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31.10

Mettere le mani sulla libertà - Intervista a Massimo Cacciari
      
      Duemilauno. Politica e futuro (Feltrinelli, 2001) è un libro nel quale Massimo Cacciari, a colloquio con Gianfranco Bettin, ragiona sulla crisi del nostro tempo e sui grandi problemi d'identità e di azione politica che sfidano oggi la ricollocazione dell'"homo democraticus". La globalizzazione, la sicurezza, il multiculturalismo, l'innovazione tecnologica, il lavoro, i partiti, la Rete, diventano occasione per una riflessione disincantata ma non pessimista.
 
      Professor Cacciari, la drammatizzazione della realtà in questi giorni pare segnare davvero una sconfitta della politica, forse anche l'annuncio di una sua fine.

      No, certamente non la fine. Piuttosto, la detronizzazione della politica.
 
      Ma nelle società democratiche la "detronizzazione" comporta il rischio di un'asfissia della democrazia.

      Sì, ma questo processo mi pare che vada definito come un declino del Politico verso una prepotente supremazia del Tecnico e dell'Economico. Però starei ben attento a credere che la depoliticizzazione della società e delle sue norme sia un prodotto dell'avvento digitale e di Internet. La visione di un tramonto della politica - o della sua "inutilità - è essenzialmente politica, e fa comunque parte di una corrente del pensiero europeo che si esprime compiutamente già all'inizio dell'Ottocento, nell'ambito della elaborazione del pensiero liberale.

      Però quel processo avviene ora in un contesto che ne modifica, inevitabilmente, la natura e soprattutto l'identità ideologica.

      L'ipotesi della depoliticizzazione è sorretta da una precisa volontà politica. Vorrei dire che far passare l'immagine dello Stato come macchina organizzativo-burocratica, declassando la politica al ruolo di una amministrazione ("efficienza, nell'interesse del cittadino"), è il messaggio più forte che viene comunicato da questa volontà.

      Quindi non più conflitti, ma l'armonizzazione efficientista all'interno di un "pensiero unico".

      Parlavo, infatti, della nuova supremazia del Tecnico e dell'Economico. Scientificizzazione e burocratizzazione riducono. fino ad annullarlo, lo spazio della politica. E se i grandi drammi del secolo scorso avevano ridato spazio e qualità al confronto, al conflitto ideologico, alla contrapposizione schmittiana amico/nemico, dopo l'89 questo spazio si chiude. Non è che la storia finisca, come dice invece Fukuyama; la storia piuttosto celebra un vinto e un vincitore.

      E in questo spazio ridotto, prevale una nuova identità dello Stato.

      Prevale una concezione che subordina la politica, spoliticizzandola, alle infinite meraviglie che offre la tecnologia. La depoliticizzazione è immanente all'idea stessa dello Stato contemporaneo, il cui fine è la costituzione di una struttura tecno-burocratico-razionale dove i cittadini siano isolati - chiusi ciascuno nel proprio "particolare" - e tutti i corpi intermedi siano soltanto organizzazioni sindacali d'interesse o strutture che non disturbino l'efficienza produttiva dello Stato.
 
      Siamo già avanti, su questo percorso?

      Si insedia una forma di capitalismo autopropulsivo che trova la propria legittimazione nell'aderenza alla "scientificità" della tecnica, e che, però, si manifesta refrattario a qualsiasi sorta di governo, o di controllo. Ma questo non vuol dire affatto che la politica abbia esaurito le proprie possibilità, occorre saper esprimere una dialettica nuova, una nuova cultura.

      Quale?

      Un'idea della politica nella quale, come dice Machiavelli, "il popolo torni a metter le mani sulla sua libertà". C'è una crisi evidente del modello liberista puro, per quanto oggi sia il vincitore; bisogna lavorare a creare uno spazio nuovo, corretto, del federalismo, recuperando la tradizione di Montesquieu, Tommasea, Cattaneo.
 
      Ma federalismo e globalizzazione, come combinarli?

      Le grandi culture, le grandi civiltà, non possono essere antiglobaliste, sono globaliste per vocazione. Una battaglia antiglobalista è stupida, perdente. Ma una globalità senza polarità al proprio interno non è un globo, è un piatto deserto.
 
      I poli. Ritorna dunque il concetto del confronto, del conflitto.

      Questo non è un problema astratto, la demonizzazione del confronto è patrimonio soltanto dei pasdaran del liberismo. Sono evidenti - anche nei fatti tragici della realtà d'oggi - le reazioni che vengono da tutte le culture, che si oppongono al linguaggio unico segnato dal dominio di una visione autoreferenziale dello Stato, come se questo fosse un'entità astratta, asettica, e non l'espressione di valori, idee, scelte.Quello che prevale oggi non è la globalizzazione, è l'omologazione.
 
      Eppure la Rete sembra poter affermare la cultura della diversità, della differenziazione.

      La Rete esprime simbolicamente le contraddizioni della globalizzazione. Da una parte, è strumento per la comunicazione d'informazioni (e questa è la sua valenza orizzontale, quantitativa), ma dall'altra manifesta le più ampie potenzialità di liberazione individuale.
 
      Potenzialità che, però, sembrano ancora tutte da sviluppare.

      In questa prima fase, la Rete sta globalizzando la subordinazione di massa, risucchia l'interiorità all'interno del lavoro. Lo specchio del mondo e la fabbrica virtuale sono le due facce di una identità da definire, occorrerebbe davvero creare un "Manifesto della Rete". Mi pare comunque che gli effetti di spiazzamento delle nuove tecnologie non siano non si siano ancora manifestati che in minima parte.
 
      E questo diventa particolarmente pericoloso in un contesto storico nel quale la forma dello Stato pare fissarsi nel modello di una "democrazia procedurale".

      Per questo, parlo di forme nuove della politica, perfino di un nuovo lessico. Altrimenti diventa consensuale la forma di una "democrazia senza cittadini".
 
      Quali sono le forme nuove della politica?

      Mi chiederei anzitutto quali possano essere i soggetti di una politica nuova. E allora io penso, per esempio, all'Europa, ma certo non nella sua forma attuale di area di sviluppo economico-commerciale. Solo che dal punto di vista politico, mi pare che la scelta fatta fin'ora sia quella di un modello che ricalca la storia della formazione degli Stati nazionali: temo che una simile proposizione non ci porti da nessuna parte. La democratizzazione come parlamentarizzazione non ha futuro.
 
      Qual'è il modello alternativo?

