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28.11

Gli Usa ci ordinano: cambiate la Costituzione!

"Change your constitution!"

L'ambasciatore degli USA presso l'Unione Europea ordina a tutti i paesi europei - Italia compresa - di ambiare le loro costituzioni in modo da permettere agli Stati Uniti di prelevare cittadini nostri o ospiti nel nostro paese, anche per semplici reati di opinione, per portarli davanti a tribunali militari che li metteranno a morte in processi segreti e senza bisogno di prove. È esagerato parlare della fine sia dell'indipendenza nazionale, sia dello Stato di diritto?

Miguel Martinez - 26 novembre 2001

La stampa italiana è spesso accusata di prestare attenzione solo ai fatti che riguardano direttamente il nostro paese.
Falso. Il 23 novembre, ad esempio, i nostri telegiornali ci hanno dato una notizia clamorosa: su una brulla collina vicino a Kabul, in quel paese infinitamente lontano che è l'Afghanistan, un bambino aveva fatto
volare un aquilone.

Tanto era importante questa notizia che, per farle posto, ne è stata omessa un'altra: pare che dovremo cambiare costituzione, abolendo lo Stato di diritto e la sovranità nazionale e reintroducendo per giunta, e
in maniera nemmeno troppo indiretta, la pena di morte.

Certo, per gli italiani sarà più importante conoscere lo stato attuale di una splendida e antica arte dell'Asia Centrale, ma almeno un piccolo riferimento al destino che ci attende lo potevano fare i telegiornali.

E invece no. La notizia bisogna andarla a scovare in un articolo di Lucio Manisco sul Manifesto (1).
Prima che qualcuno dica, "ah, i soliti comunisti", ricordo ai lettori la regola d'oro: quando si tratta di notizie, la domanda fondamentale non è se sono comuniste o fasciste, ma se sono vere o false.

Come abbiamo visto, gli Stati Uniti hanno emanato una "direttiva" che permette loro di prelevare cittadini di altri paesi, anche solo accusati di sostegno ideologico ("associativo" e non attivo) al "terrorismo", di processarli in segreto davanti a un tribunale militare senza difesa, senza prove e senza diritto di appello e condannarli a morte.

Se non lo sapevate, chiedete ai telegiornali italiani perché non ne hanno parlato: sulla stampa USA è in corso un dibattito acceso su questa direttiva, che affossa l'intera cultura americana della libertà.

Quando si tratta di un paese del Terzo Mondo, gli Stati Uniti o "preleveranno" direttamente i giustiziandi, oppure se li faranno consegnare previo bombardamento. Nel caso dell'Europa, intendono invece farseli consegnare direttamente dai governi.

Però c'è un problema: nei paesi dell'Unione Europea non esiste la pena di morte, per cui diventa impossibile l'estradizione.

Inoltre, i paesi europei non ammettono l'esistenza di reati politici o di idee. Non parliamo poi del fatto che
gli eventuali estradati subiranno processi che non hanno nulla a che fare con la nozione europea di diritto.

La costituzione italiana, ad esempio, vieta la pena di morte all'articolo 27, mentre gli articoli 10 e 26 vietano l'estradizione di cittadini stranieri e italiani per reati politici.

Come risolvere la faccenda? Lo spiega il banchiere Rockwell Schnabel, già presidente della Trident Capital, appena nominato ambasciatore degli Stati Uniti presso l'Unione Europea.

Rockwell Schnabel
Ecco le istruzioni che Schnabel - in un'intervista concessa al settimanale European Voice(2) - dà all'Europa:

"Diversi paesi hanno leggi diverse, alcuni di questi paesi dovranno cambiare le cose, comprese le loro costituzioni. Ma c'è già un accordo di massima sulla necessità di procedere in questa direzione".


Cambiare la costituzione? Cambiare la costituzione in modo da permettere a uno Stato straniero di portar
via cittadini nostri o ospiti nel nostro paese, anche in base semplicemente alle loro idee, consegnarli a tribunali militari che li metteranno a morte in processi segreti e senza bisogno di prove?

Non è in ballo solo la modifica di alcuni articoli, comunque preziosi, della nostra costituzione. Stiamo parlando dell'abolizione della sovranità nazionale e dello Stato di diritto. Che poi la cosa possa riguardare - al momento - solo "pochi arabi" o "sovversivi" non ha importanza.

Alcuni amici hanno suggerito che il parallelo più prossimo a quanto starebbe per accadere sia trovi nelle leggi razziali che colpirono poche migliaia di ebrei in Italia, ma violarono il concetto fondamentale dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Altri però notano una differenza non da poco: le leggi razziali almeno non fecero morti. Per cui suggeriscono un parallelo con le deportazioni degli ebrei verso uno "Stato straniero amico" nel 1943.

Purtroppo non so se tali deportazioni siano avvenute nel contesto di qualche norma giuridica - e in tal
caso il parallelo sarebbe molto indovinato - oppure per semplice arbitrio delle forze occupanti.

Schnabel ha ordinato di modificare le stesse costituzioni: non si tratterà quindi semplicemente di un'operazione sporca dei servizi segreti, né di una losca escamotage giuridica, ma di nuove regole che si
potranno applicare in qualunque situazione futura.

Per questo motivo, non è un'esagerazione prevedere che la modifica costituzionale - qualunque forma assumi – dovrà significare l'abolizione della Repubblica Italiana, intesa sia come repubblica, sia
come Italia.

Forse mi sbaglio, ma ho l'impressione che questa notizia sia importante per i telespettatori italiani almeno quanto gli aquiloni sopra Kabul.

Chissà se la vorrà commentare il presidente che ci ha invitati a mettere un "tricolore in ogni casa".

La faccenda supera - o dovrebbe superare – le divisioni tra destra e sinistra: un fatto di questa portata dovrebbe suscitare lo sdegno di un partito che si chiama Forza Italia o di un altro che si chiama Alleanza
Nazionale. Dovrebbe poi far insorgere i Democratici di Sinistra, gli eredi di una sinistra che ha da sempre
esaltato la Costituzione "democratica e nata dalla Resistenza".

Potrebbe quantomeno incuriosire i giuristi o le molte associazioni che si occupano di diritti umani a vario titolo, o i movimenti che in passato hanno sostenuto meritorie campagne contro la pena di morte.

Oppure è possibile che abbia ragione Schnabel quando dice che " c'è già un accordo di massima sulla  necessità di procedere in questa direzione"?

"Chi tra di voi si chiama Osama bin Laden alzi la mano!"

______________
Note
 (1) Lucio Manisco: "Condanna a morte per delega: gli USA chiedono all'Europa di reintrodurre la pena capitale per i sospetti di terrorismo", Il Manifesto 23.11.01.

(2) La fonte dell'intervista di Schnabel, erroneamente identificata da Il Manifesto come European News, è European Voice del 15-21 novembre 2001 (European Voice, rue Montoyerstraat 17-19, 1000 Bruxelles;
telefono 0032-2-5409090).


www.kelebekler.com

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27.11

----- Original Message -----

From: Deborah Fait (faitd@barak-online.net

To: Berlusconi

Sent: Wednesday, November 14, 2001 10:10 PM
Subject: quale Palestina?

ALLA CORTESE ATTENZIONE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO
 
SILVIO BERLUSCONI.
 
Caro Signor Presidente del Consiglio,
 
Dall'11 settembre la sento parlare sempre piu' spesso di Palestina e di Piani Marshall per aiutare i palestinesi.
Tutto questo le fa onore ma non mi e' chiaro dove sia la Palestina di cui Lei parla poiche', secondo Arafat, la Palestina deve trovarsi al posto di Israele e le cartine geografiche stampate dall'ANP lo dimostrano.
Arafat vuole tutta Israele e sua massima  ambizione sarebbe di gettare in mare gli ebrei israeliani. 
Le sarei grata se volesse rassicurarmi in questo senso confermando che la Palestina che Lei intende non comprendera' lo stato democratico di Israele!
Il timore c'e poiche', dall'accoglienza entusiastica che Arafat ha avuto in Italia proprio nei giorni in cui i suoi miliziani assassinavano civili israeliani, pare che il suddetto terrorista goda molte simpatie nel nostro paese.
Per quanto riguarda il Piano Marshall credo sia inutile e superfluo, signor Presidente. Certamente lei e' a conoscenza dei molti miliardi che la Banca Mondiale, la Comunita' Europea, Gli Stati Uniti e Israele hanno mandato negli anni alla dirigenza palestinese. E Lei sapra' altresi' che di tutti questi miliardi neanche un centesimo e' arrivato al popolo palestinese che e' , unico caso al mondo, ancora chiuso nei campi profughi dei territori palestinesi.
Tutti i miliardi di cui sopra, Signor Presidente, sono stati usati per l'acquisto di armi, per la propaganda  e per i conti in banca della corrotta classe dirigente palestinese. E adesso lei vuole, signor Presidente, togliere altri soldi dalle tasche degli europei e degli italiani per rendere Arafat ancora piu' ricco? 
Mi scusi l'ardire ma trovo che questo sia poco etico.
Se Lei vuole migliorare il livello di vita dei palestinesi dovrebbe innanzitutto fare in modo  che i poveretti si liberino di Arafat e di tutta la sua gang corrotta di terroristi.
Nessuna speranza di miglioramento, a mio parere, finche' non li aiuterete in questo senso.
Fiduciosa La ringrazio per l'attenzione e La saluto cordialmente
 
Deborah Fait
Herzogstr.2 A
76482 Rehovot
Israele

...e la Morgantini risponde

Cara Signora Deborah, mi dispiace che lei sia cosi piena di livore e di bugie.

Lo stato di cui si sta parlando riguarda il territorio occupato da Israele con la guerra del 1967. I confini di cui parlano i palestinesi e le risoluzioni Onu sono quelli della Cisgiordania e Gaza. Luoghi in cui i governi israeliani che si sono succeduti hanno costruito colonie, trasferendo, contro la convenzione di Ginevra, la  propria popolazione su di un territorio occupato militarmente. Non sono pochi questi coloni, comprendendo Gerusalemme est, anch'essa occupata militarmente nel 1967, ammontano ormai a 400.000 persone, tra l'altro aumentate enormemente dopo la firma dell'accordo di Oslo. Dire colonie o coloni forse non significa molto, quelle colonie pero' sono state costruite su terra palestinese coltivata con la fatica e gli anni dai contadini palestinesi, che se sa la sono vista sottrarre, hanno visto sradicare alberi, hanno visto crescere colonie con piscine con l'acqua sottratta non solo ai loro campi ma anche alle loro case. Dopo l'accordo di Oslo hanno visto crescere a dismisura le by pass road, anche queste per la sicurezza dei coloni e anche queste costruite su terra confiscata.

 

Nel Novembre del 1988, la leadesrhip palestinese ha accettato i confini del 67 e l'esistenza dello stato di Israele che non è più in discussione. I palestinesi hanno accettato un compromesso storico, non hanno rivendicato né la Palestina storica pre spartizione dell'Onu e neppure la Palestina decisa dalla spartizione Onu che prevedeva il 56% allo Stato di israele e il 44% allo stato Palestinese. I confini del 67 sono invece il 22% del territorio. Non chiedono come afferma Israle con l'annessione di Gerusalemme che tutte Gerusalemme deve essere la capitale della Palestina, chiedono semplicmente una città da condividere, Ovest per lo Stato d'Israele, Est per lo Stato di Palestina. Mi sembra un compromesso straordinario.
Per la verità Israele non solo non finanzia l'autorità palestinese ma ne mina costantemente l'esistenza e la credibilità. Non consegna le tasse che dovrebbe versare ai palestinesi, non permette la costruzione del porto palestinese, continua a confiscare terre, chiude i palestinesi all'interno di enclave, li costringe ad una vita di umiliazioni.

 

E' tempo che persone come lei comincino a riflettere su di sè e sulla mancanza di umanità oltrechè sul razzismo che spargete a piene mani.
Per fortuna in Israele ci sono molte persone che credono al diritto e al riconoscimento dell'altro, in questo caso dei palestinesi. Sono quelli che lasciano una speranza, sono le persone con le quali è possibile pensare alla possibilità di esistenza e coesistenza di due popoli e due stati.
Sono stata spesso in israele e palestina, conosco le paure e le sofferenze degli uni e degli altri, ma la violenza e l'ingiustizia che devono subire i palestinesi sono inerarrabili.
Sicurezza e pace per Israele potranno esistere solo se anche i palestinesi potranno vivere in pace e sicurezza in un loro stato.
 

Mi auguro davvero che qualcosa cambi in lei, e anche a me sembra improponibile il piano Marshall, ma solo perchè i carri armati, gli F16 dell'esercito israeliano continuano a distruggere cio' che viene  costruito.

Ogni azione contro la popolazione civile la considero un crimine contro l'umanità, in questo senso ogni azione di gruppi o persone che compiono azione terroriste considero siano nemici del popolo palestinese anche se sono essi stessi palestinesi, ma certamente non considero diversi i soldati che sparano contro bambini, i buldozzer che distruggono e demoliscono case, gli assasini extragiudiziali, i bombardamenti, e l'occupazione militare di un altro popolo, le torture. Non è certo per difendere la sicurezza d'Israele che si fa tutto questo, forse, purtroppo, la verità è che i governi israeliani e in modo particolare Sharon, che si è macchiato di tanti delitti, vogliono una sola cosa e praticano una sola politica, quella di vecchio stile coloniale.
 

Sicuramente c'è corruzione in parte dei gruppi dirigenti palestinesi, ma ho visto che la critica viene dai Palestinesi stessi e questo mi sembra espressione di democrazia, certamente la democrazia è difficle da sviluppare in un popolo che non ha ancora uno stato e che per più di 30 sperimenta una occupazione militare brutale.

 

Mi auguro per Israele e la Palestina che prevalgano non le voci come la sua, ma quelle dei movimenti per la pace israeliani, le donne in nero, la coalizione delle donne per la pace, i giovani che si rifiutano di prestare servizio militare nei territori occupati,cosi' come mi auguro che in Palestina prevalgono le forze e sono la maggioranza dei palestinesi che credono in movimenti di resistenza pacifica e non violenta.

 
Luisa Morgantini

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27.11

Salviamo Safiya

Carissime e carissimi,

sono Farid Adly, direttore di "ANBAMED, notizie dal Mediterraneo". Vi invio questo messaggio per una campagna per salvare la vita di Safya. E' ben chiaro che questa campagna non è un attacco all'Islàm. Nel mondo musulmano ci sono molti che si battono contro l'applicazione della Shari'a, là dove le norme di questa legge, di 1400 anni fa, stridono con i diritti umani, con l'uguaglianza tra i sessi o in generale con le concezioni moderne del diritto civile e penale. La maggioranza dei paesi arabi ed islamici non applica in modo totale la Shari'a.

Questa premessa è necessaria, per capirci. Lo scrivente, peraltro, è di retaggio culturale islamico. Credo inoltre che il dialogo tra culture e il reciproco arricchirsi parte proprio dalla chiarezza dei principi che ci accomunano: il rispetto dei diritti umani e l'uguaglianze dei diritti e dei doveri di tutti senza distinzioni. Per questo, sarebbe anche interessante ed utile riuscire a convincere a partecipare a questa campagna molti amici arabi e musulmani.

Il caso che vi sottopongo è una storia tragica: una donna nigeriana, Safya Husseini Tudu, di 30 anni, ha fatto l'amore e concepito un figlio al di fuori del matrimonio. Accusata di adulterio, è stata condannata da una corte locale nigeriana alla lapidazione. L’esecuzione non avrà luogo subito, ma solo quando la donna avrà completato il periodo di allattamento del bambino. E’ stata lasciata a casa, con l’ordine di presentarsi al momento stabilito per l’esecuzione. Il padre del nascituro è stato assolto per insufficienza di prove.

La situazione politica ed istituzionale in Nigeria vive un momento molto difficile. Il progressivo allargamento dell’influenza dei tribunali islamici negli stati del nord della federazione nigeriana preoccupa le autorità centrali che dovrebbero far rispettare il Codice penale ufficiale della Nigeria. L’inasprirsi delle violazioni dei diritti umani e l’emissione di sentenze capitali, conseguenti all’applicazione della Shari'a, contrasta con la tendenza in atto nel paese. L’attuale presidente, Olusegun Obasanjo, nel gennaio 2000 aveva concesso l’amnistia o la commutazione della pena ai condannati a morte. Pur dovendo fronteggiare sanguinosi disordini, conseguenti alla collisione tra comunità islamiche e cristiane, sembra che il Governo centrale mantenga una moratoria di fatto.

Safya ha ancora la possibilità di appellarsi alla Corte Suprema federale e di ottenere la grazia da parte del presidente della Nigeria. Alcune organizzazioni per i diritti umani stanno facendo pressioni sulle autorità centrali perché correggano l’orrenda ed ingiusta condanna inflitta alla donna dal tribunale islamico di Gwadabawa, nello Stato di Sokoto. Le autorità devono essere incoraggiate a compiere i loro doveri costituzionali nonostante l'opposizione dei tribunali islamici.

Ci sono diversi modi per aiutare Safya. Ve li elenchiamo, ribadendo che non sono alternativi, ma che si possono seguire tutti:

1)     Proponiamo di scrivere al Presidente Olusegun Obasanjo, per chiedere giustizia per Safiya. Fotocopiate, firmate e corredate col vostro indirizzo completo il seguente testo (che può essere ovviamente personalizzato) e inviatelo per Posta Prioritaria affrancando con 1500 lire.

Il messaggio può essere inviato in copia (per conoscenza) alla:

National Human
Right Commission
Plot 800 Blantyre Street
Gidan Aisha - Wuse II
ABUJA (Nigeria).

His Excellency
Chief Olusegun Obasanjo
President of the Federal Republic Of Nigeria
Shehu Shagari Way
ABUJA (Nigeria)

Dear President

We appeal to you with deep concern and distress, begging you to intervene to avoid that Safiya Hussaini Tungar-Tudu, mother of a still suckling baby, is put to death.

Ms. Tungar-Tudu, convicted for adultery, has been condemned to be stoned to death by the Islamic Court of Gwadabawa, in the state of Sokoto. Your nation central authorities have the power and the duty of cancelling such a sentence. By the use of your own constitutional powers, also you could, dear President, through extreme instance, grant mercy.

As shown by the fast growth of the number of abolitionist countries, death penalty harshly contrasts with the ethic maturity reached by Mankind. Capital punishment bars the way to the development of Human rights, the only mean to reach peace and justice among human beings in a tormented world.

We oppose death penalty in all cases, but we submit to your attention Ms. Safiya Hussaini Tungar-Tudu’s case with particular concern, because the crime for which she has been condemned, the kind of trial she has undergone, and the method chosen to put her to death add terrible aggravating factors to the capital punishment itself.

In the confident hope of your authoritative intervention, we remain respectfully yours

Firma leggibile ed indirizzo

Traduzione: Signor Presidente, ci appelliamo a lei con grande preoccupazione ed angoscia pregandola di intervenire per impedire che Safiya Hussaini Tungar-Tudu, madre di un neonato che sta tuttora allattando, sia messa a morte.

La signora Tungar-Tudu, accusata di adulterio, è stata condannata alla lapidazione dal Tribunale islamico della città di Gwadabawa nello stato del Sokoto. Le Autorità centrali del suo paese hanno il potere e il dovere di annullare una simile sentenza. Come estrema istanza, ricorrendo ai suoi poteri costituzionali, lei, Signor Presidente, potrebbe concedere la grazia.

Come dimostra la rapida crescita del numero dei paesi abolizionisti, la pena di morte risulta essere in netto contrasto con la maturità etica raggiunta dall’Umanità.

Essa impedisce inoltre lo sviluppo dei Diritti umani, che solo può portare pace e giustizia tra gli uomini in un mondo tormentato. Pur essendo in ogni caso contrari alla pena di morte, le sottoponiamo con particolare preoccupazione il caso della Signora Safiya Hussaini Tungar-Tudu in cui il delitto contestato, il tipo di processo celebrato e il metodo di esecuzione scelto aggiungono terribili fattori aggravanti alla condanna capitale. Con viva speranza nel suo autorevole intervento, la salutiamo rispettosamente. 

2)   Possiamo scrivere lo stesso testo indirizzato però: 

all'ambasciata nigeriana

via Orazio 18

00193 Roma.

3)    Per via telematica c'è una strada che non è l'e-mail (sarebbe la più semplice, ma l'indirizzo e-mail del presidente nigeriano Obasanjo è stato cambiato dopo l'avvio della Campagna): si deve raggiungere il sito della delegazione nigeriana all'ONU dove c'è una pagina per comunicazioni:.

http://www.nigerianmission.org/_vti_bin/shtml.dll/feedback.htm

Si possono mandare i messaggi a favore della salvezza di Safya in inglese certamente, per . es:

WE WANT SAFYA HUSSAINI TUDU  ALIVE!
Seguito da nome cognome città e stato

 

4)    La stessa cosa si può fare raggiungendo la pagina del presidente della Nigeria, che attualmente sta facendo un sondaggio sulle prossime elezioni nigeriane del 2003 (quindi questi messaggi saranno più efficaci). L'indirizzo del sito è :http://www.nigeriatoday.com/should_president_obasanjo_run_fo.htm 

Grazie a tutti, per tutto quello che potranno fare.
Cordialmente.
Farid Adly

anbamed@katamail.com

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27.11

Convegno sull'immigrazione - Forum trentino per la Pace
“ENTI LOCALI E DIRITTI DI CITTADINANZA DEGLI IMMIGRATI:  ESPERIENZE E PROPOSTE
PROMOSSO DAL
Forum Trentino per la Pace

in collaborazione con :

Comune di Rovereto

Provincia autonoma di Trento

Regione autonoma Trentino-Alto Adige

Consorzio dei Comuni Trentini

Associazione Trentina Accoglienza Stranieri

 
Sabato 1 e domenica 2 dicembre 2001 
ROVERETO - Teatro Rosmini, via Paganini n. 14

 Sabato 1 dicembre 2001

 ore 9.00 Apertura lavori

 Saluti autorità:

 Roberto Maffei, Sindaco di Rovereto

Lorenzo Dellai, Presidente della Giunta provinciale di Trento

Mario Magnani, Assessore alle politiche sociali e salute

 Persone, non stranieri”- Relazione introduttiva di

Vincenzo Passerini, Presidente del Forum Trentino per la Pace

 

ore 10.00 Interventi

Coordina Adel Jabbar – sociologo dell’immigrazione e relazioni interculturali - Università Ca’ Foscari – Venezia

 1. “Immigrazione e politiche degli Enti Locali” – panoramica della situazione degli Enti locali con riferimento alla partecipazione dei cittadini stranieri

Giorgio Alessandrini, Presidente Organismo Nazionale di Coordinamento delle politiche di integrazione - CNEL

 2. “La mediazione interculturale nella politica degli Enti Locali

Nora Lonardi, sociologa - Studio RES Trento

 3. “Dal permesso alla carta di soggiorno”

Marco Paggi –Padova – rappresentante dell’A.S.G.I. (Associazione per gli Studi Giuridici sull’immigrazione)

4. “Diritti uguali per tutti e governo pacifico della città”.

Salvatore Palidda, ISMU, sociologo della devianza -  Università di Genova

 ore 13.00 Pausa pranzo

 

ore 14.30 Ripresa dei lavori

 Esperienze istituzionali e partecipazione di cittadini immigrati

 Alberto Caldana, Assessore alle politiche sociali e sanitarie, Comune di Modena

Ainom Maricos, ex consigliera comunale, Comune di Milano

Leonor Delaoz, consigliera straniera aggiunta, Provincia di Ancona

Neli Isaj, consigliera straniera aggiunta, Comune di Ancona

 

ore 16.30

GRUPPI DI LAVORO

a) “Immigrati, istituzioni e opportunità di partecipazione” – Erica Mondini – Consigliera Delegata per interventi di promozione di una cultura della pace - Comune di Rovereto

b)”Politiche di sicurezza e immigrazione”- Barbara Giacomozzi – Esperta di politiche di sicurezza urbana

c) “Tempi di lavoro e spazi della città” – Antonio Rapanà, CGIL – Servizio stranieri

  ore 19.00 chiusura dei lavori


Domenica 2 dicembre 2001

 ore 9.30

Saluti Autorità:

Margherita Cogo, Presidente della Regione Trentino-Alto Adige

Alessandro Olivi, Vice Presidente Consorzio Comuni Trentini

ore 10.00

RELAZIONI GRUPPI DI LAVORO

 

ore 10.45

TEMPI E LUOGHI DELLE DONNE IMMIGRATE

Introduce e coordina:

Lucia Coppola – Vice Presidente del Forum Trentino per la Pace

Interventi:

Lucia Martinelli, Presidente Commissione Pari Opportunità della Provincia di Trento

Rita Bonzanin, Direttore ATAS (Associazione Trentina Accoglienza Stranieri)

 Relazioni:

Immigrazione e prostituzione. Un’esperienza di lavoro di rete” – Gherda Maestripieri, Assessore alle politiche Sociali e Sanitarie – Comune di Ponte Buggianese (Pistoia).

 Percorsi di cura delle donne immigrate: ruolo del mediatore linguistico culturale in ambito sanitario” - Marta Castiglioni, psicoterapeuta e Presidente della Cooperativa Kantara di Milano

 Donne Immigrate e Lavoro”Melita Richter, sociologa, mediatrice interculturale,

Cooperativa Interethnos – Trieste

 ore 13.00 chiusura lavori  

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24.11

Fondamentalismi d'Occidente

UN PAESE PERICOLOSO

Storia non romanzata degli Stati Uniti d’America

di John Kleeves

Società Editrice Barbarossa (orionseb@tin.it), Cusano Milanino (MI) 1999, pp. 382 • Lire 36.000 - Euro 18 cod. S07

"Kleeves parte da un presupposto abbastanza sorprendente: degli Stati Uniti si crede di sapere tutto ma in realtà si sa assai poco. Ciò è dovuto sostanzialmente a due motivi. Il primo è che si tratta di un paese singolare, con una forte specificità, le cui affinità con le culture di altre aree del mondo, compresa quell’Europa da cui provengono, sono più apparenti che reali. Il secondo motivo è che gli Usa dispiegano una forza propagandistica enorme per essere percepiti come vogliono essere percepiti ma come in realtà non sono. In America esiste una United States Information Agency (Usia), con un budget di tre miliardi di dollari e 50 mila funzionari sparsi in tutto il mondo, il suo scopo statutario è di "influenzare le opinioni e le attitudini del pubblico estero in modo da favorire le politiche degli Stati Uniti d’America". (...) Così gli americani hanno potuto presentarsi come i vessilliferi dei buoni sentimenti e della pace, il che è abbastanza straordinario per un paese che dalla sua nascita ha compiuto più di 200 interventi armati in tutte le aree del mondo, il cui schiavismo ha provocato 40 milioni di morti, autore di uno dei più spietati e cinici genocidi della storia, quello dei Pellerossa, infine l’unico ad aver usato, senza troppi scrupoli, la bomba atomica.

Kleeves, che fa largo uso della ricerca motivazionale, utilizzata in psicologia, individua l’origine del "modo di essere americano, di quella che è una vera e propria teologia, nel protestantesimo declinato nella sua versione più radicale ed estrema, il puritanesimo. Ciò dà all’americano medio la certezza di essere dalla parte degli Eletti, dei Buoni, dei Giusti e agli Stati Uniti la caratteristica di paese straordinariamente aggressivo, convinto di avere il diritto, anzi il dovere, di portare il proprio modello ovunque. Il presidente Roosevelt lo disse esplicitamente: "L’americanizzazione del mondo è il nostro destino"".

