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28.11 |
Gli
Usa ci ordinano: cambiate la Costituzione!
"Change
your constitution!" Inoltre,
i paesi europei non ammettono l'esistenza di reati politici o di idee.
Non parliamo poi del fatto che Alcuni
amici hanno suggerito che il parallelo più prossimo a quanto starebbe
per accadere sia trovi nelle leggi razziali che colpirono poche
migliaia di ebrei in Italia, ma violarono il concetto fondamentale
dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Altri però
notano una differenza non da poco: le leggi razziali almeno non fecero
morti. Per cui suggeriscono un parallelo con le deportazioni degli
ebrei verso uno "Stato straniero amico" nel 1943. Purtroppo
non so se tali deportazioni siano avvenute nel contesto di qualche
norma giuridica - e in tal
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27.11 |
----- Original Message -----
From: Deborah Fait (faitd@barak-online.net) To: Berlusconi
Sent:
Wednesday, November 14, 2001 10:10 PM
Subject: quale Palestina?
ALLA CORTESE ATTENZIONE DEL
PRESIDENTE DEL CONSIGLIO
SILVIO BERLUSCONI.
Caro Signor Presidente del Consiglio,
Dall'11 settembre la sento parlare
sempre piu' spesso di Palestina e di Piani Marshall per aiutare i
palestinesi.
Tutto questo le fa onore ma non mi e'
chiaro dove sia la Palestina di cui Lei parla poiche', secondo
Arafat, la Palestina deve trovarsi al posto di Israele e le cartine
geografiche stampate dall'ANP lo dimostrano.
Arafat vuole tutta Israele e sua
massima ambizione sarebbe di gettare in mare gli ebrei
israeliani.
Le sarei grata se volesse
rassicurarmi in questo senso confermando che la Palestina che Lei
intende non comprendera' lo stato democratico di Israele!
Il timore c'e poiche',
dall'accoglienza entusiastica che Arafat ha avuto in Italia
proprio nei giorni in cui i suoi miliziani assassinavano civili
israeliani, pare che il suddetto terrorista goda molte simpatie nel
nostro paese.
Per quanto riguarda il Piano Marshall
credo sia inutile e superfluo, signor Presidente. Certamente lei e'
a conoscenza dei molti miliardi che la Banca Mondiale, la Comunita'
Europea, Gli Stati Uniti e Israele hanno mandato negli anni alla
dirigenza palestinese. E Lei sapra' altresi' che di tutti questi
miliardi neanche un centesimo e' arrivato al popolo palestinese che
e' , unico caso al mondo, ancora chiuso nei campi profughi dei
territori palestinesi.
Tutti i miliardi di cui sopra, Signor
Presidente, sono stati usati per l'acquisto di armi, per la
propaganda e per i conti in banca della corrotta classe
dirigente palestinese. E adesso lei vuole, signor Presidente,
togliere altri soldi dalle tasche degli europei e degli italiani per
rendere Arafat ancora piu' ricco?
Mi scusi l'ardire ma trovo che questo
sia poco etico.
Se Lei vuole migliorare il livello di
vita dei palestinesi dovrebbe innanzitutto fare in modo che i
poveretti si liberino di Arafat e di tutta la sua gang corrotta di
terroristi.
Nessuna speranza di miglioramento, a
mio parere, finche' non li aiuterete in questo senso.
Fiduciosa La ringrazio per
l'attenzione e La saluto cordialmente
Deborah Fait
Herzogstr.2 A
76482 Rehovot
Israele
e mail dvora95@hotmail.com ...e la Morgantini risponde Cara Signora Deborah, mi dispiace che lei sia cosi piena di livore e di bugie.
Lo stato di cui si sta parlando riguarda
il territorio occupato da Israele con la guerra del 1967. I confini di
cui parlano i palestinesi e le risoluzioni Onu sono quelli della
Cisgiordania e Gaza. Luoghi in cui i governi israeliani che si sono
succeduti hanno costruito colonie, trasferendo, contro la convenzione
di Ginevra, la propria popolazione su di un territorio occupato
militarmente. Non sono pochi questi coloni, comprendendo Gerusalemme
est, anch'essa occupata militarmente nel 1967, ammontano ormai a
400.000 persone, tra l'altro aumentate enormemente dopo la firma
dell'accordo di Oslo. Dire colonie o coloni forse non significa molto,
quelle colonie pero' sono state costruite su terra palestinese
coltivata con la fatica e gli anni dai contadini palestinesi, che se
sa la sono vista sottrarre, hanno visto sradicare alberi, hanno visto
crescere colonie con piscine con l'acqua sottratta non solo ai loro
campi ma anche alle loro case. Dopo l'accordo di Oslo hanno visto
crescere a dismisura le by pass road, anche queste per la sicurezza
dei coloni e anche queste costruite su terra confiscata.
Nel Novembre del 1988, la leadesrhip
palestinese ha accettato i confini del 67 e l'esistenza dello stato di
Israele che non è più in discussione. I palestinesi hanno accettato
un compromesso storico, non hanno rivendicato né la Palestina storica
pre spartizione dell'Onu e neppure la Palestina decisa dalla
spartizione Onu che prevedeva il 56% allo Stato di israele e il 44%
allo stato Palestinese. I confini del 67 sono invece il 22% del
territorio. Non chiedono come afferma Israle con l'annessione di
Gerusalemme che tutte Gerusalemme deve essere la capitale della
Palestina, chiedono semplicmente una città da condividere, Ovest per
lo Stato d'Israele, Est per lo Stato di Palestina. Mi sembra un
compromesso straordinario.
Per la verità Israele non solo non finanzia l'autorità palestinese ma ne mina costantemente l'esistenza e la credibilità. Non consegna le tasse che dovrebbe versare ai palestinesi, non permette la costruzione del porto palestinese, continua a confiscare terre, chiude i palestinesi all'interno di enclave, li costringe ad una vita di umiliazioni.
E' tempo che persone come lei comincino a
riflettere su di sè e sulla mancanza di umanità oltrechè sul
razzismo che spargete a piene mani.
Per fortuna in Israele ci sono molte
persone che credono al diritto e al riconoscimento dell'altro, in
questo caso dei palestinesi. Sono quelli che lasciano una speranza,
sono le persone con le quali è possibile pensare alla possibilità di
esistenza e coesistenza di due popoli e due stati.
Sono stata spesso in israele e palestina,
conosco le paure e le sofferenze degli uni e degli altri, ma la
violenza e l'ingiustizia che devono subire i palestinesi sono
inerarrabili.
Sicurezza e pace per Israele potranno
esistere solo se anche i palestinesi potranno vivere in pace e
sicurezza in un loro stato.
Mi auguro davvero che qualcosa cambi in lei, e anche a me sembra improponibile il piano Marshall, ma solo perchè i carri armati, gli F16 dell'esercito israeliano continuano a distruggere cio' che viene costruito.
Ogni azione contro la popolazione
civile la considero un crimine contro l'umanità, in questo senso ogni
azione di gruppi o persone che compiono azione terroriste
considero siano nemici del popolo palestinese anche se sono essi
stessi palestinesi, ma certamente non considero diversi i soldati che
sparano contro bambini, i buldozzer che distruggono e demoliscono
case, gli assasini extragiudiziali, i bombardamenti, e l'occupazione
militare di un altro popolo, le torture. Non è certo per difendere la
sicurezza d'Israele che si fa tutto questo, forse, purtroppo, la verità
è che i governi israeliani e in modo particolare Sharon, che si è
macchiato di tanti delitti, vogliono una sola cosa e praticano una
sola politica, quella di vecchio stile coloniale.
Sicuramente c'è corruzione in parte dei gruppi dirigenti palestinesi, ma ho visto che la critica viene dai Palestinesi stessi e questo mi sembra espressione di democrazia, certamente la democrazia è difficle da sviluppare in un popolo che non ha ancora uno stato e che per più di 30 sperimenta una occupazione militare brutale. Mi auguro per Israele e la Palestina che prevalgano non le voci come la sua, ma quelle dei movimenti per la pace israeliani, le donne in nero, la coalizione delle donne per la pace, i giovani che si rifiutano di prestare servizio militare nei territori occupati,cosi' come mi auguro che in Palestina prevalgono le forze e sono la maggioranza dei palestinesi che credono in movimenti di resistenza pacifica e non violenta.
Luisa Morgantini
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27.11 |
Salviamo
Safiya
Carissime e carissimi, sono Farid Adly, direttore di "ANBAMED, notizie dal Mediterraneo". Vi invio questo messaggio per una campagna per salvare la vita di Safya. E' ben chiaro che questa campagna non è un attacco all'Islàm. Nel mondo musulmano ci sono molti che si battono contro l'applicazione della Shari'a, là dove le norme di questa legge, di 1400 anni fa, stridono con i diritti umani, con l'uguaglianza tra i sessi o in generale con le concezioni moderne del diritto civile e penale. La maggioranza dei paesi arabi ed islamici non applica in modo totale la Shari'a. Questa premessa è necessaria, per capirci. Lo scrivente, peraltro, è di retaggio culturale islamico. Credo inoltre che il dialogo tra culture e il reciproco arricchirsi parte proprio dalla chiarezza dei principi che ci accomunano: il rispetto dei diritti umani e l'uguaglianze dei diritti e dei doveri di tutti senza distinzioni. Per questo, sarebbe anche interessante ed utile riuscire a convincere a partecipare a questa campagna molti amici arabi e musulmani. Il caso che vi sottopongo è una storia tragica: una donna nigeriana, Safya Husseini Tudu, di 30 anni, ha fatto l'amore e concepito un figlio al di fuori del matrimonio. Accusata di adulterio, è stata condannata da una corte locale nigeriana alla lapidazione. L’esecuzione non avrà luogo subito, ma solo quando la donna avrà completato il periodo di allattamento del bambino. E’ stata lasciata a casa, con l’ordine di presentarsi al momento stabilito per l’esecuzione. Il padre del nascituro è stato assolto per insufficienza di prove. La
situazione politica ed istituzionale in Nigeria vive un momento
molto difficile. Il progressivo allargamento dell’influenza dei
tribunali islamici negli stati del nord della federazione nigeriana
preoccupa le autorità centrali che dovrebbero far rispettare il Codice
penale ufficiale della Nigeria. L’inasprirsi delle violazioni dei
diritti umani e l’emissione di sentenze capitali, conseguenti
all’applicazione della Shari'a, contrasta con la tendenza in atto nel
paese. L’attuale presidente, Olusegun Obasanjo, nel gennaio 2000 aveva
concesso l’amnistia o la commutazione della pena ai condannati a
morte. Pur dovendo fronteggiare sanguinosi disordini, conseguenti alla
collisione tra comunità islamiche e cristiane, sembra che il Governo
centrale mantenga una moratoria di fatto. 1)
Proponiamo di scrivere al Presidente Olusegun
Obasanjo, per chiedere giustizia per Safiya. Fotocopiate, firmate
e corredate col vostro indirizzo completo il seguente testo (che può
essere ovviamente personalizzato) e inviatelo per Posta Prioritaria
affrancando con 1500 lire. Il
messaggio può essere inviato in copia (per conoscenza) alla: National
Human His
Excellency Dear
President We
appeal to you with deep concern and distress, begging you to intervene
to avoid that Safiya Hussaini Tungar-Tudu, mother of a still suckling
baby, is put to death. Ms.
Tungar-Tudu, convicted for adultery, has been condemned to be stoned to
death by the Islamic Court of Gwadabawa, in the state of Sokoto. Your
nation central authorities have the power and the duty of cancelling
such a sentence. By the use of your own constitutional powers, also you
could, dear President, through extreme instance, grant mercy. As
shown by the fast growth of the number of abolitionist countries, death
penalty harshly contrasts with the ethic maturity reached by Mankind.
Capital punishment bars the way to the development of Human rights, the
only mean to reach peace and justice among human beings in a tormented
world. We
oppose death penalty in all cases, but we submit to your attention Ms.
Safiya Hussaini Tungar-Tudu’s case with particular concern, because
the crime for which she has been condemned, the kind of trial she has
undergone, and the method chosen to put her to death add terrible
aggravating factors to the capital punishment itself. In the confident hope of your authoritative intervention, we remain respectfully yours Firma
leggibile ed indirizzo Traduzione:
Signor Presidente, ci appelliamo a lei con grande preoccupazione ed
angoscia pregandola di intervenire per impedire che Safiya Hussaini
Tungar-Tudu, madre di un neonato che sta tuttora allattando, sia messa a
morte. La
signora Tungar-Tudu, accusata di adulterio, è stata condannata alla
lapidazione dal Tribunale islamico della città di Gwadabawa nello stato
del Sokoto. Le Autorità centrali del suo paese hanno il potere e il
dovere di annullare una simile sentenza. Come estrema istanza,
ricorrendo ai suoi poteri costituzionali, lei, Signor Presidente,
potrebbe concedere la grazia. Come
dimostra la rapida crescita del numero dei paesi abolizionisti, la pena
di morte risulta essere in netto contrasto con la maturità etica
raggiunta dall’Umanità. Essa impedisce inoltre lo sviluppo dei Diritti umani, che solo può portare pace e giustizia tra gli uomini in un mondo tormentato. Pur essendo in ogni caso contrari alla pena di morte, le sottoponiamo con particolare preoccupazione il caso della Signora Safiya Hussaini Tungar-Tudu in cui il delitto contestato, il tipo di processo celebrato e il metodo di esecuzione scelto aggiungono terribili fattori aggravanti alla condanna capitale. Con viva speranza nel suo autorevole intervento, la salutiamo rispettosamente. 2) Possiamo scrivere lo stesso testo indirizzato però: all'ambasciata nigeriana via Orazio 18 00193
Roma. 3) Per via telematica c'è una strada che non è l'e-mail (sarebbe la più semplice, ma l'indirizzo e-mail del presidente nigeriano Obasanjo è stato cambiato dopo l'avvio della Campagna): si deve raggiungere il sito della delegazione nigeriana all'ONU dove c'è una pagina per comunicazioni:. http://www.nigerianmission.org/_vti_bin/shtml.dll/feedback.htm Si possono mandare i messaggi a favore della salvezza di Safya in inglese certamente, per . es: WE
WANT SAFYA HUSSAINI TUDU ALIVE!