      Esiste, certamente, una cultura europea, ma l'idea di un unico popolo europeo è fantapolitica. Proporre il progetto di un Parlamento eletto da tutti i popoli europei mi pare una cosa che non funzioni. L'uscita credo che si possa trovare soltanto con una rielaborazione del progetto federalista, da Cattaneo a Spinelli. L'obiettivo dev'essere una vera Confederazione, come quella elvetica, come la nordamericana.
 
      Crisi della democrazia, del parlamentarismo, ma anche della sinistra.

      La sinistra paga drammaticamente la propria incapacità a seguire le trasformazioni della società, resta tuttora ancorata a forme ed egemonie che oggi non esprimono più contenuti significativi di realtà. Ci sono nuove figure sociali che prescindono dal vecchio catalogo e che però non vengono usate, non sono tutelate (penso ai "Netslaves"), né promosse. Nell'inerzia della politica, bloccata ancora nelle forme tradizionali e nelle ideologie, il ritardo della sinistra, che non ha saputo riparare l'erosione della propria base sociale, è evidente. Non è affatto vero che siamo diventati tutti capitalisti e grassi borghesi.
 
      E la destra?

      Beh, ci sono due destre. C'è quella che ha stravinto, d'impronta neoliberista, e poi c'è l'altra - sociale, leghista, localista - che però è stata battuta, sconfitta, perduta nei suoi riferimenti culturali, che non contano più niente.
 
      Ma, almeno nella politica italiana, manca comunque un terreno comune di confronto.

      Questo è il paese che dalla consociazione è passato alla dissociazione, che non è capace di elaborare una forma di associazione, un ethos comune. Soltanto la definizione di un patto comune può consentire lo sviluppo di una reale competizione. una competizione a tutto campo, come quella tra patrizi e plebei che fece grande Roma.

      Intanto, la destra ha vinto.

      Ma è una vittoria di Pirro. La destra cavalca l'onda forte del neoliberismo, ma si ritrova con tutti i problemi di prospettiva irrisolti. La crisi della sinistra appare, anch'essa, lontana da una soluzione. Questo problema, però, non è solo italiano. E non è, poi, che tutti passiamo il nostro tempo davanti alla tv.
 

      (L'Indice n° 10 - ottobre 2001)

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30.10

Israele: pronti ad usare l'atomica

Lo dice Avi Pazner, portavoce del governo Sharon-Peres
M.M.


Avi Pazner in Italia lo conosciamo bene. Anni fa, infatti, fu ambasciatore a Roma, prima di tornare in Israele dove fu promosso portavoce del primo ministro Ariel Sharon. Prima lo era stato di un altro super-falco di estrema destra, il premier Shamir.
In una intervista concessa a un ex stellina del cinema e pubblicata ieri con grande evidenza dal quotidiano romano il tempo, il signor Pazner dice papale papale che gli israeliani sono "pronti alla guerra atomica", oltre che "batterica e chimica". Non c'è motivo di non credergli.
Primo perché Israele è una potenza nucleare di prim'ordine e - "Stato fuorilegge" della comunità internazionale - è l'unico paese che non ha mai firmato il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari senza che gli altri (Usa, Europa, Onu...) gliene abbia chiesto conto (né ispezioni, nè, figurarsi, sanzioni).
Secondo perché il portavoce Pazner dice nell'intervista che "i nostri nemici" - ossia i nemici di Israele, ossia, in primis, i palestinesi - "sono anche i nemici dell'umanità". Contro i nemici dell'umanità di può, e si deve, usare qualsiasi mezzo.
D'altra parte Pazner non è portavoce per caso. Non fa che ribadire la posizione corrente di Israele - Israele: la destra di Sharon, la sinistra di Peres -, ribadita più volte dall'inizio della operazione Libertà duratura. Se gli americani bombardano a man salva "i terroristi" afghani nella lotta del Bene contro il Male, non escludendo a priori l'uso delle armi nucleari, perché dovrebbero escluderlo gli israeliani, bastione della democrazia in Medio oriente, assediati da cento milioni di arabi pronti a fare un solo boccone del piccolo Israele?
Per offrirgli il destro, chiede l'intervistatrice: "L'America sta combattendo anche la guerra batteriologica, Israele la teme altrettanto?"; risponde il portavoce: "Anche noi ci prepariamo a combattere una guerra non convenzionale, batterica, chimica o nucleare che sia. I nostri nemici, che sono anche i nemici dell'umanità, sono disposti a impiegare qualsiasi sistema per colpire e uccidere il maggior numero possibile di israeliani. Noi dobbiamo essere preparati e lo siamo, a tutti i (sic) scenari, inclusi quelli più improbabili e devastanti"; insiste l'intervistatrice: "Come la bomba atomica?", "Lei l'ha detto", risponde Pazner. Che non è uno dei coloni fanatico-fondamentalisti (e terroristi) degli insediamenti israeliani, ma il portavoce ufficiale del governo Sharon-Peres.
L'arsenale atomico di Israele sviluppato e stoccato a Dimona, nel Negev - e dovuto all'infaticabile opera del laburista Shimon Peres - è un segreto di Pulcinella (anche se il povero Mordechai Vanunu è da 15 anni in galera per averne parlato); l'arsenale chimico-batteriologico è messo a punto nel top secret Biological Institute di Nes Tziona, vicino a Tel Aviv (anche se nessuno pretende di ispezionarlo come si fa da 10 anni, a suon di bombe, con Saddam Hussein). E Stranamore Pazner garantisce che il governo israeliano è pronto a usarli entrambi. In nome dell'umanità contro "i nemici dell'umanità".

www.arabcomint.com

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30.10

L'avversario

      di Ignacio Ramonet
 
      Era l'11 settembre. Distolti dalla loro missione ordinaria da piloti pronti a tutto, gli aerei si scagliano verso il cuore della grande città per abbattere i simboli di un sistema politico inviso. Tutto accade in un lampo: deflagrazioni, facciate che saltano in aria, crolli di edifici in un fracasso infernale. I superstiti atterriti fuggono coperti di calcinacci e di polvere.
 