Su questo sentimento (...) si inseriscono gli interessi economici di quell’oligarchia mercantile che rappresenta il 5% della popolazione, detiene la metà della ricchezza nazionale e il cui interesse non è quello di esportare i Buoni Sentimenti ma di omologare l’intero pianeta al proprio modello per potervi vendere i propri prodotti e sacrificare così a quello che gli stessi americani chiamano Almighty Dollar, Il Dollaro Onnipotente. Per ottenere questo scopo sono disposti a distruggere culture, habitat, diversità, tradizioni, economie".

(Massimo Fini, "Avvenire", 10 luglio 1999)

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24.11

Egemonia americana e stati fuorilegge

 

Noam Chomsky, EGEMONIA AMERICANA E "STATI FUORILEGGE"- ed. Dedalo 2001, Lire 30.000

Da tempo gli Stati Uniti, unica superpotenza a livello planetario, hanno individuato alcuni regimi come "rogue states", letteralmente "stati fuorilegge". I criteri tipicizzati - assenza di democrazia, non rispetto dei diritti umani, tra gli altri - sono dettati unilateralmente, e rispondono a interessi di egemonia americana sul mondo.
Noam Chomsky smonta il discorso americano denudando l'interesse geopolitico nonché il controsenso dell'esclusione di alcuni regimi dal consesso della comunità mondiale (Iraq, Siria, Libia, e non altri che risponderebbero ugualmente a quei criteri, ma hanno la "fortuna" di essere fedeli alleati degli USA); in molti casi gli Stati Uniti sembrano non considerare affatto le principali norme di diritto internazionale, ad esempio l'uso illeggittimo della forza militare al di fuori delle regole fissate dalla Carta dell'ONU.
Ed è proprio muovendo dagli eventi più prossimi, quali la tappa più recente del conflitto balcanico in Kossovo, l'annosa questione mediorientale drammaticamente attuale, o il tema del condono del debito dei paesi più poveri, che Chomsky dimostra, con la solita mole di documentazione a sostegno, come gli USA, a rigor di logica, siano l'unico stato democratico a poter legittimamente essere definito "stato fuorilegge".  
(dalla IV di copertina)

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23.11

Indice di Diario della settimana

In questo numero - giorni di guerra incerta - Gabriella Saba ricorda la sua migliore amica; distinti signori afghani discutono su Internet del loro futuro; un famoso scrittore californiano ricorda i suoi amati talebani; Francesco Piccolo racconta come, seguendo il metodo Strasberg, è riuscito a diventare un uomo di destra e andare, felice, all'Usa day. Noam Chomsky spiega l'11 settembre e le ragioni di tutti. Vittorio Storaro ricorda come illuminò Apocalypse now di cui esce una nuova versione.

Lo speciale Metropolis è ancora in edicola. Ci resterà per un mese.

Come al solito, non siamo riusciti a rintracciare Osama.

Buona lettura

Il sommario della settimana
Numero 47. Da venerdì 23 a giovedì 29 novembre 2001

Caro Diario

Il buon senso
Il dottore e la contadina di Domenico Marcello

L’inchiesta vecchio stile
La mia migliore amica di Gabriella Saba
www, la parola ai pashtun di Paolo Papi
L’armata dei tank usati
di Francesco Tarabini
Quando la California ama Kabul
di Gianluigi Recuperati
Le ragioni di tutti di Noam Chomsky

Tutta la città ne parla
Una settimana di notizie da: Milano, Brescia, Archi, Assago
(ma anche i Numeri, In fondo a destra, Dietro la lavagna, l’Agenda e le Biblioteche)

I nostri inviati
Ve la do io, comunisti! di Francesco Piccolo

Vedi alla voce Cultura
Apocalypse Now, again di Goffredo De Pascale
La musica torna a Kabul di Luca Damiani

Lo spettatore esigente
Cinevisioni: La pianista di Marco Lodoli
E inoltre: Teatro, Cinema, Jazz, Rock, Danza, Edicola, Radio

Lettura
Che cosa è mai la Guerra di Zygmunt Bauman

Le recensioni
Kader Abdolah, Michela Dazzi, Stefano Benni, René Girard, Catherine Millet, Dino Azzalin, Tiziana Rinaldi Castro

Tutto il mondo ne parla
Storie e curiosità da: Iran, Paraguay, Israele, Argentina, Turchia

I nostri inviati nel mondo
La prova di Carlos Cardoso
di Paolo de Renzio
Addis Abeba e la crisi silenziosa di Anna Assumma

Un certo stile
Little Joe, il nostro Osama di Gabriele Romagnoli

Se ne sono andati
Sir Enrst Gombrich, Julio Fuentes di Andrea Jacchia

Le rubriche

Florence Nightingale, Nicola Montella, Franco Milanesi, Oliviero Ponte di Pino, Elvio Giudici, Helmut Failoni, Nicola Sani, Massimo Onofri, Laura Forzinetti, Maria Novella Oppo, Allan Bay, Alessandro Robecchi, Stefano Bartezzaghi, Elfo

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21.11

La nutella in mano agli israeliani!

articolo tratto dal quotidiano egiziano al-Akhbar (le Notizie) dell' 8 novembre scorso

أمريكا بكل غناها لاتستطيع أن تشتري راعيا فقيرا
يفضل أن يموت جوعا علي أن يأكل خبز الخيانة!


الأوروبيون أيضا لايحبون أمريكا!


السبت:

في رد فعله الاول لحادث 11 سبتمبر أعلن الرئيس بوش أن من قاموا بهذه الجريمة الشنعاء انما فعلوها حسدا لما يتمتع به الامريكيون من حرية ورخاء وأسلوب حياة.. وهو يقصد بذلك بالطبع الشعوب الفقيرة والمسلمة كأنما ليس في داخل أمريكا وخارجها من ينقمون علي السياسة الأمريكية ويكرهونها مثل تلك الشعوب.
بول كينيدي المؤرخ ومدير مركز أبحاث دراسات الامن الدولي بجامعة ييل الامريكية الشهيرة وصاحب كتاب 'صعود وسقوط القوي العظمي' الذي تنبأ فيه قبل سنوات عديدة بسقوط الاتحاد السوفيتي ومن بعده الامبراطورية الامريكية، قال في حديث لمجلة شترن انه حتي اصدقاء امريكا الاوروبيين يخشون سطوتها ويكرهون محاولتها فرض اسلوب حياتها علي الشعوب الاخري.. ويضرب كينيدي بالفرنسيين مثلا لحلفاء غربيين يرون في أمريكا خطرا مباشرا علي هويتهم وعاداتهم وتقاليدهم.. ويقول ان كثيرا من الاوروبيين لايختلفون في شيء عن الصينيين الذين يرحبون بالاستفادة بالتكنولوجيا الامريكية ولكنهم يرفضون بكل عنف القيم الامريكية.
في ألمانيا انقسم الشعب والحكومة إلي معسكرين.. رئيس الحكومة يعلن مساندته بدون تحفظ لأمريكا بينما تدين رئيسة حزب الخضر المشارك في التحالف الحكومي السياسة الامريكية التي تقتل المدنيين الابرياء في أفغانستان بكل عنف.. ومع كل يوم ومع كل قنبلة تسقط علي أفغانستان يزداد المعسكر المعادي للسياسة الامريكية والذي يضم إلي جانب الخضر الاشتراكيين واليساريين ودعاة السلام ورفض الهيمنة الامريكية.. ويتساءل تحقيق نشر بمجلة ديرشبيجل عما إذا كان العداء لامريكا ينتشر في كل مكان، وعما اذ كان التعاطف الذي ظهر في الايام الاولي بعد حادث 11 سبتمبر قد بدأ يتحول إلي غضب علي الامريكيين. وتنقل المجلة السياسية الشهيرة عن المعلق 'أولريخ فيكرت' قوله: 'ليس هناك فارق بين بوش وبن لادن..' اما مصمم الازياء المشهور ولفجانج ُوب فيقول: أنا غير آسف علي انهيار البرجين المزدوجين لمركز التجارة العالمي لانهما رمز للغطرسة الرأسمالية.
أما الاديب العالمي جونتر جراس، الحاصل علي جائزة نوبل فيقول بغضب: أمريكا المنكفئة علي ذاتها لاتدري ولاتحس ببقية العالم'.
من يحتاج إلي اعداء اذا كان هذا رأي اصدقائه فيه؟!

الشك يحيي الغرام؟


الاحد:


إلي الاخ أبوعمار..

نقلت الصحف عنك قولك انك تشك في رغبة اسرائيل في السلام.. يقولون ان الشك يحيي الغرام.. ولكن احدا لم يقل ان الشك يحيي المفاوضات.. ثم المفاوضات مع من ولماذا؟ وأين ذهبت حصيلة اكثر من عشر سنوات من المفاوضات.. مناطق ألف وباء وبقية حروف الهجاء لاتفرق بينها اسرائيل في الاختراق والاحتلال والاغتيال.
ومستوطنات وطرق التفافية ومعسكرات حربية اسرائيلية تحاصر مايسمي بمناطق الحكم الذاتي وتعيث فيها فسادا.. تأمل في أمريكا التي تسعي إلي كسب ود العرب والمسلمين في حربها لابادة الاخوة الأفغان ومع ذلك لايتورع وزير خارجيتها كولين باول ان يؤكد عمق مشاعر الصداقة والاخوة للسفاح شارون الذي يعاني من الارهاب العربي.
اتمني لو انتقلت من مرحلة الشك إلي مرحلة اليأس.. هو احدي الراحتين.. اما الراحة الاعظم فهو الموت في سبيل الله والوطن!

إلي الرئيس بوش..

نشرت صحيفة الواشنطن بوست نقلا عن تقارير مخابراتك ان اسامة بن لادن المستهدف الرئيسي من الحملة الحالية قد نجا علي مايبدو من قبضة الامريكيين وان كل جهود الايقاع به قد فشلت تماما حيث فاجأ المواطنون الافغان الفقراء المعدمون عملاء المخابرات الامريكية برفض اي مقابل مادي مقابل الارشاد عن بن لادن.
متي تدرك القيادة الامريكية انه، بعكس المفاهيم الامريكية، فليس كل شيء قابلا للبيع والشراء.. وان امريكا لاتستطيع بكل غناها ان تشتري راعيا فقيرا يفضل ان يموت جوعا علي ان يأكل خبز الخيانة!

مرور قراقوش!


الأثنين:

في مصر وحدها تنقلب الاشياء إلي ضدها.. مثلا ادارة المرور الاصل فيها تسهيل المرور والتخفيف عن المواطنين وإراحتهم.. ليس بالطبع الراحة الابدية التي توفرها يوميا لعشرات المواطنين نتيجة لانعدام الرقابة الفنية الحقيقية علي السيارات التي كثيرا ماترجع محاضر الشرطة حوادثها القاتلة إلي غياب المكابح (الفرامل) أو اهتراء مطاط (كاوتش) عجلاتها، بينما تركز الشرطة علي مايرون من خدوش في طلاء السيارة باعتبار ذلك مخالفة لشروط الامن والمتانة تستدعي سحب الترخيص!
اذا أضفنا إلي ذلك 'سيرك' الكمائن الثابتة والمتحركة للتفتيش علي تراخيص السيارات والتي تساهم بقوة في خنق 'وزرزرة' المرور المختنق بطبيعته بدلا من استخدام الوسائل التي تستخدمها الدول المتقدمة وغير المتقدمة من لصق طابع المرور الدال علي صلاحية الرخصة علي زجاج السيارة لرأينا مثالا آخر علي اسلوب المرور في 'التنكيد' علي المواطنين.. وللامانة فإن ادارة المرور تمتاز بالابتكار في وسائلها في وقف حال المرور والمواطنين.. آخر هذه الابتكارات هو التحديد الجغرافي لسيارات الاجرة بحيث لايسمح لسيارة من محافظة بالدخول إلي محافظة اخري.. هذه القضية التي عرضها. برنامج رئيس التحرير المتميز حمدي قنديل في الاسبوع الماضي وتستحق متابعة اعلامية لايقاف هذا القرار القراقوشي الفريد من نوعه.. هل من المعقول ان يمتنع سائق سيارة اجرة القاهرة عن نقل عائلة قاهرية للنزهة في القناطر الخيرية 'مثلا'؟ وماذا يفعل سائق اجرة منوفي أو شرقاوي استغاث به مواطن لنقل ابنه أو زوجته إلي واحد من مستشفيات القاهرة الكبري؟ هل يلقي به علي حدود المحافظة، حتي لاتسحب رخصته، ويتركه للمقادير في صورة سيارة قاهرية يتصادف وجودها علي الجانب الآخر للحدود أو لعزرائيل كبديل اخير؟!
بامانة أحب ان اعرف اسم العبقري الذي توصل إلي هذه الفكرة الرائعة التي تعيد مصر بضعة آلاف من السنين قبل ان يوحد مينا (نارمر) الوجهين، بل ربما اعادها إلي العصر الحجري عندما كانت ألف وجه!
في البداية قالوا هذا النظام يحمي القاهرة من ازدحام سيارات الاقاليم بها.. فهل يخشون الآن ان تزدحم الاقاليم بسيارات القاهرة؟!
عندي اقتراح متواضع أقدمه لادارة المرور بمنطق تخفيف القضاء اذا لم يكن من الممكن دفعه وذلك بانشاء مناطق حرة أو مناطق حرام (NO-- MANS LAND-- ) يجري فيها تبادل اسري المرور من المواطنين بين سيارات الاجرة علي حدود المحافظات ويمكن بالطبع لادارة المرور انشاء اكشاك في هذه المناطق تتولي اصدار فيزات (أقصد تصريحات مؤقتة) للسيارات للعبور إلي الدويلات (أقصد المحافظات) المجاورة، بدلا من النظام المعمول به حاليا والذي يلزم السائق باضاعة يوم كامل في ادارات المرور المركزية لو اضطرته الظروف إلي اختراق سور برلين. أقصد سور المحافظة.. وسلم لي علي المترو أقصد المرور!!

واستقال الغضبان!


الأثنين:

عادة يشعر الانسان بالرضا عندما تتحقق توقعاته خيرا أو شرا . صدقوني انني حزنت مؤخرا عندما صح ماتوقعته واستقال الغضبان.. بدأت القصة منذ عام عندما جاءني الصديق الاعلامي الكبير السيد الغضبان يستشيرني في عرض قدم له للعمل مستشارا بمدينة الانتاج الاعلامي.. قلت له رأيي بصراحة.. هذا العرض يضعك في مأزق. أنت لاتستطيع رفضه لانه دعوة لك لاصلاح المعوج وتنفيذ أفكارك الكثيرة لاصلاح حال المدينة من العيوب والمثالب التي طالما عرضتها في مقالات بمختلف الصحف لتتحول بالفعل إلي مدينة للانتاج الاعلامي وليس الخراب الاعلامي.. والمساهمة في ذلك واجب قومي فرأسمالها بعضه مملوك للدولة وبقيته لمساهمين مساكين خدعهم اعلام كاذب فوضعوا تحويشة العمر في بئر ليس له قاع وليس مغارة علي بابا المملوءة بالذهب والجوهر.. المشكلة ان هذه المدينة بتخطيطها وادارتها غير قابلة في رأيي للاصلاح.. ولن تفلح أنت ولاغيرك. من أصحاب النوايا الحسنة في تغيير اي شيء فيها.. لقد حصل من أنشأوا هذه المدينة علي كل مايريدون منها وليست لهم مصلحة في تغيير الوضع القائم.. أما المساهمون المساكين المخدوعون فلهم الله.. ومع ثقتي الكاملة بصدق نوايا من دعاك للعمل بهذا المنصب فأنا واثق ايضا انك لن تتمكن من عمل تغيير حقيقي وانك لن تجد تعاونا من احد وستجد انك تخبط رأسك في الصخر وساعتها ستيأس وتستقيل.. ألم أقل لكم أني حزين لاستقالة الغضبان! 

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21.11

Ovvero, come Mario Borghezio è diventato un buono   

Miguel Martinez   19 novembre 2001       

Mario Borghezio è certamente uno dei più apprezzati crociati d'Italia, perennemente ospite di show televisivi. Il suo curriculum sembra impeccabile: infatti, lui può dimostrare di essere stato un Occidentale a tutti gli effetti molto prima dell'11 settembre. Lo scorso 15 febbraio, La Repubblica ha citato un suo violento attacco contro il comico Luttazzi, reo di aver definito Sharon un criminale di guerra:     

"Il 'solito' [Luttazzi] ha reiterato ieri, con sguardo pieno di compiaciuta e festosa ironia, le feroci battute anti-israeliane, di cui aveva già dato prova in precedenza, con accenti quasi antisemiti. In questa occasione però si evidenzia anche la gravissima inopportunità rappresentata dal fatto che, nelle stesse ore, le tv ci hanno portato in casa le immagini sconvolgenti della più grave strage compiuta nei Territori a danno di civili e militari israeliani".

  E in effetti, Mario Borghezio fa del suo meglio per essere un piccolo Sharon.  Nel '93 ha preso una multa di 750.000 lire per aver picchiato un bambino marocchino. Non sarà proprio la strage di Sabra e Shatilla, ma la buona volontà indubbiamente c'era. Tempo fa Borghezio si è guadagnato un bel po' di pubblicità disinfettando i sedili sul treno Milano-Torino dove si erano sedute alcune prostitute nigeriane (i cui clienti, fino a prova contraria, erano certamente dello stesso colore e intelligenza dell'onorevole). Disinfettanti, spray e gas hanno un particolare fascino per l'eurodeputato ed ex-sottosegretario della Repubblica italiana. Nell'interessante pubblicazione Il paese dei campi, apprendiamo come durante un comizio di Borghezio a Voghera, i sostenitori della Lega Nord abbiano dimostrato tutta la loro abilità letteraria, recitando ad alta voce da un volantino quella che loro chiamavano «la preghiera dello zingaro». Il testo dice:     

"Un bel milione dacci al mese, tanto il Comune non ha altre spese, dacci una casa con priorità, perché siam nomadi ma restiamo qua, non vorremmo però essere "gasati" dai Vogheresi oggi un po' incazzati."

 Quindi chi meglio di lui può rappresentare il punto di vista ufficiale della Lega alla commissione Esteri del Parlamento europeo in occasione del dibattito sugli attentati negli Usa? Citando le immagini della CNN viste mille volte, Borghezio ha commentato:  

"Le manifestazioni di giubilo in Medio Oriente hanno trovato eco immediata in consimili esternazioni, come già in passato in occasione di altri atti criminali dei fanatici islamici, nei centri religiosi e nelle moschee siti nei Paesi europei. [...] Ora non è più questione di fare come Ponzio Pilato di fronte al fanatismo islamico presente ed attivo anche nei nostri Paesi. Pensiamoci ed interveniamo, prima che sia troppo tardi."  

 Poco dopo, come riferisce La Padania dell'8 novembre 2001, Borghezio ha trovato un nemico degno di lui: il musulmano scozzese di Ofena in provincia dell'Aquila, che - come raccontiamo altrove - aveva costituito assieme a un unico seguace e con il potente aiuto di Bruno Vespa il "Partito Islamico Italiano:"   

Mario Borghezio, deputato europeo della Lega, prende spunto dall’apparizione in televisione dell’esponente islamico Adel Smith per sollecitare lo scioglimento “subito del nuovo partito islamico in Italia». Smith, che Borghezio ricorda essere stato ospite di Porta a Porta dopo aver promosso una controversa manifestazione il 14 ottobre a Milano, è «leader indiscusso di un neonato movimento di musulmani italiani» che «si ispira alle vedute del più intollerante fanatismo religioso islamico. Ritengo che, in base ad un ben fondato principio di precauzione, il governo, prima che la propaganda di questo nuovo partito islamico diffonda in Italia messaggi che attizzino il fanatismo presso le comunità islamiche, debba immediatamente intervenire per precludere ogni attività ed esternazione propagandistica».

 Prima di soccombere alle risate, il lettore dovrebbe sapere che Mario Borghezio proviene dal Movimento Politico Ordine Nuovo, un'organizzazione messa fuorilegge con decreto di scioglimento nel novembre del 1973. Insomma, più o meno ciò che Borghezio si auspica succeda al minipartito di Smith. 

Infatti il passato di Borghezio non è proprio così limpidamente occidentale come ci vorrebbe far credere. Nulla di male, ovviamente - se lui non avesse fatto della più intransigente intolleranza occidentalista la propria missione. 

Ecco un interessante brano tratto da un articolo comparso sul numero di ottobre 2001 di Orion. Orion è una rivista che circola da molti anni in ambienti critici provenienti dalla diaspora del neofascismo italiano. Ci si trova di tutto - da articoli molto intelligenti a smaccate commemorazioni nostalgiche, passando per scritti di cattolici, di pagani e persino di un Testimone di Geova. A smistare questo improbabile traffico, un piccolo editore milanese, Maurizio Murelli. All'età di diciotto anni, Murelli, uscito da poco da una difficile adolescenza di abbandono in un collegio e che frequentava pessime compagnie, partecipò a uno scontro con la polizia in cui Vittorio Loi, figlio del famoso pugile Duilio, uccise un agente di pubblica sicurezza. Murelli fu condannato a molti anni di carcere per "concorso morale in omicidio colposo": nello sbrigativo linguaggio dei media è così diventato un "terrorista" e un "assassino", etichette ripetute di generazione in generazione da articolisti frettolosi. 

Pur trovandomi lontanissimo dalle idee di Murelli, mi sembra giusto dire che il giornalismo cialtrone e complottista gli ha addossato troppe colpe. Umanamente legato agli ambienti neofascisti da cui non sembra potersi distaccare, è una persona che ha però indubbie qualità personali. Indipendente da ogni vincolo di interesse o di gruppo, è anche completamente esente dal germe del razzismo così diffuso in quei mondi. Sa rispettare chi non è d'accordo con lui e sa anche riconoscere quando è giusto cambiare idea, e non certamente per seguire qualche moda. 

Ecco quanto scrive Murelli a proposito di Borghezio ("Occidente: fronte infame", Orion, ottobre 2001, p. 3):   

Un personaggio stomachevole che riempie sempre più spesso il video è l'onorevole padano Mario Borghezio, che oggi fa della guerra al terrorismo e all'Islam la sua bandiera di lotta. Un altro che ha fatto presto a cambiare cavallo. 

Il lettore deve sapere che tra il 1985 e il 1990 l'onorevole Borghezio era ospite a casa mia praticamente tutte le settimane. Fu l'ideatore di "Orion-finanza" (supplemento a "Orion"). Allora io passavo per terrorista e più di me passava per terrorista Claudio Mutti che amorevolmente Borghezio soprannominava "Muttim" e della cui amicizia, fin dai tempi di "Giovane Europa", menava vanto. 

Dunque, oltre a frequentare amabilmente me, Salvatore Francia (più volte accusato di essere il terrorista numero uno di "Ordine Nuovo"), Adriana Pontecorvo (sempre di "Ordine Nuovo" e nei cui uffici bivaccava) e Oggero di Carmagnola (che stampava una rivista intitolata, ma guarda un po', "Jihad"); oltre ad accompagnarsi a sedicenti "colonnelli" del fantomatico Stato del Sahara Occidentale Spagnolo; oltre ad essere stato accusato lui stesso di atti terroristici (e, mi pare di ricordare, processato) per una lettera anonima della "Falange armata" inviata all'allora giudice di Torino Violante; ebbene, a parte queste "pericolose" ed "equivoche" frequentazioni ciò che lo contraddistingueva era la sua ideologia ferocemente antiamericana e soprattutto antigiudaica. 

Oggi, e cito lui perché è il più insopportabile nei suoi atteggiamenti provocatori e mistificatori da "bassa lega", è diventato - come molti altri - campione dell'intransigenza anti-islamica.

 L'aspetto più infame di questo nuovo ammiratore di Bush e Sharon è a mio avviso la maniera in cui si è costruito una carriera conducendo la più facile delle Crociate, quella contro i Rom. Sempre dal prezioso studio Il paese dei campi, apprendiamo che:   

Il 92% dei 1.521 bambini interrogati dall'IRES del Piemonte hanno dichiarato, senza aver ricevuto nessuna indicazione, che hanno paura degli zingari «perché rapiscono i bambini».

 Non è certo difficile trovare voti in una società che crede, quasi in blocco, a simili panzane. Ma è tragico pensare che politici che sfruttano gli aspetti più oscuri della psiche collettiva siano poi in prima fila nel pretendere di dare lezioni di civiltà al resto del mondo. Usando le armi più atroci mai inventate per imporsi su chi non vuole ascoltare. 

www.kelebekler.com 

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23.11

Le lettere che non ti ho scritto di Nizar Qabbani 

Marco 

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21.11

Ipocrisia, odio e guerra al terrorismo

The Independent
8 novembre 2001

Ipocrisia, odio e guerra al terrorismo
Se gli attentati contro gli USA fossero un assalto ad una "civiltà", perché
i musulmani non dovrebbero considerare l'attacco all'Afganistan un attacco
all'Islam?


Robert Fisk

"Campagna aerea"? "Coalizione di forze"? Per quanto ancora dovremo
sopportare queste menzogne? Non esiste alcuna "campagna" - un mero
bombardamento aereo del paese più povero e distrutto del mondo da parte
della nazione più ricca e avanzata. Nessun MIG è portato in cielo per dare
battaglia ai B-52 o agli F-18 americani. La sola munizione che si leva in
aria sopra Kabul proviene dai cannoni russi della contraerea prodotti
attorno al 1943.

"Coalizione"? Alzi la mano chi ha visto la Luftwaffe nei cieli sopra
Kandahar o la forza aerea italiana o quella francese sopra Herat. O anche la
forza aerea pakistana. Gli americani bombardano l'Afganistan con l'aggiunta
di pochi missili britannici. Proprio una "coalizione".

Poi c'è la "guerra al terrore". Quando andremo a bombardare la penisola
Jaffna? O la Cecenia - che abbiamo già abbandonato nelle mani sanguinarie di
Vladimir Putin? Mi sembra anche di ricordare un'imponente auto-bomba
terrorista che esplose a Beirut nel 1985 - diretta a Sayed Hassah Nasrallah,
la guida spirituale degli Hezbollah, che ora sembra essere tornato sulla
lista dei bersagli di Washington - e che mancò Nasrallah ma uccise 85
innocenti civili libanesi. Anni dopo, Carl Bernstein rivelò in un suo libro,
"Veil", che la CIA stava dietro quella bomba, dopo che i sauditi si erano
dichiarati disposti a finanziare l'operazione. E allora il presidente Bush
darà la caccia agli assassini della CIA che vi furono coinvolti? Col cavolo.

E allora perché diavolo tutti i miei amici della CNN e di Sky e della BBC
stanno blaterando di "campagna aerea", "coalizione di forze" e della "guerra
al terrore"? Credono che i loro spettatori credano a queste stupidaggini?

Certamente i musulmani no. In realtà non occorre passare molto tempo in
Pakistan per rendersi conto che la stampa pakistana fornisce un resoconto
molto più veritiero e bilanciato della "guerra" - pubblicando articoli di
intellettuali locali, storici e scrittori dell'opposizione assieme ai
commenti dei talebani e alle dichiarazioni a favore del governo così come le
analisi delle agenzie stampa occidentali - che non il New York Times; e
tutto questo, si ricordi, in una dittatura militare.

Si devono solo passare alcune settimane in Medio Oriente e nel subcontinente
per rendersi conto del perché le interviste a Tony Blair su al-Jazeera e al
Larry King Show non sono montagne. As-Safir, quotidiano di Beirut, pubblicò
un editoriale largamente apprezzato in cui si domandava perché un arabo che
volesse esprimere la rabbia e l'umiliazione di milioni di altri arabi fosse
costretto a farlo da una grotta in un paese non arabo. L'implicazione,
naturalmente, era che questa - piuttosto che i crimini contro l'umanità dell
'11 settembre - fosse la ragione reale della determinazione americana a
liquidare Osama bin Laden. Di gran lunga più convincente è stata una serie
di articoli nella stampa pakistana sul trattamento oltraggioso riservato ai
musulmani arrestati negli Stati Uniti nel corso del dopo-attentato.