4)
La stessa cosa si può fare raggiungendo la pagina del presidente della
Nigeria, che attualmente sta facendo un sondaggio sulle prossime
elezioni nigeriane del 2003 (quindi questi messaggi saranno più
efficaci). L'indirizzo del sito è :http://www.nigeriatoday.com/should_president_obasanjo_run_fo.htm
Grazie
a tutti, per tutto quello che potranno fare.
Cordialmente.
Farid
Adly
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27.11 |
Convegno
sull'immigrazione - Forum trentino per la Pace
“ENTI
LOCALI E DIRITTI DI CITTADINANZA DEGLI IMMIGRATI:
ESPERIENZE E PROPOSTE”
PROMOSSO
DAL
Forum
Trentino per la Pace
in
collaborazione con : Comune
di Rovereto Provincia
autonoma di Trento Regione
autonoma Trentino-Alto Adige Consorzio
dei Comuni Trentini Associazione
Trentina Accoglienza Stranieri Sabato
1 e domenica 2 dicembre 2001
ROVERETO
- Teatro Rosmini, via Paganini n. 14
Sabato
1 dicembre 2001 ore
9.00 Apertura lavori Saluti
autorità: Roberto
Maffei,
Sindaco di Rovereto Lorenzo Dellai, Presidente
della Giunta provinciale di Trento Mario Magnani,
Assessore alle politiche sociali e salute “Persone, non stranieri”-
Relazione introduttiva di Vincenzo Passerini, Presidente
del Forum Trentino per la Pace ore
10.00 Interventi Coordina
Adel Jabbar – sociologo
dell’immigrazione e relazioni interculturali - Università Ca’
Foscari – Venezia 1.
“Immigrazione e politiche
degli Enti Locali” – panoramica della situazione degli Enti
locali con riferimento alla partecipazione dei cittadini stranieri
Giorgio Alessandrini,
Presidente Organismo Nazionale di Coordinamento delle politiche di
integrazione - CNEL 2.
“La mediazione interculturale
nella politica degli Enti Locali” Nora
Lonardi, sociologa
- Studio RES Trento 3.
“Dal permesso alla carta di
soggiorno” Marco Paggi –Padova – rappresentante dell’A.S.G.I. (Associazione per gli Studi Giuridici sull’immigrazione) 4.
“Diritti uguali per
tutti e governo pacifico della città”. Salvatore
Palidda, ISMU, sociologo della devianza -
Università di Genova ore
13.00 Pausa pranzo
ore
14.30 Ripresa dei lavori Esperienze
istituzionali e partecipazione di cittadini immigrati Alberto
Caldana,
Assessore alle politiche sociali e sanitarie, Comune di Modena Ainom Maricos,
ex consigliera comunale, Comune di Milano Leonor Delaoz,
consigliera straniera aggiunta, Provincia di Ancona Neli Isaj,
consigliera straniera aggiunta, Comune di Ancona
ore
16.30 GRUPPI
DI LAVORO
a)
“Immigrati, istituzioni e opportunità di partecipazione”
– Erica Mondini –
Consigliera Delegata per interventi di promozione di una cultura della
pace - Comune di Rovereto b)”Politiche di sicurezza e immigrazione”-
Barbara Giacomozzi
– Esperta di politiche di sicurezza urbana c)
“Tempi
di lavoro e spazi della città” – Antonio
Rapanà, CGIL –
Servizio stranieri ore
19.00 chiusura dei lavori Domenica
2 dicembre 2001
ore
9.30 Saluti
Autorità: Margherita
Cogo, Presidente
della Regione Trentino-Alto Adige Alessandro Olivi,
Vice Presidente Consorzio Comuni Trentini ore
10.00 RELAZIONI
GRUPPI DI LAVORO
ore
10.45 TEMPI
E LUOGHI DELLE DONNE IMMIGRATE Introduce
e coordina: Lucia Coppola – Vice
Presidente del Forum Trentino per la Pace Interventi: Lucia Martinelli,
Presidente Commissione Pari Opportunità della Provincia di Trento Rita
Bonzanin, Direttore
ATAS (Associazione Trentina Accoglienza Stranieri) Relazioni: “Immigrazione
e prostituzione. Un’esperienza di lavoro di rete” – Gherda Maestripieri,
Assessore alle politiche Sociali e Sanitarie – Comune di Ponte
Buggianese (Pistoia). Percorsi di cura delle donne
immigrate: ruolo del mediatore linguistico culturale in ambito
sanitario” - Marta Castiglioni,
psicoterapeuta e Presidente della Cooperativa Kantara di Milano “Donne Immigrate e Lavoro”
–Melita Richter, sociologa, mediatrice interculturale, Cooperativa
Interethnos – Trieste ore
13.00 chiusura lavori
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24.11 |
Fondamentalismi
d'Occidente
UN PAESE PERICOLOSO Storia non romanzata degli Stati Uniti d’America di John Kleeves Società Editrice Barbarossa (orionseb@tin.it), Cusano Milanino (MI) 1999, pp. 382 • Lire 36.000 - Euro 18 cod. S07 "Kleeves parte da un presupposto abbastanza sorprendente: degli Stati Uniti si crede di sapere tutto ma in realtà si sa assai poco. Ciò è dovuto sostanzialmente a due motivi. Il primo è che si tratta di un paese singolare, con una forte specificità, le cui affinità con le culture di altre aree del mondo, compresa quell’Europa da cui provengono, sono più apparenti che reali. Il secondo motivo è che gli Usa dispiegano una forza propagandistica enorme per essere percepiti come vogliono essere percepiti ma come in realtà non sono. In America esiste una United States Information Agency (Usia), con un budget di tre miliardi di dollari e 50 mila funzionari sparsi in tutto il mondo, il suo scopo statutario è di "influenzare le opinioni e le attitudini del pubblico estero in modo da favorire le politiche degli Stati Uniti d’America". (...) Così gli americani hanno potuto presentarsi come i vessilliferi dei buoni sentimenti e della pace, il che è abbastanza straordinario per un paese che dalla sua nascita ha compiuto più di 200 interventi armati in tutte le aree del mondo, il cui schiavismo ha provocato 40 milioni di morti, autore di uno dei più spietati e cinici genocidi della storia, quello dei Pellerossa, infine l’unico ad aver usato, senza troppi scrupoli, la bomba atomica. Kleeves, che fa largo uso della ricerca motivazionale, utilizzata in psicologia, individua l’origine del "modo di essere americano, di quella che è una vera e propria teologia, nel protestantesimo declinato nella sua versione più radicale ed estrema, il puritanesimo. Ciò dà all’americano medio la certezza di essere dalla parte degli Eletti, dei Buoni, dei Giusti e agli Stati Uniti la caratteristica di paese straordinariamente aggressivo, convinto di avere il diritto, anzi il dovere, di portare il proprio modello ovunque. Il presidente Roosevelt lo disse esplicitamente: "L’americanizzazione del mondo è il nostro destino"". Su questo sentimento (...) si inseriscono gli interessi economici di quell’oligarchia mercantile che rappresenta il 5% della popolazione, detiene la metà della ricchezza nazionale e il cui interesse non è quello di esportare i Buoni Sentimenti ma di omologare l’intero pianeta al proprio modello per potervi vendere i propri prodotti e sacrificare così a quello che gli stessi americani chiamano Almighty Dollar, Il Dollaro Onnipotente. Per ottenere questo scopo sono disposti a distruggere culture, habitat, diversità, tradizioni, economie". (Massimo Fini, "Avvenire", 10 luglio 1999)
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24.11 |
Egemonia
americana e stati fuorilegge
Noam Chomsky, EGEMONIA AMERICANA E
"STATI FUORILEGGE"- ed. Dedalo 2001, Lire 30.000
Da tempo gli Stati Uniti, unica superpotenza a livello planetario, hanno individuato alcuni regimi come "rogue states", letteralmente "stati fuorilegge". I criteri tipicizzati - assenza di democrazia, non rispetto dei diritti umani, tra gli altri - sono dettati unilateralmente, e rispondono a interessi di egemonia americana sul mondo. Noam Chomsky smonta il discorso americano denudando l'interesse geopolitico nonché il controsenso dell'esclusione di alcuni regimi dal consesso della comunità mondiale (Iraq, Siria, Libia, e non altri che risponderebbero ugualmente a quei criteri, ma hanno la "fortuna" di essere fedeli alleati degli USA); in molti casi gli Stati Uniti sembrano non considerare affatto le principali norme di diritto internazionale, ad esempio l'uso illeggittimo della forza militare al di fuori delle regole fissate dalla Carta dell'ONU. Ed è proprio muovendo dagli eventi più prossimi, quali la tappa più recente del conflitto balcanico in Kossovo, l'annosa questione mediorientale drammaticamente attuale, o il tema del condono del debito dei paesi più poveri, che Chomsky dimostra, con la solita mole di documentazione a sostegno, come gli USA, a rigor di logica, siano l'unico stato democratico a poter legittimamente essere definito "stato fuorilegge". (dalla IV di copertina)
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23.11 |
Indice
di Diario della settimana
In questo numero - giorni di guerra
incerta - Gabriella Saba ricorda la sua migliore amica; distinti
signori afghani discutono su Internet del loro futuro; un famoso
scrittore californiano ricorda i suoi amati talebani; Francesco
Piccolo racconta come, seguendo il metodo Strasberg, è riuscito a
diventare un uomo di destra e andare, felice, all'Usa day. Noam
Chomsky spiega l'11 settembre e le ragioni di tutti. Vittorio Storaro
ricorda come illuminò Apocalypse now di cui esce una nuova
versione. Buona lettura Il sommario della
settimana Caro Diario Il buon senso L’inchiesta
vecchio stile Tutta la città ne
parla I nostri inviati Vedi alla voce
Cultura Lo spettatore
esigente Lettura Le recensioni Tutto il mondo ne
parla I nostri inviati
nel mondo Un certo stile Se ne sono andati Le rubriche Florence Nightingale, Nicola Montella, Franco Milanesi, Oliviero Ponte di Pino, Elvio Giudici, Helmut Failoni, Nicola Sani, Massimo Onofri, Laura Forzinetti, Maria Novella Oppo, Allan Bay, Alessandro Robecchi, Stefano Bartezzaghi, Elfo
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21.11 |
La
nutella in mano agli israeliani!
articolo tratto dal quotidiano egiziano al-Akhbar (le Notizie) dell' 8 novembre scorso أمريكا بكل غناها لاتستطيع أن تشتري راعيا فقيرا
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21.11 |
Ovvero, come Mario Borghezio è diventato un buono Miguel Martinez 19 novembre 2001 Mario Borghezio è certamente uno dei più apprezzati crociati d'Italia, perennemente ospite di show televisivi. Il suo curriculum sembra impeccabile: infatti, lui può dimostrare di essere stato un Occidentale a tutti gli effetti molto prima dell'11 settembre. Lo scorso 15 febbraio, La Repubblica ha citato un suo violento attacco contro il comico Luttazzi, reo di aver definito Sharon un criminale di guerra:
E in effetti, Mario Borghezio fa del suo meglio per essere un piccolo Sharon. Nel '93 ha preso una multa di 750.000 lire per aver picchiato un bambino marocchino. Non sarà proprio la strage di Sabra e Shatilla, ma la buona volontà indubbiamente c'era. Tempo fa Borghezio si è guadagnato un bel po' di pubblicità disinfettando i sedili sul treno Milano-Torino dove si erano sedute alcune prostitute nigeriane (i cui clienti, fino a prova contraria, erano certamente dello stesso colore e intelligenza dell'onorevole). Disinfettanti, spray e gas hanno un particolare fascino per l'eurodeputato ed ex-sottosegretario della Repubblica italiana. Nell'interessante pubblicazione Il paese dei campi, apprendiamo come durante un comizio di Borghezio a Voghera, i sostenitori della Lega Nord abbiano dimostrato tutta la loro abilità letteraria, recitando ad alta voce da un volantino quella che loro chiamavano «la preghiera dello zingaro». Il testo dice:
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23.11 |
Le lettere che non ti ho scritto di Nizar Qabbani Marco
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21.11 |
Ipocrisia,
odio e guerra al terrorismo
The Independent
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20.11 |
Il
Belgio e Sharon
19 Novembre 2001: Il Belgio trasmette Chatila in TV. Tel Aviv protesta Il ministero degli esteri israeliano ha duramente condannato la decisione del governo Belga di non bloccare la messa in onda del documentario della Bbc sulle responsabilita' di Ariel Sharon nel massacro di Sabra e Chatila. Responsabilita' che, sempre in Belgio, sono al centro di un procedimento giudiziario per crimini di guerra a carico dell'attuale premier israeliano. La legge belga infatti, nel caso di crimini di questo tipo, permette alla magistratura di perseguire anche cittadini stranieri che hanno commesso tali reati in un terzo paese. La polemica e' esplosa alla vigilia dell'arrivo a Tel Aviv del primo ministro belga Guy Verhofstadt, presidente di turno della Unione europea. Il premier belga incontrera' sabato a Ramallah Yasser Arafat e domenica il premier israeliano Ariel Sharon e il ministro degli esteri Shimon Peres. Il Documentario della Bbc al centro della polemica, "l'Accusato", e' stato mandato in onda in Italia, con grande professionalita' e coraggio civile, dalla sola rete via satellite "Telepiu'". Professionalita' e coraggio che invece sono mancati ai due pachidermi televisivi Rai e Mediaset, sempre in gara tra loro nel mostrarsi ossequiosi nei confronti del boia di Sabra e Chatila. 19 Novembre 2001: Il Belgio chiede la comparizione di Sharon Una notizia che non puo' non riempire di gioia chiunque abbia a cuore i diritti dell'uomo e la giustizia: il criminale di guerra Ariel Sharon, mandante ed ispiratore dei massacri di Sabra e Chatila, in cui furono massacrati circa 3000 palestinesi (la cifra esatta non e' mai stata conosciuta) e' stato invitato a presentarsi presso il Tribunale Internazionale Penale di Bruxelles nell'ambito dell'inchiesta sui crimini contro l'umanita' consumatisi in Libano durante l'invasione israeliana del 1982. Il mandato di comparizione sara' in teoria consegnato dall'ambasciatore belga in Israele, Wilfred Geens. Geens ha riviato la consegna del mandato fino a quando la delegazione europea guidata dal primo ministro belga Guy Verhofstadt non avra' lasciato il Medioriente.