      I media trasmettono la tragedia in diretta…
 
      New York, 2001? No, Santiago del Cile, 11 settembre 1973. Colpo di stato del generale Pinochet, con la complicità degli Stati Uniti, contro il socialista Salvator Allende, e bombardamento a tappeto del palazzo presidenziale, che provoca decine di morti e instaura per quindici anni un regime di terrore…
 
      Al di là dei legittimi sentimenti di compassione per le vittime innocenti degli odiosi attentati di New York, come non convenire che gli Stati Uniti non sono - non più di qualunque altro - un paese innocente? Non hanno forse partecipato ad azioni politiche violente e spesso clandestine in America latina, in Africa, in Medioriente, in Asia? Portandosi dietro una tragica scia di morti, di "desaparecidos", di torturati, incarcerati, esiliati…
 
      L'atteggiamento dei dirigenti e dei media occidentali, che fanno a gara nel mostrarsi filoamericani, non può farci dimenticare una crudele realtà: in tutto il mondo, e in particolare nei paesi del Sud, il sentimento che più spesso si è sentito esprimere dall'opinione pubblica in occasione di questi condannabili attentati si può riassumere nella frase:
 
      "E' un fatto tristissimo, certo, ma non è un caso che sia capitato a loro!"
 
      Per comprendere una reazione del genere forse non è inutile ricordare che già durante tutto il periodo della "guerra fredda" (1948-1989) gli Stati Uniti avevano portato avanti una "crociata" contro il comunismo. La quale ha assunto talora le dimensioni di una guerra di sterminio : migliaia di comunisti liquidati in Iran, duecentomila oppositori di sinistra soppressi in Guatemala, quasi un milione di comunisti uccisi in Indonesia…Le pagine più atroci del libro nero dell'imperialismo americano sono state scritte nel corso di questi anni, segnati per di più dagli orrori della guerra del Vietnam (1962-1975).Era, già allora, "il Bene" in lotta contro "il Male". Ma all'epoca, secondo Washington, sostenere i terroristi non era necessariamente immorale. Tramite la Cia, gli Stati Uniti predisposero attentati in luoghi pubblici, dirottamenti di aerei, sabotaggi e assassini. A Cuba contro il regime di Fidel Castro, in Nicaragua contro i Sandinisti, in Afghanistan contro i sovietici. Proprio qui, in Afghanistan, con il sostegno di due stati tutt'altro che democratici - l'Arabia Saudita e il Pakistan - negli anni '70 Washington incoraggiò la creazione di brigate islamiste reclutate nel mondo arabo - musulmano e composte da quelli che i media chiamavano "freedom fighters", combattenti per la libertà. Come è noto fu in quelle circostanze che la Cia ingaggiò e formò l'ormai celebre Osama bin Laden.
 
      Dal 1991 gli Stati Uniti si sono insediati nella posizione di unica iperpotenza, emarginando di fatto le Nazioni Unite. Avevano promesso di instaurare un "nuovo ordine internazionale" più giusto, nel cui nome hanno condotto la guerra del Golfo contro l'Iraq. Ma non per questo hanno receduto da una posizione di scandalosa parzialità a favore d'Israele, a discapito dei diritti dei palestinesi (si legga Alain Gresh "Israel, Palestine. Vérités sur conflit" Fayard, Paris 2001).
 
      E per di più, nonostante le proteste internazionali, hanno mantenuto contro l'Iraq un embargo implacabile che non ha scalfito il regime ma provoca la morte di migliaia di innocenti. Tutto questo ha lasciato il segno sull'opinione pubblica del mondo arabo - musulmano, facilitando la formazione di un terreno di cultura sul quale ha potuto espandersi l'islamismo antiamericano.
 
      Come il dottor Frankenstein, gli Stati Uniti vedono ora la loro creatura di un tempo - Osama bin Laden - rivolgerglisi contro con demenziale violenza. E si apprestano a combatterlo con l'appoggio dell'Arabia Saudita e del Pakistan, i due stati che in questi ultimi trent'anni hanno dato il maggior contributo alla diffusione delle reti islamiste nel mondo intero, talora anche con metodi terroristici!
 
      Gli uomini che circondano il presidente George W. Bush, da veterani della guerra fredda, non sono certo scontenti di questi sviluppi. Come per miracolo, grazie agli attentati dell'11 settembre hanno infatti recuperato un fattore strategico di importanza primaria, del quale il tracollo dell'Unione sovietica li aveva privati per un decennio: un avversario. Finalmente! Sotto il nome di terrorismo, questo avversario designato, come ognuno avrà compreso, è ormai l'islamismo.
 
      A questo punto sono possibili tutti i più temuti sbandamenti. Compresa una moderna versione del maccartismo, con gli avversari della globalizzazione come bersaglio. L'anticomunismo vi era piaciuto? L'anti-islamismo vi entusiasmerà!
 

      (Le Monde diplomatique" n.10 anno VIII ottobre 2001 allegato al "Manifesto" )

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29.10

La C.I.A. e l'estremismo islamico
 

La Cia e l'estremismo islamico: un'alleanza boomerang

«Dall'accordo "afghano" anni '70 agli attacchi anti-Usa degli ex "alleati" fu l’alleanza stretta dalla Cia con gli estremisti islamici contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan a spianare la via al terrorismo degli integralisti musulmani che, ironia della storia, ultimamente colpisce direttamente proprio gli interessi americani, negli Stati Uniti e altrove».

John K. Cooley, giornalista e scrittore, attualmente corrispondente da Atene di Abc News, non ha dubbi e nel suo volume Una guerra empia. La Cia e l’estremismo islamico (Elèuthera, luglio 2000, pp. 399, lire 35 mila) documenta in modo dettagliato i vari passaggi di questa pagina di storia cominciandone la ricostruzione ben prima di quel 1979 che vide gli Stati Uniti avviare un rapporto stretto con i terroristi in funzione antisovietica. Cooley, tra l’altro, spiega che gli Usa, per mano della Cia e con la collaborazione fattiva di Pakistan, Arabia Saudita e Cina, armarono, addestrarono e finanziarono 250 mila mercenari islamici di ogni parte del mondo.

«Gli analisti occidentali, nei loro pensatoi, e i servizi di controspionaggio di Washington, Londra, Parigi e Roma si chiedevano: chi è il principale nemico del nostro nemico, il comunismo? In che modo potrebbe aiutarci? E, nello stesso tempo, come possiamo contrastare i leader del terzo mondo e le loro dottrine, che consideriamo al servizio del comunismo?», scrive l’autore. E poi spiega come si avviarono i contatti con personalità degli stati islamici e arabi più conservatori. «Fu così - scrive Cooley - che ebbe inizio quello che in un primo tempo era un semplice flirt tra gli Usa e l’Islam e che si esprimeva con un sostegno moderato e prudente, in genere occulto, agli attivisti politici "islamisti"».

L'autore sostiene che sulla scorta di questi nuovi contatti, Gli Usa e alcuni alleati, finanziarono «una serie di guerre per procura» in Africa e in Asia, contro i propri avversari, spesso alleati veri o supposti di Mosca. Quando il Cremlino guidato da Breznev decise l’invasione dell’Afghanistan nel 1979, la Casa Bianca di Carter vide nell’iniziativa una minaccia all’equilibrio mondiale ma anche una buona occasione per «assestare un colpo decisivo al già vacillante impero sovietico nell’area a nord dell’Afghanistan».