Uno di questi articoli dovrebbe bastare. Titolato "Diario di una vittima dei
crimini d'odio", in The News of Lahore, descriveva a grandi linee le
disavventure di Hasnain Javed, arrestato in Alabama il 19 settembre con il
visto scaduto. Imprigionato in Mississippi, fu picchiato da un prigioniero
che gli ruppe anche un dente. Poi, molto tempo dopo che aveva suonato l'
allarme per il secondino, altri uomini lo picchiarono contro un muro con le
parole: "hey bin Laden, questo è il primo round. Ce ne saranno 10 come
questi." Ci sono decine di storie come queste nella stampa pakistana e la
maggior parte di esse appare essere vera.

Ancora una volta, i musulmani sono stati oltraggiati dall'iporcrisia del
supposto "rispetto" occidentale per l'Islam. Ma abbiamo già annunciato al
mondo che non sospenderemo le operazioni militari in Afganistan durante il
mese di digiuno sacro del Ramadan. Dopo tutto, il conflitto Iran-Iraq tra il
1980 ed il 1988 continuò anche durante il Ramadan. E così i conflitti
arabo-israeliani. Abbastanza vero. Ma allora perché il mese scorso facemmo
mostra il primo venerdì dopo l'inizio dei bombardamenti di sospenderli per
"rispetto" per l'Islam? Perché eravamo più rispettosi allora che ora? O
perché - rimanendo i talebani tuttora integri - abbiamo deciso di
dimenticarci del tutto del "rispetto"?

"Riesco a capire perché vogliate separare bin Laden dalla nostra religione",
mi disse un giornalista di Peshawar pochi giorni fa. "Chiaramente volete
dirci che non si tratta di una guerra di religione, ma Robert, per favore,
smettete di dirci quanto rispetto avete per l'Islam".

C'è un'altro argomento fastidioso che sento in Pakistan. Se, come Bush
afferma, gli attacchi su New York e Washington erano assalti alla
"civilizzazione", perché i musulmani non dovrebbero considerare l'attacco
all'Afganistan una guerra all'Islam?

I Pakistani hanno rapidamente individuato l'ipocrisia degli Australiani. Non
vedendo l'ora di entrare nello scontro contro bin Laden, gli Australiani
hanno spedito truppe armate per scacciare con la forza rifugiati afgani allo
stremo dalle loro acque territoriali. Gli Australiani vogliono bombardare l'
Afganistan - ma non vogliono salvare gli Afgani. Il Pakistan, bisognerebbe
aggiungere, ospita due milioni e mezzo di rifugiati. Non c'è bisogno di dire
che questa discrepanza non trova granché spazio sui nostri canali via
satellite. Infatti, non ho mai avvertito tanta rabbia diretta ai giornalisti
come nelle passate settimane in Afganistan. Né sono sorpreso.

Cosa, dopo tutto, ci si aspetta che facciamo del cosiddetto giornalista
liberale Geraldo Rivera che si sta spostando a Fox TV, un canale di Murdoch?
"Mi sento più patriota che in qualsiasi altro momento della mia vita,
desideoso di giustizia o forse solo di vendetta", ha annunciato questa
settimana. "E questa catarsi che ho attraversato mi ha spinto a rivedere ciò
che faccio nella vita". Questa è roba veramente agghiacciante. Un
giornalista americano rivela che forse è "desideroso  di vendetta".

Infinitamente più vergognose - e immorali - sono state le parole disgraziate
che Walter Isaacson, capo della CNN, ha rivolto al suo staff. Mostrare la
miseria dell'Afganistan avrebbe fatto correre il rischio di far pubblicità
alla propaganda del nemico, disse. "Sembra ingiusto concentrarsi così tanto
sugli incidenti e sulla sofferenza in Afganistan... dobbiamo parlare di come
i talebani stanno usando scudi umani e di come stanno ospitando i terroristi
responsabili di aver ucciso quasi 5 mila innocenti".

Isaacson è stato un boss privo di immaginazione della rivista Time ma queste
recenti parole danneggeranno la CNN molto più di tutto quanto sia successo
nel campo dei media negli ultimi anni. Ingiusto? Perché ingusto? Perché
contano così poco le vittime afgane per la compassione di Isaacson? O sta
forse solo seguendo le linee definite a suo beneficio qualche giorno prima
dal portavoce della Casa Bianca, Ari Fleischer, che annunciò portentosamente
alla stampa a Washington che di questi tempi "bisogna vedere bene ciò che si
dice e vedere ciò che si fa".

Non c'è bisogno di dire che la CNN ha interiorizzato la richiesta del
governo USA a non trasmettere le parole di bin Laden in toto per pericolo di
"messaggi in codice" al loro interno. Ma i messaggi in codice vengono
trasmessi ad ogni ora dalla televisione. Sono "campagna aerea", "coalizione
di forze" e "guerra al terrore".

--
Il liberismo è l'ideologia rovesciata del monopolio monetario e finanziario
che l'America impone sul resto del mondo. Comprate quello che volete, basta
che lo paghiate in dollari. Fate tutti i debiti che volete, basta che li
contraete presso una banca americana e che siano dominati in dollari.
Investite nell'industria che vi pare, basta che sia quotata a Wall Street.

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20.11

Il Belgio e Sharon

19 Novembre 2001: Il Belgio trasmette Chatila in TV. Tel Aviv protesta

Il ministero degli esteri israeliano ha duramente condannato la decisione del governo Belga di non bloccare la messa in onda del documentario della Bbc sulle responsabilita' di Ariel Sharon nel massacro di Sabra e Chatila. Responsabilita' che, sempre in Belgio, sono al centro di un procedimento giudiziario per crimini di guerra a carico dell'attuale premier israeliano. La legge belga infatti, nel caso di crimini di questo tipo, permette alla magistratura di perseguire anche cittadini stranieri che hanno commesso tali reati in un terzo paese. La polemica e' esplosa alla vigilia dell'arrivo a Tel Aviv del primo ministro belga Guy Verhofstadt, presidente di turno della Unione europea. Il premier belga incontrera' sabato a Ramallah Yasser Arafat e domenica il premier israeliano Ariel Sharon e il ministro degli esteri Shimon Peres. Il Documentario della Bbc al centro della polemica, "l'Accusato", e' stato mandato in onda in Italia, con grande professionalita' e coraggio civile, dalla sola rete via satellite "Telepiu'". Professionalita' e coraggio che invece sono mancati ai due pachidermi televisivi Rai e Mediaset, sempre in gara tra loro nel mostrarsi ossequiosi nei confronti del boia di Sabra e Chatila.

 19 Novembre 2001: Il Belgio chiede la comparizione di Sharon

Una notizia che non puo' non riempire di gioia chiunque abbia a cuore i diritti dell'uomo e la giustizia: il criminale di guerra Ariel Sharon, mandante ed ispiratore dei massacri di Sabra e Chatila, in cui furono massacrati circa 3000 palestinesi (la cifra esatta non e' mai stata conosciuta) e' stato invitato a presentarsi presso il Tribunale Internazionale Penale di Bruxelles nell'ambito dell'inchiesta sui crimini contro l'umanita' consumatisi in Libano durante l'invasione israeliana del 1982.

Il mandato di comparizione sara' in teoria consegnato dall'ambasciatore belga in Israele, Wilfred Geens. Geens ha riviato la consegna del mandato fino a quando la delegazione europea guidata dal primo ministro belga Guy Verhofstadt non avra' lasciato il Medioriente.

www.arabcomint.com

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19.11

L'ospedale dei disperati e il talebano con il computer

  Arianna Editrice <arianed@tin.it>
Corriere della Sera   Venerdì 16 Novembre 2001
 
                  LETTERA DAL FRONTE ISLAMICO
                   L'ospedale dei disperati e il talebano con il computer
                   di TIZIANO TERZANI
 

                  QUETTA (Pakistan) - Nelle conversazioni con tanti e diversi
                  tipi di musulmani in Pakistan ho notato un continuo
                  riferimento a una sorta di violenza di cui molti dicono ora di
                  sentirsi vittime. La causa? Il confronto con l'Occidente. A
                  torto o a ragione, molti percepiscono la globalizzazione come
                  uno strumento della nostra «civiltà atea e materialistica»
                  che, appunto attraverso l'espansione dei mercati, diventa
                  sempre più ricca e più forte a scapito del loro mondo. Con una
                  certa paranoia anche i musulmani più colti di questo Paese
                  vedono in ogni mossa dell'Occidente, compreso il conferimento
                  del premio Nobel della letteratura a V.S. Naipaul, un attacco
                  all'Islam. Da qui la reazione difensiva e il ricorrere
                  all'Islam come a un rifugio. La religione diventa l'arma
                  ideologica contro la modernità, vista come
                  occidentalizzazione. Per questo anche i moderati come i
                  tablighi, senza voler essere jihadi , finiscono per
                  simpatizzare con i talebani e con Osama.
                  Questo è il problema che abbiamo dinanzi: un problema che non
                  si risolve con le bombe, che non si risolve andando in giro
                  per il mondo a rovesciare regimi che non ci piacciono per
                  rimpiazzarli con vecchi re in esilio o coalizioni di
                  convenienza messe assieme in qualche lontana capitale.
                  Osama può anche venir stanato dall'Afghanistan; i talebani
                  possono anche essere sgominati e ridotti ad una forza annidata
                  nelle montagne ad alimentare una nuova guerriglia, ma il
                  problema di fondo resta. Le bombe non fanno che renderlo più
                  virulento.
                  A noi può parere strano, ma c'è oggi nel mondo un crescente
                  numero di gente che non aspira ad essere come noi, che non
                  insegue i nostri sogni, che non ha le nostre aspettative e i
                  nostri desideri. Un commerciante di tessuti di 60 anni,
                  incontrato al raduno dei missionari tablighi me lo ha detto
                  con grande semplicità: «Non vogliamo vivere come voi, non
                  vogliamo vedere la vostra televisione, i vostri film. Non
                  vogliamo la vostra libertà. Vogliamo che la nostra società sia
                  retta dalla sharia , la legge coranica, che la nostra economia
                  non sia determinata dalla legge del profitto. Quando io alla
                  fine di una giornata ho già venduto abbastanza per il mio
                  fabbisogno, il prossimo cliente che viene da me, lo mando a
                  comprare dal mio vicino che ho visto non ha venduto nulla», mi
                  ha detto. Mi son guardato attorno. E se tutta quella enorme
                  massa di uomini - l'ultimo giorno si dice fossero un milione e
                  mezzo - la pensasse davvero come lui?
                  Ero curioso. Nella folla avevo perso le tracce di Abu Hanifah,
                  ed ho chiesto a quel commerciante se potevo andarlo a trovare
                  a casa sua. Mi ha dato l'indirizzo. Veniva da Chaman, una
                  cittadina sulla linea di confine esattamente a mezza strada
                  fra Quetta, capitale del Baluchistan pakistano, e Kandahar, il
                  centro spirituale del Mullah Omar in Afghanistan. Chaman è
                  praticamente chiusa agli stranieri e l'unico modo di andarci è
                  in un convoglio scortato dalla polizia e con un permesso
                  speciale rilasciato a Quetta. È così che sono finito in questa
                  locanda.
                  Facendo la prima passeggiata per orientarmi, ho scoperto che
                  ero vicino all'ospedale della città dove ogni giorno arrivano
                  i feriti civili dei bombardamenti americani su Kandahar. E lì
                  ho conosciuto «Abdul Wasey, 10 anni, afghano, vittima di
                  missile Cruise, gamba fratturata», come dice un cartello
                  scritto a mano ed attaccato al muro scortecciato dietro il suo
                  letto sporco e polveroso. È pallidissimo e magro come
                  un'acciuga. Un mattone legato con una corda al suo calcagno
                  penzola dal fondo del letto per tenergli immobile la gamba
                  ingessata. L'altra, solo pelle ed ossa, è come il palo di una
                  granata. Abdul giocava a cricket con i suoi amici in un prato
                  quando sono stati colpiti. Gli altri sette son morti. Il padre
                  l'ha portato qui con un fratello di 14 anni che ora gli tiene
                  compagnia. Lui è tornato in Afghanistan. L'ospedale è pieno.
                  Ogni letto è una storia, ma ho sentito che la mia curiosità
                  non era benvenuta. E poi a che serve saperne di più? A che
                  serve sapere che i missili Cruise che hanno ammazzato gli
                  amici di Abdul, stroncato la gamba a lui e fatto tutti i
                  disgraziati che giacciono immobili e muti in questo sudicio
                  ospedale di provincia, raggiunto come una grande speranza alla
                  fine di una giornata di viaggio, sono caduti dove son caduti a
                  causa di una «errata impostazione del computer»? Quei missili
                  dovremmo semplicemente smettere di produrli.
                  Il convoglio per Chaman parte da Quetta, a volte sì a volte
                  no, la mattina alle dieci. L'idea è di portare un gruppetto di
                  giornalisti autorizzati al posto di frontiera, farli restare
                  al massimo un paio d'ore e poi riportarli a Quetta. I
                  pakistani non vogliono rendere troppo pubblici i tanti
                  traffici che avvengono a quel confine e si dice che
                  incoraggino i ragazzini dei campi profughi a prendere a
                  sassate i visitatori per tenerli lontani. Odio questo tipo di
                  visite guidate e, appena messo piede a Chaman, coi miei due
                  studenti, ci siamo dileguati. La popolazione era ostile e non
                  ce l'abbiamo fatta a raggiungere la casa del nostro mercante
                  di stoffe. Ci ha salvati una delle piccole ambulanze di Abdul
                  Saddar Edhi, il «santo» di Karachi, che vanno oltre la
                  frontiera a prendere i feriti. Nel pomeriggio sono riuscito ad
                  incontrare una delegazione di talebani a cui ho consegnato una
                  richiesta di visitare Kandahar il giorno dopo, ma non ho
                  potuto passare la notte a Chaman. La polizia ci ha trovati e,
                  dopo qualche calcio ai miei studenti ed un po' di diplomazia
                  da parte mia, siamo stati rilasciati.
                  Anche lì il caso ci ha dato una mano. Stavamo tornando a
                  Quetta, seguiti a vista da una jeep carica di commando, quando
                  la nostra macchina, proprio in cima al passo di Khojak, ha
                  forato concedendomi una sosta d'una decina di minuti e con ciò
                  una grandiosa, indimenticabile visione dell'Afghanistan e
                  della assurdità di quel che l'Occidente, con l'America in
                  testa, cerca di farci. Il sole era appena tramontato ed una
                  mezza luna diafana cominciava ad argentarsi nel cielo di
                  pastello sopra una distesa di montagne. A volte rosa, a volte
                  violette o color ocra, brulle, eppure vive, erano come le onde
                  di un oceano congelato dall'eternità. Su una vetta vicina, una
                  decina di camionisti avevano disteso i loro tappetini da
                  preghiera sulla polvere e come ritagli neri di carta contro
                  quell'immensità si inchinavano ritmicamente verso Occidente,
                  sapendo che altri milioni di musulmani in quello stesso
                  momento facevano nella stessa direzione gli stessi gesti con
                  lo stesso pensiero diretto allo stesso, indescrivibile dio che
                  li tiene tutti uniti in una comunione che a noi ormai sfugge.
                  Ripensavo alla mia ultima domenica a Firenze, dopo l'11
                  settembre, quando ho fatto il giro delle chiese giusto per
                  sentire cosa vi si diceva. Niente. Una grande delusione. Da
                  San Miniato, a Santo Spirito, a Santa Maria Novella tutti i
                  sacerdoti leggevano lo stesso passo del Vangelo, tutti
                  facevano gli stessi generici discorsi, senza un solo
                  riferimento alla vita di oggi, ai problemi e alle angosce
                  della gente per quel che sta succedendo nel mondo. Qui in
                  Pakistan ogni venerdì le moschee tuonano, a volte delirano, ma
                  con ciò legano i fedeli, dando loro qualcosa, magari di
                  sbagliato, a cui pensare, a cui dedicarsi. Da noi la Chiesa
                  preferisce ancora tacere, invece che rompere i ranghi
                  dell'ortodossia politica e far sentire con fermezza una sua
                  voce di pace.
                  Guardavo la sequenza infinita delle montagne scurirsi
                  rapidamente e mi chiedevo come potranno mai gli americani
                  trovare in quel labirinto lunare la caverna in cui si nasconde
                  Osama. Si dice che ce ne siamo almeno 8.000, ognuna con tunnel
                  lunghi a volte chilometri, con varie entrate, con vari
                  livelli. Ed anche se lo trovano? La guerra, così come è stata
                  annunciata, non finirà qui.
                  Pensata da quel passo fra le montagne l'Europa mi pareva
                  lontanissima, così come sono certo che quel che succede qui
                  pare lontano all'Europa. Eppure non è così. Quel che avviene
                  in Afghanistan è vicinissimo, ci riguarda. Non solo perché la
                  caduta di Kabul è tutt'altro che la soluzione ai problemi
                  dell'Afghanistan, ma perché l'Afghanistan «è solo la prima
                  fase». L'Iraq, la Somalia, il Sudan sono molto più vicini.
                  Che faremo quando Bush vorrà andare a bombardare là? Abbiamo
                  fatto i conti con i musulmani che vivono fra di noi e che ora
                  possono essere indifferenti alla guerra in Afghanistan, ma
                  meno quando verranno bombardate le loro case? Vogliamo anche
                  noi partecipare alle uccisioni di stile israeliano di tutti
                  quelli che la Cia deciderà di mettere sulle sue liste nere?
                  Sarebbe molto più saggio - mi pare - che ora l'Europa
                  dissentisse e che, invece di lasciare i suoi vari governi a
                  fare singolarmente la loro parte di «satelliti» di Washington,
                  si esprimesse con una sola voce ed aiutasse, da vera amica ed
                  alleata, l'America a trovare una via d'uscita dalla trappola
                  afghana. Giorni fa un giornale in lingua Urdu argomentava
                  convincentemente che i vari paesi che ora in un modo o in un
                  altro incoraggiano gli americani ad impegnarsi in Afghanistan,
                  in fondo lo fanno sperando che gli americani ci si impantanino
                  e che la loro credibilità di grande potenza venga messa in
                  discussione. Iran, Cina, Russia ed al limite lo stesso
                  Pakistan, hanno buone ragioni di risentimento contro gli Stati
                  Uniti e grandi preoccupazioni per questa nuova presenza
                  militare americana nel cuore dell'Asia Centrale. L'Europa non
                  è in alcun modo in questa posizione.
                  Allo stesso modo però l'Europa non può essere del tutto
                  indifferente alla possibilità che gli Stati Uniti perseguano,
                  dietro il paravento di questa guerra internazionale al
                  terrorismo, un progetto tutto loro per la realizzazione di un
                  nuovo ordine mondiale che persegua esclusivamente l'interesse
                  nazionale americano.
                  Il gruppo ora al potere a Washington, formato principalmente
                  da veterani della Guerra Fredda, con in testa il Segretario
                  alla Difesa Rumsfeld, fa pensare che questa tentazione possa
                  essere reale. È quel gruppo, legato fra l'altro agli interessi
                  dell'industria bellica, che ha da sempre contestato i trattati
                  per la limitazione degli armamenti ed ora ne chiede
                  l'abrogazione; è quel gruppo che ha sostenuto la necessità
                  della superiorità nucleare americana ed ha in passato detto
                  che le armi atomiche son fatte per essere usate e non per
                  restare per sempre ferme nei silos. Con la fine della Guerra
                  Fredda e la scomparsa di una vera minaccia, quell'America ha
                  visto con preoccupazione il ridursi progressivo della spesa
                  militare Usa ed ha fatto di tutto per identificare un nuovo
                  nemico che giustificasse il rottamaggio dei vecchi armamenti e
                  la produzione di tutta una serie di nuovi sistemi bellici
                  «intelligenti» per il campo di battaglia tecnologico del
                  ventunesimo secolo. Un primo candidato a questo ruolo di
                  «nemico» è stata la Corea del Nord, finché non si è scoperto
                  che il paese moriva letteralmente di fame ed era molto
                  improbabile che si mettesse a sfidare la potenza americana.
                  Poi è stata la volta della Cina, ma è risultato difficile
                  sostenere che Pechino potesse minacciare più che l'isola di
                  Taiwan, visto che non ha ancora neppure un bombardiere a lungo
                  raggio. A questo punto è spuntata l'ipotesi dell'Islam,
                  «nemico» contro cui difendersi nell'appena inventato «scontro
                  di civiltà».
                  Il massacro dell'11 settembre ha reso quel nemico estremamente
                  credibile ed ha permesso all'America di varare tutta una
                  politica che sarebbe stata altrimenti inaccettabile. Il nemico
                  è stato ora identificato nei «terroristi» ed il processo di
                  demonizzazione nei confronti di quelli che Washington
                  definisce tali è cominciato. I primi a farne le spese sono
                  stati i talebani ex mujaheddin ed Osama Bin Laden creature
                  loro stesse, non va dimenticato, dell'America quando questa
                  aveva bisogno di loro per combattere l'Unione Sovietica.
                  L'Europa non può seguire, senza una pausa di riflessione,
                  l'America su questa strada. L'Europa deve rifarsi alla propria
                  storia, alla propria esperienza di diversità al fine di
                  trovare la forza per un dialogo e non per uno scontro di
                  civiltà.
                  La grandezza delle culture è anche nella loro permeabilità.
                  Basta non affrontarsi a colpi di aerei carichi di civili
                  innocenti e di bombe sganciate, seppur per sbaglio, su chi non
                  è responsabile di nulla. Anche dei fondamentalisti islamici
                  come i talebani possono, pur a loro modo, cambiare. Fossero
                  stati riconosciuti come il governo legittimo dell'Afghanistan
                  nel 1996 quando presero il potere, forse le statue di Bamyan
                  sarebbero ancora al loro posto e forse ad Osama Bin Laden non
                  sarebbe stato steso il tappeto rosso. Anche i talebani vivono
                  nel mondo e debbono, a loro modo, adattarvisi.
                  Quando sono andato al consolato afghano di Quetta per
                  sollecitare la mia domanda del visto per Kandahar, il
                  diplomatico talebano che mi ha ricevuto aveva sulla scrivania
                  un bel, moderno computer. Forse guardava in Internet le ultime
                  notizie sul suo paese per indovinare quanto ancora sarebbe
                  rimasto al suo posto, ora che Kabul è caduta.
                  Tornando alla locanda, mi fermo all'ospedale a salutare Abdul
                  Wasey. Il corridoio è affollato di afghani appena arrivati con
                  nuovi feriti. Nel letto accanto a quello di Abdul c'è ora un
                  uomo sulla cinquantina col ventre squarciato da una scheggia.
                  Mi vede entrare e dare ad Abdul due cose che ho portato.
                  Raccoglie faticosamente il fiato ed urla: «Prima vieni a
                  bombardarci, poi a portarci i biscotti. Vergogna».
                  Non so cosa fare. Cerco dentro di me delle giustificazioni,
                  delle parole da dire. Poi penso ai soldati francesi, tedeschi
                  ed italiani che presto si uniranno a questa guerra e mi rendo
                  conto che, alla fine di una vita in cui ho sempre visto feriti
                  e morti fatti da altri, mi toccherà ancora a vedere, in questo
                  ospedale o altrove, le vittime delle mie bombe, delle mie
                  pallottole. E mi vergogno davvero.
                        © Corriere della Sera

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18.11

 

Miguel Martinez

Tre notizie dal mondo. Tutte e tre riguardano la libertà.

La prima. Alcune donne di etnia tajik a Kabul hanno potuto togliersi
l'antipatico costume tradizionale delle donne pashtun, la burqa, provando
la sensazione del gelido sole invernale sul loro viso per la prima volta in
diversi anni.

La seconda. La sede di Kabul dell'unica emittente libera del mondo arabo,
al-Jazeera, è stata distrutta con un missile statunitense dopo la fuga dei
Taliban, mentre il corrispondente a Washington della stessa emittente,
cittadino statunitense, è stato arrestato senza alcuna accusa formale.

La terza notizia. Con una direttiva presidenziale e senza consultare il
Congresso degli Stati Uniti, Bush ha ufficialmente abolito tutti i diritti
umani e civili nel mondo.

Se non siete al corrente di quest'ultimo fatto, probabilmente non è colpa
vostra. Mentre la prima riguardante le donne tajik di Kabul è la notizia
sui quotidiani e nei telegiornali, la seconda ha meritato solo qualche
accenno qua e là. La terza non viene menzionata alla televisione; che io
sappia, ne parla unicamente un articolo alla pagina 17 della Repubblica del
15 novembre.

Ora, quando sento qualcuno che dice una frase di quel tipo - parlando di
abolizione complessiva dei diritti umani nel mondo - tendo a pensare che
stia gridando al lupo: cose simili le dice Berlusconi ogni volta che
qualcuno si permetteva di sbirciare nei suoi conti, mentre Pannella lo fa
anche senza motivo.

Quindi giudicate voi.

Bush dichiara guerra al mondo 

Con una direttiva presidenziale, Bush ha istituito tribunali militari che
possono agire ovunque nel mondo contro cittadini stranieri; tribunali che
decidono loro stessi cosa costituisce una prova e che sono liberi di
comminare condanne a morte a volontà. Spiega il vicepresidente Dick Cheney,
gli stranieri sospettati "non meritano le stesse garanzie e protezioni che
si assicurerebbero a un cittadino americano in un normale processo
giudiziario." [2]

Ecco come Maurizio Ricci, sulla Repubblica, [3] descrive gli effetti della
direttiva:

[inizio citazione]

"L'iniziativa non è, infatti, limitata alle attività di Al Qaeda e, messa
insieme alle serie di innovazioni decise, nelle settimane successive agli
attentati dell'11 settembre, crea una situazione storicamente inedita.
Sulla base delle modifiche legislative e amministrative degli ultimi mesi,
infatti, è possibile che un cittadino (italiano, libanese, cipriota) venga
sottoposto a sorveglianza, il suo telefono e la sua posta elettronica
controllati, da agenti americani, i quali si convincono, non che sia un
terrorista, ma che abbia coscientemente ospitato o protetto un terrorista,
non necessariamente un adepto di Al Qaeda. La persona in questione viene
arrestata, presumibilmente con il concorso della polizia locale, e tradotta
negli Stati Uniti. Il suo arresto non è pubblico, la detenzione indefinita,
i contatti con i difensori limitati, se non vanificati. Poi viene
sottoposto a processo militare segreto, a prescindere dalla sua
cittadinanza (basta che non sia americano) e dal paese in cui è stato
commesso il delitto di cui è imputato. E viene condannato a morte a
prescindere dal fatto che la sentenza capitale esista nel paese in cui è
cittadino, nel paese in cui è stato commesso il delitto, nel paese in cui è
stato arrestato."

[fine citazione]


La sostanziale differenza con i sistemi adoperati dai grandi regimi
totalitari consiste nel fatto che queste azioni si applicano solo agli
stranieri, alla faccia di ogni forma nota di diritto internazionale o di
convivenza tra popoli.

Non è facile immaginarsi una violazione così straordinaria di ogni
principio su cui si fonda, nel suo aspetto migliore, l'Occidente. E' una
sorta di dichiarazione di guerra al mondo intero. Italia compresa.


--"Sterminare completamente i Sioux"--

Esiste un precedente storico per l'azione di Bush. Thomas DiLorenzo [4], un
conservatore americano che però crede ancora al diritto, racconta di come
fu commessa la più grande esecuzione di massa nella storia statunitense.

