as responsible, in my book more responsible even, than the
people who carry out the orders.”
The London
Independent further reported that: “Mr Sharon was Defense Minister
when Israel invaded Lebanon in 1982, and Israeli forces allowed
their allies in the Lebanese Christian militias to enter the Sabra
and Chatila refugee camps and massacre up to 2,000 people. An
Israeli inquiry held Mr Sharon responsible. Judge Goldstone said it
was regrettable that no criminal prosecutions had been brought.”
Indeed, both Human
Rights Watch and Amnesty International have echoed the call for
Sharon to be tried for war crimes. This is a responsibility of the
international community under international law. Article 146 of the
Geneva Convention relative to the Protection of Civilian Persons in
Time of War stipulates that each High Contracting Party shall be
under the obligation to search for persons alleged to have
committed, or to have ordered to be committed grave breaches of the
Convention, and shall bring such persons, regardless of their
nationality, before its own courts. It may also, if it prefers, and
in accordance with the provisions of its own legislation, hand such
persons over for trial to another High Contracting Party concerned,
provided such High Contracting Party has made out a prima facie
case.
Article 147 of the
Convention clarifies that the grave breaches noted in Article 146
include wilful killing, torture or inhuman treatment, including
biological experiments, wilfully causing great suffering or serious
injury to body or health, unlawful deportation or transfer or
unlawful confinement of a protected person, compelling a protected
person to serve in the forces of a hostile Power, or willfully
depriving a protected person of the rights of fair and regular trial
prescribed in the present Convention, taking of hostages and
extensive destruction and appropriation of property, not justified
by military necessity and carried out unlawfully and wantonly.
http://www.islamweb.net/english/Article.asp?Article=2835
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