Fu così che quella che Cooley definisce «love story» fra gli Usa e l’islamismo ebbe un nuovo «sussulto di passione» con l’alleanza tra la dittatura militare pakistana, d’ispirazione islamica, e gli americani. Dieci anni dopo l’Armata rossa sarà sconfitta e le vicende afghane daranno un colpo duro all’intero impero sovietico ormai al collasso. Nel frattempo, in Afghanistan il movimento dei Talebani, favorito da Pakistan e Arabia Saudita, conquisterà il potere e lo gestirà in modo liberticida terrorizzando la popolazione nel nome di un’interpretazione severa dell’islamismo sunnita.

Ma il grande movimento mercenario messo in moto dagli Usa avrà effetti anche fuori dei confini afghani. I Talebani e l’orrore che seminano è solo una delle conseguenza. Le altre toccheranno direttamente anche gli americani: alle tensioni destabilizzanti in Egitto (attacchi ai turisti e agli autoctoni), Cecenia, Algeria e altri paesi, infatti, si affiancano gli attentati tragici al World Trade Center e alle ambasciate americane di Nairobi (1998, 247 morti, 12 cittadini Usa) e di Dar-es-Salaam (dieci morti, cento feriti).

E così il terrorismo islamico e la sua eminenza grigia, Usama bin Laden, da protetti alleati degli Stati Uniti diventano i principali nemici della Cia e della Casa Bianca.

http://www.kontrokultura.org/archivio/cia_islamici.html

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29.11

Qualche dubbio lecito - Controvento

 

Bush - bin Laden. Un sodalizio?


"Il Gruppo Universitario "Controvento" dopo aver fermamente condannato il vile attacco agli USA dell'11 settembre, dopo circa un mese non può fare a meno di rilevare che esistono notevoli dubbi ed angoscianti interrogativi circa la matrice del gesto e le probabili cause sottese all'attacco alle Torri Gemelle, qui di seguito elencati:

- La famiglia dei BUSH e quella dei bin LADEN sono legati da affari petroliferi sin dagli anni ’60 (La Gazzetta del Mezzogiorno di lunedì 1 ottobre 2001, pag. 5);

- Durante la guerra dell’Afghanistan contro l’URSS, bin LADEN – capo della resistenza afgana – ricevette dagli USA armi e dollari (La Gazzetta del Mezzogiorno di lunedì 1 ottobre 2001, pag. 5);

- La società petrolifera californiana Unocal ha da tempo investito risorse per costruire un gasdotto che dal Turkmenistan arrivi in Pakistan attraversando l’AFGHANISTAN che è ricco di giacimenti di uranio, petrolio e pietre preziose. I BUSH hanno fatto le loro fortune con il petrolio (La Gazzetta del Mezzogiorno di lunedì 1 ottobre 2001, pag. 5 ; [ma anche il programma "Report" di un paio di settimane fa]);

- Larry Silverstein (ebreo-americano) multimiliardario con interessi nel settore immobiliare ed edile, aveva affittato il 24 aprile del 2001 le TORRI GEMELLE a NEW YORK per 99 anni. L’intero complesso era stato assicurato per 4 MILIARDI DI DOLLARI. Era stato stabilito che il contratto di affitto perdeva validità in caso di ATTACCO TERRORISTICO. Larry Silverstein si dice faccia parte di quegli uomini d’affari impegnati nella futura ricostruzione dell’edificio distrutto ("Il Sole 24 ore di domenica 16 settembre 2001 pagg 21 e 22);

- Secondo le procedure della FAA (Federal Aviation Agency), nel momento in cui risulta che un aereo abbandona il proprio percorso di volo, si cerca immediatamente di stabilire il contatto con i piloti. Nel caso non si ottenga risposta, scatta immediatamente l'allarme per determinare se l'aereo è stato dirottato o è fuori controllo. Si tratta di procedure standardizzate. Gli aerei dirottati l’11 settembre hanno viaggiato in media fuori rotta per oltre 40 minuti senza che nessun sistema di controllo intervenisse (www.movisol.org);

- Padre Jean Marie Benjamin durante la trasmissione PORTA A PORTA di venerdì 14 settembre ha dichiarato che qualche giorno prima dell’attentato dell’11 settembre aveva saputo da persone con le quali era in contatto da anni che AEREI USATI COME BOMBE STAVANO PER ESSERE LANCIATI CONTRO L’AMERICA. Padre Jean Marie Benjamin ha dichiarato di aver informato il MINISTRO RUGGIERO attraverso una telefonata durata circa un’ora.

Alla luce di quanto sopra ed in considerazione del fatto che gli USA hanno sempre agito a tutela dei propri interessi, in considerazione del fatto che tutte le guerre dichiarate dagli USA hanno sempre nascosto interessi economici o di geopolitica in generale, qualche dubbio relativamente alla nuova guerra contro l'Afghanistan, appare lecito e legittimo. E non vorremmo che le vittime di quel gesto terroristico dell'ormai famoso 11 settembre

Controvento

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27.10

Italiani perseguitati negli USA dopo l'11 settembre

The harassment of Italians during World War II  has particular relevance today and serves as a warning of what could
happen. 
The issue has acquired a timeliness and sense of urgency - even more so since the Sept. 11 terrorist attack on the United States and subsequent backlash against people of Middle Eastern ancestry.
During World War II, 600,000 undocumented Italian immigrants in the United States were deemed "enemy aliens" and detained, relocated, stripped of their property or placed under curfew. They were even locked in internment camps. Based on wartime hysteria.
"A deliberate policy kept these measures from the public during the war," said the civil liberties act. "Even 50 years later much information is still classified, the full story remains unknown to the public, and it has never been acknowledged in any official capacity by the United States government."

RePorterNoteBook@aol.com
What sort of Truth is it that crushes the freedom to seek the truth?
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Peace is patriotic!
Michael Santomauro
Editorial Director
RePortersNoteBook.com
New York City
http://reportersnotebook.com/newforum/indexforum.html 

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26.10

Il meglio del peggio del sito www.virusilgiornaleonline.com
Una straordinaria antologia di normale follia da terzo millennio.
 