[inizio citazione]

"Nel 1851, gli indiani Sioux Santee avevano venduto 24 milioni di acri di
terra al governo federale per la somma di $1.4 milioni di dollari.
Nell'agosto del 1862, migliaia di coloni bianchi continuavano a riversarsi
sulla terra, anche se nulla era ancora stato pagato ai Sioux Santee.
Quell'anno, il raccolto fu molto povero e gli indiani erano ridotti alla
fame. Il governo di Lincoln si rifiutò di pagare loro il denaro dovuto,
violando ancora una volta un trattato e i Sioux colpiti dalla carestia si
ribellarono.

Seguì una breve 'guerra'. Lincoln mise uno dei suoi generali preferiti,
John Pope, in alla testa delle forze federali nel Minnesota. Pope annunciò,
'il mio scopo è di sterminare completamente i Sioux...  Vanno trattati come
pazzi o come bestie selvagge, non come un popolo con cui sia possibile fare
un trattato o arrivare a un accordo.' [.].

 I Sioux Santee furono sopraffatti dall'esercito federale nell'ottobre del
1862. Il generale Pope teneva in cattività centinaia di uomini, donne e
bambini, considerati  prigionieri di guerra. Gli uomini venivano tutti
mandati nei fortini, dove si svolsero 'processi' militari, ciascuno della
durata di circa dieci minuti, come racconta David A. Nichols nel suo libro
Lincoln and the Indians. Furono tutti trovati colpevoli di omicidio e
condannati a morte, anche se c'era un'evidente mancanza di prove e non fu
loro data nemmeno la parvenza di una difesa adeguata. La maggior parte fu
condannata a morte semplicemente perché erano presenti in una battaglia,
durante una guerra dichiarata (da parte degli indiani).

 Le autorità politiche del Minnesota volevano che l'esercito federale
mettesse subito a morte tutti e 303 condannati. Lincoln era però
preoccupato che l'esecuzione di tante persone, in circostanze simili,
avrebbe potuto suscitare le critiche delle potenze europee, che all'epoca
minacciavano di sostenere la causa Confederata nella guerra civile. Lincoln
arrivò a un compromesso: ridusse l'elenco dei condannati a 39, promettendo
però ai politici del Minnesota che l'esercito federale avrebbe poi ucciso o
cacciato tutti gli indiani dallo Stato."

[fine citazione]


Le esecuzioni di allora ebbero luogo tutte insieme, il 26 dicembre del
1862. Attendiamo le prossime, che inaugureranno il Terzo Millennio.

NOTE:
[1] James Doherty, "New regime is evil, warns refugee" The Scotsman, 16
nov. '01.
[2] Peter Slevin e George Lardner, Jr, "U.S. Defends Military Tribunal
Plan: Terrorists Don't Deserve Constitutional Safeguards, Cheney Asserts"
The International Herald Tribune 16 nov. '01.
[3] Maurizio Ricci, "Corte marziale per i terroristi", La Repubblica, 15
nov. '01.
[4] Thomas DiLorenzo, America's Disgraceful History Of Military Trials
(http://www.lewrockwell.com/dilorenzo/dilorenzo9.html)

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18.11

Carocci Editore Roma
Istituto Affari Internazionali Roma
Centro Italiano per la Pace in Medioriente Milano
 
Jihad. Ascesa e declino
Storia del fondamentalismo islamico, Carocci, Roma 2001
 
da parte dell’autore, Gilles Kepel, tra i maggiori islamisti europei e docente alla Sorbona di Parigi, e di Lucia Annunziata, direttore dell’agenzia di stampa ApBiscom.
 
La presentazione avrà luogo nella sala del Refettorio del Palazzo di S. Macuto, via del Seminario 76
 
Lunedì 19 novembre 2001 alle ore 17.00
 
e sarà introdotta da Janiki Cingoli, direttore del Centro Italiano per la Pace in Medioriente, e Roberto Aliboni, vicepresidente dell’Istituto Affari Internazionali.
 
 

18.11

Dieci buoni motivi per cui nessun libanese può essere tra i terroristi dell'11 settembre
 

10. Per un libanese le 6:45 di mattina è troppo presto per alzarsi

9. Il libanese è sempre in ritardo: avrebbe perso tutti e quattro i voli

8. Sarebbe stato distratto dalle belle hostess

7. I Libanesi usano il cellulare per giocare e non certo per comunicare fra loro

6. Alcolici gratis a bordo? Al volo!

5.  L'auto trovata fuori l'aereoporto di Boston sarebbe stata una Mercedes o una BMW, non una Ford

4. Non si sarebbero mai incontrati in Afghanistan: non ci sono ragazze laggiù...forse in Svezia

3. Lo spettegolare l'uno contro l'altro gli avrebbe portati ad una mega-rissa sull'aereo

2. Diciotto libanesi non riescono ad organizzare una cena insieme, e tu pensi che possano organizzare un attacco simile?

1. Sarebbero stati troppo occupati a mettersi in tiro tra vestiti e gel nei capelli 

Issa Hajjar (libanese)

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15.11

La globalizzazione è una guerra

Apprezzamenti al n. 246 luglio-agosto 2001di "Diorama Letterario" La globalizazione è una guerra giungono dalla rivista letteraria "Pulp". A pag. 52, commentando vari testi sui fatti di Genova, Domenico Gallo vi include anche DL e scrive:

"Diorama, si sa, è una rivista che viene classificata come appartenente alla Nuova Destra. Personalmente questo numero dedicato alla globalizzazione è decisamente più condivisibile e interessante degli interventi di D'Alema, Folena, e Fassino (tanto per citare qualche politico che sarebbe più dignitoso se avesse scelto di immolarsi come scudo umano) o di qualche intelletuale polista. Probabilmente il numero è stato chiuso prima del vertice e non si sofferma sui fatti di cronaca, ma deve essere notato che l'analisi economico-finanziaria presentata non fa una grinza e non si differenzia da quelle ritenute di sinistra. Tratta dell'omologazione consumistica, della crisi del capitalismo e delinea una critica alla società statunitense in alcuni casi ambigua ma precisa e documentata.
Meglio Diorama di Limes, comunque, specialmente se avrete lo stomaco di leggere le bestialità di tal Antonio Pennacchi (scrittore?)...". Di lì una critica al mensile geopolitico.
Questi apprezzamenti non possono fare che piacere a tutti coloro che stanno cominciando a capire che certi steccati devono cadere e che il dibattito delle idee non è affatto circoscrivibile in schemi obsoleti.
A giorni sarà in libreria (anche le Feltrinelli) il n. 248, dal titolo Signornò, dedicato per metà delle 40 pp. (4.000 lire) a riflessioni sulla situazione internazionale determinatasi l'11 settembre.
 

15.11

La guerra dell'Occidente

SOLO LA NOSTRA GUERRA E' "GIUSTA"
di Massimo Fini
"Il Giorno" del 13 novembre 2001

Fino a pochissimo tempo fa per gli occidentali la guerra, cioè il conflitto
armato fra due popoli per risolvere un conflitto che non è stato possibile
comporre altrimenti, era il tabù dei tabù, era considerata blasfema, oscena,
pornografica, era stata proibita e scomunicata. Al punto turbava il nostro
cuoricino di "anime belle" che, con le budella contorte per lo spasmo della
coscienza, andavamo a fare la guerra, chiamandola "operazione di pace"
(peace keeping), per impedire quelle altrui, che in nulla ci riguardavano,
come avevamo fatto a Bassora impedendo all'Iran, che era il Paese aggredito,
di cogliere il frutto di una vittoria che aveva conquistato sul campo di
battaglia e che gli era costata un milione di morti.

Come eravamo puri. Come abbiamo fatto in Bosnia, dove tre popolazioni
avevano legittime ragioni di contendere difficilmente risolvibili
altrimenti, anche qui alterando, anzi ribaltando, il verdetto del campo, e
in qualche modo mandando nel nulla il sangue versato dalle tre parti, come
abbiamo fatto in Kosovo, dove pure musulmani e jugoslavi avevano entrambi
buone ragioni, decidendo che i serbi avevano tutti i torti, come abbiamo
fatto persino in Somalia dove siamo andati a ridurre alla ragione con un
ridicolo e spettacolare spiegamento di forze (chi può dimenticare lo sbarco
notturno dei marines americani armati, oltre che di ogni sofisticatissima
arma, di occhiali agli infrarossi per vederci al buio dei megawatt delle
televisioni occidentali convocate per l'occasione?) alcuni capi-tribù
locali, da noi definiti "i signori della guerra", che si battevano a colpi
di vecchi fucili.

Come eravamo puri, come eravamo casti, come eravamo pii, com'era delicata la
nostra coscienza e pieno di buone intenzioni il nostro cuore, ci eravamo
addirittura inventati i "diritti umanitari", sovvertendo tutte le regole del
diritto internazionale, per poter intervenire di qua e di là bombardando, in
nome della pace s'intende, questo o quello. Ma è bastato che per una volta
fossimo noi a essere colpiti, come è accaduto l'11 settembre a New York, che
la guerra ha cessato immediatamente di essere blasfema, oscena, pornografica
per ridiventare un diritto, una legittima difesa dei popoli e delle Nazioni,
e perché i nostri giornali e le nostre piazze trasudino di quella retorica
patriottica e di quel nazionalismo la cui liceità avevamo negato agli altri,
per esempio ai serbi di Jugoslavia.Ergo: la guerra è necessaria,
indispensabile, legittima solo quando la facciamo noi, per i nostri
interessi, per la nostra difesa o per i nostri ideali, se la fanno gli
altri, per i loro interessi, per la loro difesa, per i loro ideali, è
"assurda", proibita e bisogna andare subito a metterci le mani. Se nelle
nostre guerre, pardon: "operazioni di polizia internazionale" uccidiamo
civili, a centinaia di migliaia, come è avvenuto in Iraq (56 mila,
complimenti generale Schwartzkopf), o a migliaia come in Kosovo, ed ora in
Afghanistan, sono "effetti collaterali", se lo fanno gli altri sono "crimini
contro l'umanità" i cui responsabili devono essere trascinati, magari col
più odioso dei ricatti economici, davanti a Tribunali senz'ombra di
imparzialità costituiti per l'occasione, dove sediamo sempre noi, consci
della nostra purezza e della nostra superiorità morale, affidando l'accusa
al rappresentante di un Paese, molto civile e molto lindo, che vive sul
riciclaggio di denaro fatto con la droga, col traffico d'armi, con le
truffe, con gli assassinii, col mercato degli organi strappati ai bambini
del Terzo Mondo per darli ai figli malati di quello ricco.
Razza superiore. Abbiamo espropriato i popoli dell'"altro mondo" quasi di
ogni diritto, a cominciare da quello, elementare, di farsi la guerra in
santa pace, senza le nostre pelose supervisioni e sanguinose intrusioni,
riservandolo solo a noi stessi, i civili, i puri, la razza superiore.
Possiamo davvero stupirci se poi, un giorno, nasce un Bin Laden e viene
sentito, non solo nel mondo musulmano, come un giustiziere e un vendicatore
di torti?

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15.11

Lettere a il Manifesto e Liberazione
 

Gentile dott.ssa Rangeri,

 
ha ragione, la puntata di "Sciuscià" di un paio di sere fa sul bombardamento di Betlemme è stata letteralmente magistrale.
A parte i motivi per sostenerlo che Lei enumera, tutti degni di nota, io sono rimasto colpito da una reazione mancata, a quella trasmissione. Che ne è dei "cristianisti" (cioè quelli che si scoprono ferventi cristiani solo per dare addosso all'Islam) quando a sparare sugli ospedali pagati con i soldi della cooperazione italiana e addirittura sulla chiesa della Natività è l'esercito d'Israele? Eppure erano tutti pronti alla levata di scudi quando si parlò della moschea da costruire lì vicino (divide et impera).
Un silenzio imbarazzante serpeggia per le redazioni del "Giornale", del "Foglio", di "Libero" e delle altre che hanno messo le loro energie al servizio della campagna antislamica.
 
 
Gentile direttore [Sandro Curzi],
 
anch'io ho assistito alla trasmisione di sabato scorso e ricordo bene la Sua battuta sul "bacarozzolo" [l'antefatto: Curzi, a coloro che affermavano di aver visto bandiere Usa e d'Israele bruciate dai "no global", rispose scherzando che sapeva di un povero "bacarozzolo" schiacciato in Piazza del Popolo], chiarissima per qualsiasi telespettatore dotato d'intelligenza media. Mi sorprende non poco quindi, non tanto la capziosità dell'osservazione della Sig.ra Cipriani [che ha ritenuto di cattivo gusto la trovata di un Curzi "antisemita"(?)], quanto il fatto che Lei abbia ritenuto doveroso stare a precisare il significato dell'uscita scherzosa.
La scelta poi di "bacchettare" la lettrice ricordandole la prossimità della bandiera israeliana con quella di AN (io ne ho viste anche di albanesi...), ha lasciato senza parole anche uno che alle ultime elezioni ha votato RC al proporzionale. Il mio pensiero va quindi alle neanche troppo velate allusioni alle adunate di Piazza Venezia, sinceramente fuori luogo, da una parte perché la storia non si ripete mai, dall'altra soprattutto perché insistere su quel tasto non fa altro che fornire alibi alla propaganda "anticomunista" del Cavaliere e dei suoi tirapiedi, i quali onestamente non aspettano altro quando sono a corto di argomenti (come del resto il povero Bordon, che è giunto ad inventarsi contro ogni evidenza - al pari di quelli che immaginavano roghi di stars and stripes a volontà nel corteo "no global" - una penuria di tricolori italiani in Piazza del Popolo).
Così come la storia, nella sostanza, non si ripete mai, neppure l'allusione ad un 'fascismo in keppah' è a mio parere troppo azzeccato.
Se vogliamo criticare l'operato di Israele e quello dei nostri politici che votano "sì" per non perdere di vista il carro del vincitore planetario, dobbiamo analizzare Israele e l'ideologia che lo giustifica come realtà dotate di caratteristiche originali (cogliendo all'occorrenza le analogie con altre situazioni), e lo stesso dicasi per l'attuale dittatura del pensiero unico liberale alla quale, con diverse sfumature, apportano il loro contributo politici di destra, centro e sinistra.
Se avesse risposto alla lettrice chiedendole un parere sull'atteggiamento tenuto dai responsabili della comunità alla quale in qualche modo fa riferimento dopo la messa in onda degli ottimi reportage di "Sciuscià" dalla Palestina, l'avrebbe senz'altro messa di fronte ad un fatto piuttosto imbarazzante, togliendosi invece dall'imbarazzo nel quale avrebbe voluto mettere Lei.
 
Coi migliori saluti
 
Adriano Testa
 
P.S.: la foto di copertina che avete scelto oggi aveva colpito anche me, ma sa qual'era la didascalia in arabo sul sito di al-Jazira? "Cadavere di un combattente dei Taleban a Kabul dopo l'entrata dell'Alleanza". Delle due l'una: o i Taleban non erano tutti barbuti, oppure anche i cadaveri sono passati dal barbiere! Giustamente avete ricordato che la corsa dal barbiere è dettata da ben altri motivi, anche se a dir la verità, dalle immagini che ci giungono da Kabul, continuo a scorgere diverse barbe lunghe. Un mistero.

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15.11

 

13 novembre

Doha, 10:55
Guerra: Al Jazira, caccia Usa ci hanno bombardato

Aerei statunitensi hanno bombardato gli uffici a Kabul della tv satellitare in lingua araba Al Jazira. Lo ha reso noto l'emittente, che ha la sede principale nel Qatar. L'emittente ha dichiarato di aver perso i contatti fra lunedì e martedì con il suo corrispondente nella capitale afghana, Taiseer Aluni, unico reporter autorizzato dai Talibani a trasmettere informazioni dalla capitale afghana nelle ultime settimane.
Secondo Al Jazira, gli attacchi statunitensi hanno colpito non solo la sede della tv, ma anche l'abitazione di un cittadino afghano che lavorava con Aluni. Lo ha detto il corrispondente da Kandahar, Yusef Ashuli.

Doha, 16:51
Guerra: corrispondente Al Jazira lascia Kandahar

Youssef al Shouli, corrispondente dell'emittente televisiva qatariota 'al Jazira', ha lasciato questa mattina la città di Kandahar, roccaforte dei Taliban nel sud dell'Afghanistan.
Lo ha riferito la stessa emittente senza fornire precisazioni sulle motivazioni della sua partenza. "Ha fatto i bagagli ed è partito" è stato il commento laconico di 'al Jazira'.
La tv è intanto senza notizie di Taisir Allouni, corrispondente da Kabul, dopo il bombardamento dell'ufficio dell'emittente qatariota nella capitale afghana.

14 novembre

Crawford, 20:14
Al Jazira: corrispondente dagli Usa fermato da polizia

Il corrispondente da Washington dell'emittente tv qatariota 'al-Jazira', Mohammad al-Alami, è stato posto in stato di fermo dalla polizia americana mentre seguiva i lavori del vertice tra il presidente George W. Bush e il capo di stato russo Vladimr Putin in Texas.
Lo ha reso noto la stessa 'al-Jazira' con un titolo in sovrimpressione nel corso dell'intervista al finanziere italo-egiziano Joussef Nada.

 

Sbarbati anche i cadaveri?

 traduzione della didascalia in arabo: "cadavere di un combattente dei Taleban a Kabul dopo l'entrata dell'Alleanza"

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13.11

L'Islam e l'Afghanistan

L'ISLAM E L'AFGHANISTAN
di Lucio Lami

È difficile esprimere ciò che provo guardando alla televisione le montagne impervie dell'Afghanistan che, giusto vent'anni fa, scalai, senza nessuna preparazione atletica e rischiando lo sfinimento, al seguito dei guerriglieri che si battevano contro gli invasori sovietici. Settecento chilometri a piedi, da giornalista clandestino, lasciandomi alle spalle lo Zadran, affrontando le cime dei monti Sharavoze (seimila metri), attraversando l'altopiano del Logar, a sud di Gardez, per risalire fino ai monti del Wardak dopo avere costeggiato Kabul. Ricordo di essere svenuto sul Passo Naka, non per i 5000 metri d'altitudine, ma per il totale esaurimento delle mie energie. "Non svenga, altrimenti la lasciamo qui", mi dissero i guerriglieri ai quali mi ero aggregato e, non so come, proseguii fino a farmi trascinare in battaglia e a lasciarmi deporre sulle ginocchia un comandante morente.
Accenno a questi fatti lontani per dire, prima di tutto, che non ci sono truppe speciali al mondo che possano snidare il nemico su quelle montagne. Poco caritatevolmente, urlavo le mie maledizioni ai pazienti miei accompagnatori che ancora correvano dopo tappe di trenta chilometri, senza che io riuscissi a tenere il loro passo. Nelle caverne, dove ci rifugiavamo per dormire, altro non c'era che un bidone d'acqua calda per il tè. Lo bevevano mangiando pane vecchio e a loro bastava. Correvano sulle sassaie calzando sandali o galosce russe, senza ferirsi, mentre a me sanguinavano i piedi dentro i preziosi scarponi Survival.
Oggi, quando anche tutti i centri strategici dei Talebani fossero rasi al suolo, resterebbero sempre le loro bande disseminate tra i monti, probabilmente invincibili come quelle che vinsero gli inglesi e i russi. Solo gli anti-governativi del nord potrebbero venirne a capo, ma le loro sarebbero operazioni probabilmente non definitive. La caduta del governo talebano potrebbe favorire una coalizione che desse pace al paese più martoriato del mondo, ma la guerra civile riprenderebbe, com'è avvenuto dopo il ritiro dei russi, con maggior lena visto che Bin Laden ha dato a tutti gli integralisti un nemico nuovo da combattere: l'Occidente e i paesi musulmani ad esso collegati. Già vent'anni fa, durante il mio lungo viaggio al seguito di guerriglieri fedeli al vecchio re fummo spesso osteggiati dagli integralisti, che pure si battevano per la stessa causa.
All'azione militare degli anglo-americani dovrà dunque seguire un'altrettanto corale azione diplomatica ed economica se si vorrà spegnere l'incendio prima che dilaghi definitivamente ben oltre i confini afghani. L'idea di attaccare altri paesi coinvolti nel terrorismo potrebbe alimentare reazioni, come quella che sta subendo Arafat, in Algeria, in Egitto, in Libano, in Sudan, in Irak e negli stessi paesi "filo occidentali" come gli Emirati e l'Arabia Saudita.
La verità è che l'intervento contro il terrorismo è stato tardivo e lo è stato perché l'Occidente non ha mai cercato di capire l'Islam della ribellione, non ha mai voluto leggere i segnali della rivolta, non ha mai voluto capire quel che comportava la politica del petrolio.

L'ISLAM E LE SUE DEGENERAZIONI
Dire: "Combattiamo il terrorismo e non l'islamismo" è nascondersi dietro un dito. Ci sono due Islam in campo: quello moderato e quello estremista. Credere che quest'ultimo sia una novità significa non conoscere le cose. Ancor peggio è sostenere che l'Islam è incivile. Persino alcuni illustri commentatori si sono lasciati andare a queste grossolanità. E coloro che si sono trattenuti non hanno saputo che citare Averroè. L'ignoranza è diffusa.
Averroè (Abu Ali Ibn Sina) non fu che la punta avanzata della cultura araba di Cordova, ma possiamo dimenticare il suo collega Maimonide e Al Kindi di Kufa e Avicenna di Bukara e Ibn Khaldun di Tunisi, per non parlare che dei più noti geni dell'epoca d'oro?
Credo di essere uno dei rari giornalisti che hanno visitato gli ulema delle principali città sante, da Casablanca fino a Samarcanda, passando per Isphaan e Najaf. Una sera, a Rabat, Mohamed El Fassi, già membro della Commissione Araba per l'Unesco, mi spiegò con dei pezzetti di legno come gli arabi musulmani inventarono i numeri usando gli angoli. Se scrivete la cifra uno con due bastoncini si formerà un angolo. Se scrivete la cifra due con tre bastoncini si formeranno due angoli, e così via.
Naturalmente non si fermarono ai numeri. Al Khowarizmi inventò, come dice il nome, i logaritmi e l'algebra. Al Hazen scoprì le leggi dell'ottica. Al Biruni scrisse un trattato sulla rotazione della terra intorno al sole.
Quando mi recai nelle città islamiche dell'Uzbekistan mi imbattei in un sestante gigantesco col quale secoli fa gli studiosi musulmani avevano calcolato la circonferenza della luna, sbagliando di quattro centimetri rispetto ai calcoli recenti, effettuati col sussidio di strumenti elettronici.
Abu Kassis scrisse un'opera di chirurgia che servì da modello in Europa. Rhazes, il Galieleo degli arabi, inventò la medicina sperimentale. La prima accademia delle scienze fu la Casa della Saggezza, fondata a Bagdad dal califfo Al Maamun. La prima università fu fondata al Cairo nel 972.
È vero, sono fulgori lontani, ma non dimenticati. Mi diceva l'imam Khadji di Bukhara, parlando dei sufi: " La cultura islamica, coperta dalla polvere di secoli tormentosi, resta in vita grazie a noi che abbiamo salvaguardato il Libro, la lingua e la storia".
La crisi del mondo islamico viene da lontano: la stagione dei fulgori culturali si spense proprio quando l'Europa si risollevava, nell'XI secolo. Il califfato degli Omayaddi proibì il diritto alla ricerca culturale (l'ijtihad) e decise che al buon musulmano non occorrevano altri libri che il Corano. Secoli di buio. Nell'Ottocento, sugli echi della rivoluzione francese, prima, poi su quelli della rivoluzione industriale europea ci fu un vasto movimento di riscossa islamica modernizzatrice, la Nahada (il Rinascimento) che partì dall'Egitto aprendo il dibattito, tuttora in corso, sul come far convivere l'ortodossia coranica col progresso scientifico. Questo tema, durante il mio ultimo viaggio nel Maghreb, era dibattuto dai teologi algerini e tunisini con grande foga. "Come islamizzare il computer?". Un quesito affascinante al quale i folli dell'estremismo sembrano aver risposto scagliando la tecnologia occidentale contro le torri di New York. Il computer serve al grande reclutamento dei terroristi, al collegamento con le cellule sparse per il mondo, al controllo elettronico del denaro sporco.

I PRODROMI DEL TERRORISMO
Il tentativo di risolvere i drammi della miseria nei paesi musulmani, di inseguire il progresso occidentale restando nell'ortodossia (poiché "in Oriente, Dio non è morto"), la questione del petrolio e lo scontro con Israele hanno provocato negli ultimi decenni, movimenti pendolari tra rinnovamento e integralismo e anche momenti di particolare affascinazione per le soluzioni proposte dal mondo marxista che si era affacciato all'islam sin dal 1917 con Sultan Galiev, amico di Stalin (e poi sua vittima).
Il nazionalismo europeo ha ispirato l'arabismo e il panarabismo, avendo come riferimento il partito Baas costituito in Siria e Irak nel 1940, il nasserismo in Egitto, il burghibismo nel Maghreb. In contrasto con essi si è sviluppato un nuovo fondamentalismo, quello dei Fratelli Musulmani, lanciato fin dal 1928 da Hassan el Banna, ispiratore di moltissimi movimenti anti-occidentali formatisi in seguito.
L'arabismo si sciolse dopo la sconfitta di Nasser con Israele. Le commistioni col marxismo crollarono perché non trovavano terreno adatto. Mi disse un giorno Ibrahim Nugud Mohamed, capo dell'ex Partito comunista sudanese: " Ci siamo accorti presto che noi non potevamo avere una rivoluzione industriale e neppure una rinascita all'occidentale. Alla classe povera non è rimasto che il rifugio nel passato e nella religione".
Quel che includeva questo rancoroso rifugio nelle braccia dei religiosi più violenti mi fu spiegato da Al Turabi, l'uomo del potere islamico in Sudan, il protettore di tutti i movimenti terroristici, il braccio destro di Bin Laden. Mi disse, già nel 1993, a proposito delle formazioni guerrigliere che si addestravano in Sudan: " Ora l'imperialismo non ha più scudi, potremo attaccarlo senza paura".
L'Iran fu il primo stato a istituzionalizzare l'anti-occidentalismo. Quando Khomeini sali al potere, molti ignari osservatori applaudirono. Alla prima conferenza celebrativa della rivoluzione, da lui indetta nella capitale iraniana, nella quale riuscii a infiltrarmi, partecipavano gli esponenti di tutte le organizzazioni guerrigliere e terroristiche sparse dal Maghreb ai paesi islamici dell'Urss. Uno degli esponenti di spicco dell'Islamic Revolution Organisatin in The Arabian Peninsula mi mise in mano il programma del suo movimento: " Usare il terrore contro la monarchia saudita e contro gli Usa per liberare la terra santa dagli infedeli e impossessarsi del petrolio". In un altro studio, gentilmente offertomi da un secondo delegato, veniva spiegato che il nemico da colpire con la guerra santa era l'America, visto che "il regime saudita altro non era che la maschera con cui veniva legittimato l'Islam americano e truffato il mondo arabo, mentre la famiglia reale, su 14 milioni di barili di greggio venduti, ne dichiarava 9,5"
La rivoluzione islamica di Teheran assunse subito il ruolo di guida nella conquista della modernità rivoluzionaria "per staccare - si disse - il destino del mondo arabo dal diktat americano" .
Sono anni che il fuoco arde sotto la cenere. Prendersela con l'Islam nel suo insieme sarebbe ridicolo. In America latina ho visto preti col mitra in spalla alla testa di gruppi guerriglieri e ho sentito religiosi concludere l'omelia con la frase "Matar un gringo no es pecado" (Uccidere un nordamericano non è peccato). Possiamo per questo condannare il cristianesimo?
La verità è che sotto la bandiera dell'Islam sta dilagando nei paesi musulmani una rivolta che è di natura squisitamente politica. Il tentativo rivoluzionario di alcuni leaders che trascinano forti minoranze marginalizzate e che, dopo aver perso cento battaglie, hanno scoperto il terrorismo, la bomba atomica dei poveri. L'Occidente ha pigramente ignorato il contagio e si è mosso solo quando la strage di New York ha spaventato il mondo.
Adesso si combatte in Afghanistan in condizioni non facili. Una non facile vittoria non risolverebbe il problema. Il terrorismo è stato il prodotto di una predicazione finanziata da molti paesi islamici, compresi quelli "alleati" degli americani. Tutti sapevano che una parte degli introiti del petrolio finiva agli estremisti, per sottinteso consenso o per tenerli lontani dai paesi sovvenzionatori. Non sarà facile "punire anche chi ha sostenuto gli assassini". Quando l'avventura afghana sarà finita, la grande coalizione occidentale dovrà acculturarsi, dovrà prendere atto che a poco serve eliminare Bin Laden, visto che avrà a lungo dei sostituti. Bisognerà convincere i paesi arabi a bloccare i terroristi che hanno in casa. Ma per far questo sarà necessario capire una realtà tanto diversa dalla nostra, varare nuove formule diplomatiche, mettere mano alla borsa. E cercare di ascoltare.