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19.11 |
L'ospedale
dei disperati e il talebano con il computer
Corriere della Sera Venerdì
16 Novembre 2001
LETTERA DAL FRONTE ISLAMICO
L'ospedale dei disperati e il talebano con il computer
di TIZIANO TERZANI
QUETTA (Pakistan) - Nelle conversazioni con tanti e diversi tipi di musulmani in Pakistan ho notato un continuo riferimento a una sorta di violenza di cui molti dicono ora di sentirsi vittime. La causa? Il confronto con l'Occidente. A torto o a ragione, molti percepiscono la globalizzazione come uno strumento della nostra «civiltà atea e materialistica» che, appunto attraverso l'espansione dei mercati, diventa sempre più ricca e più forte a scapito del loro mondo. Con una certa paranoia anche i musulmani più colti di questo Paese vedono in ogni mossa dell'Occidente, compreso il conferimento del premio Nobel della letteratura a V.S. Naipaul, un attacco all'Islam. Da qui la reazione difensiva e il ricorrere all'Islam come a un rifugio. La religione diventa l'arma ideologica contro la modernità, vista come occidentalizzazione. Per questo anche i moderati come i tablighi, senza voler essere jihadi , finiscono per simpatizzare con i talebani e con Osama. Questo è il problema che abbiamo dinanzi: un problema che non si risolve con le bombe, che non si risolve andando in giro per il mondo a rovesciare regimi che non ci piacciono per rimpiazzarli con vecchi re in esilio o coalizioni di convenienza messe assieme in qualche lontana capitale. Osama può anche venir stanato dall'Afghanistan; i talebani possono anche essere sgominati e ridotti ad una forza annidata nelle montagne ad alimentare una nuova guerriglia, ma il problema di fondo resta. Le bombe non fanno che renderlo più virulento. A noi può parere strano, ma c'è oggi nel mondo un crescente numero di gente che non aspira ad essere come noi, che non insegue i nostri sogni, che non ha le nostre aspettative e i nostri desideri. Un commerciante di tessuti di 60 anni, incontrato al raduno dei missionari tablighi me lo ha detto con grande semplicità: «Non vogliamo vivere come voi, non vogliamo vedere la vostra televisione, i vostri film. Non vogliamo la vostra libertà. Vogliamo che la nostra società sia retta dalla sharia , la legge coranica, che la nostra economia non sia determinata dalla legge del profitto. Quando io alla fine di una giornata ho già venduto abbastanza per il mio fabbisogno, il prossimo cliente che viene da me, lo mando a comprare dal mio vicino che ho visto non ha venduto nulla», mi ha detto. Mi son guardato attorno. E se tutta quella enorme massa di uomini - l'ultimo giorno si dice fossero un milione e mezzo - la pensasse davvero come lui? Ero curioso. Nella folla avevo perso le tracce di Abu Hanifah, ed ho chiesto a quel commerciante se potevo andarlo a trovare a casa sua. Mi ha dato l'indirizzo. Veniva da Chaman, una cittadina sulla linea di confine esattamente a mezza strada fra Quetta, capitale del Baluchistan pakistano, e Kandahar, il centro spirituale del Mullah Omar in Afghanistan. Chaman è praticamente chiusa agli stranieri e l'unico modo di andarci è in un convoglio scortato dalla polizia e con un permesso speciale rilasciato a Quetta. È così che sono finito in questa locanda. Facendo la prima passeggiata per orientarmi, ho scoperto che ero vicino all'ospedale della città dove ogni giorno arrivano i feriti civili dei bombardamenti americani su Kandahar. E lì ho conosciuto «Abdul Wasey, 10 anni, afghano, vittima di missile Cruise, gamba fratturata», come dice un cartello scritto a mano ed attaccato al muro scortecciato dietro il suo letto sporco e polveroso. È pallidissimo e magro come un'acciuga. Un mattone legato con una corda al suo calcagno penzola dal fondo del letto per tenergli immobile la gamba ingessata. L'altra, solo pelle ed ossa, è come il palo di una granata. Abdul giocava a cricket con i suoi amici in un prato quando sono stati colpiti. Gli altri sette son morti. Il padre l'ha portato qui con un fratello di 14 anni che ora gli tiene compagnia. Lui è tornato in Afghanistan. L'ospedale è pieno. Ogni letto è una storia, ma ho sentito che la mia curiosità non era benvenuta. E poi a che serve saperne di più? A che serve sapere che i missili Cruise che hanno ammazzato gli amici di Abdul, stroncato la gamba a lui e fatto tutti i disgraziati che giacciono immobili e muti in questo sudicio ospedale di provincia, raggiunto come una grande speranza alla fine di una giornata di viaggio, sono caduti dove son caduti a causa di una «errata impostazione del computer»? Quei missili dovremmo semplicemente smettere di produrli. Il convoglio per Chaman parte da Quetta, a volte sì a volte no, la mattina alle dieci. L'idea è di portare un gruppetto di giornalisti autorizzati al posto di frontiera, farli restare al massimo un paio d'ore e poi riportarli a Quetta. I pakistani non vogliono rendere troppo pubblici i tanti traffici che avvengono a quel confine e si dice che incoraggino i ragazzini dei campi profughi a prendere a sassate i visitatori per tenerli lontani. Odio questo tipo di visite guidate e, appena messo piede a Chaman, coi miei due studenti, ci siamo dileguati. La popolazione era ostile e non ce l'abbiamo fatta a raggiungere la casa del nostro mercante di stoffe. Ci ha salvati una delle piccole ambulanze di Abdul Saddar Edhi, il «santo» di Karachi, che vanno oltre la frontiera a prendere i feriti. Nel pomeriggio sono riuscito ad incontrare una delegazione di talebani a cui ho consegnato una richiesta di visitare Kandahar il giorno dopo, ma non ho potuto passare la notte a Chaman. La polizia ci ha trovati e, dopo qualche calcio ai miei studenti ed un po' di diplomazia da parte mia, siamo stati rilasciati. Anche lì il caso ci ha dato una mano. Stavamo tornando a Quetta, seguiti a vista da una jeep carica di commando, quando la nostra macchina, proprio in cima al passo di Khojak, ha forato concedendomi una sosta d'una decina di minuti e con ciò una grandiosa, indimenticabile visione dell'Afghanistan e della assurdità di quel che l'Occidente, con l'America in testa, cerca di farci. Il sole era appena tramontato ed una mezza luna diafana cominciava ad argentarsi nel cielo di pastello sopra una distesa di montagne. A volte rosa, a volte violette o color ocra, brulle, eppure vive, erano come le onde di un oceano congelato dall'eternità. Su una vetta vicina, una decina di camionisti avevano disteso i loro tappetini da preghiera sulla polvere e come ritagli neri di carta contro quell'immensità si inchinavano ritmicamente verso Occidente, sapendo che altri milioni di musulmani in quello stesso momento facevano nella stessa direzione gli stessi gesti con lo stesso pensiero diretto allo stesso, indescrivibile dio che li tiene tutti uniti in una comunione che a noi ormai sfugge. Ripensavo alla mia ultima domenica a Firenze, dopo l'11 settembre, quando ho fatto il giro delle chiese giusto per sentire cosa vi si diceva. Niente. Una grande delusione. Da San Miniato, a Santo Spirito, a Santa Maria Novella tutti i sacerdoti leggevano lo stesso passo del Vangelo, tutti facevano gli stessi generici discorsi, senza un solo riferimento alla vita di oggi, ai problemi e alle angosce della gente per quel che sta succedendo nel mondo. Qui in Pakistan ogni venerdì le moschee tuonano, a volte delirano, ma con ciò legano i fedeli, dando loro qualcosa, magari di sbagliato, a cui pensare, a cui dedicarsi. Da noi la Chiesa preferisce ancora tacere, invece che rompere i ranghi dell'ortodossia politica e far sentire con fermezza una sua voce di pace. Guardavo la sequenza infinita delle montagne scurirsi rapidamente e mi chiedevo come potranno mai gli americani trovare in quel labirinto lunare la caverna in cui si nasconde Osama. Si dice che ce ne siamo almeno 8.000, ognuna con tunnel lunghi a volte chilometri, con varie entrate, con vari livelli. Ed anche se lo trovano? La guerra, così come è stata annunciata, non finirà qui. Pensata da quel passo fra le montagne l'Europa mi pareva lontanissima, così come sono certo che quel che succede qui pare lontano all'Europa. Eppure non è così. Quel che avviene in Afghanistan è vicinissimo, ci riguarda. Non solo perché la caduta di Kabul è tutt'altro che la soluzione ai problemi dell'Afghanistan, ma perché l'Afghanistan «è solo la prima fase». L'Iraq, la Somalia, il Sudan sono molto più vicini. Che faremo quando Bush vorrà andare a bombardare là? Abbiamo fatto i conti con i musulmani che vivono fra di noi e che ora possono essere indifferenti alla guerra in Afghanistan, ma meno quando verranno bombardate le loro case? Vogliamo anche noi partecipare alle uccisioni di stile israeliano di tutti quelli che la Cia deciderà di mettere sulle sue liste nere? Sarebbe molto più saggio - mi pare - che ora l'Europa dissentisse e che, invece di lasciare i suoi vari governi a fare singolarmente la loro parte di «satelliti» di Washington, si esprimesse con una sola voce ed aiutasse, da vera amica ed alleata, l'America a trovare una via d'uscita dalla trappola afghana. Giorni fa un giornale in lingua Urdu argomentava convincentemente che i vari paesi che ora in un modo o in un altro incoraggiano gli americani ad impegnarsi in Afghanistan, in fondo lo fanno sperando che gli americani ci si impantanino e che la loro credibilità di grande potenza venga messa in discussione. Iran, Cina, Russia ed al limite lo stesso Pakistan, hanno buone ragioni di risentimento contro gli Stati Uniti e grandi preoccupazioni per questa nuova presenza militare americana nel cuore dell'Asia Centrale. L'Europa non è in alcun modo in questa posizione. Allo stesso modo però l'Europa non può essere del tutto indifferente alla possibilità che gli Stati Uniti perseguano, dietro il paravento di questa guerra internazionale al terrorismo, un progetto tutto loro per la realizzazione di un nuovo ordine mondiale che persegua esclusivamente l'interesse nazionale americano. Il gruppo ora al potere a Washington, formato principalmente da veterani della Guerra Fredda, con in testa il Segretario alla Difesa Rumsfeld, fa pensare che questa tentazione possa essere reale. È quel gruppo, legato fra l'altro agli interessi dell'industria bellica, che ha da sempre contestato i trattati per la limitazione degli armamenti ed ora ne chiede l'abrogazione; è quel gruppo che ha sostenuto la necessità della superiorità nucleare americana ed ha in passato detto che le armi atomiche son fatte per essere usate e non per restare per sempre ferme nei silos. Con la fine della Guerra Fredda e la scomparsa di una vera minaccia, quell'America ha visto con preoccupazione il ridursi progressivo della spesa militare Usa ed ha fatto di tutto per identificare un nuovo nemico che giustificasse il rottamaggio dei vecchi armamenti e la produzione di tutta una serie di nuovi sistemi bellici «intelligenti» per il campo di battaglia tecnologico del ventunesimo secolo. Un primo candidato a questo ruolo di «nemico» è stata la Corea del Nord, finché non si è scoperto che il paese moriva letteralmente di fame ed era molto improbabile che si mettesse a sfidare la potenza americana. Poi è stata la volta della Cina, ma è risultato difficile sostenere che Pechino potesse minacciare più che l'isola di Taiwan, visto che non ha ancora neppure un bombardiere a lungo raggio. A questo punto è spuntata l'ipotesi dell'Islam, «nemico» contro cui difendersi nell'appena inventato «scontro di civiltà». Il massacro dell'11 settembre ha reso quel nemico estremamente credibile ed ha permesso all'America di varare tutta una politica che sarebbe stata altrimenti inaccettabile. Il nemico è stato ora identificato nei «terroristi» ed il processo di demonizzazione nei confronti di quelli che Washington definisce tali è cominciato. I primi a farne le spese sono stati i talebani ex mujaheddin ed Osama Bin Laden creature loro stesse, non va dimenticato, dell'America quando questa aveva bisogno di loro per combattere l'Unione Sovietica. L'Europa non può seguire, senza una pausa di riflessione, l'America su questa strada. L'Europa deve rifarsi alla propria storia, alla propria esperienza di diversità al fine di trovare la forza per un dialogo e non per uno scontro di civiltà. La grandezza delle culture è anche nella loro permeabilità. Basta non affrontarsi a colpi di aerei carichi di civili innocenti e di bombe sganciate, seppur per sbaglio, su chi non è responsabile di nulla. Anche dei fondamentalisti islamici come i talebani possono, pur a loro modo, cambiare. Fossero stati riconosciuti come il governo legittimo dell'Afghanistan nel 1996 quando presero il potere, forse le statue di Bamyan sarebbero ancora al loro posto e forse ad Osama Bin Laden non sarebbe stato steso il tappeto rosso. Anche i talebani vivono nel mondo e debbono, a loro modo, adattarvisi. Quando sono andato al consolato afghano di Quetta per sollecitare la mia domanda del visto per Kandahar, il diplomatico talebano che mi ha ricevuto aveva sulla scrivania un bel, moderno computer. Forse guardava in Internet le ultime notizie sul suo paese per indovinare quanto ancora sarebbe rimasto al suo posto, ora che Kabul è caduta. Tornando alla locanda, mi fermo all'ospedale a salutare Abdul Wasey. Il corridoio è affollato di afghani appena arrivati con nuovi feriti. Nel letto accanto a quello di Abdul c'è ora un uomo sulla cinquantina col ventre squarciato da una scheggia. Mi vede entrare e dare ad Abdul due cose che ho portato. Raccoglie faticosamente il fiato ed urla: «Prima vieni a bombardarci, poi a portarci i biscotti. Vergogna». Non so cosa fare. Cerco dentro di me delle giustificazioni, delle parole da dire. Poi penso ai soldati francesi, tedeschi ed italiani che presto si uniranno a questa guerra e mi rendo conto che, alla fine di una vita in cui ho sempre visto feriti e morti fatti da altri, mi toccherà ancora a vedere, in questo ospedale o altrove, le vittime delle mie bombe, delle mie pallottole. E mi vergogno davvero.