C'e' Z''L (che Dio abbia in gloria il ricordo del sapiente religioso) aggiunto al nome di quell'inqualificabile individuo che chiedeva l'espulsione di tutti i palestinesi ("zecche" e "parassiti") dalla loro terra in nome della Bibbia in cui lui nemmeno credeva (cfr. www.arabcomint.com); c'e' Pannella che si e' tolto la divisa dell'esercito croato (vi ricordate la terrificante
foto?), indossa la bandiera USA e sostiene di essere antipacifista quanto lo era nel 1938 (?), c'e' una vergognosa entita', presumo forzitaliota, che si fa chiamare "Toscanalibertaria", c'e' il Risveglio Spirituale di Prato, c'e' Veneto Liberale (che non so se ama o odia Toscanalibertaria), c'e' una che piange di commozione quando legge Oriana Fallaci, c'e' gente che giura che d'ora in poi berra' solo Coca Cola e c'e' una incredibile "progressiva breznevizzazione" dell'Italia.

Sento quella calda aria di pazzia che si percepiva in un lontano gennaio
del 1933, tra le nevi di Berlino.

E un enorme desiderio di trovarmi su un altro pianeta, ancora piu' lontano
di quello dei raeliani.
 
Firmato: l'Antilibertario
 
1) Falso TG1, Rahman Zeevi Z"L- non ha mai avuto la testa rasata.
Gentili Signori, ho sentito come il TG1 ha commentato l'assassinio del ministro israeliano Rahman Zeevi, detto Gandhi.
La giornalista ha detto "Il ministro assassinato era chiamato Gandhi in contrapposizione alle sue idee estremiste di destra e perchè da giovane portava gli occhiali neri e la testa rasata". Il Ministro Zeevi Z"L  portava gli occhiali perchè era molto miope, portava  gli occhiali da sole perchè in Israele la luce fortissima ed è bene usarli. Non ha mai avuto la testa rasata - ma una bellissima capigliatura soprattutto quando era giovane. Veniva da tutti affettuosamente detto Gandhi perchè in effetti e comprensibilmente non era un amante dei terroristi e di Arafat di cui ha detto la famosa frase: "Non conosco al mondo cosa peggiore di Jasser Arafat". Era uomo di destra, è vero, persona dolcissima, valoroso soldato e amante del suo Paese.
Era una persona squisita e onesta oltre che simpaticissima e umana. Farlo passare per skinheads mi è sembrato fazioso e irriverente. Credo che alla memoria di Rahman Zeevi dovebbero andare le scuse della RAI. Deborah Fait.
 
2) Amiche ed amici, vi giro questa lettera di Deborah Fait alla RAI.
Penso che la maggior parte dei giornalisti italiani, quando parla di Israele, abbia un retropensiero, rigido come un riflesso condizionato, che li spinge a pensare che in fondo gli Israeliani - specie se di destra e se non si fidano di Arafat  - si meritano
di essere uccisi dagli arabi militanti nelle diverse organizzazioni palestiniste. Questo retropensiero è disumano ed ha radici nella formazione del pensiero totalitario: la menzogna diventa verità; non solo si fa il male, ma si pretende che sia chiamato e stimato come bene; l'altro non è un nemico con cui battersi, perdendo o vincendo, ma un alieno da annientare... E così via.
Mauro Vaiani.
 
3) Noi siamo Israeliani, solidarietà ad Israele.
Su iniziativa di Italian Honest Reporting, di associazioni e gruppi di cittadini, domenica 14 ottobre si terrà a Milano, piazza Cordusio ore 11, una manifestazione di solidarietà con Israele. Ad un mese dagli attentati in America, omaggio alle vittime e si esprimerà solidarietà agli Stati Uniti ricordando Israele sotto l'attacco di governi e gruppi fanatici ed estremisti dalla sua indipendenza nel '48. Nazionalismo e socialismo panarabo sono i padri del totalitarismo sempre più estremista e fanatico di Al Qaeda e degli altri terroristi arabi. La vita, le conquiste civili e sociali, l'economia e la scienza di Israele sono la prova che la  libertà è l'unica strada verso la prosperità, la cultura, la pace. Una prova talmente stridente con quel museo degli orrori che sono gli stati arabi mediorientali, che i capi, gli amici e i non nemici del terrorismo totalitario oggi vorrebbero cancellare con ancora più violenza di quanto i loro padri nazionalisti e socialisti arabi ne usarono per tentare di stroncarla sul nascere. Israele è uno stato di diritto e l'unica democrazia del Medio Oriente. E'una terra dove ci sono la libertà religiosa, il rispetto per le origini e le tradizioni, il pluralismo linguistico e culturale, rispetto per le diversità psicologiche e sessuali, laicità delle istituzioni e uguaglianza di fronte alla legge. Toscanalibertaria groups.
 
4) Miracolo a Milano.
Ho trovato un piccolo report del buon esito della manifestazione di p.za Cordusio a Milano.
Sono molto felice di aver portato una testimonianza di solidarietà e amicizia con Israele dalla Toscana, da Insieme per Prato, dal suo gruppo di studio Toscana Libertaria. Credo che momenti pubblici, per strada, in cui si riproponga la semplice verità che la pace può nascere solo con la sconfitta del terrorismo e dell'odio e che Israele deve vivere sicura, siano necessari.
Appoggio quanti propongono di ripetere un momento come quello di Milano a Livorno, città in cui il conformismo e la pigrizia culturale hanno permesso a vere e proprie menzogne totalitarie di diventare verità per tante persone... ma anche città in cui è in atto o è possibile un risveglio cultural, civile e spirituale. Mauro Vaiani, Prato.
 
5) Franco Dell'Alba dice che sei l'unica voce fuori dal coro.
No, non sei l'unica. Sul sito di Veneto Liberale, ho sostenuto una lunga discussione sugli errori della politica israeliana:
una discussione inutile perchè i miei interlocutori erano trasportati da una adesione incondizionata e acritica (ovviamente
sulla questione dell'esistenza, nella sicurezza, dello Stato d'Israele, anch'io sono per un'adesione altrettanto incondizionata), oltre che da fattori emozionali (Israele ha sempre e comunque ragione!), verso la politica israeliana della destra al potere.
Così, per il fatto di non schierarmi acriticamente verso la politica della destra Israeliana, io, che sono un irriducibile amico di Israele e degli israeliani, sono passato per loro nemico. Anche lì, i miei interlocutori non sono tutti della mia stessa opinione, ma almeno la discussione ha assunto toni di confronto scevri da ogni oltranzismo emozionale. Vittorio Vivona.
 