AFGHANISTAN DOMANI
C'è da augurarsi che i Talebani vengano presto disarmati e che questo sia il frutto di una "guerra chirurgica", solo su obbiettivi militari. Perché in Afghanistan non c'è più nulla, di civile, da bombardare. L'hanno già fatto i russi. Ricordo benissimo i villaggi circondati e rasi al suolo a cannonate dai carrarmati. Ricordo l'arrivo degli elicotteri portatori di morte anche alle alte quote. L'Afghanistan è una nazione senza più risorse e senza cibo, con 500 mila orfani handicappati e con milioni di vedove che i Talebani hanno continuato a seppellire in fosse comuni. Il terreno è disseminato di mine e le fattorie sono distrutte e abbandonate. Le infrastrutture non ci sono più. I talebani sono come un parassita che si è attaccato a un corpo sfinito dopo dieci anni di guerra con i russi. Hanno sostituito l'economia agricola con quella della droga (che si conta di eliminare).
È indispensabile che l'impegno dimostrato da quasi tutti i paesi del mondo nel combattere il terrorismo si rinnovi con forza, dopo la Grande Punizione, per salvare milioni di vite. Anche questa azione sarebbe lotta al terrorismo. Soprattutto questa. Il mondo dell'economia non può non capirlo. In questa "guerra santa" l'Islam è solo usato come mastice per rivendicazioni che di religioso hanno ben poco. Ai suoi vertici ci sono ricchi radicali con ambizioni di potere.
Quanto all'Italia, sempre abilissima nel defilarsi e nell'affidare la catarsi dei problemi all'insopprimibile sbrodolìo degli intellettuali, ai cortei di chi non capisce i problemi ma li ha a cuore, e alle sarabande televisive, è sperabile che si distingua almeno in questo: nella generosità nei riguardi di chi sta in mezzo a due forze in lotta.
Non credo in certo pacifismo oltranzista e sentimentale: al punto in cui sono giunte le cose, mi sembra che non ci fossero alternative alla guerra al terrorismo, ma la guerra totale non risolverebbe il problema. Il mio pensiero non fa che riandare a certe giornate di sosta trascorse tra i monti afghani, ospite di famiglie che vivevano una vita serena, malgrado la guerra, al cospetto del più maestoso panorama del creato, in un contesto patriarcale nel quale il timor di Dio non portava a nessuna esasperazione religiosa. Un contesto che mi faceva meditare sul nostro e sul loro modo di vivere, e mi poneva interrogativi che restavano senza risposta.

(Da L'Avvenire)

MORIRE PER KABUL
Lucio Lami nel 1981 percorse da giornalista clandestino, a piedi e a cavallo, 700 chilometri sui monti dell'Afghanistan occupato dai sovietici. In seguito ha viaggiato per anni nel mondo islamico, visitando le città sante da Casablanca a Samarcanda. Ha scritto il libro Morire per Kabul, che la casa editrice Asefi/Terziaria ripubblicherà a giorni con i necessari aggiornamenti cronologici ed una esauriente presentazione dei problemi connessi con l'attuale "guerra afgana".

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10.11

La guerra empia di Cooley
 

John K. Cooley


UNA GUERRA EMPIA
la CIA e l’estremismo islamico
400 pp. / Lit. 35.000 (18,08 Euro)
ISBN 88-85060-42-0

L’OPERA
Per opporsi all’invasione sovietica dell’Afganistan, nel 1979, gli Stati Uniti strinsero una sorprendente alleanza anti-comunista con gli estremisti islamici. Cooley racconta i retroscena di questa alleanza e di come la CIA pianificò la "guerra santa" in Afganistan. Racconta come, con l’aiuto dell’Arabia Saudita, dei servizi segreti militari pakistani e persino con il coinvolgimento della Cina, vennero armati, addestrati e finanziati duecentocinquantamila mercenari islamici di ogni parte del mondo. Inoltre, con un’impressionante mole di prove, Cooley traccia le dirompenti conseguenze di quell’operazione: il trionfo dei Talibani, la diffusione mondiale del terrorismo islamico, la destabilizzazione dell’Algeria e della Cecenia, gli attentati al Trade World Center… E in tutto ciò spicca curiosamente il ruolo di Usama Bin Laden, già "protetto" della CIA ed ora "nemico pubblico numero uno".

L’AUTORE
John Cooley, giornalista e scrittore, lavora attualmente ad Atene per la ABC News. È stato per oltre 40 anni corrispondente dal Medio Oriente e dall’Africa del Nord. Ha scritto vari libri, tra cui Libyan Sandstorm: Qaddafi’s Revolution (1981) e Payback: America’s Long War in the Middle West (1991).

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10.11

L'indice di Diario della settimana

In attesa del nuovo numero speciale che si chiamerà Metropolis, Storie di città ferite (http://www.diario.it/cnt/metropolis/questonumero.htm) e uscirà venerdì 16 novembre, Diario è di nuovo in edicola.
Come sarà lo Stato palestinese, se mai ce ne sarà uno? Ha già strade, infrastrutture, burocrazia, classe dirigente? Ci sarà la pena di morte? Ci saranno libere elezioni? E quale sarà il futuro di Israele? La sinistra ritornerà a farsi sentire? L'idea del sionismo è tramontata per sempre? L'inchiesta vecchio stile è dedicata al futuro (e al presente) di Israele e Palestina, in un momento in cui molto del futuro (e del presente) del Pianeta Terra sembra dipendere da quei territori.
Enrico Deaglio da New York racconta di una città in cui le luci sembrano più basse, i rumori più fievoli, il ritmo dei passanti rallentato. Camion che trasportano macerie ancora incandescenti e una strana corsa per la poltrona di sindaco del dopo Giuliani. Una signora in aeroporto: "Ma se vogliono combattere il terrorismo perché, invece di sequestrarmi la forbicina delle unghie, non distribuiscono un coltello a tutti?"
I nostri inviati sono andati a Genova (per raccontare la truffa della European School of Economics dove si spendevano 80 milioni per un diploma fantasma), tra i venditori di hot dog di Manhattan (indiani, pakistani e bengalesi, i cui guadagni sono calati del 35% dopo l'11 settembre. Mentre in Indonesia, i McDonald's si devono difendere dagli assalti della popolazione musulmana che odia l'America e i suoi simboli). Sono andati a San Paolo (per descrivere la struttura di potere delle carceri brasiliane) e a Zara (dove il presidente Ciampi ha rischiato di provocare un incidente diplomatico con la Croazia) e a Bologna (la risposta degli operatori dei Servizio pubblico per le tossicodipendenze a Gianfranco Fini e alle sue posizioni proibizioniste).
Vedi alla voce cultura: i cent'anni di Kim di Rudyard Kipling, il fascino che ha esercitato e le accuse di razzismo e imperialismo incassate. Marco Lodoli è andato a vedere Santa Maradona di Marco Ponti e non ne è uscito soddisfatto. 1939: Annemarie Schwarzenbach, incantevole viaggiatrice tedesca, giunta alle porte di Kabul, descrive l'Afghanistan come patria dei fuggiaschi e si interroga sul destino della sua Danzica, appena invasa da Adolf Hitler.
Se ne sono andati, senza giustizia, 157 lavoratori del Petrolchimico di Porto Marghera e un vecchio arbitro, Ken Aston, che guardando un semaforo pensò per primo a usare il cartellino rosso.

Il sommario della settimana
Numero 45. Da venerdì 9 a giovedì 15 novembre 2001

Caro Diario

Il buon senso
Il pugno del pompiere di Enrico Deaglio

L’inchiesta vecchio stile
La Palestina che c’è e non c’è di Gianni Codovini
Gli inconsolabili orfani di Rabin di Gabriele Eschenazi
Sopravviverà Israele? di Amos Luzzatto
Errare ebraicum est, in parte di Ferruccio Fölkel
Un Parlamento pieno di ombre di Marina Morpurgo
«Noi, giudei perfidi e infidi» di David Bidussa

Tutta la città ne parla
Una settimana di notizie da: Roma, Mantova, Bologna, Trieste, Reggio Calabria, Milano (ma anche l’Agenda e le Biblioteche)

I nostri inviati
La laurea sono io di Enrico Ratto
La crisi da medaglia di Alessandro Marzo Magno

Vedi alla voce Cultura
Vecchio e caro Kim di Ilaria Maria Sala
Alla ricerca di papà Dutschke di Alessandra Orsi

Lo spettatore esigente
Cinevisioni Santa Maradona di Marco Lodoli
E inoltre: Cinema, teatro, rock, pop, opera, Edicola, film in tv, radio, documentario

Lettura
Giorni afghani, nell’anno 1939 di Annemarie Schwarzenbach

Le recensioni
Susan Zuccotti, Ahmadou Kourouma, Ramon Díaz Eterovic, Antonio Munoz Molina, Robin Marantz Henig, Eraldo Baldini

Tutto il mondo ne parla
Storie, notizie e curiosità da: Belgio, Germania, Russia, Indonesia, Bangladesh

I nostri inviati nel mondo
La salsiccia fa crack di Riccardo Romani
Uno Stato dentro al carcere di Giuseppe Bizzarri

Un certo stile
A ritmo di New York di Luca Damiani

Se ne sono andati
I 157 di Porto Marghera, Ken Aston di Andrea Jacchia

Le rubriche
Roberto Alajmo, Laura Pariani, Nicola Montella, Gianluigi Mattietti, Nicola Sani, Paola Damiani, Massimo Onofri, Maria Novella Oppo, Massimo Cirri, AlessandroRobecchi, Allan Bay, Eureka, Stefano Bartezzaghi, Elfo

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9.11

Massimo Fini: guerra? No, lotta di classe
 

di Massimo Fini

Non si capisce bene a che cosa servano questi bombardamenti sull'Afganistan. Se continueranno senza prendere almeno Bin Laden o qualcuno che gli somigli si sfocheranno inevitabilmente le immagini delle Torri Gemelle per lasciare il posto a quelle dei bambini afgani uccisi.
Si dice: non si poteva fare diversamente. Ma deve pur esserci qualche differenza fra un grande Paese come gli Stati Uniti e un gruppo di terroristi, perché se la faccenda si riduce a una sommatoria di ammazzamenti di civili questa differenza non si vede più e si legittima Bin Laden.


La rivolta dell'Islam
Il quale ha già tratto grandi vantaggi da questi bombardamenti perché il mondo musulmano è in subbuglio dappertutto, in Pakistan, in Indonesia, in Iran, in Egitto, mentre in quello occidentale, che dopo l'11 settembre aveva dato la propria solidarietà agli Stati Uniti a ranghi pressoché compatti, cominciano a serpeggiare i dubbi.Nel frattempo, a mente fredda, emergono alcuni punti nodali messi in evidenza dal colpo che ci è stato inferto l'11 settembre. Il primo è l'estrema fragilità dell'Occidente. Perché il suo sistema di sviluppo, basato sulla competizione esasperata e l'accelerazione progressiva, vive al limite e ha pochi margini di riserva. Al limite erano costruite le Torri Gemelle, gioiello della tecnologia e, insieme, segno di un' ubrisimprudente, ed è bastato un sasso ben lanciato perché venissero giù più facilmente di una catapecchia afgana e con conseguenze infinitamente più terrificanti.Al limite viaggia la nostra economia per cui basta che le compagnie aeree perdano qualche viaggiatore che si innesca una reazione a catena, atomica, che ci porta sull'orlo del crollo. Al limite, anzi ormai molto oltre, è la nostra scienza che ha creato mostri, e altri, ancora peggiori, si appresta a fabbricare, che è molto facile ora ritorcerci contro. "Fine ultimo della scienza è la distruzione del mondo" scriveva Friedrich Nietzsche nella seconda metà dell'Ottocento. Sembravano, allora, parole assurde, di un pazzo, purtroppo dobbiamo constatare che si stanno rivelando vere, come quasi tutte le previsioni di quel sensibilissimo sismografo della crisi e della decadenza della civiltà occidentale che è Nietzsche.  Il secondo punto è l'enorme forza di Bin Laden.  Com'è possibile, un uomo solo? E forse nemmeno del tutto reale ma piuttosto virtuale, creato dai mass media in cui si è abilmente inserito. Il fatto è che Bin Laden, sia egli un personaggio reale o una proiezione dei nostri incubi, e quali che siano i suoi veri obiettivi, ha intercettato un malessere planetario che incubava da molto tempo. A Bin Laden si inneggia non solo nel mondo musulmano, ma, come riportava l'altro giorno Le Figaro, anche nellebanlieuparigine.

Gli amici del giaguaro
E se non vogliamo essere ipocriti, se vogliamo una buona volta uscire dalla retorica, mai tanto spesa a piene mani come in questo mese dalle leadership e dalla stampa, dobbiamo ammettere che Bin Laden gode di molte simpatie, anche nelle grandi sacche di disgregazione della società occidentale oltre che nel Terzo Mondo non solo musulmano e arabo.Egli è un islamico e declina il suo credo terrorista in senso religioso, ma strutturalmente è un marxista, una sorta di versione moderna e terrificante del Trotzkij della "Rivoluzione permanente", perché catalizza i rancori, la rabbia, le speranze degli oppressi e dei disperati di tutto il mondo. E quella che è iniziata dopo l'11 settembre non è, ad onta delle apparenze, una guerra di religione, ma la lotta di classe a livello planetario.

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9.11

Chi è Adel Smith?

In merito a tutto il putiferio suscitato dalle dichiarazioni di tale
Adel Smith alla trasmissione Porta a Porta, credo che sia importante
chiarire alcuni punti.

Prima qualche considerazione di carattere generale.

L'islam non ha alcun capo o alcuna organizzazione o alcuna gerarchia.
Dire che qualcuno "rappresenta" i musulmani e' un po' come dire che
qualcuno "rappresenta" i laici. NESSUNO puo' rappresentare i
musulmani, un fatto che peraltro sta ritardando l'intesa tra lo Stato
italiano e... e migliaia di individui che non hanno alcuna intenzione
di costituirsi in chiesa.

Secondo, l'enorme maggioranza dei musulmani in Italia e' ancora oggi
composta da individui di nazionalita' extraeuropee, anche se
ovviamente la cosa cambiera' nel giro di una generazione.

I musulmani italiani sono pochissimi - in ambienti curiali girano ogni
tanto cifre ridicole, ho sentito addirittura parlare di "centomila
italiani convertiti all'islam". La cifra andrebbe divisa per mille, o
quasi.

Alcuni italiani sono persone serie; ad esempio Ali Schutz del "Fondaco
dei Mori" di Milano, oppure Roberto Hamza Piccardo dell'Unione delle
Comunita' e Organizzazioni Islamiche in Italia (UCOII). Pur ribadendo
il concetto che nessuno puo' rappresentare "i musulmani" nel loro
complesso, l'UCOII e' comunque l'organizzazione che raccoglie piu'
consensi tra musulmani di varia provenienza.

Adel Smith invece e' un caso del tutto personale. Di padre scozzese e
madre (sembra) egiziana, ha un odio tutto particolare per il
cristianesimo in cui e' cresciuto.

Una decina di anni fa ebbe problemi molto seri con la giustizia per
aver rapito la propria moglie che lo voleva lasciare; fuggi' poi in
Albania, dove visse per un periodo in un camper, stampando opuscoli in
albanese. I contenuti erano ripresi da pubblicazioni ottocentesche di
autori atei che sottolineavano le contraddizioni della Bibbia, ma
Smith aggiunse una buona dose di punti esclamativi.

Smith e' ricomparso in Italia appena un anno fa, cercando con molta
aggressivita' di presentare i propri testi anticristiani agli incontri
di varie organizzazioni islamiche in Italia e venendo gentilmente
messo alla porta da tutte.

Comunque Smith e' riuscito ad agganciare un altro individuo, che per
certi versi sarebbe anche simpatico, un donchisciotte romanaccio che
vende materassi. Si tratta di Massimo, in arte "Abdul Haqq", gia' in
carcere come fiancheggiatore delle Brigate Rosse, che scopri' il
Grande Complotto degli Ebrei mentre era in galera, grazie a un altro
detenuto estremista di destra. Quando scoppio' la Guerra del Golfo,
senza saperne nulla di Islam, decise di farsi musulmano. Aveva un
piccolo seguito di borgatari romani, tre o quattro di numero, che
pero' forse lo hanno gia' abbandonato. Sempre alla vana ricerca di
un'anima gemella, me lo ricordo una volta mentre adocchiava una bella
cameriera: "anvedi che morettina..." poi distolse lo sguardo,
aggiungendo, "eh gia', er Profeta disse che nun le devi guarda'... e
c'aveva pure raggione, tanto quanno l'hai guardata, nun è che c'hai
fatto niente."

Smith e Abdul Haqq insieme hanno costituito *sia* l'Unione Musulmani
Italiani *sia* il Partito Islamico d'Italia: quest'ultimo venne
fondato nel salone di un albergo romano, alla presenza di una
quindicina di persone, di cui cinque o sei appartenenti ai servizi di
vari paesi arabi e qualcuno, si puo' essere sicuri, anche ai servizi
italiani, piu' almeno due o tre curiosi, per cui il numero di
militanti effettivi e' facile da calcolare.

Un giorno, Smith e il suo compare scoprirono, chissa' come o da chi,
che nel Duomo di Bologna c'era un affresco medievale che rappresentava
Muhammad all'inferno, presumo tratto dalla Divina Commedia. E qui
hanno trovato un'occasione straordinaria di pubblicita' gratuita per
la loro non-organizzazione, chiedendo la distruzione dell'affresco:
una richiesta condannata immediatamente da tutte le organizzazioni
islamiche in Italia.

Recentemente, Smith ha tenuto un comizio al Parco del Castello a
Milano, in cui ha inveito contro l'affresco davanti a una minuscola
folla di curiosi. Un fatto pero' strano: sembra che alla
manifestazione ci fosse un gruppetto di albanesi. Qualcuno sostiene
che queste persone - quattro o cinque di numero - sarebbero autentici
seguaci di Smith, reclutati in Albania. Qualche musulmano in vena di
complottismo ha notato che questi albanesi erano privi di barba, per
cui chiaramente non erano "fondamentalisti islamici". Gli
ipercomplottisti hanno anche trovato strano il fatto che un gruppo di
immigrati si esponesse in maniera cosi' clamorosa alle attenzioni
della DIGOS: che non avessero nulla da temere?

Personalmente non credo a simili ipotesi, anche se bisogna dire che
Adel Smith e' esattamente il musulmano che tutti i crociati e
guerrafondai di questo momento sognano.

Miguel Martinez

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9.11

L'industria economica dell'Olocausto
Parla Norman Finkelstein, l'accusatore della "grande industria dei figli della Shoah"; a ilNuovo.it sostiene la sua tesi del baraccone pubblicitario per spillare i soldi ai paesi occidentali. "Come la Svizzera".

di Alberto Mingardi

MILANO - Jean-Paul Sartre scrisse che l'antisemita è in una gran brutta posizione: per vivere, ha bisogno delle stesse persone che vorrebbe distruggere. Col suo The Holocaust Industry (in Italia, uscirà per Rizzoli), Norman Finkelstein ci dimostra che è vero anche il contrario.
Figlio di due sopravvissuti di Auschwitz, storico vicino agli ambienti della New Left (Noam Chomsky e compagnia), Finkelstein ha scioccato mezzo mondo in appena centocinquanta pagine. Scrivendo una radiografia impietosa di quella che lui definisce industria dell'Olocausto, cioè del giro d'affari e d'interessi che ha fatto del genocidio degli ebrei una specie di Disneyland ambulante.
"In America, oggi ci sono più Holocaust Museum che Burger King. Tempo un paio di anni, e surclasseranno anche McDonald's", ci dice lui, la voce che vibra d'indignazione.

Professor Finkelstein, nel suo libro lei distingue: una cosa è l'olocausto nazista, un'altra L'Olocausto con le maiuscole...
Esattamente. Chiamo olocausto nazista il fatto storico, la "soluzione finale", il genocidio degli ebrei compiuto dai tedeschi. L'Olocausto è invece la costruzione ideologica elaborata a partire da quell'evento storico.

Perchè non usa il termine Shoa?
Shoa è un'espressione figlia di un certo sciovinismo etnico dell'èlites ebraica americana, nel tentativo consapevole di mistificare quanto accadde allora.ÝSa perchè hanno cominciato a parlare di Shoa? Perchè a certi esponenti della comunità ebraica non andava giù che altre culture si riferissero ai rispettivi genocidi parlando di "olocausto". Così, per differenziarsi dall'olocausto dei neri deportati in America, dall'olocausto degli armeni, dall'olocausto dei nativi americani, hanno rispolverato la parola Shoa.

Lei ha scritto che l'Olocausto, inteso come costruzione ideologica, si fonda su due dogmi. Uno è appunto quella che viene chiamata la sua unicità...
Diciamo pretesa unicità. Ora, è evidente che ogni evento storico ha delle caratteristiche "uniche", come è "unica" la sua determinazione temporale. Per esempio, Hiroshima: sicuramente è un evento significativo, con caratteristiche importanti, segna l'inizio dell'era atomica. Ma non vuol dire che non si possano tracciare paragoni con altri episodi simili, con altre forme di genocidio. Anzi. Fare storia è proprio questo: cercare elementi di comunanza, paragonare, raffrontare, discutere. Se si evita di farlo, non è storia, è propaganda. E mi sembra che L'Olocausto sia proprio questo, propaganda, nel momento in cui se ne proclama l'unicità. Sicuramente l'olocausto nazista ha delle caratteristiche uniche - su tutte, l'idea dell'omicidio in catena di montaggio che ne è tipica - ma non è un evento "unico". E' stato un genocidio. Come purtroppo molti altri. Chi parla di "unicità" lo fa per ragioni non storiche, ma politiche.

Quali?
Mettiamola così. Se si accetta che la sofferenza degli ebrei è "unica", ne consegue che gli ebrei hanno speciali diritti, che non devono sottostare agli "standard" morali che valgono per tutti gli altri.

Questa posizione sarebbe rafforzata da quello che lei ha individuato come il secondo "dogma", entrando in polemica con Daniel Goldhagen, autore de I volonterosi carnefici di Hitler (Mondadori).
Il libro di Goldhagen rispolvera l'idea di un eterno complotto dei "gentili" contro il popolo eletto. Tutti i gentili, lascia intendere Goldhagen, vorrebbero uccidere gli ebrei, Hitler non ha fatto altro che dare loro la possibilità di farlo.
Ma non c'è nessuna evidenza storica che possa confermare le tesi di Goldhagen.

Nessuna?
Nessuna. Certo che un libro del genere è risultato utilissimo, politicamente intende.

Mi scusi, ma a chi di preciso?
In primo luogo allo Stato di Israele, per ovvi motivi. Credo sia sotto gli occhi di tutti che Israele si è macchiato di una serie di crimini, dall'aggressione all'occupazione militare alla tortura, prontamente condonati in nome dell'Olocausto. E poi al governo degli Stati Uniti. Che parla di "nuovo Olocausto" ogni qualvolta si picca di spedire i marines in giro per il mondo (in Kosovo piuttosto che in Kuwait), salvo dimenticarsene per esempio per quel che riguarda i genocidi di Timor Est e del Guatemala, in cui gli USA avevano pesanti responsabilità.

L'attuale esplosione di reminescenze dell'Olocausto viene solitamente spiegata così: prima la comunità ebraica aveva tentato invano di reprimere il ricordo, oggi intende consegnare memoria di quei tempi alle nuove generazioni. Lei scrive che è un teorema sballato. Ci spiega perchè?
Da questo punto di vista, vale la pena fare riferimento al caso italiano: Primo Levi scrisse appena dopo la fine della guerra, e come lui tanti altri che resero testimonianze eccellenti delle violenze subite. Dunque è assolutamente falso che si tentò di "reprimere" il ricordo. La differenza fra allora ed oggi è invece l'opportunità "mediatica": fino al 1967, gli Stati Uniti non avevano interesse che si parlasse del genocidio degli ebrei, perchè erano indaffarati a rinsaldare l'alleanza con la Germania Ovest. La cui classe dirigente - a parte una mosca bianca come Adenauer - era formata da gente che era stata nazista fino a pochi anni prima.

Le si potrebbe obiettare che la Germania anche oggi è alleata del governo americano...
Già, ma oggi gli Stati Uniti sono l'unica potenza in campo, non c'è più la guerra fredda e i riferimenti all'Olocausto servono sovente per mettere pressione sugli alleati. E' che l'èlites ebraica americana è sempre stata assai conformista rispetto al governo: così, come allora tacevano, dopo il 1967 l'America ha deciso di dare il proprio appoggio allo Stato d'Israele ed è stata costruita pian piano questa "industria dell'Olocausto.

I numeri dei "sopravvissuti dell'Olocausto" oscillano continuamente. E ogni tanto spunta qualcuno che si definisce "sopravvissuto di seconda generazione", gente della sua età, figli di chi è scampato al disastro. Che ne pensa di questi "second generation survivor"?
Che si dovrebbero vergognare. E non solo perchè l'etichetta stessa va contro la nostra religione. Mettiamola così: mio padre a 23 anni era a Auschwitz, io a quell'età studiavo a Princeton. Cosa mi rende un "sopravvissuto di seconda generazione"? Se fossi andato da mia madre a dirglielo, mi sarei beccato un bello schiaffo e me lo sarei ampiamente meritato. Il punto è che si cerca di mungere il più possibile la mucca dello sterminio, solo questo. E' la stessa ragione per cui lievitano i numeri dei "sopravvissuti": per spillare soldi ai Paesi europei, in primis la Svizzera. A questo proposito, mia madre diceva sempre qualcosa del genere. Norman, ma se ci sono in giro tutti questi sopravvissuti, Hitler chi ha ucciso?.

Lei è arrivato a scrivere che chi alimenta questa memoria fittizzia è peggio di chi nega le sofferenze patite dagli ebrei. Cosa intende?
Visto che L'Olocausto, come ogni costruzione ideologia non accetta di essere criticata razionalmente (pena la scomunica dei suoi santoni), e visto che chi non s'adegua viene tacciato di "negazionismo" e "antisemitismo"... bene, io credo che questa mistificazione della realtà storica porterà a conseguenze peggiori degli scritti dei negazionisti. Sì, perchè a un dato punto il resto del mondo si accorgerà della frode imbastita da parte della comunità ebraica - e penserà che sia una frode anche il resto, cioè lo sterminio che purtroppo è accaduto davvero. Saranno i vari "Holocaust museum", le pellicole alla "Schindler's list", l'industria dell'Olocausto insomma a provocare la nascita di un nuovo antisemitismo.