© Corriere della Sera
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18.11 |
Miguel Martinez Bush dichiara guerra al mondo
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18.11 |
Carocci Editore Roma
Istituto Affari
Internazionali Roma
Centro Italiano per la
Pace in Medioriente Milano
Jihad. Ascesa e
declino
Storia del
fondamentalismo islamico, Carocci, Roma 2001
da parte dell’autore, Gilles
Kepel, tra i maggiori islamisti europei e docente alla Sorbona di
Parigi, e di Lucia Annunziata, direttore dell’agenzia di stampa
ApBiscom.
La presentazione avrà
luogo nella sala del Refettorio del Palazzo di S. Macuto, via del
Seminario 76
Lunedì 19 novembre 2001
alle ore 17.00
e sarà introdotta da
Janiki Cingoli, direttore del Centro Italiano per la Pace in
Medioriente, e Roberto Aliboni, vicepresidente dell’Istituto Affari
Internazionali.
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18.11 |
Dieci
buoni motivi per cui nessun libanese può essere tra i terroristi dell'11
settembre
10. Per un libanese le 6:45 di
mattina è troppo presto per alzarsi 7. I Libanesi usano il cellulare
per giocare e non certo per comunicare fra loro 5. L'auto trovata fuori
l'aereoporto di Boston sarebbe stata una Mercedes o una BMW, non una
Ford Issa Hajjar (libanese)
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15.11 |
La globalizzazione è una guerra
Apprezzamenti al n. 246 luglio-agosto
2001di "Diorama Letterario" La globalizazione è una
guerra giungono dalla rivista letteraria
"Pulp". A pag. 52, commentando vari testi sui fatti di
Genova, Domenico Gallo vi include anche DL e scrive:
"Diorama, si sa, è una rivista che viene classificata come appartenente alla Nuova Destra. Personalmente questo numero dedicato alla globalizzazione è decisamente più condivisibile e interessante degli interventi di D'Alema, Folena, e Fassino (tanto per citare qualche politico che sarebbe più dignitoso se avesse scelto di immolarsi come scudo umano) o di qualche intelletuale polista. Probabilmente il numero è stato chiuso prima del vertice e non si sofferma sui fatti di cronaca, ma deve essere notato che l'analisi economico-finanziaria presentata non fa una grinza e non si differenzia da quelle ritenute di sinistra. Tratta dell'omologazione consumistica, della crisi del capitalismo e delinea una critica alla società statunitense in alcuni casi ambigua ma precisa e documentata. Meglio Diorama di Limes, comunque, specialmente se avrete lo stomaco di leggere le bestialità di tal Antonio Pennacchi (scrittore?)...". Di lì una critica al mensile geopolitico.
Questi apprezzamenti non possono fare
che piacere a tutti coloro che stanno cominciando a capire che certi
steccati devono cadere e che il dibattito delle idee non è affatto circoscrivibile
in schemi obsoleti.
A giorni sarà in libreria (anche le
Feltrinelli) il n. 248, dal titolo Signornò, dedicato per
metà delle 40 pp. (4.000 lire) a riflessioni sulla situazione
internazionale determinatasi l'11 settembre.
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15.11 |
La
guerra dell'Occidente
SOLO LA NOSTRA GUERRA E'
"GIUSTA" |
15.11 |
Lettere
a il Manifesto e Liberazione
Gentile dott.ssa Rangeri,
ha ragione, la puntata di "Sciuscià"
di un paio di sere fa sul bombardamento di Betlemme è stata
letteralmente magistrale.
A parte i motivi per sostenerlo che Lei
enumera, tutti degni di nota, io sono rimasto colpito da una
reazione mancata, a quella trasmissione. Che ne è dei
"cristianisti" (cioè quelli che si scoprono ferventi
cristiani solo per dare addosso all'Islam) quando a sparare sugli
ospedali pagati con i soldi della cooperazione italiana e
addirittura sulla chiesa della Natività è l'esercito d'Israele?
Eppure erano tutti pronti alla levata di scudi quando si parlò
della moschea da costruire lì vicino (divide et impera).
Un silenzio imbarazzante serpeggia per
le redazioni del "Giornale", del "Foglio", di
"Libero" e delle altre che hanno messo le loro energie al
servizio della campagna antislamica.
Gentile direttore [Sandro Curzi],
anch'io ho assistito alla trasmisione
di sabato scorso e ricordo bene la Sua battuta sul
"bacarozzolo" [l'antefatto: Curzi, a coloro che
affermavano di aver visto bandiere Usa e d'Israele bruciate dai
"no global", rispose scherzando che sapeva di un povero
"bacarozzolo" schiacciato in Piazza del Popolo],
chiarissima per qualsiasi telespettatore dotato d'intelligenza
media. Mi sorprende non poco quindi, non tanto la capziosità
dell'osservazione della Sig.ra Cipriani [che ha ritenuto di
cattivo gusto la trovata di un Curzi "antisemita"(?)],
quanto il fatto che Lei abbia ritenuto doveroso stare a precisare
il significato dell'uscita scherzosa.
La scelta poi di
"bacchettare" la lettrice ricordandole la prossimità
della bandiera israeliana con quella di AN (io ne ho viste anche
di albanesi...), ha lasciato senza parole anche uno che alle
ultime elezioni ha votato RC al proporzionale. Il mio pensiero va
quindi alle neanche troppo velate allusioni alle adunate di Piazza
Venezia, sinceramente fuori luogo, da una parte perché la storia
non si ripete mai, dall'altra soprattutto perché insistere su
quel tasto non fa altro che fornire alibi alla propaganda
"anticomunista" del Cavaliere e dei suoi tirapiedi, i
quali onestamente non aspettano altro quando sono a corto di
argomenti (come del resto il povero Bordon, che è giunto ad
inventarsi contro ogni evidenza - al pari di quelli che
immaginavano roghi di stars and stripes a volontà nel
corteo "no global" - una penuria di tricolori italiani
in Piazza del Popolo).
Così come la storia, nella sostanza,
non si ripete mai, neppure l'allusione ad un 'fascismo in keppah'
è a mio parere troppo azzeccato.
Se vogliamo criticare l'operato di
Israele e quello dei nostri politici che votano "sì"
per non perdere di vista il carro del vincitore planetario,
dobbiamo analizzare Israele e l'ideologia che lo giustifica
come realtà dotate di caratteristiche originali (cogliendo
all'occorrenza le analogie con altre situazioni), e lo stesso
dicasi per l'attuale dittatura del pensiero unico liberale alla
quale, con diverse sfumature, apportano il loro contributo
politici di destra, centro e sinistra.
Se avesse risposto alla lettrice chiedendole un
parere sull'atteggiamento tenuto dai responsabili della comunità
alla quale in qualche modo fa riferimento dopo la messa in onda
degli ottimi reportage di "Sciuscià" dalla
Palestina, l'avrebbe senz'altro messa di fronte ad un fatto
piuttosto imbarazzante, togliendosi invece dall'imbarazzo nel
quale avrebbe voluto mettere Lei.
Coi migliori saluti
Adriano Testa
P.S.: la foto di copertina che avete
scelto oggi aveva colpito anche me, ma sa qual'era la didascalia
in arabo sul sito di al-Jazira? "Cadavere di un
combattente dei Taleban a Kabul dopo l'entrata
dell'Alleanza". Delle due l'una: o i Taleban non erano tutti
barbuti, oppure anche i cadaveri sono passati dal barbiere!
Giustamente avete ricordato che la corsa dal barbiere è dettata
da ben altri motivi, anche se a dir la verità, dalle immagini che
ci giungono da Kabul, continuo a scorgere diverse barbe lunghe. Un
mistero.
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15.11 |
13 novembre Doha, 10:55 Aerei statunitensi
hanno bombardato gli uffici a Kabul della tv satellitare in lingua
araba Al Jazira. Lo ha reso noto l'emittente, che ha la sede
principale nel Qatar. L'emittente ha dichiarato di aver perso i
contatti fra lunedì e martedì con il suo corrispondente nella
capitale afghana, Taiseer Aluni, unico reporter autorizzato dai
Talibani a trasmettere informazioni dalla capitale afghana nelle
ultime settimane. Doha, 16:51 Youssef al Shouli,
corrispondente dell'emittente televisiva qatariota 'al Jazira', ha
lasciato questa mattina la città di Kandahar, roccaforte dei Taliban
nel sud dell'Afghanistan. 14 novembre Crawford, 20:14 Il corrispondente da
Washington dell'emittente tv qatariota 'al-Jazira', Mohammad al-Alami,
è stato posto in stato di fermo dalla polizia americana mentre
seguiva i lavori del vertice tra il presidente George W. Bush e il
capo di stato russo Vladimr Putin in Texas. |
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Sbarbati
anche i cadaveri?
Dal sito www.aljazeera.net
traduzione
della didascalia in arabo: "cadavere di un combattente dei
Taleban a Kabul dopo l'entrata dell'Alleanza"
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13.11 |
L'Islam
e l'Afghanistan
L'ISLAM
E L'AFGHANISTAN È
difficile esprimere ciò che provo guardando alla televisione le
montagne impervie dell'Afghanistan che, giusto vent'anni fa, scalai,
senza nessuna preparazione atletica e rischiando lo sfinimento, al
seguito dei guerriglieri che si battevano contro gli invasori
sovietici. Settecento chilometri a piedi, da giornalista clandestino,
lasciandomi alle spalle lo Zadran, affrontando le cime dei monti
Sharavoze (seimila metri), attraversando l'altopiano del Logar, a sud
di Gardez, per risalire fino ai monti del Wardak dopo avere
costeggiato Kabul. Ricordo di essere svenuto sul Passo Naka, non per i
5000 metri d'altitudine, ma per il totale esaurimento delle mie
energie. "Non svenga, altrimenti la lasciamo qui", mi
dissero i guerriglieri ai quali mi ero aggregato e, non so come,
proseguii fino a farmi trascinare in battaglia e a lasciarmi deporre
sulle ginocchia un comandante morente. L'ISLAM
E LE SUE DEGENERAZIONI I
PRODROMI DEL TERRORISMO AFGHANISTAN
DOMANI (Da L'Avvenire) MORIRE
PER KABUL
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10.11 |
La
guerra empia di Cooley
John K. Cooley
L’OPERA L’AUTORE
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10.11 |
L'indice
di Diario della settimana
In attesa del nuovo
numero speciale che si chiamerà Metropolis, Storie di città ferite
(http://www.diario.it/cnt/metropolis/questonumero.htm)
e uscirà venerdì 16 novembre, Diario è di nuovo in edicola. Caro Diario Il buon senso L’inchiesta vecchio
stile Tutta la città ne
parla I nostri inviati Vedi alla voce
Cultura Lo spettatore
esigente Lettura Le recensioni Tutto il mondo ne
parla I nostri inviati nel
mondo Un certo stile Se ne sono andati Le rubriche |
9.11 |
Massimo
Fini: guerra? No, lotta di classe
di Massimo Fini La rivolta dell'Islam
Il quale ha già tratto grandi vantaggi
da questi bombardamenti perché il mondo musulmano è in subbuglio
dappertutto, in Pakistan, in Indonesia, in Iran, in Egitto, mentre in
quello occidentale, che dopo l'11 settembre aveva dato la propria
solidarietà agli Stati Uniti a ranghi pressoché compatti, cominciano
a serpeggiare i dubbi.Nel frattempo, a mente fredda, emergono alcuni
punti nodali messi in evidenza dal colpo che ci è stato inferto l'11
settembre. Il primo è l'estrema fragilità dell'Occidente. Perché il
suo sistema di sviluppo, basato sulla competizione esasperata e
l'accelerazione progressiva, vive al limite e ha pochi margini di
riserva. Al limite erano costruite le Torri Gemelle, gioiello della
tecnologia e, insieme, segno di un' ubrisimprudente, ed è bastato un
sasso ben lanciato perché venissero giù più facilmente di una
catapecchia afgana e con conseguenze infinitamente più
terrificanti.Al limite viaggia la nostra economia per cui basta che le
compagnie aeree perdano qualche viaggiatore che si innesca una
reazione a catena, atomica, che ci porta sull'orlo del crollo. Al
limite, anzi ormai molto oltre, è la nostra scienza che ha creato
mostri, e altri, ancora peggiori, si appresta a fabbricare, che è
molto facile ora ritorcerci contro. "Fine ultimo della scienza è
la distruzione del mondo" scriveva Friedrich Nietzsche nella
seconda metà dell'Ottocento. Sembravano, allora, parole assurde, di
un pazzo, purtroppo dobbiamo constatare che si stanno rivelando vere,
come quasi tutte le previsioni di quel sensibilissimo sismografo della
crisi e della decadenza della civiltà occidentale che è Nietzsche.
Il secondo punto è l'enorme forza di Bin Laden. Com'è
possibile, un uomo solo? E forse nemmeno del tutto reale ma piuttosto
virtuale, creato dai mass media in cui si è abilmente inserito. Il
fatto è che Bin Laden, sia egli un personaggio reale o una proiezione
dei nostri incubi, e quali che siano i suoi veri obiettivi, ha
intercettato un malessere planetario che incubava da molto tempo. A
Bin Laden si inneggia non solo nel mondo musulmano, ma, come riportava
l'altro giorno Le Figaro, anche nellebanlieuparigine.
Gli amici del giaguaro
E se non vogliamo essere ipocriti, se
vogliamo una buona volta uscire dalla retorica, mai tanto spesa a
piene mani come in questo mese dalle leadership e dalla stampa,
dobbiamo ammettere che Bin Laden gode di molte simpatie, anche nelle
grandi sacche di disgregazione della società occidentale oltre che
nel Terzo Mondo non solo musulmano e arabo.Egli è un islamico e
declina il suo credo terrorista in senso religioso, ma strutturalmente
è un marxista, una sorta di versione moderna e terrificante del
Trotzkij della "Rivoluzione permanente", perché catalizza i
rancori, la rabbia, le speranze degli oppressi e dei disperati di
tutto il mondo. E quella che è iniziata dopo l'11 settembre non è,
ad onta delle apparenze, una guerra di religione, ma la lotta di
classe a livello planetario.
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9.11 |
Chi
è Adel Smith?
In merito a tutto il
putiferio suscitato dalle dichiarazioni di tale |
9.11 |
L'industria
economica dell'Olocausto
Parla
Norman Finkelstein, l'accusatore della "grande industria dei
figli della Shoah"; a ilNuovo.it sostiene la sua tesi del
baraccone pubblicitario per spillare i soldi ai paesi occidentali.