6) Bandiere americane e israeliane.
Siamo antipacifisti oggi come nel '38 e sull'attacco Usa, 1. i Radicali lo approvano e hanno manifestato davanti all'ambasciata americana a Roma, 2. Emma Bonino ha dichiarato: non ci sono alternative alle armi, ma attenzione alla santa alleanza. 3.
Marco Pannella: noi siamo anti-pacifisti oggi come lo eravamo nel 1938, quando i pacifisti sostenevano un criterio di equidistanza da tutti. "Viva gli Usa. C'è chi le bandiere americane le brucia e c'è chi le alza". Con Bonino, Pannella, Capezzone, Taradsh e una cinquantina di radicali abbiamo manifestato a sostegno della politica statunitense e dell'attacco militare in Afghanistan. Abbiamo anche esposto uno striscione raffigurante le bandiere di Usa, Isreaele e il simbolo radicale con Gandhi, mentre molti sventolavano la bandiera a stelle e strisce e il vessillo della Gran Bretagna. Emma Bonino ha lodato Tony Blair, criticato la posizione 'defilata' dell'Italia ed ha sottolineato che ora Berlusconi "soffre del feedback della gaffe sulla superiorita' dell'Occidente sull'Islam". Capezzone, segretario dei radicali, ha affermato che "in Italia il governo è timidissimo e l'opposizione è stradivisa, con gli ultrà Agnoletto, Casarini e Bertinotti scatenati su tutte le tv". Yascha Reibman.

 
7) Santoro, rileggiti Martin Luther King.
Vi prego di dedicare 5 minuti di tempo all'articolo di Maria Giovanna Maglie apparso su Il Giornale del 7/10/2001.
Non possiamo non sapere. Leone Paserman, presidente della Comunità ebraica di Roma, incontrerà il senatore Claudio Petruccioli, presidente della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai in merito alla trasmissione di Michele Santoro sul Medio Oriente (puntata 
del 28 settembre) ed io esprimo massima solidarietà al Presidente Paserman. Trasmissioni come quella di Michele Santoro sul Medio Oriente ledono il diritto costituzionale dei cittadini italiani a essere informati e non disinformati.
Nessuno nega al conduttore il diritto ad avere le proprie opinioni, ma dovrebbe dare la possibilità anche a chi non la pensa come lui di esprimersi. Tornano alla mente, purtroppo, parole che vorremmo superate e che Michele Santoro dovrebbe rileggere. Quelle di Martin Luther King: 'Dite che non odiate gli ebrei e che siete solo antisionisti.
E io rispondo: dite la verita! Quando la gente attacca i sionisti in realtà intende gli ebrei. Cos'è l'antisionismo?
E' negare al popolo ebraico un diritto fondamentale che vogliamo veder riconosciuto ai popoli dell'Africa e di tutto il mondo".
Yasha Reibman, consigliere regionale Radicali - Lista Bonino.
 
8) Allora coraggio, facciamo un bel passaparola
e manifestiamo a Milano! Intervenite numerosi con le vostre bandiere d'Israele! Bereny.
"Dite che non odiate gli ebrei e che siete solo antisionisti. E io rispondo: dite la verità! Quando la gente attacca i sionisti in realtà intende gli ebrei. Cos'e' l'antisionismo? E' negare al popolo ebraico un diritto fondamentale che vogliamo veder riconosciuto ai popoli dell'Africa e di tutto il mondo." (Martin Luther King).
 
9) Il "Buon" Libano fondamentalista.
Non dimentichiamoci del buon Libano, di cui nessuno parla, pur essendo sicuramente fondamentalista quanto la patria dei talebani. Endrio.

10) Da oggi cambia tutto: Bevo solo Coca Cola e mangio solo Americano.
Avevo deciso di non scrivere sui fatti d'America. Leggendo tanti pennivendoli che si fanno seghe mentali per trovare giustificazioni ad un branco di assassini senza scrupoli pensavo che non ne valesse la pena. Ma ho cambiato idea.
L'articolo della Fallaci e quello di Guzzanti mi hanno fatto uscire dal torpore. Bisogna urlare in faccia ai protettori degli assassini che sono un branco di vigliacchi ignoranti indegni di stare nel consesso degli umani. Chi difende o cerca di giustificare un atto tanto barbaro come la morte di seimila persone innocenti merita l'ostracismo. Difendersi dietro ad un premio internazionale o alla tessera di parlamentare è inqualificabile. Non sono mai stato filoamericano, non sono mai entrato in un Mc'Donald, non ho mai comprato scarpe e felpe USA, non ho mai bevuto Fanta o Coca Cola (come fanno i sinistri illuminati-pacifisti).
Da oggi cambia tutto: Berrò solo Coca Cola e mangerò solo Americano. Sono stanco di sentire e di leggere dei poveri del mondo, uccisi ed affamati dall'occidente ricco e globalizzatore. Sono stanco di vedere sceicchi ultramiliardari che non spendono un centesimo per il loro popolo e chiedono aiuti umanitari a chi asassinano proditoriamente.
Sono stanco di sentir parlare di mine antiuomo costruite in Italia per uccidere i bambini del terzo mondo. Ma gli AK 47 chi li fabbrica, Berlusconi? Le mine chi le piazza, Bossi? La guerra santa chi l'ha dichiarata, Fini? No cari amici, basta menzogne.
La Fallaci, donna di sinistra, si è schierata con il mondo civile, seguiamo l'esempio e mettiamo una patata bollente in bocca ai "pacifisti illuminati" così diranno meno corbellerie. Pier Luigi de Piccoli.
 
11) L'articolo di Oriana Fallaci è soprattutto in un punto: dire che il re è nudo.
L'islamismo politicizzato e terrorista è una galassia di organizzazioni moderne, ricche, dotate di armi e tecnologie avanzate e uomini che hanno una determinazione a distruggere. Non sono poveri, miserabili, vittime dell'Occidente. Se la sinistra continua a considerarli degni di tutela politica, o ad attribuire loro dignità di interlocutori politici, rischia l'implosione e l'impotenza. Non sono avversari dell'occidentalizzazione, della modernizzazione, della globalizzazione. Sono il frutto dell'occidentalizzazione, della modernizzazione, della globalizzazione. Anzi di quello che è uno dei lati oscuri della nostra civiltà: il totalitarismo. Sono gli epigoni del totalitarismo, della conquista organizzata del potere assoluto da parte di fazioni settarie e crudeli. Essi ci odiano, ci calpestano, ci uccidono. Odiano, calpestano e uccidono ancora di più gli Arabi, intesi come le persone, le tribù, i popoli e le culture che vivono nei paesi della Lega Araba (molto diversi da loro ma che l'internazionale del terrore cercherà di trasformare in una massa unica, omogenea, conformista, unita da una sola lingua e da un solo pensiero, come i totalitarismi che li hanno preceduti). Probabilmente hanno l'obiettivo di prendere il potere in uno o più stati arabi, magari a cominciare dal Pakistan e da lì, aggredire gli altri stati islamici uno ad uno; poi i paesi non totalmente islamici; e poi, chissà, tentare la conquista del mondo. Deve cadere il regime dei Talibani, dobbiamo aiutare coloro che vogliono riportare l'Afganistan alle sue tradizioni e alla sua storia, le sue tribù e province al loro autogoverno. Speriamo che coloro che guideranno questa guerra abbiano la determinazione per portarla avanti e per portarla al successo. Mauro Vaiani, Toscanalibertaria Prato.
 