Che è quello che vorrebbero combattere. Perchè ha attaccato così vigorosamente Elie Wiesel?
E' semplice: Wiesel è l'incarnazione dell'Olocausto con la "o" maiuscola, è un sottoprodotto di questa costruzione ideologica. E' lui quello che declama continuamente che i gentili odierebbero noi ebrei mossi da chissà quale mistica "invidia". Ovviamente è solo un burattino...

E i fili chi li muove?
Gli stessi che hanno aperto un faraonico "Holocaust museum" nel centro di Washington. Ecco, mi piacerebbe che nel centro di Berlino aprisse i battenti un museo dedicato al genocidio dei nativi americani. Magari così, dimenticandoci il dogma dell'unicità, potremmo ricominciare a fare storia. E riflettere sui crimini di cui si sono macchiati i governi di tutto il mondo, non solo quello di Hitler.

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9.11

I bombardamenti dei liberatori
a cura di Mauro Franciolini
da "Rinascita" [e chi vuoi che se ne ricordi sennò!]
 
 
1942
Le incursioni sulle nostre città furono compiute prevalentemente dopo l'8 settembre 1943 e cioè quando l'Italia era virtualmente "alleata" con gli anglo-americani.
I primi attacchi leggeri si ebbero sul meridione d'Italia per opera della R.A.F. con base sull'isola di Malta.
Le prime dure incursioni su Napoli furono effettuate dall'U.S.A. A. F. il 4 e l'11 dicembre: si trattò anche delle prime incursioni dei bombardieri americani sull'Italia. Le città maggiormente colpite furono Torino, Milano e Genova: attacchi pesanti, ma non come quelli dell'agosto dell'anno dopo. I bombardamenti sul "triangolo industriale" furono organizzati dal "Bomber Command" della R.A. F. durante la cosiddetta "offensiva di autunno". Milano subì un solo bombardamento fra il 24 ed il 25 ottobre: 470 furono gli edifici distrutti.
Fra l'ottobre/novembre Genova fu colpita 6 volte: 1.250 edifici di vario genere furono distrutti. Fra il novembre/dicembre Torino subì 7 bombardamenti: 142 ettari distrutti di superficie edificate (70 fabbriche, 24 edifici pubblici, e circa 1.950 abitazioni). L'incursione più violenta fu quella della sera del 9 dicembre su Torino: 196 apparecchi scaricarono sulla città 147 tonnellate di bombe e 256 tonnellate di spezzoni incendiari.
Gli inglesi impiegarono complessivamente 1.811 aerei di cui 1.477 attaccarono le città italiane scaricandovi circa 2.740 tonnellate di bombe e perdendo 31 aerei. Le vittime furono circa 1.300
 
1943
La caduta di Mussolini in seguito agli avvenimenti del 25 luglio aveva generato in molti italiani l'illusione che anche la guerra dovesse cessare, risparmiando ulteriori lutti e distruzioni. Illusione svanita subito nella notte fra il 7 e l'8 agosto 1943 quando, Milano, Torino e Genova, subirono il contemporaneo e duro attacco della R.A. F. In quella notte, 201 tonnellate di bombe esplosive e spezzoni incendiari si riversarono su Milano, 195 tonnellate su Torino e 169 su Genova.Queste incursioni non dovevano rappresentare che un "assaggio" di quanto sarebbe successo nei mesi successivi.
L'11 agosto un massiccio bombardamento devastò la città di Terni seppellendo sotto le macerie centinaia di vittime. Il 13 agosto anche Roma, appena dichiarata "città aperta", fu violata da circa 500 tonnellate di bombe americane che provocarono circa 2.000 morti e notevoli danni.
La notte del 13 agosto su Torino caddero 244 tonnellate di bombe e, la notte del 17 agosto, altre 248 tonnellate. Milano, 12 / 16 agosto 1943: Il più feroce attacco che mai avesse subito, sino a quel momento, una città italiana fu quello su Milano nella notte fra il 12 e il 13 agosto: 504 bombardieri inglesi rovesciarono sulla città 1.252 tonnellate di bombe e spezzoni incendiari. Due giorni dopo, nella notte del 15 agosto, 140 bombardieri inglesi scaricarono altre 415 tonnellate di esplosivi. Non era ancora finita: nella notte del 16 agosto si presentarono nel cielo della città 199 bombardieri che scaricarono altre 601 tonnellate di ordigni mortali. In quattro giorni Milano fu martirizzata da 2.268 tonnellate di bombe sganciate da 843 aerei della R.A.F. inglese. Il bilancio finale fu drammatico: 239 industrie colpite, distrutte o gravemente danneggiate, 11.700 edifici abbattuti, più di 15.000 quelli danneggiati, le centrali elettriche irreparabilmente bloccate, la rete di trasporti e di comunicazioni quasi totalmente inservibili, centinaia i morti.
In quella prima metà di agosto 1943 caddero dunque sui centri principali dell'Italia settentrionale 3.325 tonnellate di esplosivo. Il 28 agosto furono poi bombardate Taranto, Cosenza e, a seguire, Novara, Foggia, Salerno, Crotone, Viterbo, Avellino, Lecce, Bari, Orte, Cagliari, Carbonia, Civitavecchia, Benevento. Frascati fu rasa al suolo e migliaia furono i morti. Il 1 settembre 1943 fu distrutta Pescara, città completamente priva di difesa antiaerea.
Il "Bomber Command" della R.A.F. ed i bombardamenti sull'Italia
Nel 1973 il "Public Record Office" di Londra rese pubblici i documenti relativi ai bombardamenti inglesi sull'Italia. Queste notizie, attestate in modo incontestabile dalle autorità inglesi, portarono a conoscenza di un piano a lunga scadenza, elaborato nei minimi particolari, che avrebbe previsto un diluvio di fuoco sull'Italia. Secondo tale progetto, gli anglo-americani avrebbero dovuto scaricare sull'Italia del nord, in un periodo compreso fra il settembre 1943 e il febbraio 1944 qualcosa come 45.000 tonnellate di esplosivo! Nella serie di tali documenti, corredati da numerose mappe raffiguranti gli obiettivi principali, fa spicco un eloquente messaggio inviato dal direttore delle "Operazioni di bombardamento", Commodoro Bufton, al direttore dei "Piani di bombardamento", Commodoro Elliot. Nello scritto, che reca la data del 29 luglio 1943, si legge anche: "Stabilita l'opportunità di attaccare l'Italia, ci proponiamo di trasportare sugli obiettivi del Nord circa 3.000 tonnellate di bombe nel mese di agosto, 8.000 tonnellate nei mesi di settembre e di ottobre e 6.500 tonnellate in ciascuno dei mesi invernali, se le condizioni atmosferiche saranno favorevoli...". I bombardamenti dell'agosto 1943 non furono quindi solo "avvertimenti" o "pungoli" per accelerare la firma di una resa, ma rientravano in un piano programmato che, come per numerose città tedesche, prevedeva la totale distruzione dei centri vitali della nazione mediante il sistema dei cosiddetti bombardamenti "a tappeto".
Negli ultimi tre mesi del 1943 i bombardamenti terroristici anglo-americani provocarono 6.500 morti e circa 11.000 feriti, distruggendo e danneggiando migliaia di edifici.
 
1944
Furono migliaia e non risparmiarono nessuna città. Solo nel 1944, gli anglo-americani effettuarono sull'Italia centro-settentrionale, territorio della RSI, 4.541 incursioni, uccidendo 22.000 civili e ferendone oltre 36.000. Ci fu una vera e propria "escalation" di terrificanti incursioni che non risparmiarono nessuna città e che raggiunsero una frequenza quasi quotidiana. Firenze, per esempio, subì 7 bombardamenti (di cui 5 massicci) che causarono oltre 700 morti, migliaia di feriti e la distruzione di migliaia di case, oltre che danni gravissimi al patrimonio artistico della città. Molte furono le incursioni anglo-americane particolarmente odiose e criminali. Bisognerebbe ricordarle tutte ma, a titolo di esempio, valgano queste:
Il martirio di Treviso: La città fu selvaggiamente aggredita il giorno di Venerdì Santo e fu distrutta da un violento bombardamento che costò la vita a 4.000 abitanti.
I "liberatori" sul Lago Maggiore: Il 25 settembre, due aerei inglesi sganciarono un grappolo di bombe su un gruppo di case di Intra provocando 11 morti e numerosi feriti. Poco dopo, gli stessi aerei mitragliarono il battello "Genova" di fronte a Baveno sul Lago Maggiore. Il battello colpito, che aveva a bordo solo civili (in prevalenza donne e bambini), prese fuoco: molti furono i morti ed i feriti.
Il 26 settembre, aerei inglesi (probabilmente gli stessi del giorno prima) attaccarono il battello "Milano" carico di sfollati che si erano imbarcati a Laveno per raggiungere la sponda piemontese del lago. A bordo c'era anche un reparto del battaglione "M" Venezia Giulia che stava tornando alla scuola di Varese della G.n.r.: dieci di loro perirono nell'attacco.
L'ecatombe dell'Impruneta Il 27 luglio, aerei della Quinta squadriglia del 239° stormo, appartenenti alla "Desert Air Force" (Daf), bombardarono "a tappeto" l'Impruneta. Il paese era affollato soltanto da civili inermi che speravano di aver trovato un rifugio sicuro dalle incursioni alleate. La maggior parte dei rifugiati morì sotto le bombe dei "liberatori", mentre i superstiti furono falciati dalle mitragliatrici dei "Kittyhawks" sudafricani. Il 28 luglio, un'altra incursione si scatenò contro la basilica del paese: si salvò solo il ritratto della Madonna.
La strage degli innocenti 
Il 10 ottobre sul rione popolare di Gorla (Milano) una bomba americana centrò in pieno una scuola: i bambini uccisi furono oltre 200. Accurati studi di storici militari hanno dimostrato con certezza che non si trattò di un errore. Per questo crimine immondo il governo americano non ha neppure chiesto scusa. 

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8.11

Günther Grass: meno bombe, più aiuti
 

Crepe nel pensiero unico?

Si può essere premi Nobel e uomini intellettualmente onesti? Ebbene si!

L'appello del Nobel Günter Grass
"Meno bombe, più aiuti umanitari"

"Lo diceva già Brandt, anche la fame è un atto di guerra"

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE ANDREA TARQUINI

BERLINO - «Sbaglia chi descrive lo scontro col terrorismo come scontro tra civiltà e medioevo: amo la civiltà occidentale ma ritengo che essa non possa erigersi a misura di ogni altra civiltà». Così parla Günter Grass, premio Nobel per la letteratura, massimo scrittore tedesco vivente e voce critica della sinistra di Berlino. Repubblica lo ha ascoltato a margine del lancio della campagna dell'Unicef per salvare i bambini afgani dalla fame e dalla guerra cui egli ha dato il suo appoggio.
Signor Grass, il cancelliere Schroeder, socialdemocratico come lei, parla di scontro tra civiltà moderna e medioevo. E' d'accordo?
«Non posso essere d'accordo. E' un vizio dell'Occidente e del ricco nord il farsi misura di tutte le cose. Non possiamo giudicare in tal modo società che non hanno vissuto il Rinascimento e l'Illuminismo ma altre esperienze».
Berlino proclama appoggio incondizionato all'America. Approva o no?
«Sono molto favorevole al concetto di solidarietà, ma contrario alla solidarietà illimitata. Non mi pare un atteggiamento corretto verso un paese amico: rischia di diventare solidarietà cieca, e ci può impedire di fermare a tempo un amico che sbaglia».
Ma non le sembra che, come dicono Schroeder o Tony Blair, la soluzione militare sia inevitabile contro Bin Laden e contro chi lo appoggia?
«La guerra non ha mai risolto problemi. Il terrorismo sopravviverà anche alla cattura o alla morte di Bin Laden. La soluzione non può essere solo militare. L'orrendo crimine degli attentati ci deve spingere a riflettere sulle cause del terrorismo. Tanti miei amici intellettuali americani, da Norman Mailer a Woody Allen, che ho sentito dopo l'11 settembre, si chiedono perché ci sia tanto odio verso l'America. Hanno ragione, bisogna porsi il problema. Qui da noi si fa troppo presto a tacciare di antiamericanismo le voci critiche che lo pongono».
Per lei insomma cosa è cambiato dopo l'11 settembre?
«E' morta la società basata sul divertimento nel ricco Occidente. Quegli orribili attentati hanno voluto essere anche un'esplosione di odio verso il ricco Nord del mondo, verso il mondo ricco, freddo e indifferente ai problemi del mondo povero».
Il cancelliere di sinistra Schroeder però è deciso a un intervento militare tedesco a fianco degli angloamericani...
«Meglio farebbe il governo federale - questo è il mio sommesso appello - a spendere per aiuti umanitari ai bambini afgani e alla povera gente oppressa dai Taliban i soldi che sarebbero necessari a un intervento militare. In tal modo si farebbe anche qualcosa contro le cause profonde del terrorismo».
Ma secondo Joschka Fischer, ministro degli Esteri, il migliore intervento umanitario è il rovesciamento dei Taliban...
«Anche io auspico la caduta dei Taliban, ma questo rientra nei nostri auspici. La realtà quotidiana è un'altra cosa: è fatta di bambini che muoiono di fame. Io lancio un appello alla ricca società tedesca, a bambini e genitori tedeschi: spero che i bimbi tedeschi mi ascoltino, rinuncino a metà dei regali di Natale e chiedano i genitori di destinare quei soldi ad aiuti all'Afghanistan. Salverebbero moltissime piccole vite».
Che cosa intende per riflessione sulle cause del terrorismo?
«La mia mente corre indietro agli anni di un altro cancelliere di sinistra. Si chiamava Willy Brandt, fu il primo cancelliere tedesco a parlare al Palazzo di Vetro dell'Onu. Io c'ero, mi ricordo. Brandt lanciò un serio monito contro il divario NordSud, disse "anche la fame è un atto di guerra", ammonì il mondo ricco a fare qualcosa per ridurre il gap. In piena Guerra fredda EstOvest, con grande chiaroveggenza, mise nero su bianco questo monito nel Rapporto sul problema NordSud che stilò per la Commissione nordsud. Tutti i governanti di oggi dovrebbero andare a rileggerselo: sono parole mai tradotte in pratica. Brandt fu applaudito e basta».
Non è difficile pensare agli aiuti dopo seimila morti al World Trade Center?
«Io provo profonda solidarietà e compassione per l'America. Ma a lungo il mondo ricco restò indifferente a fronte dei 250 mila musulmani bosniaci massacrati da serbi e croati, o delle 800 mila vittime delle stragi in Ruanda. Sembra a volte che i morti nel "nostro" mondo ricco valgano dieci o cento volte di più di quelli delle tragedie del Terzo mondo, e che i morti del Terzo mondo per noi siano solo fredde cifre con tanti zeri».

GERMANIA: COMUNITA' EBRAICA, GRASS NON E' UN AMICO DI ISRAELE
(AGI) - Berlino, 20 ott. - Pesante attacco al premio Nobel tedesco per la letteratura Guenter Grass da parte di Paul Spiegel, presidente della comunita' ebraica tedesca in Germania.
Replicando a un'intervista rilasciata da Grass nei giorni scorsi, nella quale lo scrittore chiedeva ad Israele di rinunciare a tutti gli insediamenti di coloni nei territori occupati, Spiegel in un'intervista al settimanale "Focus" ribatte che "chi fa tali affermazioni si mette sul piano dei radicali nemici di Israele e non puo' attendersi di essere considerato come un amico". Paul Spiegel prosegue affermando che "con le sue affermazioni Grass si allinea a quella schiera di intellettuali tedeschi non ebrei, che da anni cercano di mettere in discussione direttamente o indirettamente lo Stato di Israele. Se si osservano da presso le sue parole, il suo messaggio e': Israele deve sparire". Alla domanda se attualmente i membri della comunita' ebraica tedesca si sentano sicuri in Germania, Spiegel risponde che "non frequentano i servizi religiosi perche' hanno paura. Fondamentalisti islamici, estremisti di destra e di sinistra si ritrovano insieme nell'inimicizia nei confronti di Israele. Considero molto pericoloso questo sviluppo".

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8.11

Solidarietà agli USA, la sinistra non deve mancare
 

Ancora materiale dal sito www.virusilgiornale.com ...può far riflettere tutti noi leggere simili affermazioni...

Regio Savona

 

 
Il Movimento per le Riforme condivide, apprezza e inoltra a Camera, Senato, Istituzioni, Rai-tv, Mediaset,
stampa, media e radio private, cittadini, questa lettera aperta del senatore Debenedetti.
Cordiali saluti e buone riflessioni
da Spalombella Rossa che osserva: vediamo se, con un pari, arrivano "le telefonate" a direttori e redazioni.
VirusilGiornaleonline
http://www.virusilgiornaleonline.com
 
"Solidarietà agli Usa, la sinistra non deve mancare"
Tutti in piazza sabato 10
di Franco Debenedetti
 
Adesso andrò alla manifestazione del 10 novembre in Piazza del Popolo; adesso la sinistra dovrebbe parteciparvi in massa. Quando ho saputo che «Il Foglio» di Giuliano Ferrara lanciava l'idea di una grande manifestazione di solidarietà agli Usa,
come prima reazione ho pensato che la sinistra avrebbe dovuto aderirvi senza esitazioni e partecipare alla sua organizzazione.
Invece la cosa si ingarbugliò, a sinistra e a destra; alla manifestazione di solidarietà verso l'alleato americano colpito si sovrappose la contrapposizione con l'avversario politico italiano da colpire.
Sventolare la bandiera a stelle e strisce aveva anche lo scopo di affermare i valori di libertà e di mercato, in cui crede la maggioranza degli italiani, in contrapposizione ai tanti filoni dell'antiamericanismo: ma con l'andar dei giorni più forte diventava
il rischio di scivolare dall'intenzione originaria verso una «banale» contrapposizione politica interna, e che di diverso ci fosse solo
la forma. Ma da ieri le cose sono cambiate.
Da quando a essere in guerra non sono solo più gli anglo-americani, ma anche l'Italia, adesso che la solidarietà all'alleato la manifestiamo mandando i nostri ragazzi e impegnando le nostre risorse nel teatro di guerra, adesso diversa è diventata anche la manifestazione di Piazza del Popolo. Adesso non c'è più il rischio che, solidarizzando con «la guerra di Bush», si perda d'occhio che questa è «la nostra guerra». I fatti hanno modificato l'agenda, col voto del Parlamento che avallerà il nostro intervento, non c'è più il rischio che questa sia «la loro manifestazione».
Questa è «la manifestazione di tutti»: di tutte le famiglie che hanno i loro ragazzi nel teatro delle operazioni, di tutti gli italiani che saranno chiamati a sostenerne i costi psicologici e finanziari, di tutti coloro che, riconoscendosi in una sinistra di governo come chi scrive, non faranno mancare il proprio sostengo, né in Parlamento né nel Paese, a un'azione che è giusto l'Italia compia al fianco dei suoi alleati. Per queste ragioni in Piazza del Popolo dobbiamo andarci anche noi della sinistra.
Senza chiedere spostamento di date (per la meschineria di non voler riconoscere che non ci abbiamo pensato noi per primi?); senza chiedere contropartite politiche (come dire ai nostri parà che la nostra solidarietà è subordinata all'astensione concordata su una mozione?).
Dobbiamo farlo ovviamente chiedendo di partecipare anche all'organizzazione dell'evento (e come potrebbe essere respinta l'offerta?).
Anche dopo l'entrata in guerra, resterà il tratto distintivo che era all'origine di questa manifestazione, quello di reagire e di contrapporsi all'antiamericanismo. E questa è la ragione in più, oltre al patriottismo di bandiera, per cui la sinistra di governo dovrebbe portare in piazza del Popolo i propri simpatizzanti. Questa può essere una buona occasione per rimuovere antichi riflessi condizionati, e per interiorizzare senza riserve mentali e senza strumentalismo le ragioni di adesione piena e convinta
alla società liberale e ai suoi istituti.
 

Franco Debenedetti Senatore Ds

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8.11

Qualcuno si ricorda della Colombia

Vi siete mai chiesti perché i tg non parlano mai del "cortile di casa" degli Usa?

Intanto, dei tre italiani ancora ostaggi, non si sa più nulla (cfr. www.censurati.it), in ossequio al silenzio imposto su tutto quel che accade laggiù.

da www.equilibri.net

COLOMBIA, 12 OTT 2001

LE FARC LIBERANO DUE COOPERANTI TEDESCHI, I PARAMILITARI MASSACRANO 49 CONTADINI

Ancora caldo lo scenario colombiano dove la situazione si fa sempre più caotica:le FARC (Forze Armate rivoluzionarie colombiane) hanno finalmente rilasciato due dei tre cooperanti tedeschi dell’agenzia Gtz, che si trovavano da oltre tre mesi nelle loro mani. La liberazione è avvenuta nei pressi del municipio di Silvia, nel dipartimento del Cauca (sud della Colombia). Entrambi, Rayner Bruchman e Ulrich Künzel, sono stati consegnati nelle mani di una commissione guidata dalla Croce Rossa e sembra che si trovino in condizioni fisiche discrete. Non è chiaro al momento quale sia la sorte di un terzo cittadino tedesco Thomas Künzel, fratello di Ulrich, anch’egli nelle mani della guerriglia. I tre lavoravano a un progetto agricolo presso una comunità india del luogo. Qualche settimana fa una rappresentanza del gruppo di paesi esteri che appoggia il processo di pace in colombia, di cui fa parte anche l'Italia, aveva posto la liberazione dei tre tedeschi, quale condizione per il proseguimento del loro interessamento. E se da una parte quest'ultimo sviluppo sembra delineare l'interesse sia delle Farc che del governo per raggiungere un accordo, i Paramilitari si dimostrano più attivi che mai.
La violenza ha subito una drammatica escalation, con 24 uomini uccisi nell'ultimo masscaro ad opera dei paramilitari di destra.
Le morti di Mercoledi nel villaggio di Buga (Cuca 400 Km a sud di Bogotà) hanno fatto seguito ad una pesante settimana di azioni dei paramilitari delle AUC (autodifese unite della colombia) che hanno portato a contare fino a 49 morti, inclusi 4 soldati e il sindaco di una cittadina. Altre 12 persone sono date per disperse e si teme per la loro vita. Le persone prelevate da un autobus, sono state uccise perchè accusati di collaborazionismo con le FARC, la stessa procedura è stata eseguita in altri rastrellamenti che i paramilitari dell'AUC hanno eseguito in villaggi a sud ovest di Bogotà. Lo scorso anno 317.375 colombiani hanno abbandonato le loro case a causa dei massacri stando al rapporto del diaprtimento per i diritti umani. Il ministero della difesa colombiano ha dichiarato che 303 persone sono state massacrate a Luglio, 199 di queste morti sono state causate dalle AUC. Il governo statunitense, che sta fornendo milioni di dollari in aiuti militari alla colombia, ha recentamente aggiunto le AUC nella lista delle organizzazioni internazionali terroristiche.

[l'ignoto articolista non si chiede però che fine facciano quei milioni di dollari...]

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8.11

Uno straccio di pace

UNO STRACCIO DI PACE

Siamo pericolosamente vicini alla guerra. Questo vuol dire che degli
italiani potrebbero anche uccidere dei civili, la maggior parte dei
quali donne e bambini e, a loro volta, essere uccisi.
Siamo sicuri che molti di noi non vogliono che ciò accada.
Noi vogliamo poter dire che siamo contrari, e vogliamo che chiunque ci
veda sappia che siamo contrari alla guerra.
Per farlo useremo un pezzo di stoffa bianco: appeso alla borsetta o
alla ventiquattrore, attaccato alla porta di casa o al balcone, legato
al guinzaglio del cane, all'antenna della macchina, al passeggino del
bambino, alla cartella di scuola...
Uno straccio di pace.
E se saremo in tanti ad averlo, non potranno dire che l'Italia intera
ha scelto la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti.
Sappiamo che molti sono favorevoli a questa entrata in guerra.
Vogliamo che anche quelli che sono contrari abbiano voce.

Emergency chiede l'adesione di singoli cittadini, ma anche comuni,
parrocchie, associazioni, scuole e di quanti condividono questa
posizione.
Diffondere questo messaggio è un modo per iniziare.

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7.11

Palestinese per 6 minuti

Caro amico,

questa volta ho assaggiato il sapore delle botte vere: dei calci, dei
pugni, e persino delle ... cinghiate. Proprio così.
Ma andiamo per ordine. Oggi, lunedì 5 novembre 2001, mi sono chiesto che
genere di reazione avrebbe provocato nei passanti il fatto di veder
girellare per il centro di Firenze un individuo col kefia in testa (si
scriverà così?), il panno che solitamente indossa Arafat, e con una
bandierina palestinese applicata al manico dell'ombrello. In Piazza della
Repubblica, alle 16:00, mi addobbo in tal modo e comincio a camminare, con
l'atteggiamento assolutamente tranquillo di un turista straniero che visita
la città e osserva le vetrine.
Occhiatacce? Sguardi curiosi? Sguardi spaventati? Sorrisini? Indifferenza?
A dir la verità, nei primi cinque minuti non raccolgo altro che un paio di
sguardi curiosi o di ammiccamenti del tipo "guarda un po' quello lì".
Poi, improvvisamente come un fulmine a ciel sereno, mentre percorro Via Por
Santa Maria in direzione del Ponte Vecchio (siamo nel pieno dello struscio
turistico), mi giunge da dietro una gran botta, probabilmente una pedata.
Mi volto e vedo un giovane sulla trentina che urla come un ossesso: -
Maledetti assassini! Dovrebbero ammazzarvi tutti! -.
Non reagisco, rimango voltato verso di lui e lo osservo immobile. Il
giovane si sfila la cintola dai pantaloni e comincia a colpirmi con
l'estremità della fibbia. Per fortuna mi colpisce sui vestiti, senza
provocarmi né danno né dolore. Una anziana passante gli dice: - Lascialo
stare -.
La mia unica reazione è quella di camminare con passo lentissimo e calmo
verso di lui, quasi a voler dire "perché ce l'hai con me", ma non parlo,
non gesticolo, non minaccio, non dò segni di accettare la provocazione,
probabilmente sembro un automa.
In un tempo infinitesimo (saranno trascorsi 15 secondi dall'inizio del
fatto) si è già formato un capannello di curiosi dall'aria, a dire il vero,
un po' turbata. Io continuo a camminare con estrema calma verso il giovane
che sbraita: - Questo ci fa saltare tutti per aria! -. Improvvisamente mi
molla un calcio solenne sulla coscia destra, quasi all'altezza del bacino.
Fortemente spintonato barcollo valicando involontariamente l'ingresso
aperto di una pasticceria, le cui commesse mostrano, logicamente, un'aria
molto spaventata. Ancora pochi secondi (non si è raggiunto il minuto) e
sono già sul posto due volanti dei Carabinieri.
I militi mi chiedono i documenti e io li prego di fermare anche il giovane,
sostenendo che le commesse della pasticceria hanno visto tutto e possono
testimoniare che l'aggredito sono io.
I militi sono molto calmi, equilibrati e gentili, mi invitano a sedere
nella volante e portano me e l'altro in una Stazione CC. Con due auto
diverse. Qui io e l'altro siamo interrogati, in stanze separate, con una
correttezza esemplare che mi rende abbastanza difficile credere a certi
racconti (probabilmente veri) sul G8 dello scorso Luglio.
Mi viene fatto notare che la mia "esibizione", per quanto legittima, non è
da considerarsi molto opportuna coi tempi che corrono e che, a rigore,
esibire la bandiera di uno stato straniero è un reato. Domando stupito: -
Veramente? -. Mi si risponde di si. Sorrido fra me, pensando alle
bandierine americane che saranno sventolate nei prossimi giorni, alle
bandierine norvegesi della Napapiri, alle bandiere dei tifosi delle squadre
di calcio straniere, alle bandiere nei villaggi turistici... naturalmente
tutte rigorosamente occidentali. Quindi mi viene detto che il giovane
dichiara di avere preso un abbaglio e di volermi chiedere scusa e mi si
notifica che, se voglio, ho il diritto di sporgere querela contro di lui.
Dichiaro immediatamente che accetto le scuse e che non voglio agire contro
nessuno.
Entrambi veniamo rilasciati. Mi scuso coi carabinieri per la confusione
creata. Il giovane insiste nel volermi offrire un caffé, con profusione di
grandi gentilezze. Lo accetto e dopo averlo bevuto ciascuno di noi prende
la sua strada. Non conosco la sua identità, né la rivelerei se la
conoscessi.
Adesso sono a casa, con un leggerissimo dolore al collo, forse la
conseguenza della pedata presa dal di dietro, una cosa che dopodomani al
massimo non ci sarà più.
C'è invece un altro dolore che non finirà né dopodomani né mai: io sono
riuscito ad essere Palestinese, a Firenze, per soli 6 minuti... per soli
360 secondi, poi ho dovuto forzatamente riprendere la mia identità
occidentale.
In realtà per me quei calci e quelle cinghiate sono state un battesimo:
adesso IO SONO PALESTINESE. Perché ho preso le botte destinate ad un
palestinese. Sono un palestinese che non parla arabo, che non è islamico,
che non alzerà mai un'unghia per colpo ferire nemmeno contro una zanzara,
ma che lotterà tutta la vita, con le armi della parola e della
non-violenza, per un mondo di giustizia, di tolleranza e di amore, in cui i
bambini palestinesi possano giocare coi bambini israeliani. I bambini
americani con quelli afghani...
Questa sera andrò a letto portandomi l'onore e l'orgoglio di quelle botte.