"Come la Svizzera".
di Alberto Mingardi MILANO
- Jean-Paul Sartre scrisse che l'antisemita è in una gran brutta
posizione: per vivere, ha bisogno delle stesse persone che vorrebbe
distruggere. Col suo The Holocaust Industry (in Italia, uscirà
per Rizzoli), Norman Finkelstein ci dimostra che è vero anche il
contrario. Professor
Finkelstein, nel suo libro lei distingue: una cosa è l'olocausto
nazista, un'altra L'Olocausto con le maiuscole... Perchè
non usa il termine Shoa? Lei
ha scritto che l'Olocausto, inteso come costruzione ideologica, si
fonda su due dogmi. Uno è appunto quella che viene chiamata la sua
unicità... Quali? Questa
posizione sarebbe rafforzata da quello che lei ha individuato come il
secondo "dogma", entrando in polemica con Daniel Goldhagen,
autore de I volonterosi carnefici di Hitler (Mondadori). Nessuna? Mi
scusi, ma a chi di preciso? L'attuale
esplosione di reminescenze dell'Olocausto viene solitamente spiegata
così: prima la comunità ebraica aveva tentato invano di reprimere il
ricordo, oggi intende consegnare memoria di quei tempi alle nuove
generazioni. Lei scrive che è un teorema sballato. Ci spiega perchè? Le
si potrebbe obiettare che la Germania anche oggi è alleata del
governo americano... I
numeri dei "sopravvissuti dell'Olocausto" oscillano
continuamente. E ogni tanto spunta qualcuno che si definisce
"sopravvissuto di seconda generazione", gente della sua età,
figli di chi è scampato al disastro. Che ne pensa di questi
"second generation survivor"? Lei
è arrivato a scrivere che chi alimenta questa memoria fittizzia è
peggio di chi nega le sofferenze patite dagli ebrei. Cosa intende? Che
è quello che vorrebbero combattere. Perchè ha attaccato così
vigorosamente Elie Wiesel? E
i fili chi li muove? |
9.11 |
I
bombardamenti dei liberatori
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8.11 |
Günther
Grass: meno bombe, più aiuti
Crepe nel pensiero unico?
Si può essere premi
Nobel e uomini intellettualmente onesti? Ebbene si!
L'appello
del Nobel Günter Grass
"Lo
diceva già Brandt, anche la fame è un atto di guerra"
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE ANDREA TARQUINI BERLINO - «Sbaglia
chi descrive lo scontro col terrorismo come scontro tra civiltà e
medioevo: amo la civiltà occidentale ma ritengo che essa non possa
erigersi a misura di ogni altra civiltà». Così parla Günter
Grass, premio Nobel per la letteratura, massimo scrittore tedesco
vivente e voce critica della sinistra di Berlino. Repubblica lo ha
ascoltato a margine del lancio della campagna dell'Unicef per
salvare i bambini afgani dalla fame e dalla guerra cui egli ha dato
il suo appoggio. GERMANIA:
COMUNITA' EBRAICA, GRASS NON E' UN AMICO DI ISRAELE
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8.11 |
Solidarietà
agli USA, la sinistra non deve mancare
Ancora materiale dal sito www.virusilgiornale.com ...può far riflettere tutti noi leggere simili affermazioni... Regio Savona
Il Movimento per le
Riforme condivide, apprezza e inoltra a Camera, Senato, Istituzioni,
Rai-tv, Mediaset,
stampa, media e radio
private, cittadini, questa lettera aperta del senatore Debenedetti.
Cordiali saluti e buone riflessioni
da Spalombella
Rossa che osserva: vediamo se, con un pari, arrivano "le
telefonate" a direttori e redazioni.
"Solidarietà agli
Usa, la sinistra non deve mancare"
Tutti in piazza sabato 10 di Franco Debenedetti
Adesso andrò alla
manifestazione del 10 novembre in Piazza del Popolo; adesso la
sinistra dovrebbe parteciparvi in massa. Quando ho saputo che «Il
Foglio» di Giuliano Ferrara lanciava l'idea di una grande
manifestazione di solidarietà agli Usa,
come prima reazione ho
pensato che la sinistra avrebbe dovuto aderirvi senza esitazioni e
partecipare alla sua organizzazione.
Invece la cosa si
ingarbugliò, a sinistra e a destra; alla manifestazione di solidarietà
verso l'alleato americano colpito si sovrappose la contrapposizione
con l'avversario politico italiano da colpire.
Sventolare la bandiera a stelle e strisce aveva anche lo scopo di affermare i valori di libertà e di mercato, in cui crede la maggioranza degli italiani, in contrapposizione ai tanti filoni dell'antiamericanismo: ma con l'andar dei giorni più forte diventava
il rischio di scivolare
dall'intenzione originaria verso una «banale» contrapposizione
politica interna, e che di diverso ci fosse solo
la forma. Ma da ieri le
cose sono cambiate.
Da quando a essere in guerra non sono solo più gli anglo-americani, ma anche l'Italia, adesso che la solidarietà all'alleato la manifestiamo mandando i nostri ragazzi e impegnando le nostre risorse nel teatro di guerra, adesso diversa è diventata anche la manifestazione di Piazza del Popolo. Adesso non c'è più il rischio che, solidarizzando con «la guerra di Bush», si perda d'occhio che questa è «la nostra guerra». I fatti hanno modificato l'agenda, col voto del Parlamento che avallerà il nostro intervento, non c'è più il rischio che questa sia «la loro manifestazione». Questa è «la manifestazione di tutti»: di tutte le famiglie che hanno i loro ragazzi nel teatro delle operazioni, di tutti gli italiani che saranno chiamati a sostenerne i costi psicologici e finanziari, di tutti coloro che, riconoscendosi in una sinistra di governo come chi scrive, non faranno mancare il proprio sostengo, né in Parlamento né nel Paese, a un'azione che è giusto l'Italia compia al fianco dei suoi alleati. Per queste ragioni in Piazza del Popolo dobbiamo andarci anche noi della sinistra.
Senza chiedere
spostamento di date (per la meschineria di non voler riconoscere che
non ci abbiamo pensato noi per primi?); senza chiedere contropartite
politiche (come dire ai nostri parà che la nostra solidarietà è
subordinata all'astensione concordata su una mozione?).
Dobbiamo farlo ovviamente
chiedendo di partecipare anche all'organizzazione dell'evento (e come
potrebbe essere respinta l'offerta?).
Anche dopo l'entrata in guerra, resterà il tratto distintivo che era all'origine di questa manifestazione, quello di reagire e di contrapporsi all'antiamericanismo. E questa è la ragione in più, oltre al patriottismo di bandiera, per cui la sinistra di governo dovrebbe portare in piazza del Popolo i propri simpatizzanti. Questa può essere una buona occasione per rimuovere antichi riflessi condizionati, e per interiorizzare senza riserve mentali e senza strumentalismo le ragioni di adesione piena e convinta
alla società liberale e
ai suoi istituti.
Franco Debenedetti Senatore Ds |
8.11 |
Qualcuno
si ricorda della Colombia
Vi siete mai chiesti perché i tg non parlano mai del "cortile di casa" degli Usa? Intanto, dei tre italiani ancora ostaggi, non si sa più nulla (cfr. www.censurati.it), in ossequio al silenzio imposto su tutto quel che accade laggiù. COLOMBIA, 12 OTT 2001 LE FARC LIBERANO DUE COOPERANTI TEDESCHI, I PARAMILITARI MASSACRANO 49 CONTADINI Ancora caldo lo scenario colombiano
dove la situazione si fa sempre più caotica:le FARC (Forze Armate
rivoluzionarie colombiane) hanno finalmente rilasciato due dei tre
cooperanti tedeschi dell’agenzia Gtz, che si trovavano da oltre tre
mesi nelle loro mani. La liberazione è avvenuta nei pressi del
municipio di Silvia, nel dipartimento del Cauca (sud della Colombia).
Entrambi, Rayner Bruchman e Ulrich Künzel, sono stati consegnati
nelle mani di una commissione guidata dalla Croce Rossa e sembra che
si trovino in condizioni fisiche discrete. Non è chiaro al momento
quale sia la sorte di un terzo cittadino tedesco Thomas Künzel,
fratello di Ulrich, anch’egli nelle mani della guerriglia. I tre
lavoravano a un progetto agricolo presso una comunità india del
luogo. Qualche settimana fa una rappresentanza del gruppo di paesi
esteri che appoggia il processo di pace in colombia, di cui fa parte
anche l'Italia, aveva posto la liberazione dei tre tedeschi, quale
condizione per il proseguimento del loro interessamento. E se da una
parte quest'ultimo sviluppo sembra delineare l'interesse sia delle
Farc che del governo per raggiungere un accordo, i Paramilitari si
dimostrano più attivi che mai. [l'ignoto articolista non si chiede però che fine facciano quei milioni di dollari...]
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8.11 |
Uno
straccio di pace
UNO STRACCIO DI PACE |
7.11 |
Palestinese
per 6 minuti
Caro amico,
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7.11 |
Bin
Laden attacca l'Italia
Dal sito di politica internazionale www.equilibri.net
Bin Laden attacca l'Italia
Ha fatto una certa
sensazione la comparsa di un attacco all'Italia nell'arringa di Osama
Bin Laden recentemente trasmessa dall'emittente araba Al Jazeera. Il
finanziere saudita ha, tra le altre cose, ricordato alle masse arabe
come l'origine di tutte le sventure del mondo arabo e più ampiamente
musulmano siano originate dopo la Prima Guerra Mondiale e la
spartizione del Medio Oriente tra Gran Bretagna, Francia e Italia.
L'inserimento italiano nel novero delle potenze imperialiste costituisce in un certo senso una novità.
La politica estera
italiana, sia prima che dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha sempre
cercato di differenziare l'immagine dell'Italia da quella delle altre
potenze occidentali nei confronti del mondo arabo-musulmano. Già il
fascismo, nonostante perseguisse una politica coloniale ed
imperialista tanto in Libia quanto nel Corno d'Africa, fu protagonista
di una campagna d'immagine nel mondo arabo, che arrivò a far nascere
in Gran Bretagna la preoccupazione dell'"italiano sotto il
letto", pronto a inserirsi nella competizione mediorientale (su
questo aspetto segnaliamo tra l'altro un agile ed interessante studio
di Enrico Galoppini, Il fascismo e l'Islam, per i tipi delle
Edizioni All'Insegna del Veltro). Allo stesso modo la politica estera
repubblicana, e la politica parallela condotta dall'ENI, ha sempre
mostrato un'attenzione speciale per il mondo arabo-musulmano, con uno
sforzo costante di apparire soggetti diversi dagli Stati Uniti, nostri
principali alleati. E la politica di attenzione nei confronti della
Libia e dell'Iran degli ultimi anni, che ha sottoposto Roma a critiche
anche pesanti soprattutto da Washington, si inserisce in questi
filoni.
Sembra verosimile però analizzando le motivazioni dell'attacco verbale di Bin Laden riportarlo a due ragioni che non hanno molto a che fare con l'odierna realtà italiana. In primo luogo la resistenza senussita alla penetrazione italiana in Libia costituisce un'esperienza importante e un riferimento di grande interesse per l'islam politico odierno. Un aspetto teorico in qualche modo inedito dell'esperienza senussita fu l'affermazione che condannava come apostata, e quindi passabile di pena capitale, chi non avesse partecipato al jihad proclamato contro gli italiani e chi si fosse rivelato disfattista o avesse proposto la pace con il nemico. In secondo luogo, e soprattutto, il riferimento alla resistenza anti-italiana chiama in causa il leader libico, il Colonnello Gheddafi. Gheddafi, infatti, ha assunto una posizione di netta condanna degli attentati dell'11 settembre e allo stesso tempo, pur proponendo la cessazione dei bombardamenti americani sull'Afghanistan, non ha condannato le attività militari americane in Afghanistan. Il contenuto delle affermazioni di Bin Laden è da leggere quindi nel senso di incitare le forze libiche contro il Colonnello, "consacrato" in questo modo come uno dei leader "moderati" filo-occidentali al cui rovesciamento è mirata l'attività di Al Qaeda. Quest'aspetto, globalmente marginale, forse, ma rilevante per l'Italia, dell'evoluzione geopolitica della regione può forse sorprendere. Gheddafi è stato infatti in un certo modo il Bin Laden degli anni Ottanta, "oppositore su scala mondiale" nella sua stessa definizione, grande Nemico degli Stati Uniti, obiettivo di più di un bombardamento americani e finanziatore e base d'appoggio di moltissime organizzazioni terroristiche. Solo da pochi mesi, poi, la Libia è uscita dall'embargo e dalle sanzioni delle Nazioni Unite di cui era oggetto, e ancora oggi appare nella lista degli "stati canaglia" americani. Gheddafi ha però fatto compiere alla Libia un drastico cambiamento di politica estera. Bisognoso dei capitali, della tecnologia e degli investimenti europei per riorganizzare l'economia libica che lui stesso aveva smantellato negli anni "rivoluzionari" Gheddafi ha lavorato per anni per spezzare il suo isolamento internazionale, abbandonando infine ogni appoggio al terrorismo. Ultimo vessillifero del nazionalismo arabo di stampo nasseriano, inoltre, Gheddafi si è opposto inoltre fermamente all'Islam politico radicale, combattendolo anche militarmente all'interno della Libia, ed affrontandolo, esempio abbastanza raro nel mondo arabo, anche su di un piano teorico e politico. Confinando con Egitto, Algeria e Tunisia, ovvero con tre stati che trovano nella minaccia costituita dal radicalismo islamico violento la principale minaccia alla propria stabilità, la Libia, dopo essere stata per anni un elemento destabilizzante nella regione, è venuta a giocare un ruolo stabilizzatore di grande importanza per la sponda Sud del Mediterraneo. L'Italia ha giocato un ruolo centrale nel rientro della Libia all'interno della Comunità Internazionale. Il fatto che oggi, in un periodo di crisi acuta delle relazioni tra il mondo arabo-islamico e l'Occidente, in cui anche alleati degli Stati Uniti come l'Arabia Saudita si trovano a vacillare, la Libia sia attaccata da Bin Laden e giochi un ruolo favorevole all'Occidente testimonia come l'impegno italiano in suo favore abbia costituito non già un nuovo "giro di valzer" della politica estera di Roma, ma un'azione coerente e lungimirante tesa a garantire interessi non solo italiani, ma europei ed occidentali.