12) Oriana Fallaci? Complimenti alla Toscana di cui è figlia.
La rabbia e L'orgoglio - Oriana Fallaci prima pagina Corriere. Sono sempre stata un'ammiratrice della Fallaci, da
quando ero giovanissima. Questa volta ha superato se stessa. E' grande, è strepitosa. Complimenti alla Toscana di cui è figlia.
Non mi vergogno di dire che leggendo il suo articolo ho pianto. E sapeste quanta rabbia mi fa, da buona Toscana, che una come lei ce l'abbiamo così lontana. Cambierà qualcosa, comunque. Deve. E presto. Deborah.
13) On. Berlusconi indisturbato Santoro breznevizza l'Italia.
Sig. Presidente del Consiglio, Sen. Guzzanti, indisturbato Santoro sta breznevizzando l'Italia. Trovo assolutamente grave e indesiderabile che un conduttore come Santoro possa offendere, insultare e danneggiare ulteriormente dal pulpito della RAI un popolo amico come quello d'Israele, già dissanguato dal terrorismo internazionale. Temo, inoltre, che lo spazio dato agli organizzatori del terrorismo di stampo palestinista sui teleschermi italiani, specialmente dopo l'11 settembre, possa contribuire alla progressiva breznevizzazione di questo Paese. 

Cordialmente Andras Bereny, Brescia.

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26.10

 

(editoriale di Massimo Fini uscito su Il Tempo del 25 Ottobre 2001)

L'ALTRA sera a «Porta a Porta» Alessandra Mussolini, Giuliana Melandri e l'attrice americana Clarissa Burt erano state chiamate a discutere della condizione della donna nel mondo musulmano. Tutte e tre erano d'accordo nel considerare inaccettabili certe limitazioni, nel vestire, nei movimenti, imposte alla donna islamica e sostenevano, in modo più velato Mussolini e Melandri, esplicitamente l'attrice americana, che ha parlato anche di superiorità della propria cultura, che era venuta l'ora di portare alle donne musulmane il bene inestimabile della libertà.

Le tre ragazze parevano completamente dimentiche di uno dei migliori frutti del pensiero europeo: quel filone di pensiero che fa capo all'antropologo e strutturalista francese Lévi-Strauss, chiamato «relativismo culturale» (che 
discende, a sua volta, dal «relativismo storico» di Dilthey) secondo il quale ogni cultura è un «insieme» e non può essere valutata enucleando questo o quell'elemento, magari aberrante agli occhi di una cultura diversa, senza collegarlo a tutti gli altri che lo compensano e lo giustificano. Su questa base Lévi-Strauss afferma che è un assurdo fare scale gerarchiche fra le culture, perché ognuna trova la propria validità al suo interno. 

A furia di guardare con orrore la condizione delle donne islamiche, quelle occidentali hanno perso di vista la propria. Quando mi trovavo a Teheran, nell'Iran khomeinista, Hassan Gaddiri, che era allora viceministro degli Esteri e che conosceva bene l'Italia per aver studiato all'Università di Perugia, mi disse una volta: «Voi non mandate giù la storia del chador, ma in Occidente c'è una pubblicità martellante che obbliga le donne ad essere sempre levigate, curate, perfette, belle, giovani, da noi una donna può invecchiare serenamente. E allora, che cos'è più coestrittivo, il chador o la vostra pubblicità?».

Ma dicono Melandri, Mussolini e Burt in coro: chador a parte, alle donne islamiche, soprattutto nei Paesi più integralisti, sono negati dei diritti fondamentali, abbiamo il dovere di intervenire. Ma quelli che per noi sono diritti fondamentali, per altre culture lo sono meno, perché privilegiano i legami, familiari e clanici,sulla libertà individuale. Sbagliano? Chi può dirlo? Ma ammettiamo pure che la condizione della donna musulmana sia davvero intollerabile come noi la vediamo. Se così è saranno le donne musulmane, un certo giorno, a ribellarsi e a portarsi al passo di quelle occidentali. Quando capiremo che il primo, fondamentale, diritto di libertà di ogni popolo, di ogni cultura, è quello di filarsi da sé la propria storia, secondo le proprie vocazioni e senza pelose supervisioni?

Sono alcuni secoli che noi occidentali andiamo in giro per il mondo con la convinzione di avere il sole in fronte e la verità in tasca. E abbiamo partorito l'eurocentrismo, il colonialismo, l'imperialismo, l'internazionalismo comunista, il nazismo e adesso questo modello di sviluppo economico che non lascia spazio alcuno ad altre culture, ad altre storie, ad altre tradizioni e pretende di omologare l'intero pianeta, da Ulan Bator a Kabul a New York a Mosca a Nairobi, secondo lo schema democratico e al libero mercato. Crediamo di essere liberali e siamo totalitari, nella testa e nella prassi, senza rendercene conto. Ed è questa aggressività, basata sulla convinzione, esplicita o sottaciuta, di essere portatori di una «cultura superiore», che evoca ed eccita quella altrui, in particolare di una cultura, l'islamica, anch'essa convinta, in modo esplicito o sottaciuto, della propria «unicità» e «superiorità». E quello in atto è uno scontro fra due integralismi che si specchiano l'un l'altro senza vedersi.


Massimo Fini

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26.10


Sottoscrivete e fate sottoscrivere


Vi rammento che sul sito http://www.dottorato.it/appellogiovaniricercatori/index.html trovate l'appello da mandare al governo perche' non tagli ancora i finanziamenti alla ricerca. Vi prego di sottoscriverlo quanto prima e di diffonderlo quanto piu' possibile.