Davide Donnini

 http://www.nostraterra.it

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7.11

Bin Laden attacca l'Italia
 

Dal sito di politica internazionale www.equilibri.net

 
Bin Laden attacca l'Italia
 
Ha fatto una certa sensazione la comparsa di un attacco all'Italia nell'arringa di Osama Bin Laden recentemente trasmessa dall'emittente araba Al Jazeera. Il finanziere saudita ha, tra le altre cose, ricordato alle masse arabe come l'origine di tutte le sventure del mondo arabo e più ampiamente musulmano siano originate dopo la Prima Guerra Mondiale e la spartizione del Medio Oriente tra Gran Bretagna, Francia e Italia.
L'inserimento italiano nel novero delle potenze imperialiste costituisce in un certo senso una novità.
La politica estera italiana, sia prima che dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha sempre cercato di differenziare l'immagine dell'Italia da quella delle altre potenze occidentali nei confronti del mondo arabo-musulmano. Già il fascismo, nonostante perseguisse una politica coloniale ed imperialista tanto in Libia quanto nel Corno d'Africa, fu protagonista di una campagna d'immagine nel mondo arabo, che arrivò a far nascere in Gran Bretagna la preoccupazione dell'"italiano sotto il letto", pronto a inserirsi nella competizione mediorientale (su questo aspetto segnaliamo tra l'altro un agile ed interessante studio di Enrico Galoppini, Il fascismo e l'Islam, per i tipi delle Edizioni All'Insegna del Veltro). Allo stesso modo la politica estera repubblicana, e la politica parallela condotta dall'ENI, ha sempre mostrato un'attenzione speciale per il mondo arabo-musulmano, con uno sforzo costante di apparire soggetti diversi dagli Stati Uniti, nostri principali alleati. E la politica di attenzione nei confronti della Libia e dell'Iran degli ultimi anni, che ha sottoposto Roma a critiche anche pesanti soprattutto da Washington, si inserisce in questi filoni.
Sembra verosimile però analizzando le motivazioni dell'attacco verbale di Bin Laden riportarlo a due ragioni che non hanno molto a che fare con l'odierna realtà italiana.
In primo luogo la resistenza senussita alla penetrazione italiana in Libia costituisce un'esperienza importante e un riferimento di grande interesse per l'islam politico odierno. Un aspetto teorico in qualche modo inedito dell'esperienza senussita fu l'affermazione che condannava come apostata, e quindi passabile di pena capitale, chi non avesse partecipato al jihad proclamato contro gli italiani e chi si fosse rivelato disfattista o avesse proposto la pace con il nemico.
In secondo luogo, e soprattutto, il riferimento alla resistenza anti-italiana chiama in causa il leader libico, il Colonnello Gheddafi.
Gheddafi, infatti, ha assunto una posizione di netta condanna degli attentati dell'11 settembre e allo stesso tempo, pur proponendo la cessazione dei bombardamenti americani sull'Afghanistan, non ha condannato le attività militari americane in Afghanistan.
Il contenuto delle affermazioni di Bin Laden è da leggere quindi nel senso di incitare le forze libiche contro il Colonnello, "consacrato" in questo modo come uno dei leader "moderati" filo-occidentali al cui rovesciamento è mirata l'attività di Al Qaeda.
Quest'aspetto, globalmente marginale, forse, ma rilevante per l'Italia, dell'evoluzione geopolitica della regione può forse sorprendere. Gheddafi è stato infatti in un certo modo il Bin Laden degli anni Ottanta, "oppositore su scala mondiale" nella sua stessa definizione, grande Nemico degli Stati Uniti, obiettivo di più di un bombardamento americani e finanziatore e base d'appoggio di moltissime organizzazioni terroristiche. Solo da pochi mesi, poi, la Libia è uscita dall'embargo e dalle sanzioni delle Nazioni Unite di cui era oggetto, e ancora oggi appare nella lista degli "stati canaglia" americani.
Gheddafi ha però fatto compiere alla Libia un drastico cambiamento di politica estera. Bisognoso dei capitali, della tecnologia e degli investimenti europei per riorganizzare l'economia libica che lui stesso aveva smantellato negli anni "rivoluzionari" Gheddafi ha lavorato per anni per spezzare il suo isolamento internazionale, abbandonando infine ogni appoggio al terrorismo.
Ultimo vessillifero del nazionalismo arabo di stampo nasseriano, inoltre, Gheddafi si è opposto inoltre fermamente all'Islam politico radicale, combattendolo anche militarmente all'interno della Libia, ed affrontandolo, esempio abbastanza raro nel mondo arabo, anche su di un piano teorico e politico.
Confinando con Egitto, Algeria e Tunisia, ovvero con tre stati che trovano nella minaccia costituita dal radicalismo islamico violento la principale minaccia alla propria stabilità, la Libia, dopo essere stata per anni un elemento destabilizzante nella regione, è venuta a giocare un ruolo stabilizzatore di grande importanza per la sponda Sud del Mediterraneo.
L'Italia ha giocato un ruolo centrale nel rientro della Libia all'interno della Comunità Internazionale. Il fatto che oggi, in un periodo di crisi acuta delle relazioni tra il mondo arabo-islamico e l'Occidente, in cui anche alleati degli Stati Uniti come l'Arabia Saudita si trovano a vacillare, la Libia sia attaccata da Bin Laden e giochi un ruolo favorevole all'Occidente testimonia come l'impegno italiano in suo favore abbia costituito non già un nuovo "giro di valzer" della politica estera di Roma, ma un'azione coerente e lungimirante tesa a garantire interessi non solo italiani, ma europei ed occidentali.

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6.11

Indice di Diario della Settimana

Parliamo di America. Meglio: i nostri lettori raccontano i loro sentimenti nei confronti della bandiera, della parola, della politica estera americana. Sul sito www.diario.it abbiamo posto sei domande. In pochi giorni abbiamo ricevuto 1.368 risposte. I risultati sono l'oggetto dell'inchiesta della settimana. Chi ha letto il quotidiano di Feltri, Libero, sabato, che ha dedicato alle risposte l'intera prima pagina con toni scandalizzati, sa qual è l'esito: un terzo dei lettori odia l'America, un terzo la ama incondizionatamente, un terzo distingue tra le cose buone e le cattive.

La rivelazione: un gruppo di no global leghisti ha partecipato, ma senza vessilli, agli scontri con la polizia durante il G8 di Genova. Leggere le dichiarazioni di Fabiano Gavinelli, vicesegretario dei volontari verdi-Padania libera (il presidente è Mario Borghezio), mette i brividi. Anche per i rapporti orgogliosamente intrattenuti con organizzazioni come Ira e nazionalisti serbi.

Nella lettura ricordiamo la spaventosa repressione di una pacifica manifestazione della Federazione Francese del Fronte di Liberazione avvenuta a Parigi nel 1961. Per ordine del prefetto Papon, alcuni ragazzi algerini (20 per alcuni, 300 secondo altri) furono buttati nella Senna e morirono affogati. Dal 17 ottobre di quest'anno, una targa sul pont Saint-Michel li ricorda

Sempre a Parigi, le celebrazioni per il centenario di André Malraux (La condition humaine), il cui mito viene incrinato ora da una dettagliata biografia. Un altro scrittore, Amir Gutfroind, questa volta israeliano, racconta la shoah in modo ironico e ottiene uno strepitoso successo.

Un saluto, infine, alle cartine Rizla: la fabbrica Riz-la-Croix di Mazares sur Salat (Tolosa) chiuderà. Il motivo? La decisione di una multinazionale canadese.

Buona lettura

Il sommario della settimana
Numero 44. Da venerdì 2 a giovedì 8 novembre 2001

Rivelazione
Al G8 c'erano anche i Padan bloc di Enea Guarinoni

L’inchiesta vecchio stile
L'amico amerikano a cura di Giacomo Papi, Mario Portanova, Assunta Sarlo
La bandiera, la parola America, i morti, la politica estera e i ricordi americani secondo mille e più lettori di Diario

Tutta la città ne parla
Una settimana di notizie da: Reno, Caserta, Genova, Napoli, Roma
(ma anche i Numeri, In fondo a destra, l'Agenda e le Biblioteche)

Vedi alla voce Cultura
Malraux fa cento e li dimostra di Fabio Gambaro
Sorridere sulla Shoah di Davide Silvera

Lo spettatore esigente
A tempo pieno di Marco Lodoli
E inoltre: Danza, Palcoscenico, Opera, Videogiochi, Rassegne, I Tesori dell'Edicola, Ultimi giorni in Mostra, Film in Tv, Il documentario, Radio classica

Lettura
Parigi 1961: sparare agli algerini di Anna Tito

Le recensioni
Arturo Pérez-Reverte, Akhil Sharma, Iaia Caputo, Peter Brook, Chad Taylor, Marta Benedetti, Stefano Tassinari

Tutto il mondo ne parla
Storie, notizie e curiosità da: Svizzera, Sri Lanka, India, Iran, Guatemala, Filippine

I nostri inviati nel mondo
Lo sceicco cieco d'odio di Gabriella Saba
Il sultano, Osama e gli altri di Alessandro Marzo Magno

Un certo stile
Gemma, nipote di Emma di Pietro Cheli

Se ne sono andati
Abdul Haq, Le cartine Rizla di Andrea Jacchia

Le rubriche
Florence Nightingale, Nicola Montella, Laura Pariani, Attilio Scarpellini, Elvio Giudici, Jaime D'Alessandro, Massimo Onofri, Laura Forzinetti, Maria Novella Oppo, Luca Fontana, Alessandro Robecchi, Silvano Agosti, Stefano Bartezzaghi, Elfo.

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5.11

Appello per la Palestina 

 

S.O.S. PALESTINA: CONFERENZA STAMPA DI PRESENTAZIONE DELL'APPELLO
Martedì 6 novembre 2001 ore 12
Libreria Feltrinelli via Manzoni 12
 
Un migliaio di morti, diverse migliaia di feriti, molte città restituite all'Autorità Nazionale Palestinese, in base agli accordi  di pace, ora rioccupate dall'esercito israeliano, la pratica quotidiana dell'assassinio di dirigenti palestinesi da parte israeliana al di fuori di ogni legalità: questo il quadro desolante. Come flebile speranza: le dichiarazioni di principio a favore della creazione di uno Stato palestinese da parte di molti leader occidentali, come il presidente Bush, il premier britannico Blair, il presidente del Consiglio Berlusconi, ma ahimé prive di indicazioni su come realizzarla concretamente. 
 
Nel Corso della riunione tenutasi a Milano il 24 ottobre 2001 l'Associazione di amicizia Italia-Palestina, l'Osservatorio di Milano e Salaam hanno lanciato un appello per sensibilizzare l'opinione pubblica di fronte alla crisi medio orientale, autentico nodo della grave instabilità internazionale, chiedendo una pace giusta in Palestina.
 
L'appello parte da Milano, fedele alla tradizione di sensibilità della città per le questioni internazionali, ma sta raccogliendo un numero significativo di adesioni anche a livello nazionale, a dimostrazione di quanto l'opinione pubblica italiana sia consapevole della tragedia che si sta consumando in Medio Oriente. Il prestigio e la simpatia che circondano il nostro Paese tra i milioni di palestinesi sparsi nei campi profughi di quella regione, costituiscono un patrimonio da difendere, facendo ogni sforzo perché quel popolo possa vedere riconosciuti i propri diritti sulla propria terra. 
 
A chi invoca pace e diritto all'esistenza anche di Israele, ricordiamo che la pace è figlia del reciproco rispetto e fatica a mettere radici laddove il più forte calpesta quotidianamente i diritti, anche elementari, del più debole, ponendo come condizione per la pace, la sottomissione.
 

EMERGENZA PALESTINA

Per la pace giusta in Palestina

Per la protezione della popolazione civile palestinese

Noi sottoscritti cittadini italiani e stranieri

premesso che l'occupazione militare israeliana dei territori palestinesi rappresenta una grave violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite e dei diritti umani fondamentali della popolazione civile

chiediamo

al governo italiano, alle forze politiche, agli enti locali, alle associazioni laiche e religiose, a tutta la collettività

di agire concretamente

per i seguenti obiettivi:

1) protezione della popolazione civile palestinese, anche attraverso l'invio di una forza internazionale dell'Onu, per la difesa di tutte le vittime di una situazione intollerabile, come dimostra anche l'occupazione con i carri carmati israeliani di Betlemme (città gemellata con Milano), e i colpi sparati contro la basilica della Natività di Gesù Cristo.

2) ritiro immediato e permanente dell'esercito israeliano dai Territori dell'Autorità Nazionale Palestinese, come richiesto dall'Unione Europea e dagli U.S.A.

3) ripresa immediata del processo di pace tra Israele e Autorità Nazionale Palestinese, fondato sul rispetto delle risoluzioni dell'Onu, delle convenzioni internazionali, sul riconoscimento del diritto inalienabile del popolo palestinese ad un proprio stato indipendente.

 

PALESTINE - AN EMERGENCY

FOR A JUST PEACE IN PALESTINE

FOR THE PROTECTION OF THE PALESTINIAN CIVILIAN POPULATION

The military occupation of the Palestinian territories by Israel is a grave violation of the U.N. resolutions and of the fundamental human rights of any civilian population; therefore we, Italian and foreign citizens living in Italy,

demand

that the Italian government, political organizations, local authorities, secular and religious associations and the general public take concrete actions to pursue the following objectives:

1. The protection of the Palestinian civilian population also by sending a U.N. international force to defend all the victims of an umbearable situation, which is evidenced by Israeli tanks occupying Bethlehem, a town linked to Milan by twinning, where even Jesus' Nativity Church has been hit.

2. The immediate and permanent withdrawal of the Israeli army from the National Palestinian Authority territories as urged by the European Union and the United States.

3. The immediate resumption of the peace talks in accordance with the U.N. resolutions and the international conventions for the recognition of the inalienable right of the Palestinian people to their own independent and sovereign state.

 

Prime adesioni

Velio Abati (insegnante Istit. magistrale Grosseto), Mario Abud (prof. dipart. di fisica, Università Federico II di Napoli), Luisa Acerbi (Milano), Farid Adly (Anbamed, Notizie dal Mediterraneo), Mariagiulia Agnoletto (psichiatra, Salaam comitato di Milano), Paolo Agnoletto (avvocato), Alfredo Agustoni (coord. lombardo Nord-Sud del mondo), Hosein Ahmad (Ist. universitario orientale di Napoli), Arnaldo Alberti (orientalista, Ivrea), Daniela Ambrosino (funzion. Corte Costituzionale, Roma), Daniel Amit (prof.di fisica alla Sapienza e alla Hebrew University di Gerusalemme), Angelo Arioli (ordinario di lingua e letteratura araba, vicepreside della facoltà di studi orientali, Università La Sapienza Roma), Anna Assuma (Milano), Enrico Baj (pittore, Milano), Luca Baranelli (Siena), Luisa Baranelli (Siena), Antonio Barbato (sindacato di base vigili urbani, Milano), Annalisa Basso (Cnr, Napoli), Vittorio Bellavite (coordinatore Noi Siamo Chiesa, Milano), Katia Bellillo (deputato), Padre Jean - Marie Benjamin (Assisi), Antonella Bertoli (presid. Consiglio Prov.le Rovigo), Bruno Bertolini (Roma), Maria Pia Betti (assegnista di ricerca, fac. di lettere e filosofia Università di Pisa), Enzo Bianchi (giornalista, Milano), Fiamma Bianchi Bandinelli (Siena), Riccardo Bocco (prof. Università di Ginevra), Lucia Borgianni, Mauro Bulgarelli (deputato), Luciano Canfora (storico, prof. all'Università di Bari), Mario Capanna (Milano), Marco Capra (Milano), Mons. Hilarion Capucci (Arcivescovo di Gerusalemme), Iaia Caputo (giornalista, Milano), Maria Grazia Caputo (dirett. gen. Vides Internazionale), Franco Cardini (prof. all'Università di Firenze), Marco Carraro (Dropout, officina dell'immagine, Milano), Mauro Castiglioni (Milano), Maria Pia Cavaliere ( Dima, dip. di matematica Università di Genova), Aine Cavallini, Paolo Cento (deputato), Luciana Cervati, Nadia Cervoni (Donne in nero Roma), Alessandra Ciattini (ricercatrice univ. Roma), Laura Cima (deputato), Ornella Clementi (Donne in nero Bologna), Stefano Colonna (istit. di chimica organica, facoltà di farmacia, Università di Milano), Gabriella Coppola (professoressa), Sebastiano Cosenza (Milano), Maura Cossutta (deputato), Lella Costa (attrice, regista, Milano), Marianita De Ambrogio (Donne in nero Torino), Andrea De Lotto (maestro, coordinamento genitori nidi e materne Chiedo Asilo), José Luiz Del Roio (storico), Loredana De Petris (senatore), Antonino Drago (prof. associato dell'Università di Napoli), Rolando Dubini (avvocato, Ass. di amicizia Italia-Palestina), Michele Emmer (Università di Roma La Sapienza), Patrizia Esposito (fotografo), Aldo Ferrara (docente di pneumatologia all'Università di Siena), Alessandra Filabozzi (dipart. di fisica Università di Roma), Dario Fo (Nobel per la letteratura, Milano), Giorgio Forti (prof. facoltà di scienze dell'Università di Milano), Alessandra Galbiati (Milano), Alessandra Garroni (medico, Roma), Stefano Garroni (ricercatore Cnr, Roma), Mario Geymonat (prof. all'Università Cà Foscari, Venezia), Enrico Giardino ( Forum Dac), Anna Gigli (ricercatrice Cnr, Roma), Roberto Giudici (presid. Associaz. di amicizia Italia-Palestina), Gabriella Grasso (Milano), Laura Guazzone (cons.scient. dell'Istituto Affari Internazionali, Roma), Sveva Haertter, Fawzi Ismail (medico, vicepresid. Associaz. Sardegna-Palestina), Younis Kutaiba, Luca Leuzzi (stud.universitario, Amsterdam), Stefania Limiti (Roma), Paolo Limonta ( Centro culturale Kurdistan - Italia), Graziella Longoni (Cabiate), Maria Grazia Marinari (dipart. di matematica, Università di Genova), Maddalena Massei (webmaster, Milano), Valentina Marzilli, Libera Mazzoleni (Milano), Alessandro Mazzone (docente universitario, Siena), Paola Merlo (Comitato di solidarietà con il popolo palestinese, Torino), Marialidia Minak (pubblicista, Milano), Emilio Molinari (Milano), Giorgio Montagnoli (dipart. di veterinaria dell'Università di Pisa), Ersilia Monti (coordinamento lombardo Nord - Sud del mondo), Maurizio Musolino (giornalista di Rinascita, Roma), Daniela Musso (Marsiglia), Amalia Navoni (coordinamento lombardo Nord - Sud del mondo), Sinda Nawrocka, Mimmo Negro (Centro sociale Asilo politico, Salerno), Flora Nicoletta (giornalista, Gaza City), Chiara Nicolini (Psicologia, Università di Padova), Nada Nobili, Piero Olla (ingegnere, Cagliari), Barbara Orlandini (Bologna), Gianfranco Pagliarulo (senatore), Lorenzo Paolino (insegn. Istit. tecnico agrario di Firenze), Giorgio Parisi (docente di teorie quantistiche, Università di Roma), Silvano Parolari (segreteria Forum sociale Vallecamonica), Olivia Pastorelli (Busto Arsizio), Mariangela Peddizzi (presid. Associaz. Sardegna-Palestina), Giovanni Persico (prof. dipart. di sociologia, Università Federico II di Napoli), Teresita Picardi ( dipart. di veterinaria, Università di Pisa), Gabriella Pistone (deputato), Emiliana Poce (Dropout, officina dell'immagine, Milano), Paolo Poce (Dropout, Milano), Francesca Polito, Franca Rame (attrice, regista, Milano), Meriam Rattin (insegnante, Donne in nero), Carlo Remeny (giornalista di Famiglia Cristiana, Milano), Rosetta Riboldi (cons. comunale di Cinisello Balsamo), don Gino Rigoldi, Giorgio Riolo (Associaz. culturale Punto Rosso), Marco Rizzo (deputato), Margherita Roggero (dipart. di matematica, Università di Torino), Erminia Romano (professoressa), Ruggero Ruggeri (deputato), Mariangela Sacchi (restauratrice), Luciana Saibene (giornalista, Milano), Maria Saibene (Milano), Ruba Salih (Università di Bologna), Marinella Sanvito (Donne in nero Milano), Marisa Savoia (dottssa Cto Napoli), Albino Scalcione (fotoreporter, Milano), Luciano Scalettari (giornalista, Milano), Francesco Scarpelli (Dropout, officina dell'immagine, Milano), Susanne Scheidt, Edvige Schettino (prof.ssa dipartimento di fisica dell'Università Federico II di Napoli), Eva Schwarzwald, Marianella Sclavi, Pino Sgobio (deputato), Fulvio Spelta, Giorgio Stern (Salaam, Trieste), Fausto Tagliabue (fotoreporter, Milano), Nicola Teti (editore, Milano), Massimo Todisco (Osservatorio di Milano), Francesco Tofoni (Milano), Valentina Turazzi (presid. Coop. soc. Centri Rousseau), Claudio Treves, Angelo Valdameri (coordinamento dei comitati di quartiere, Milano), Tiziana Valpiana (deputato), Eleonora Varisco (insegnante), Nichi Vendola (deputato), Patrizia Viglino (fotogiornalista, Bologna), Gabriele Visco Gilardi, Kathleen Ellen White (Milano), Tammam Youssef (cardiochirurgo, S. Donato Milanese), Luana Zanella (deputato), Rebecca Zanuso.

Molte altre adesioni sono già pervenute e stanno pervenendo ogni giorno, e verranno comunicate in seguito.

NE OCCORRONO MOLTE ALTRE, CON LE QUALI LANCEREMO ULTERIORI INIZIATIVE.

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5.11

Il sito italiano di politica internazionale

 

Mi permetto di segnalarvi un nuovo sito che è stato creato in Italia e che si occupa di politica internazionale.
Curato da giovani ricercatori, si ispira a tutti quei siti tipo stratfor.com eccetera diffusi nel mondo anglofono, ma con la grossa novità di essere in italiano. L'idea è buona e merita di essere guardata con un certo interesse.
Perciò se vi capita fateci un salto e diffondete la notizia ai vostri contatti interessati.
Il sito si trova su: www.equilibri.net
Un saluto a tutti da Arrigo Livori

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5.11

Massimo Fini: ecco perchè non andrò alla marcia

di Massimo Fini
(Il Tempo - Sabato 27 ottobre 2001)

NON andrò alla marcia. Non solo perché è un esercizio di retorica, ma perché se l’Europa vuole contare qualcosa deve prendere necessariamente qualche distanza dagli Stati Uniti. I nostri interessi infatti non sempre coincidono. Lo si è visto bene nella vicenda Kosovo. Lasciamo pur perdere che si è violato il principio della sovranità nazionale e quello stesso Patto atlantico per cui oggi ci è stato chiesto di affiancare gli americani in Afghanistan. Parliamo di Realpolitik che sembra l’unico linguaggio comprensibile in un’epoca in cui si fa strage di ogni principio. Perché gli Stati Uniti sono intervenuti in Kosovo? Per tagliare le unghie all’ultimo Paese, la Serbia, rimasto vagamente comunista nel Vecchio Continente, per riaffermare la loro primazia in Europa e sull’Europa, per costituire nei Balcani un cuneo di musulmanesimo «laico» (Albania più Bosnia più Kosovo) in funzione del loro grande alleato nella regione, la Turchia. Obiettivi comprensibili da parte americana, un autogol per l’Europa e in particolare per l’Italia.
Una Jugoslavia forte era un fattore di stabilizzazione nei Balcani, adesso ci sono intere aree che sono «terre di nessuno» dove cresce e si rafforza ogni tipo di criminalità organizzata che poi va a realizzare i propri affari nel Paese ricco più vicino, l’Italia. Combattendo la Serbia, in Kosovo e prima in Bosnia, abbiamo combattuto un Paese cristiano, a noi culturalmente affine, in favore di un musulmanesimo che sarà anche «laico» ma che coltiva in sé i germi dell’integralismo. Ma lascia molto perplessi anche l’attuale intervento a fianco dell’America. «Gli Usa» ha scritto Franco Cardini «esigono dai loro alleati un appoggio incondizionato senza comunicare le loro intenzioni: un assegno in bianco che nessuno firmerebbe». E proprio la Nato è il problema. La Nato è stata indispensabile finché è esistita l’Urss, perché solo il deterrente atomico americano poteva garantire l’Europa dal potenziale nucleare russo, ma questo patto andava rimesso in discussione all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica. Perché, come è ovvio, gli Stati Uniti non ci hanno garantito per cinquant’anni la difesa gratuitamente: la Nato è stata, ed è, lo strumento con cui gli americani hanno tenuto soggiogata l’Europa, militarmente, politicamente e anche economicamente. Oggi la Nato ci mantiene in uno stato di sudditanza, senza darci alcun vantaggio. E infatti gli Stati Uniti sono corsi a lusingare Russia e Cina, offrendo loro sostanziose contropartite (ai russi, cinicamente, mano libera in Cecenia), mentre l’Europa - inglesi a parte - è stata trattata come Cenerentola tanto era già aggiogata al carro. Si spiega così l'impossibilità per l’Europa di avere, in questa crisi, una politica propria e il penoso pellegrinaggio dei leader europei a Washington tanto per ritagliarsi una fetta di benevolenza dell’amico americano.
Invece di far inutili marce di solidarietà e di piangere lacrimucce di commozione su Bob Dylan è proprio il Patto Atlantico che, appena si saranno calmate un po’ le acque, va denunciato e mi conforta che di questa opinione sia anche Francesco Cossiga (intervista al Corriere, 25/10) che di tutto può essere accusato tranne che di «antiamericanismo» preconcetto. Noi non possiamo sposare la politica degli Stati Uniti verso i popoli arabo-musulmani, se non altro perché li abbiamo sull’uscio di casa. E se vogliamo avere qualche possibilità di difenderci negli scenari apocalittici che si prospettano dobbiamo lavorare per avere, al più presto, un’Europa unita, politicamente e militarmente, neutrale, armata e nucleare.