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6.11 |
Indice
di Diario della Settimana
Parliamo di America. Meglio: i nostri lettori raccontano i loro sentimenti nei confronti della bandiera, della parola, della politica estera americana. Sul sito www.diario.it abbiamo posto sei domande. In pochi giorni abbiamo ricevuto 1.368 risposte. I risultati sono l'oggetto dell'inchiesta della settimana. Chi ha letto il quotidiano di Feltri, Libero, sabato, che ha dedicato alle risposte l'intera prima pagina con toni scandalizzati, sa qual è l'esito: un terzo dei lettori odia l'America, un terzo la ama incondizionatamente, un terzo distingue tra le cose buone e le cattive. La rivelazione: un gruppo di no global leghisti ha partecipato, ma senza vessilli, agli scontri con la polizia durante il G8 di Genova. Leggere le dichiarazioni di Fabiano Gavinelli, vicesegretario dei volontari verdi-Padania libera (il presidente è Mario Borghezio), mette i brividi. Anche per i rapporti orgogliosamente intrattenuti con organizzazioni come Ira e nazionalisti serbi. Nella lettura ricordiamo la spaventosa repressione di una pacifica manifestazione della Federazione Francese del Fronte di Liberazione avvenuta a Parigi nel 1961. Per ordine del prefetto Papon, alcuni ragazzi algerini (20 per alcuni, 300 secondo altri) furono buttati nella Senna e morirono affogati. Dal 17 ottobre di quest'anno, una targa sul pont Saint-Michel li ricorda Sempre a Parigi, le celebrazioni per il centenario di André Malraux (La condition humaine), il cui mito viene incrinato ora da una dettagliata biografia. Un altro scrittore, Amir Gutfroind, questa volta israeliano, racconta la shoah in modo ironico e ottiene uno strepitoso successo. Un saluto, infine, alle cartine Rizla: la fabbrica Riz-la-Croix di Mazares sur Salat (Tolosa) chiuderà. Il motivo? La decisione di una multinazionale canadese. Buona lettura Il sommario della
settimana Rivelazione L’inchiesta vecchio
stile Tutta la città ne
parla Vedi alla voce
Cultura Lo spettatore
esigente Lettura Le recensioni Tutto il mondo ne
parla I nostri inviati nel
mondo Un certo stile Se ne sono andati Le rubriche
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5.11 |
Appello
per la Palestina
S.O.S. PALESTINA: CONFERENZA
STAMPA DI PRESENTAZIONE DELL'APPELLO
Martedì 6 novembre 2001 ore 12
Libreria Feltrinelli via Manzoni
12
Un migliaio di morti, diverse migliaia di
feriti, molte città restituite all'Autorità Nazionale Palestinese,
in base agli accordi di pace, ora rioccupate dall'esercito
israeliano, la pratica quotidiana dell'assassinio di dirigenti
palestinesi da parte israeliana al di fuori di ogni legalità: questo
il quadro desolante. Come flebile speranza: le dichiarazioni di
principio a favore della creazione di uno Stato palestinese da parte
di molti leader occidentali, come il presidente Bush, il premier
britannico Blair, il presidente del Consiglio Berlusconi, ma ahimé
prive di indicazioni su come realizzarla concretamente.
Nel Corso della riunione tenutasi a Milano il 24 ottobre 2001 l'Associazione di amicizia Italia-Palestina, l'Osservatorio di Milano e Salaam hanno lanciato un appello per sensibilizzare l'opinione pubblica di fronte alla crisi medio orientale, autentico nodo della grave instabilità internazionale, chiedendo una pace giusta in Palestina. L'appello parte da Milano, fedele alla tradizione di sensibilità della città per le questioni internazionali, ma sta raccogliendo un numero significativo di adesioni anche a livello nazionale, a dimostrazione di quanto l'opinione pubblica italiana sia consapevole della tragedia che si sta consumando in Medio Oriente. Il prestigio e la simpatia che circondano il nostro Paese tra i milioni di palestinesi sparsi nei campi profughi di quella regione, costituiscono un patrimonio da difendere, facendo ogni sforzo perché quel popolo possa vedere riconosciuti i propri diritti sulla propria terra. A chi invoca pace e diritto all'esistenza anche di Israele, ricordiamo che la pace è figlia del reciproco rispetto e fatica a mettere radici laddove il più forte calpesta quotidianamente i diritti, anche elementari, del più debole, ponendo come condizione per la pace, la sottomissione. EMERGENZA PALESTINA Per la pace giusta in Palestina Per la protezione della popolazione civile palestinese Noi sottoscritti cittadini italiani e stranieri premesso che l'occupazione militare israeliana dei territori palestinesi rappresenta una grave violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite e dei diritti umani fondamentali della popolazione civile chiediamo al governo italiano, alle forze politiche, agli enti locali, alle associazioni laiche e religiose, a tutta la collettività di agire concretamente per i seguenti obiettivi: 1) protezione della popolazione civile palestinese, anche attraverso l'invio di una forza internazionale dell'Onu, per la difesa di tutte le vittime di una situazione intollerabile, come dimostra anche l'occupazione con i carri carmati israeliani di Betlemme (città gemellata con Milano), e i colpi sparati contro la basilica della Natività di Gesù Cristo. 2) ritiro immediato e permanente dell'esercito israeliano dai Territori dell'Autorità Nazionale Palestinese, come richiesto dall'Unione Europea e dagli U.S.A. 3) ripresa immediata del processo di pace tra Israele e Autorità Nazionale Palestinese, fondato sul rispetto delle risoluzioni dell'Onu, delle convenzioni internazionali, sul riconoscimento del diritto inalienabile del popolo palestinese ad un proprio stato indipendente.
PALESTINE - AN EMERGENCY FOR A JUST PEACE IN PALESTINE FOR THE PROTECTION OF THE PALESTINIAN CIVILIAN POPULATION The military occupation of the Palestinian territories by Israel is a grave violation of the U.N. resolutions and of the fundamental human rights of any civilian population; therefore we, Italian and foreign citizens living in Italy, demand that the Italian government, political organizations, local authorities, secular and religious associations and the general public take concrete actions to pursue the following objectives: 1. The protection of the Palestinian civilian population also by sending a U.N. international force to defend all the victims of an umbearable situation, which is evidenced by Israeli tanks occupying Bethlehem, a town linked to Milan by twinning, where even Jesus' Nativity Church has been hit. 2. The immediate and permanent withdrawal of the Israeli army from the National Palestinian Authority territories as urged by the European Union and the United States. 3. The immediate resumption of the peace talks in accordance with the U.N. resolutions and the international conventions for the recognition of the inalienable right of the Palestinian people to their own independent and sovereign state.
Prime adesioni Velio Abati (insegnante Istit. magistrale Grosseto), Mario Abud (prof. dipart. di fisica, Università Federico II di Napoli), Luisa Acerbi (Milano), Farid Adly (Anbamed, Notizie dal Mediterraneo), Mariagiulia Agnoletto (psichiatra, Salaam comitato di Milano), Paolo Agnoletto (avvocato), Alfredo Agustoni (coord. lombardo Nord-Sud del mondo), Hosein Ahmad (Ist. universitario orientale di Napoli), Arnaldo Alberti (orientalista, Ivrea), Daniela Ambrosino (funzion. Corte Costituzionale, Roma), Daniel Amit (prof.di fisica alla Sapienza e alla Hebrew University di Gerusalemme), Angelo Arioli (ordinario di lingua e letteratura araba, vicepreside della facoltà di studi orientali, Università La Sapienza Roma), Anna Assuma (Milano), Enrico Baj (pittore, Milano), Luca Baranelli (Siena), Luisa Baranelli (Siena), Antonio Barbato (sindacato di base vigili urbani, Milano), Annalisa Basso (Cnr, Napoli), Vittorio Bellavite (coordinatore Noi Siamo Chiesa, Milano), Katia Bellillo (deputato), Padre Jean - Marie Benjamin (Assisi), Antonella Bertoli (presid. Consiglio Prov.le Rovigo), Bruno Bertolini (Roma), Maria Pia Betti (assegnista di ricerca, fac. di lettere e filosofia Università di Pisa), Enzo Bianchi (giornalista, Milano), Fiamma Bianchi Bandinelli (Siena), Riccardo Bocco (prof. Università di Ginevra), Lucia Borgianni, Mauro Bulgarelli (deputato), Luciano Canfora (storico, prof. all'Università di Bari), Mario Capanna (Milano), Marco Capra (Milano), Mons. Hilarion Capucci (Arcivescovo di Gerusalemme), Iaia Caputo (giornalista, Milano), Maria Grazia Caputo (dirett. gen. Vides Internazionale), Franco Cardini (prof. all'Università di Firenze), Marco Carraro (Dropout, officina dell'immagine, Milano), Mauro Castiglioni (Milano), Maria Pia Cavaliere ( Dima, dip. di matematica Università di Genova), Aine Cavallini, Paolo Cento (deputato), Luciana Cervati, Nadia Cervoni (Donne in nero Roma), Alessandra Ciattini (ricercatrice univ. Roma), Laura Cima (deputato), Ornella Clementi (Donne in nero Bologna), Stefano Colonna (istit. di chimica organica, facoltà di farmacia, Università di Milano), Gabriella Coppola (professoressa), Sebastiano Cosenza (Milano), Maura Cossutta (deputato), Lella Costa (attrice, regista, Milano), Marianita De Ambrogio (Donne in nero Torino), Andrea De Lotto (maestro, coordinamento genitori nidi e materne Chiedo Asilo), José Luiz Del Roio (storico), Loredana De Petris (senatore), Antonino Drago (prof. associato dell'Università di Napoli), Rolando Dubini (avvocato, Ass. di amicizia Italia-Palestina), Michele Emmer (Università di Roma La Sapienza), Patrizia Esposito (fotografo), Aldo Ferrara (docente di pneumatologia all'Università di Siena), Alessandra Filabozzi (dipart. di fisica Università di Roma), Dario Fo (Nobel per la letteratura, Milano), Giorgio Forti (prof. facoltà di scienze dell'Università di Milano), Alessandra Galbiati (Milano), Alessandra Garroni (medico, Roma), Stefano Garroni (ricercatore Cnr, Roma), Mario Geymonat (prof. all'Università Cà Foscari, Venezia), Enrico Giardino ( Forum Dac), Anna Gigli (ricercatrice Cnr, Roma), Roberto Giudici (presid. Associaz. di amicizia Italia-Palestina), Gabriella Grasso (Milano), Laura Guazzone (cons.scient. dell'Istituto Affari Internazionali, Roma), Sveva Haertter, Fawzi Ismail (medico, vicepresid. Associaz. Sardegna-Palestina), Younis Kutaiba, Luca Leuzzi (stud.universitario, Amsterdam), Stefania Limiti (Roma), Paolo Limonta ( Centro culturale Kurdistan - Italia), Graziella Longoni (Cabiate), Maria Grazia Marinari (dipart. di matematica, Università di Genova), Maddalena Massei (webmaster, Milano), Valentina Marzilli, Libera Mazzoleni (Milano), Alessandro Mazzone (docente universitario, Siena), Paola Merlo (Comitato di solidarietà con il popolo palestinese, Torino), Marialidia Minak (pubblicista, Milano), Emilio Molinari (Milano), Giorgio Montagnoli (dipart. di veterinaria dell'Università di Pisa), Ersilia Monti (coordinamento lombardo Nord - Sud del mondo), Maurizio Musolino (giornalista di Rinascita, Roma), Daniela Musso (Marsiglia), Amalia Navoni (coordinamento lombardo Nord - Sud del mondo), Sinda Nawrocka, Mimmo Negro (Centro sociale Asilo politico, Salerno), Flora Nicoletta (giornalista, Gaza City), Chiara Nicolini (Psicologia, Università di Padova), Nada Nobili, Piero Olla (ingegnere, Cagliari), Barbara Orlandini (Bologna), Gianfranco Pagliarulo (senatore), Lorenzo Paolino (insegn. Istit. tecnico agrario di Firenze), Giorgio Parisi (docente di teorie quantistiche, Università di Roma), Silvano Parolari (segreteria Forum sociale Vallecamonica), Olivia Pastorelli (Busto Arsizio), Mariangela Peddizzi (presid. Associaz. Sardegna-Palestina), Giovanni Persico (prof. dipart. di sociologia, Università Federico II di Napoli), Teresita Picardi ( dipart. di veterinaria, Università di Pisa), Gabriella Pistone (deputato), Emiliana Poce (Dropout, officina dell'immagine, Milano), Paolo Poce (Dropout, Milano), Francesca Polito, Franca Rame (attrice, regista, Milano), Meriam Rattin (insegnante, Donne in nero), Carlo Remeny (giornalista di Famiglia Cristiana, Milano), Rosetta Riboldi (cons. comunale di Cinisello Balsamo), don Gino Rigoldi, Giorgio Riolo (Associaz. culturale Punto Rosso), Marco Rizzo (deputato), Margherita Roggero (dipart. di matematica, Università di Torino), Erminia Romano (professoressa), Ruggero Ruggeri (deputato), Mariangela Sacchi (restauratrice), Luciana Saibene (giornalista, Milano), Maria Saibene (Milano), Ruba Salih (Università di Bologna), Marinella Sanvito (Donne in nero Milano), Marisa Savoia (dottssa Cto Napoli), Albino Scalcione (fotoreporter, Milano), Luciano Scalettari (giornalista, Milano), Francesco Scarpelli (Dropout, officina dell'immagine, Milano), Susanne Scheidt, Edvige Schettino (prof.ssa dipartimento di fisica dell'Università Federico II di Napoli), Eva Schwarzwald, Marianella Sclavi, Pino Sgobio (deputato), Fulvio Spelta, Giorgio Stern (Salaam, Trieste), Fausto Tagliabue (fotoreporter, Milano), Nicola Teti (editore, Milano), Massimo Todisco (Osservatorio di Milano), Francesco Tofoni (Milano), Valentina Turazzi (presid. Coop. soc. Centri Rousseau), Claudio Treves, Angelo Valdameri (coordinamento dei comitati di quartiere, Milano), Tiziana Valpiana (deputato), Eleonora Varisco (insegnante), Nichi Vendola (deputato), Patrizia Viglino (fotogiornalista, Bologna), Gabriele Visco Gilardi, Kathleen Ellen White (Milano), Tammam Youssef (cardiochirurgo, S. Donato Milanese), Luana Zanella (deputato), Rebecca Zanuso. Molte altre adesioni sono già pervenute e stanno pervenendo ogni giorno, e verranno comunicate in seguito. NE OCCORRONO MOLTE ALTRE, CON LE QUALI LANCEREMO ULTERIORI INIZIATIVE.