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3.11

Il pensiero unico

PROGRAMMA ASEFI 08/2001 - Supplemento
(1 novembre 2001 - Anno 1 numero 8)

"Mi beavo in Sartre". L'Oriana Fallaci del 1963 evoca così il suo 1947 di liceale, che vede "Les Enfants du paradis" col primo amore. Pretesto della rimembranza, l'incontro con Arletty negli "Antipatici", suo terzo libro. L'ego non lascia però ancora prevedere alla Fallaci che si "beerà" ancora di Sartre, diventando più di Angela Davis, più di Pamela Hearst, più di Silvia Baraldini. Personaggi da cronaca; ma è la storia che la Fallaci di solito intervista. E se nella storia resta l'11 settembre, nella storia delle idee resta il 29 settembre. Data finora legata a Battisti & Mogol, dal 2001 reintroduce nel dibattito politico l'intellettuale. Ma da un'angolazione insolita, quella della Fallaci, estremista di centro con pedigree di sinistra. Della sua Rabbia e del suo Orgoglio - maiuscoli american style - s'è inturgidito il Corriere della Sera di quel giorno, come l'Aurore del 12 gennaio 1898 col "J'accuse" di Emile Zola. Splende dunque ben oltre il firmamento giornalistico un astro femminile. Del resto, nel nostro cinema, nella nostra letteratura - "Roma città aperta" o "La ciociara", "La storia" o "Va dove ti porta il cuore" - si staglia l'eroina, non l'eroe. Alla fantasia, la realtà insegna - con Ambrosoli, Falcone, Borsellino… - che l'eroe muore ammazzato.

Un astro femminile volitivo. Basta confrontare la prosa veemente sempre, feroce talora, con quella di chi replica. La Fallaci afferma, gli altri esitano; la Fallaci scandisce, gli altri mormorano; lei è, gli altri sarebbero. Unica teorica rivale, Susan Sontag - newyorkese nata, meno patriottica della Fallaci, che è adottiva -, con un articolo uscito dopo l'11 ma prima del 29 settembre. Ai tempi di Johnson e Nixon, i contestatori chiedevano: "Dov'è Lee Oswald, ora che c'è bisogno di lui?". Il 29 settembre molte "firme" italiane si chiedevano dove fosse il soldatino che, sulla piazza della Tre culture di Città del Messico, sempre nel 1968, aveva ferito la Fallaci: se avesse mirato meglio... Con "La Rabbia e l'Orgoglio" ci si fanno dei nemici, ma da nessun talebano c'è da guardarsi quanto da un collega invidioso, che non abbia capito come la famosa giornalista sia stata promossa a famosa agitatrice. Non male per chi non ha alle spalle una nazione letteraria tipo la Francia, come aveva Sartre.

Ma chi è costui? Nel 1978 un polacco diventa papa e gli soffia il nome. In Francia, Jean-Paul II (pronuncia: sgianpoldè) prevale subito su Jean-Paul Sartre. I cui devoti, dopo il 1980 della morte, si rarefanno in proporzione alla chiamata al cielo dei nati nella prima metà del '900. In Italia, sua terra di vacanza, almeno per l'amicizia con Palmiro Togliatti i diesse dovrebbero ricordare Sartre. Dovrebbero. Altrove? Nemmeno nelle facoltà di Filosofia. A una nostalgia intensa come quella della Fallaci per se stessa liceale cede ora il Foglio per inquadrare, con Sartre, l'intellettuale.

Napoli, 1939. Professore trentacinquenne, Sartre non cerca tracce del fondatore del Pcd'I, Amadeo Bordiga, ingegnere e pensatore. Fa solo il turista e una sera dà della "fascista" a Simone de Beauvoir, il Castoro, perché le piacciono le case popolari del regime. Dimenticando "La nausea" (1938), lei replica: "E tu? Non concluderai mai nulla!". Così, dopo "L'essere e il nulla" (1943), per dimostrare che qualcosa conclude, nel 1948 Sartre fonda con David Rousset il Rassemblement démocratique révolutionnaire. Quaranta lettere nel nome, duemila iscritti nell'organico, l'Rdr è il partito più intellettuale del mondo. Alla sala Pleyel di Parigi, sul tema "Internationalisme de l'esprit", il 13 dicembre 1948 sono sul palco - con Sartre e Rousset - André Bréton, Albert Camus, Carlo Levi, Guido Piovene e Richard Wright. Più che un comizio politico, un convegno di letterati. E il clima è quello: Camus viene a condizione che non venga Maurice Merleau-Ponty; Camus è all'apice del successo, così Merleau-Ponty è sacrificato. Meno di un anno dopo, sacrificato è Sartre. Ostile alla svolta "filoamericana" di Rousset, si lascia alle sue spalle, con l'Rdr, i trecentomila franchi che vi ha messo di tasca sua e porta con sé l'insulto di Alexander Fadeiev: "Iena con la stilografica". Che cade nel dicembre 1952, quando, con Fadeiev, partecipa al congresso di Vienna del Movimento mondiale per la pace. Ci sono anche Jorge Amado, Ilja Ehrenburg e Pablo Neruda. Nuove amicizie comuniste, che Sartre onora vietando ulteriori rappresentazioni in città delle "Mani sporche", diventato "strumento di propaganda politica" anticomunista.

Il cammino di Sartre coincide con quello del Pcf un po' più a lungo che quello di Sartre con l'Rdr Eppure, se può essere un compagno di strada, Sartre non è un servo di partito. S'è visto: è uno che paga, non uno che si fa pagare. Può permetterselo, i suoi libri vanno a ruba. Se agli intellettuali i soldi non bastano mai, a Sartre bastano sempre. Nel 1964 rifiuta perfino un cospicuo Nobel. Tanto di cappello da Thierry Maulnier, che commenta su Le Figaro: "Piaccia o no, nessuno scrittore francese della sua generazione, forse nessuno nel mondo ha una simile reputazione e un pubblico così grande… La celebrità di Sartre deriva da un'opera che è insieme di filosofo, romanziere, drammaturgo, critico, scrittore politico, perfino polemico". Nel 1968 della guerra nel Vietnam e dell'invasione della Cecoslovacchia ("Un'autentica aggressione, per il diritto internazionale un crimine di guerra"), Sartre si esprime sia contro gli americani, sia contro i russi, mentre altri scelgono da quale occhio essere orbi. Viene il maggio parigino. Il 10 firma su Le Monde - con Blanchot, Gorz, Klossowski, Lacan, Lefebvre e Nadeau - un manifesto di solidarietà con gli studenti in rivolta. E' di estrema sinistra, è famoso, sì, ma ha un'età. Il 10 febbraio 1969, quando sale sul palco della Mutualitè, una scritta intima: "Sartre, sii chiaro, sii breve"…

Una delle ultime foto gioiose, eppur malinconiche, di Sartre è del 20 giugno 1970. "Demandez la Cause du peuple, demandez la Cause du peuple". Prima lo mormora, poi lo grida ai passanti di mezzogiorno nella rue du Faubourg-Poissonière e nel boulevard Bonne-Nouvelle. Con lui sono Patrice Chéreau, Samy Frey, Jean-Edern Hallier e Claude Lanzmann. Finiscono tutti al commissariato per diffusione di testata clandestina. Sartre viene subito rilasciato, gli altri no. Un giornalista gli chiede se cerchi di farsi processare per fare del banco d'imputato una tribuna. "No, sono contentissimo d'essere fuori. Così potrò testimoniare al processo degli altri. Io cerco di mettere il governo davanti alle sue responsabilità". E' la stessa situazione del tempo del manifesto dei 121 - Breton, Lévi-Strauss, Florence Malraux, Morin, Resnais, Robbe-Grillet, la Sarraute, la Signoret, Vercors… - che si scagliano contro la guerra d'Algeria. Presidente allora (1960) è Charles de Gaulle. A chi propone di arrestare per sedizione Sartre, capofila dei 121, oppone: "Non si imprigiona Voltaire". Sono passati dieci anni, non è più presidente della Repubblica un generale cattolico e monarchico, ma un banchiere cresciuto alla corte dei Rothschild. Però, su Sartre, Pompidou la pensa come de Gaulle. Non l'Oas, che gli metterà una bomba al plastico davanti all'uscio di casa.

Se perfino i politici pensano in Francia, immaginate gli intellettuali. Il cui compito - per Pierre Drieu La Rochelle - è "andare dove nessuno è stato". Ma Sartre disprezza Drieu, che "ha auspicato la rivoluzione fascista come certuni auspicano la guerra, perché non osano rompere con l'amante". Disprezza anche Lucien Rebatet e il gruppo di Je suis partout, "modesti tenori ormai privi dello scarso vigore e fascino che avevano, come Céline e Montherlant, o che non ne hanno mai avuto, come Thérive e Brasillach". Anni Trenta, Quaranta, Cinquanta, Sessanta… La gioventù di Sartre passa e con lei lo schematismo del "buoni a sinistra, cattivi a destra". Nell'estate 1970, all'Idiot international confessa: "I giornali borghesi dicono la verità più della stampa rivoluzionaria. Anche se mentono, mentono meno". Ma Sartre non rinuncia a sostenere le cause che trova giuste. Non trascura nessun prigioniero politico. Nel 1973 dichiara allo "Spiegel": la Baader-Meinhof "è davvero un gruppo rivoluzionario, ma forse hanno cominciato troppo presto". E ancora: "Il terrorismo, comprensibile in America latina, non è politicamente valido in Europa occidentale". Quando Sartre va a trovarlo in cella, Baader l'affronta: "La credevo un amico e ho davanti un giudice".

Un grande autore lanciato da Cocteau, poi vicino a Sartre che gli intitola perfino un libro, Jean Genet, in politica è più risoluto e più ambiguo di lui. Come Curzio Malaparte nella "Pelle" si commuove per fascisti fucilati nell'agosto 1944 a Firenze, davanti a Santa Maria Novella, il protagonista di "Pompe funebri" (1944), lo stesso Genet, entra in un cinema e vede nel cinegiornale i combattimenti di Parigi dell'agosto 1944. Un giovane della Milice viene picchiato dai partigiani e Genet ha pietà di lui, anche se gli pare che sia l'assassino di un suo amico: "Il mio odio per il miliziano era così forte, così bello, da equivalere al più robusto amore". E in una passo poi soppresso del "Diario di un ladro" (1946), a proposito dei partigiani borghesi deportati a Dachau, Genet confida a un compagno di cella: "Pensa come sono felice nel vedere quei tipi, che ridevano di me quando stavo dietro mura spesse tre metri, in balia di uno sbirro idiota, crivellati dalle pallottole, scheletriti, circondati dal filo spinato". E' uno spirito di rivalsa non lontano da quello che, nel 1968, spinge l'omologo italiano di Genet, Pier Paolo Pasolini, a scrivere per dispetto degli studenti, borghesi figli di borghesi: "Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti / Perché i poliziotti sono figli di poveri, / vengono da periferie, contadine o urbane che siano". La sinistra ufficiale non ama né l'uno né l'altro, ma Genet è più provocatorio di Pasolini. Quando si china sulla grande industria, complice il caso Schleyer, non lo fa con la leggerezza della lucciola che Pasolini non scambiebbe con la Montedison. Il 2 settembre 1977 Genet pubblica su Le Monde un articolo intitolato "Violenza e brutalità". Distingue la "brutalità" dello Stato (Repubblica Federale di Germania, Stati Uniti) e la "violenza" della Baader-Meinhof, biologica e positiva, simile alla forza vitale (qualcosa del genere aveva già teorizzato Georges Sorel). Per l'imperterrito Genet, un modo per distinguere l'una dall'altra è osservare quali gruppi l'Unione Sovietica protegga. Alle parole seguono i fatti. Il 5 settembre il capo della Confindustria tedesca, Hanns-Martin Schleyer, viene rapito e la scorta uccisa. Un mese dopo anche Schleyer verrà ucciso e i tre rapitori si daranno la morte. L'articolo di Genet è di prima degli eventi, lo Spiegel lo traduce in tedesco dopo. Morale: isolamento di Genet, rotto solo da Tahar Ben Jelloun sul Monde del 24 settembre: "Non gli si perdona di essere stato accanto agli Zengakuren in Giappone, alle Pantere nere, ai palestinesi, ai senza patria".

Pasolini coglie meglio di Genet le derive della società dei consumi che il '68 rilancia e, sotto le velleità della rivolta giovanile, sente i vagiti del pensiero unico: "Popolo e Corriere della Sera, / Newsweek e Monde / vi leccano il culo. Siete i loro figli, / la loro speranza, il loro futuro". Come Genet, anche lui ricalca Malaparte, ereditandone sul settimanale Tempo la rubrica "Battibecchi", ribattezzata "Caos". Qui, sempre nel 1968, si occupa dell'attentatore dei colonnelli greci, Alekos Panagulis, che diverrà caro alla Fallaci, intanto cresciuta nel giornalismo e nella narrativa, se non nell'ideologia. Camilla Cederna e la Fallaci - una Cederna che ha viaggiato - appaiono in "Comizi d'amore" di Pasolini (1964), dove rispondono a un'inchiesta sulle donne. Sempre nel 1964 "Il Vangelo secondo Matteo" fa incontrare Pasolini e Sartre in un caffè di Parigi. All'appuntamento con Jean-Paul, Pier Paolo arriva con due ore di ritardo. Simpatizzano ma non legano: le battaglie di Pasolini sono più sociali che politiche, più italiane che mondiali. Il respiro della sua protesta sta a quello della protesta di Sartre come la rurale vocazione al suicidio di Pavese sta a quella cosmica di Drieu. E poi Sartre guarda ai maestri della sua generazione, per la quale Parigi è il mondo e Gide l'ombelico del mondo, perché "è riuscito a realizzare contro di sé l'unione dei benpensanti di destra e di sinistra osando pubblicare la professione di fede del 'Corydon' e la requisitoria del 'Viaggio al Congo', ha avuto il coraggio di schierarsi dalla parte dell'Unione Sovietica quando era pericoloso farlo e quello, ancora più grande, di ricredersi pubblicamente, quando giudicò a torto o ragione di essersi sbagliato. Forse proprio questa miscela di audacia e riflessività ne fa un uomo esemplare". Pasolini invece non può non sapere, con Gadda, che "i letterati ingaggiati dopo anni zinque si disingaggiano". Non si crede legislatore o - via Corriere, come oggi la Fallaci - almeno prelegislatore moderno. Tutt'al più interprete postmoderno.
Anche il realismo di Adorno - "Comunque agisca, l'intellettuale sbaglia" - è ormai superato dal fatto che la categoria ha perso peso col numero di libri invenduti. In proporzione è cresciuto il prestigio del giornalista televisivo alla Santoro. Si aggiunga che "la sinistra e l'estrema sinistra in Occidente non hanno più idee perché da troppo tempo non vanno più in prigione", come dieci anni fa rilevava Régis Debray, ex detenuto a Camiri, Bolivia. La scorsa primavera, Debray stila l'atto di morte dell'intellettuale, nato con Emile Zola e il caso Dreyfus: a stroncarlo, l'adesione al pensiero unico degli "intellettuali finali" in occasione della guerra all'Iraq e in quella alla Serbia. "Si dice che chi è contro le guerre americane è antiamericano; e chi è antiamericano deve tacere". Chi decide chi è antiamericano? "Le Monde e Libération", un tempo i quotidiani parigini più antiamericani. E gli altri? "Si adeguano".

Lo schieramento dei residui intellettuali-non-finali s'è ancora assottigliato col recente malanno che ha colpito Roger Garaudy, l'unico di fede islamica. In salute, ma più desolato di Debray, l'intellettuale-non-finale americano ebreo per eccellenza, Noam Chomsky: "La categoria tace davanti alla nuova guerra e lei si stupisce? Quanti hanno parlato nel 1914? I pochi a farlo sono andati in galera o in esilio". Ma oggi non c'è più frontiera che tenga davanti al pensiero unico. Per avere detto qualche giorno fa che Israele conduce nei territori occupati una politica criminale e che dovrebbe ritirarsi, Guenther Grass si è sentito replicare dal ministro israeliano della Cultura che, così, reclama il suicidio collettivo degli ebrei che vi si sono stabiliti. Parole che per un intellettuale occidentale, tedesco in particolare, suonano come fine della carriera. Agli sgoccioli anche quella di Martin Walser. Per avere eccepito - in una predica alla Paulskirche di Francoforte l'11 ottobre 1998 - sulla permanente minorità politica della Germania (che una settimana fa il Cancelliere Gerhard Schroeder ha proclamato concluso, senza avere apprezzabili reazioni, causa Afghanistan), s'è visto emarginato dalla società mediatica. Lo sa ancor di più Peter Handke. Per avere difeso negli ultimi anni la Serbia dalle accuse della "comunità internazionale", si vede sistematicamente stroncato. Dunque né Walser, né Handke aprono bocca - a richiesta del Foglio - sulla questione dell'intellettuale. Idem Emir Kusturica, regista che ha vinto tutti i Festival e che finora non ha avuto peli sulla lingua circa la sua Sarajevo e dintorni. Perfino un allievo di Pasolini, Bernardo Bertolucci tace. Pensare che, nel 1968, proclamava a Paese Sera: "Abbasso Marcuse, viva Sartre". Pensare che nel ,1979, celebrava il compromesso storico con "Novecento" e lo proiettava in anteprima per Berlinguer… Ora Bertolucci "è in viaggio, non può riflettere", spiega l'addetta stampa, consolandoci con l'augurio: "Buon Foglio".

E per il Foglio invece riflette il paladino dei sans-papier - in gran parte islamici - Bertrand Tavernier: "La penso come Salman Rushdie. Se da una parte c'è il controterrorismo, dall'altra c'è non solo il terrorismo, ma anche una visione retriva, che ci priverebbe tanto della democrazia, quanto della minigonna. Silenzio degli intellettuali? A dover parlare subito sono i giornalisti, rischiando idiozie. Zola non intervenne subito per Dreyfus…". E' la cautela auspicata anche da un esperto sia di intellettuali, sia di Terzo mondo, Giorgio Galli. "Sono preoccupato perché oggi chi è contro la guerra di ricolonizzazione dell'Afghanistan (dell'Iraq, dell'Iran, ecc.) passa per stragista".

Di "colonialismo angloamericano" parla al Foglio anche Jean-Jacques Langendorf, svizzero per parte di madre, ebreo-tedesco per parte di padre: costui, giornalista socialdemocratico della Frankfurter Allgemeine, emigrò nel 1933 e tornò in Germania nel 1945, come ufficiale dell'esercito americano incaricato della "rieducazione" tedesca. Se Debray è stato guerrigliero prima che scrittore, Langendorf - oggi autore Adelphi - ha messo una bomba al consolato spagnolo di Ginevra nel 1959. "Smesso Marx, indossato Huntington, gli intellettuali - osserva Langendorf - non hanno più la forza di resistere e si proclamano 'americani'. Ce n'è bisogno? I miei figli ignorano la Pasqua, ma celebrano Halloween. Vivendo in Austria". Dalla Svizzera, Vladimir Dimitrijevic - sua L'Age d'homme, dal cui catalogo Adelphi attinge spesso e volentieri - ci risponde: "Gli intellettuali fanno bene le autopsie, perché il morto non reagisce. Normalmente vili, cantano nel coro. Rari i solisti come Handke. E per i media, mai come ora di oservanza americana, è facile zittirli". L'idolo di Nanterre '68, Jean Baudrillard, rincara: "Ma nemmeno se parlano gli intellettuali sono decisivi. Figurarsi davanti alla guerra del 'bene' contro il 'male', che camuffa la quarta guerra mondiale detta globalizzazione". Poi prende il suo personale antidoto: ovvero parte per l'ennesimo giro del mondo (per conferenze).

Promotore di un manifesto contro la guerra della Nato alla Serbia largamente firrnato anche in Italia, animatore della rivista "Krisis", dove Nietzsche e Marx si danno la mano, alla parola "intellettuali" Alain de Benoist sorride triste: "In un quarto di secolo sono passati dal 'tutto è politica' (dunque, che importa la morale?) al 'tutto è morale' (diritti dell'uomo). Incapaci di equilibrio come di analisi politica, sono sensibili alle questioni alimentari". A sentirlo, viene in mente Jean-Luc Godard che presentava a Cannes "Eloge de l'amour" - dove un agente di Steven Spielberg acquista i diritti delle memorie di una coppia di partigiani per un film che ne traviserà lo spirito - in questi termini: "L'atto di creazione dell'intellettuale è resistere a qualcosa. Resistenza, non libertà. Arduo ormai sapere della Resistenza durante la seconda guerra mondiale, ma all'inizio della Resistenza c'è stato un momento in cui il denaro non era un fine, ma un mezzo. Quando giro un film, il denaro è un mezzo, non un fine".

Anche l'antichista Luciano Canfora - studioso fra l'altro del comunista Arthur Rosenberg, storico prestato alla propaganda di guerra di Guglielmo II - vede intellettuali & show business uniti nella lotta: "L'ambiente è sensibilissimo al pubblico: scatta in piedi al primo stormir di fronda. E poi i media, a ragionamenti freddi, preferiscono viscere calde. Come quelle della Fallaci. Lei s'identifica con l'America e quindi ha un pathos. Come chi s'identifica con Osama Bin Laden". La mediaticità è determinante anche per Raniero La Valle, cattolico progressista, al centro di tutti i grandi movimenti a sostegno dell'emancipazione degli oppressi. Al Foglio denuncia la "censura" e afferma "la necessità di tornare al pluralismo dei messaggi. Il mondo non finisce l'11 settembre e neanche con le bombe sull'Afghanistan. Finirà invece un sistema che può sussistere solo con un enorme investimento di violenza, cui appartengono anche intellettuali che trovano accesso all'opinione pubblica, mentre gli altri vengono emarginati. Chi non si riconosce nel pensiero dominante, non diserta, non si allinea. Ma non se ne sente più parlare".

Allievo di Ernst Bloch a Berlino Est, poi iscritto al Pci, infine firma del Giornale, Stefano Zecchi ha avuto i suoi guai sotto la direzione di Indro Montanelli per un elzeviro sull'Intifada delle origini: l'incipit era un omaggio alla bellezza del gesto del balilla palestinese che con la fionda scaglia il sasso contro l'elicottero israeliano. Nel conflitto serbo, Zecchi era antiserbo. A domanda sugli intellettuali, al Foglio risponde: "Sartre, Genet, Pasolini avevano un prestigio che, unito a un clima politico internazionale diverso, li tutelava. Oggi invece le posizioni estreme sono ammesse solo quando sono di consenso, come quelle della Fallaci, cui si permette di straparlare fluvialmente; chi, con intenti opposti, usasse gli stessi toni, lo farebbe per l'ultima volta. S'è vista la prudenza di chi le ha risposto, come Dacia Maraini. Il sistema mediatico cancella ormai la radicalità antagonista. Michele Santoro non rientra in essa: lui provoca a fini di audience". Che "l'intellettuale finisca con l'invasione sovietica della Cecoslovacchia" è opinione di Lucio Colletti, filosofo e ideologo comunista degli anni Sessanta e Settanta, poi "professore" di una Forza Italia che gli è sempre andata stretta. Più degli intellettuali ormai gli interessa la politica e al Foglio dice: "Sono cambiati i vertici, non la base della sinistra. Quella è legata alla vecchia mitologia. Per non separarsi dalla base, in parlamento un'ala diessina ha votato con Bertinotti e Cossutta. Hanno molti nemici in casa D'Alema e Fassino, che sposano le ragioni dell'America".

Per Maurizio Serra, autore dell "Esteta armato" (Il Mulino), "l'intellettuale finisce con la democratizzazione. Gabriele d'Annunzio o Stefan George si rivolgevano a diecimila persone. Ora ci sono masse televisive di milioni di individui e, nel formare la volontà politica, l'intellettuale è ormai insignificante. Manca il contesto che lo rendeva influente". Simile l'analisi dello storico delle crociate Franco Cardini, cattolico che simpatizza con l'Islam e antipatizza con il pensiero unico, il quale "rende semplici, semplicistiche le modifiche dell'opinione pubblica. L'intellettuale non occorre più: l'intellighenzia basta". Alfonso Berardinelli - autore dell' "Eroe che pensa. Disavventure dell'impegno" (Einaudi, 1997) - col Foglio sintetizza: "Gli intellettuali contano quando un potere li fa contare. Era vero già ai tempi di Sartre, utile alla sinistra; e di Orwell, usato dalla destra. E' il podio speciale datole dal Corriere che fa contare la Fallaci".

Americanista, biografo di Mattei come alfiere della sovranità nazionale e di De Gasperi come suo liquidatore, Nico Perrona trancia: "Per conservare le collaborazioni con le tv e i giornali, gli intellettuali o ripiegano o gareggiano in americanismo. A sinistra s'è mitizzata l'America: il nuovo, il progresso, la libertà, tutto era lì. Dell'eguaglianza negata negli Stati Uniti, e dagli Stati Uniti negata al mondo, non ci si ricordava. Così la ferita inferta all'America mette gli intellettuali in trincea contro gli infedeli. Chiedersene il perché sembra vilipendio dei cadaveri delle Torri gemelle, che certo meritano rispetto, ma meditare eviterebbe altri morti. E poi nessuno pensa alla censura, né alle nuove leggi liberticide, dopo quelle dei tempi delle Br, tuttora in vigore". Con "Cosmopolis" (Feltrinelli, 1995) e soprattutto con "Chi dice umanità" (Einaudi, 2000) Danilo Zolo continua Carl Schmitt da sinistra. Col Foglio è chiaro: "Vige il global terrorism, un atlantismo ontologico alimentato dall'adorazione della forza sotto l'ombrello statunitense e dal servilismo verso le multinazionali ideologiche. Per fronteggiarlo, la sinistra manca di intellettuali autorevoli. Norberto Bobbio è affaticato quanto la sinistra stessa, i cui capi non hanno la statura per recare messaggi immuni dalla degenerazione videocratica della democrazia occidentale". Un epitaffio. Lo postilla Stefano Chiarini, ispiratore dell'ultimo manifesto circolato in Italia ("Diamo un cimitero ai morti di Sabra e Chatila, anziché una discarica", centinaia di adesioni da Bertinotti quanto da Staiti). "La sinistra tace sulla Palestina e sull'Iraq sotto embargo, con le sue centinaia di migliaia di vittime, per lo più bambini. Così qualcuno s'è dato un'audience col terrorismo. Con la sinistra appiattita su Israele, che cosa vi aspettate dagli intellettuali? Non sono leoni". E Chiarini - alias editore Gamberetti - torna ai suoi libri. Quello di Seale su Assad s'intitola "Il leone di Damasco".

Letto Huntington, letta la Fallaci, per completezza dell'informazione si rilegga la prefazione ai "Dannati della terra" di Fanon. Vi scrive Sartre: "Europei, aprite questo libro, andateci dentro. Dopo qualche passo nella notte, vedrete stranieri riuniti attorno a un fuoco, avvicinatevi, ascoltate: discutono della sorte da riservare alle vostre agenzie di commercio, ai mercenari che le difendono. Forse vi vedranno, ma continueranno a parlare, senza neanche abbassare la voce. A rispettosa distanza, vi sentirete furtivi, notturni, agghiacciati: a ciascuno il suo turno". Sono la Rabbia e l'Orgoglio del Terzo mondo.

Maurizio Cabona

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