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5.11 |
Il
sito italiano di politica internazionale
Mi permetto di segnalarvi un nuovo sito
che è stato creato in Italia e che si occupa di politica
internazionale.
Curato da giovani ricercatori, si ispira
a tutti quei siti tipo stratfor.com eccetera diffusi nel mondo
anglofono, ma con la grossa novità di essere in italiano. L'idea è
buona e merita di essere guardata con un certo interesse.
Perciò se vi capita fateci un salto e
diffondete la notizia ai vostri contatti interessati.
Il sito si trova su: www.equilibri.net
Un saluto a tutti da Arrigo Livori
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5.11 |
Massimo
Fini: ecco perchè non andrò alla marcia
di
Massimo Fini NON
andrò alla marcia. Non solo perché è un esercizio di retorica, ma
perché se l’Europa vuole contare qualcosa deve prendere
necessariamente qualche distanza dagli Stati Uniti. I nostri interessi
infatti non sempre coincidono. Lo si è visto bene nella vicenda
Kosovo. Lasciamo pur perdere che si è violato il principio della
sovranità nazionale e quello stesso Patto atlantico per cui oggi ci
è stato chiesto di affiancare gli americani in Afghanistan. Parliamo
di Realpolitik che sembra l’unico linguaggio comprensibile in
un’epoca in cui si fa strage di ogni principio. Perché gli Stati
Uniti sono intervenuti in Kosovo? Per tagliare le unghie all’ultimo
Paese, la Serbia, rimasto vagamente comunista nel Vecchio Continente,
per riaffermare la loro primazia in Europa e sull’Europa, per
costituire nei Balcani un cuneo di musulmanesimo «laico» (Albania più
Bosnia più Kosovo) in funzione del loro grande alleato nella regione,
la Turchia. Obiettivi comprensibili da parte americana, un autogol per
l’Europa e in particolare per l’Italia.
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3.11 |
Il
pensiero unico
PROGRAMMA ASEFI
08/2001 - Supplemento "Mi beavo in Sartre". L'Oriana Fallaci del 1963 evoca così il suo 1947 di liceale, che vede "Les Enfants du paradis" col primo amore. Pretesto della rimembranza, l'incontro con Arletty negli "Antipatici", suo terzo libro. L'ego non lascia però ancora prevedere alla Fallaci che si "beerà" ancora di Sartre, diventando più di Angela Davis, più di Pamela Hearst, più di Silvia Baraldini. Personaggi da cronaca; ma è la storia che la Fallaci di solito intervista. E se nella storia resta l'11 settembre, nella storia delle idee resta il 29 settembre. Data finora legata a Battisti & Mogol, dal 2001 reintroduce nel dibattito politico l'intellettuale. Ma da un'angolazione insolita, quella della Fallaci, estremista di centro con pedigree di sinistra. Della sua Rabbia e del suo Orgoglio - maiuscoli american style - s'è inturgidito il Corriere della Sera di quel giorno, come l'Aurore del 12 gennaio 1898 col "J'accuse" di Emile Zola. Splende dunque ben oltre il firmamento giornalistico un astro femminile. Del resto, nel nostro cinema, nella nostra letteratura - "Roma città aperta" o "La ciociara", "La storia" o "Va dove ti porta il cuore" - si staglia l'eroina, non l'eroe. Alla fantasia, la realtà insegna - con Ambrosoli, Falcone, Borsellino… - che l'eroe muore ammazzato. Un astro femminile volitivo. Basta confrontare la prosa veemente sempre, feroce talora, con quella di chi replica. La Fallaci afferma, gli altri esitano; la Fallaci scandisce, gli altri mormorano; lei è, gli altri sarebbero. Unica teorica rivale, Susan Sontag - newyorkese nata, meno patriottica della Fallaci, che è adottiva -, con un articolo uscito dopo l'11 ma prima del 29 settembre. Ai tempi di Johnson e Nixon, i contestatori chiedevano: "Dov'è Lee Oswald, ora che c'è bisogno di lui?". Il 29 settembre molte "firme" italiane si chiedevano dove fosse il soldatino che, sulla piazza della Tre culture di Città del Messico, sempre nel 1968, aveva ferito la Fallaci: se avesse mirato meglio... Con "La Rabbia e l'Orgoglio" ci si fanno dei nemici, ma da nessun talebano c'è da guardarsi quanto da un collega invidioso, che non abbia capito come la famosa giornalista sia stata promossa a famosa agitatrice. Non male per chi non ha alle spalle una nazione letteraria tipo la Francia, come aveva Sartre. Ma chi è costui? Nel 1978 un polacco diventa papa e gli soffia il nome. In Francia, Jean-Paul II (pronuncia: sgianpoldè) prevale subito su Jean-Paul Sartre. I cui devoti, dopo il 1980 della morte, si rarefanno in proporzione alla chiamata al cielo dei nati nella prima metà del '900. In Italia, sua terra di vacanza, almeno per l'amicizia con Palmiro Togliatti i diesse dovrebbero ricordare Sartre. Dovrebbero. Altrove? Nemmeno nelle facoltà di Filosofia. A una nostalgia intensa come quella della Fallaci per se stessa liceale cede ora il Foglio per inquadrare, con Sartre, l'intellettuale. Napoli, 1939. Professore trentacinquenne, Sartre non cerca tracce del fondatore del Pcd'I, Amadeo Bordiga, ingegnere e pensatore. Fa solo il turista e una sera dà della "fascista" a Simone de Beauvoir, il Castoro, perché le piacciono le case popolari del regime. Dimenticando "La nausea" (1938), lei replica: "E tu? Non concluderai mai nulla!". Così, dopo "L'essere e il nulla" (1943), per dimostrare che qualcosa conclude, nel 1948 Sartre fonda con David Rousset il Rassemblement démocratique révolutionnaire. Quaranta lettere nel nome, duemila iscritti nell'organico, l'Rdr è il partito più intellettuale del mondo. Alla sala Pleyel di Parigi, sul tema "Internationalisme de l'esprit", il 13 dicembre 1948 sono sul palco - con Sartre e Rousset - André Bréton, Albert Camus, Carlo Levi, Guido Piovene e Richard Wright. Più che un comizio politico, un convegno di letterati. E il clima è quello: Camus viene a condizione che non venga Maurice Merleau-Ponty; Camus è all'apice del successo, così Merleau-Ponty è sacrificato. Meno di un anno dopo, sacrificato è Sartre. Ostile alla svolta "filoamericana" di Rousset, si lascia alle sue spalle, con l'Rdr, i trecentomila franchi che vi ha messo di tasca sua e porta con sé l'insulto di Alexander Fadeiev: "Iena con la stilografica". Che cade nel dicembre 1952, quando, con Fadeiev, partecipa al congresso di Vienna del Movimento mondiale per la pace. Ci sono anche Jorge Amado, Ilja Ehrenburg e Pablo Neruda. Nuove amicizie comuniste, che Sartre onora vietando ulteriori rappresentazioni in città delle "Mani sporche", diventato "strumento di propaganda politica" anticomunista. Il cammino di Sartre coincide con quello del Pcf un po' più a lungo che quello di Sartre con l'Rdr Eppure, se può essere un compagno di strada, Sartre non è un servo di partito. S'è visto: è uno che paga, non uno che si fa pagare. Può permetterselo, i suoi libri vanno a ruba. Se agli intellettuali i soldi non bastano mai, a Sartre bastano sempre. Nel 1964 rifiuta perfino un cospicuo Nobel. Tanto di cappello da Thierry Maulnier, che commenta su Le Figaro: "Piaccia o no, nessuno scrittore francese della sua generazione, forse nessuno nel mondo ha una simile reputazione e un pubblico così grande… La celebrità di Sartre deriva da un'opera che è insieme di filosofo, romanziere, drammaturgo, critico, scrittore politico, perfino polemico". Nel 1968 della guerra nel Vietnam e dell'invasione della Cecoslovacchia ("Un'autentica aggressione, per il diritto internazionale un crimine di guerra"), Sartre si esprime sia contro gli americani, sia contro i russi, mentre altri scelgono da quale occhio essere orbi. Viene il maggio parigino. Il 10 firma su Le Monde - con Blanchot, Gorz, Klossowski, Lacan, Lefebvre e Nadeau - un manifesto di solidarietà con gli studenti in rivolta. E' di estrema sinistra, è famoso, sì, ma ha un'età. Il 10 febbraio 1969, quando sale sul palco della Mutualitè, una scritta intima: "Sartre, sii chiaro, sii breve"… Una delle ultime foto gioiose, eppur malinconiche, di Sartre è del 20 giugno 1970. "Demandez la Cause du peuple, demandez la Cause du peuple". Prima lo mormora, poi lo grida ai passanti di mezzogiorno nella rue du Faubourg-Poissonière e nel boulevard Bonne-Nouvelle. Con lui sono Patrice Chéreau, Samy Frey, Jean-Edern Hallier e Claude Lanzmann. Finiscono tutti al commissariato per diffusione di testata clandestina. Sartre viene subito rilasciato, gli altri no. Un giornalista gli chiede se cerchi di farsi processare per fare del banco d'imputato una tribuna. "No, sono contentissimo d'essere fuori. Così potrò testimoniare al processo degli altri. Io cerco di mettere il governo davanti alle sue responsabilità". E' la stessa situazione del tempo del manifesto dei 121 - Breton, Lévi-Strauss, Florence Malraux, Morin, Resnais, Robbe-Grillet, la Sarraute, la Signoret, Vercors… - che si scagliano contro la guerra d'Algeria. Presidente allora (1960) è Charles de Gaulle. A chi propone di arrestare per sedizione Sartre, capofila dei 121, oppone: "Non si imprigiona Voltaire". Sono passati dieci anni, non è più presidente della Repubblica un generale cattolico e monarchico, ma un banchiere cresciuto alla corte dei Rothschild. Però, su Sartre, Pompidou la pensa come de Gaulle. Non l'Oas, che gli metterà una bomba al plastico davanti all'uscio di casa. Se perfino i politici pensano in Francia, immaginate gli intellettuali. Il cui compito - per Pierre Drieu La Rochelle - è "andare dove nessuno è stato". Ma Sartre disprezza Drieu, che "ha auspicato la rivoluzione fascista come certuni auspicano la guerra, perché non osano rompere con l'amante". Disprezza anche Lucien Rebatet e il gruppo di Je suis partout, "modesti tenori ormai privi dello scarso vigore e fascino che avevano, come Céline e Montherlant, o che non ne hanno mai avuto, come Thérive e Brasillach". Anni Trenta, Quaranta, Cinquanta, Sessanta… La gioventù di Sartre passa e con lei lo schematismo del "buoni a sinistra, cattivi a destra". Nell'estate 1970, all'Idiot international confessa: "I giornali borghesi dicono la verità più della stampa rivoluzionaria. Anche se mentono, mentono meno". Ma Sartre non rinuncia a sostenere le cause che trova giuste. Non trascura nessun prigioniero politico. Nel 1973 dichiara allo "Spiegel": la Baader-Meinhof "è davvero un gruppo rivoluzionario, ma forse hanno cominciato troppo presto". E ancora: "Il terrorismo, comprensibile in America latina, non è politicamente valido in Europa occidentale". Quando Sartre va a trovarlo in cella, Baader l'affronta: "La credevo un amico e ho davanti un giudice". Un grande autore lanciato da Cocteau, poi vicino a Sartre che gli intitola perfino un libro, Jean Genet, in politica è più risoluto e più ambiguo di lui. Come Curzio Malaparte nella "Pelle" si commuove per fascisti fucilati nell'agosto 1944 a Firenze, davanti a Santa Maria Novella, il protagonista di "Pompe funebri" (1944), lo stesso Genet, entra in un cinema e vede nel cinegiornale i combattimenti di Parigi dell'agosto 1944. Un giovane della Milice viene picchiato dai partigiani e Genet ha pietà di lui, anche se gli pare che sia l'assassino di un suo amico: "Il mio odio per il miliziano era così forte, così bello, da equivalere al più robusto amore". E in una passo poi soppresso del "Diario di un ladro" (1946), a proposito dei partigiani borghesi deportati a Dachau, Genet confida a un compagno di cella: "Pensa come sono felice nel vedere quei tipi, che ridevano di me quando stavo dietro mura spesse tre metri, in balia di uno sbirro idiota, crivellati dalle pallottole, scheletriti, circondati dal filo spinato". E' uno spirito di rivalsa non lontano da quello che, nel 1968, spinge l'omologo italiano di Genet, Pier Paolo Pasolini, a scrivere per dispetto degli studenti, borghesi figli di borghesi: "Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti / Perché i poliziotti sono figli di poveri, / vengono da periferie, contadine o urbane che siano". La sinistra ufficiale non ama né l'uno né l'altro, ma Genet è più provocatorio di Pasolini. Quando si china sulla grande industria, complice il caso Schleyer, non lo fa con la leggerezza della lucciola che Pasolini non scambiebbe con la Montedison. Il 2 settembre 1977 Genet pubblica su Le Monde un articolo intitolato "Violenza e brutalità". Distingue la "brutalità" dello Stato (Repubblica Federale di Germania, Stati Uniti) e la "violenza" della Baader-Meinhof, biologica e positiva, simile alla forza vitale (qualcosa del genere aveva già teorizzato Georges Sorel). Per l'imperterrito Genet, un modo per distinguere l'una dall'altra è osservare quali gruppi l'Unione Sovietica protegga. Alle parole seguono i fatti. Il 5 settembre il capo della Confindustria tedesca, Hanns-Martin Schleyer, viene rapito e la scorta uccisa. Un mese dopo anche Schleyer verrà ucciso e i tre rapitori si daranno la morte. L'articolo di Genet è di prima degli eventi, lo Spiegel lo traduce in tedesco dopo. Morale: isolamento di Genet, rotto solo da Tahar Ben Jelloun sul Monde del 24 settembre: "Non gli si perdona di essere stato accanto agli Zengakuren in Giappone, alle Pantere nere, ai palestinesi, ai senza patria". Pasolini coglie meglio
di Genet le derive della società dei consumi che il '68 rilancia e,
sotto le velleità della rivolta giovanile, sente i vagiti del pensiero
unico: "Popolo e Corriere della Sera, / Newsweek e Monde / vi
leccano il culo. Siete i loro figli, / la loro speranza, il loro
futuro". Come Genet, anche lui ricalca Malaparte, ereditandone sul
settimanale Tempo la rubrica "Battibecchi", ribattezzata
"Caos". Qui, sempre nel 1968, si occupa dell'attentatore dei
colonnelli greci, Alekos Panagulis, che diverrà caro alla Fallaci,
intanto cresciuta nel giornalismo e nella narrativa, se non
nell'ideologia. Camilla Cederna e la Fallaci - una Cederna che ha
viaggiato - appaiono in "Comizi d'amore" di Pasolini (1964),
dove rispondono a un'inchiesta sulle donne. Sempre nel 1964 "Il
Vangelo secondo Matteo" fa incontrare Pasolini e Sartre in un caffè
di Parigi. All'appuntamento con Jean-Paul, Pier Paolo arriva con due ore
di ritardo. Simpatizzano ma non legano: le battaglie di Pasolini sono più
sociali che politiche, più italiane che mondiali. Il respiro della sua
protesta sta a quello della protesta di Sartre come la rurale vocazione
al suicidio di Pavese sta a quella cosmica di Drieu. E poi Sartre guarda
ai maestri della sua generazione, per la quale Parigi è il mondo e Gide
l'ombelico del mondo, perché "è riuscito a realizzare contro di sé
l'unione dei benpensanti di destra e di sinistra osando pubblicare la
professione di fede del 'Corydon' e la requisitoria del 'Viaggio al
Congo', ha avuto il coraggio di schierarsi dalla parte dell'Unione
Sovietica quando era pericoloso farlo e quello, ancora più grande, di
ricredersi pubblicamente, quando giudicò a torto o ragione di essersi
sbagliato. Forse proprio questa miscela di audacia e riflessività ne fa
un uomo esemplare". Pasolini invece non può non sapere, con Gadda,
che "i letterati ingaggiati dopo anni zinque si
disingaggiano". Non si crede legislatore o - via Corriere, come
oggi la Fallaci - almeno prelegislatore moderno. Tutt'al più interprete
postmoderno. Lo schieramento dei residui intellettuali-non-finali s'è ancora assottigliato col recente malanno che ha colpito Roger Garaudy, l'unico di fede islamica. In salute, ma più desolato di Debray, l'intellettuale-non-finale americano ebreo per eccellenza, Noam Chomsky: "La categoria tace davanti alla nuova guerra e lei si stupisce? Quanti hanno parlato nel 1914? I pochi a farlo sono andati in galera o in esilio". Ma oggi non c'è più frontiera che tenga davanti al pensiero unico. Per avere detto qualche giorno fa che Israele conduce nei territori occupati una politica criminale e che dovrebbe ritirarsi, Guenther Grass si è sentito replicare dal ministro israeliano della Cultura che, così, reclama il suicidio collettivo degli ebrei che vi si sono stabiliti. Parole che per un intellettuale occidentale, tedesco in particolare, suonano come fine della carriera. Agli sgoccioli anche quella di Martin Walser. Per avere eccepito - in una predica alla Paulskirche di Francoforte l'11 ottobre 1998 - sulla permanente minorità politica della Germania (che una settimana fa il Cancelliere Gerhard Schroeder ha proclamato concluso, senza avere apprezzabili reazioni, causa Afghanistan), s'è visto emarginato dalla società mediatica. Lo sa ancor di più Peter Handke. Per avere difeso negli ultimi anni la Serbia dalle accuse della "comunità internazionale", si vede sistematicamente stroncato. Dunque né Walser, né Handke aprono bocca - a richiesta del Foglio - sulla questione dell'intellettuale. Idem Emir Kusturica, regista che ha vinto tutti i Festival e che finora non ha avuto peli sulla lingua circa la sua Sarajevo e dintorni. Perfino un allievo di Pasolini, Bernardo Bertolucci tace. Pensare che, nel 1968, proclamava a Paese Sera: "Abbasso Marcuse, viva Sartre". Pensare che nel ,1979, celebrava il compromesso storico con "Novecento" e lo proiettava in anteprima per Berlinguer… Ora Bertolucci "è in viaggio, non può riflettere", spiega l'addetta stampa, consolandoci con l'augurio: "Buon Foglio". E per il Foglio invece riflette il paladino dei sans-papier - in gran parte islamici - Bertrand Tavernier: "La penso come Salman Rushdie. Se da una parte c'è il controterrorismo, dall'altra c'è non solo il terrorismo, ma anche una visione retriva, che ci priverebbe tanto della democrazia, quanto della minigonna. Silenzio degli intellettuali? A dover parlare subito sono i giornalisti, rischiando idiozie. Zola non intervenne subito per Dreyfus…". E' la cautela auspicata anche da un esperto sia di intellettuali, sia di Terzo mondo, Giorgio Galli. "Sono preoccupato perché oggi chi è contro la guerra di ricolonizzazione dell'Afghanistan (dell'Iraq, dell'Iran, ecc.) passa per stragista". Di "colonialismo angloamericano" parla al Foglio anche Jean-Jacques Langendorf, svizzero per parte di madre, ebreo-tedesco per parte di padre: costui, giornalista socialdemocratico della Frankfurter Allgemeine, emigrò nel 1933 e tornò in Germania nel 1945, come ufficiale dell'esercito americano incaricato della "rieducazione" tedesca. Se Debray è stato guerrigliero prima che scrittore, Langendorf - oggi autore Adelphi - ha messo una bomba al consolato spagnolo di Ginevra nel 1959. "Smesso Marx, indossato Huntington, gli intellettuali - osserva Langendorf - non hanno più la forza di resistere e si proclamano 'americani'. Ce n'è bisogno? I miei figli ignorano la Pasqua, ma celebrano Halloween. Vivendo in Austria". Dalla Svizzera, Vladimir Dimitrijevic - sua L'Age d'homme, dal cui catalogo Adelphi attinge spesso e volentieri - ci risponde: "Gli intellettuali fanno bene le autopsie, perché il morto non reagisce. Normalmente vili, cantano nel coro. Rari i solisti come Handke. E per i media, mai come ora di oservanza americana, è facile zittirli". L'idolo di Nanterre '68, Jean Baudrillard, rincara: "Ma nemmeno se parlano gli intellettuali sono decisivi. Figurarsi davanti alla guerra del 'bene' contro il 'male', che camuffa la quarta guerra mondiale detta globalizzazione". Poi prende il suo personale antidoto: ovvero parte per l'ennesimo giro del mondo (per conferenze). Promotore di un manifesto contro la guerra della Nato alla Serbia largamente firrnato anche in Italia, animatore della rivista "Krisis", dove Nietzsche e Marx si danno la mano, alla parola "intellettuali" Alain de Benoist sorride triste: "In un quarto di secolo sono passati dal 'tutto è politica' (dunque, che importa la morale?) al 'tutto è morale' (diritti dell'uomo). Incapaci di equilibrio come di analisi politica, sono sensibili alle questioni alimentari". A sentirlo, viene in mente Jean-Luc Godard che presentava a Cannes "Eloge de l'amour" - dove un agente di Steven Spielberg acquista i diritti delle memorie di una coppia di partigiani per un film che ne traviserà lo spirito - in questi termini: "L'atto di creazione dell'intellettuale è resistere a qualcosa. Resistenza, non libertà. Arduo ormai sapere della Resistenza durante la seconda guerra mondiale, ma all'inizio della Resistenza c'è stato un momento in cui il denaro non era un fine, ma un mezzo. Quando giro un film, il denaro è un mezzo, non un fine". Anche l'antichista Luciano Canfora - studioso fra l'altro del comunista Arthur Rosenberg, storico prestato alla propaganda di guerra di Guglielmo II - vede intellettuali & show business uniti nella lotta: "L'ambiente è sensibilissimo al pubblico: scatta in piedi al primo stormir di fronda. E poi i media, a ragionamenti freddi, preferiscono viscere calde. Come quelle della Fallaci. Lei s'identifica con l'America e quindi ha un pathos. Come chi s'identifica con Osama Bin Laden". La mediaticità è determinante anche per Raniero La Valle, cattolico progressista, al centro di tutti i grandi movimenti a sostegno dell'emancipazione degli oppressi. Al Foglio denuncia la "censura" e afferma "la necessità di tornare al pluralismo dei messaggi. Il mondo non finisce l'11 settembre e neanche con le bombe sull'Afghanistan. Finirà invece un sistema che può sussistere solo con un enorme investimento di violenza, cui appartengono anche intellettuali che trovano accesso all'opinione pubblica, mentre gli altri vengono emarginati. Chi non si riconosce nel pensiero dominante, non diserta, non si allinea. Ma non se ne sente più parlare". Allievo di Ernst Bloch a Berlino Est, poi iscritto al Pci, infine firma del Giornale, Stefano Zecchi ha avuto i suoi guai sotto la direzione di Indro Montanelli per un elzeviro sull'Intifada delle origini: l'incipit era un omaggio alla bellezza del gesto del balilla palestinese che con la fionda scaglia il sasso contro l'elicottero israeliano. Nel conflitto serbo, Zecchi era antiserbo. A domanda sugli intellettuali, al Foglio risponde: "Sartre, Genet, Pasolini avevano un prestigio che, unito a un clima politico internazionale diverso, li tutelava. Oggi invece le posizioni estreme sono ammesse solo quando sono di consenso, come quelle della Fallaci, cui si permette di straparlare fluvialmente; chi, con intenti opposti, usasse gli stessi toni, lo farebbe per l'ultima volta. S'è vista la prudenza di chi le ha risposto, come Dacia Maraini. Il sistema mediatico cancella ormai la radicalità antagonista. Michele Santoro non rientra in essa: lui provoca a fini di audience". Che "l'intellettuale finisca con l'invasione sovietica della Cecoslovacchia" è opinione di Lucio Colletti, filosofo e ideologo comunista degli anni Sessanta e Settanta, poi "professore" di una Forza Italia che gli è sempre andata stretta. Più degli intellettuali ormai gli interessa la politica e al Foglio dice: "Sono cambiati i vertici, non la base della sinistra. Quella è legata alla vecchia mitologia. Per non separarsi dalla base, in parlamento un'ala diessina ha votato con Bertinotti e Cossutta. Hanno molti nemici in casa D'Alema e Fassino, che sposano le ragioni dell'America". Per Maurizio Serra, autore dell "Esteta armato" (Il Mulino), "l'intellettuale finisce con la democratizzazione. Gabriele d'Annunzio o Stefan George si rivolgevano a diecimila persone. Ora ci sono masse televisive di milioni di individui e, nel formare la volontà politica, l'intellettuale è ormai insignificante. Manca il contesto che lo rendeva influente". Simile l'analisi dello storico delle crociate Franco Cardini, cattolico che simpatizza con l'Islam e antipatizza con il pensiero unico, il quale "rende semplici, semplicistiche le modifiche dell'opinione pubblica. L'intellettuale non occorre più: l'intellighenzia basta". Alfonso Berardinelli - autore dell' "Eroe che pensa. Disavventure dell'impegno" (Einaudi, 1997) - col Foglio sintetizza: "Gli intellettuali contano quando un potere li fa contare. Era vero già ai tempi di Sartre, utile alla sinistra; e di Orwell, usato dalla destra. E' il podio speciale datole dal Corriere che fa contare la Fallaci". Americanista, biografo di Mattei come alfiere della sovranità nazionale e di De Gasperi come suo liquidatore, Nico Perrona trancia: "Per conservare le collaborazioni con le tv e i giornali, gli intellettuali o ripiegano o gareggiano in americanismo. A sinistra s'è mitizzata l'America: il nuovo, il progresso, la libertà, tutto era lì. Dell'eguaglianza negata negli Stati Uniti, e dagli Stati Uniti negata al mondo, non ci si ricordava. Così la ferita inferta all'America mette gli intellettuali in trincea contro gli infedeli. Chiedersene il perché sembra vilipendio dei cadaveri delle Torri gemelle, che certo meritano rispetto, ma meditare eviterebbe altri morti. E poi nessuno pensa alla censura, né alle nuove leggi liberticide, dopo quelle dei tempi delle Br, tuttora in vigore". Con "Cosmopolis" (Feltrinelli, 1995) e soprattutto con "Chi dice umanità" (Einaudi, 2000) Danilo Zolo continua Carl Schmitt da sinistra. Col Foglio è chiaro: "Vige il global terrorism, un atlantismo ontologico alimentato dall'adorazione della forza sotto l'ombrello statunitense e dal servilismo verso le multinazionali ideologiche. Per fronteggiarlo, la sinistra manca di intellettuali autorevoli. Norberto Bobbio è affaticato quanto la sinistra stessa, i cui capi non hanno la statura per recare messaggi immuni dalla degenerazione videocratica della democrazia occidentale". Un epitaffio. Lo postilla Stefano Chiarini, ispiratore dell'ultimo manifesto circolato in Italia ("Diamo un cimitero ai morti di Sabra e Chatila, anziché una discarica", centinaia di adesioni da Bertinotti quanto da Staiti). "La sinistra tace sulla Palestina e sull'Iraq sotto embargo, con le sue centinaia di migliaia di vittime, per lo più bambini. Così qualcuno s'è dato un'audience col terrorismo. Con la sinistra appiattita su Israele, che cosa vi aspettate dagli intellettuali? Non sono leoni". E Chiarini - alias editore Gamberetti - torna ai suoi libri. Quello di Seale su Assad s'intitola "Il leone di Damasco". Letto Huntington, letta la Fallaci, per completezza dell'informazione si rilegga la prefazione ai "Dannati della terra" di Fanon. Vi scrive Sartre: "Europei, aprite questo libro, andateci dentro. Dopo qualche passo nella notte, vedrete stranieri riuniti attorno a un fuoco, avvicinatevi, ascoltate: discutono della sorte da riservare alle vostre agenzie di commercio, ai mercenari che le difendono. Forse vi vedranno, ma continueranno a parlare, senza neanche abbassare la voce. A rispettosa distanza, vi sentirete furtivi, notturni, agghiacciati: a ciascuno il suo turno". Sono la Rabbia e l'Orgoglio del Terzo mondo. Maurizio Cabona
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