Grazie, cordialmente

Luca T. Barone
Ufficio stampa Adi

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26.10

Indice di Diario della settimana

Il questionario sui vostri sentimenti nei confronti dell'America ha già ricevuto più di mille risposte. Avete scritto in massa. Stiamo leggendo, scegliendo, tagliando. E venerdì prossimo sul giornale ci sarà una lunghissima inchiesta che avrete scritto voi. Piccola anticipazione (e risposta dovuta): molti di voi se la sono presa per la domanda sulla commozione ("Vi hanno commosso di più i morti di New York o quelli dell'Afghanistan?"). Era volutamente provocatoria e anche necessaria, secondo noi. Necessaria per capire quali sentimenti e quali emozioni stiano provocando in Italia le tragedie degli ultimi tempi. Le risposte alla sesta richiesta ("Racconta un episodio della tua vita che abbia a che fare con l'America o con gli americani") sono sorprendenti. Meriterebbero di essere raccolte in un libro.
Grazie a tutti voi.

Sulla copertina del numero di Diario in edicola, c'è Bush vestito da cinese. Il titolo è "Autunno inverno 2001-2002". La sensazione è che il Terzo Millennio avrà imperatori dai costumi molto antichi. L'inchiesta, di Francesco Piccolo, è invece dedicata all'odio che dilania la dirigenza dei Ds. Il "grande partito della sinistra" non esiste più, ma il sole dell'avvenire è ancora lontano dall'alba. Antologia dell'East River è un articolo che riguarda i morti e il nostro modo di ricordarli: lo spunto è la notizia che il New York Times dedicherà un necrologio a ognuna delle vittime dell'11 settembre. Dal Tagikistan, un reportage sulle attività (turistiche) dell'Alleanza del Nord, impegnata a scortare giornalisti e turisti che vogliano entrare in Afghanistan. Dall'Egitto: perché nelle strade del Cairo del moderato Mubarak l'antimericanismo è così acceso? Gruinard è l'isola scozzese dove l'antrace fu testata su topi e conigli nel 1941. Bioport, il nome della corporation che dovrebbe proteggere gli Usa dai bacilli e non lo fa affatto.
Marco Lodoli recensisce Viaggio a Kandahar.

Buona lettura


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Il sommario della settimana
Numero 43. Da venerdì 26 ottobre a giovedì 1 novembre 2001

Caro Diario

Il buon senso
Il caso Lunardi di Domenico Marcello

L’inchiesta vecchio stile
L’amore al tempo dei Ds di Francesco Piccolo

La terza settimana
Antologia dell’East River di Giacomo Papi
L’Alleanza per i viaggi nel Nord di Francesco Tarabini
«Così ricchi, dunque colpevoli» di Paola Caridi
Il vaccino che non c’è di Massimo Cavallini
Gruinard, l’idillio con bacillo di Giovanni Maria Del Re
Effetti collaterali di Maurizia Bonvini

Tutta la città ne parla
Una settimana di notizie da: L’Asinara, Napoli, Varese, Brescia, Milano (ma anche l’Agenda, In fondo a destra e I numeri)

Vedi alla voce Cultura
Provincia molto poco babba di Luca Fontana

Lo spettatore esigente
Viaggio a Kandahar di Marco Lodoli
E inoltre: Musica, Teatro, Dvd, Opera, Rassegne, Edicola, Film in Tv, Radio, Documentario

Lettura
Nessun bambino nasce cattivo di Stefano Velotti

Le recensioni
Hervé Le Bras, V.S. Naipaul, Michael Connelly, Nina Schroder, Michael Kimball, Nick Hornby, Enzo Siciliano

Tutto il mondo ne parla
Storie, notizie e curiosità da: Australia, Georgia, Grecia, Romania, Canada

Un certo stile
Finché la burka va di Nicola Fano

Se ne sono andati
Rehavam Ze’evi, Guido Bianchi, Zhang Xueliang di Andrea Jacchi

Le rubriche
Roberto Alajmo, Nicola Montella, Laura Pariani, Helmut Failoni, Attilio Scarpellini, Gianluigi Mattietti, Massimo Onofri, Maria Novella Oppo, Massimo Cirri, alessandro robecchi, Allan Bay, Stefano Bartezzaghi, Eureka, Elfo

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25.10

Aggiornamento dalla Palestina

24 Ottobre 2001: Altri cinque palestinesi uccisi: cinque palestinesi sono stati uccisi da colpi d'arma da fuoco a Tulkarem, in Cisgiordania, dove l'esercito israeliano ha fatto un'incursione in nottata. Lo si e' appreso da fonti ospedaliere palestinesi. Le vittime avevano tutte attorno ai venti anni e sono cadute in un' imboscata di soldati israeliani nei pressi del cimitero di Tulkarem. Sale a 35 il numero di palestinesi uccisi dal 18 ottobre.

24 Ottobre 2001: 15 carriarmati israeliani accerchiano un villaggio: una colonna di carri armati israeliani ha completamente accerchiato e bloccato un villaggio palestinese in Cisgiordania. Secondo quanto dichiarato all' agenzia di stampa francese 'Afp' dal sindaco di Beit Rima, un villaggio di circa 4.000 abitanti a poca distanza da Ramallah, i soldati israeliani sembrano essere alla caccia di persone sospette. La nuova incursione israeliana nei Territori e' sostenuta da alcuni elicotteri.

24 Ottobre 2001: Battaglia a Betlemme: soldati e carri armati israeliani hanno aperto il fuoco a Betlemme alle prime ore di oggi, dopo che, per tutta la notte, colpi sparati dai tanks avevano martellato il vicino campo profughi di Aida.Le incursioni dell'esercito a Betlemme e in altre cinque città palestinesi sono cominciate venerd? scorso, dopo che estremisti palestinesi avevano ucciso Rehavam Zevi, ministro israeliano della destra ultrarazzista e acerrimo nemico del "processo di pace". L'assassinio di Zevi voleva vendicare l'uccisione di Abu Ali Mustafa, leader palestinese "eliminato" da missili israeliani in agosto e tutti i centinaia di leaders politici, attivisti e membri della resistenza palestinese assassinati da Israele in 50 anni di storia. I responsabili ospedalieri hanno parlato finora di cinque palestinesi feriti da granate, ma è impossibile fare un bilancio esatto delle perdite, anche perché le ambulanze e i mezzi di soccorso non possono circolare per le strade bersagliate dalle pallottole. I carri armati israeliani sono entrati nel cuore della città palestinese, dove hanno scambiato colpi con giovani armati che si battono per ricacciare le aggressioni dell'esercito d'occupazione contro il loro territorio.

24 Ottobre 2001: Il massacro di Beit Rima: nel villaggio palestinese di Beit Rima, accerchiato questa mattina da 15 blindati dell'esercito d'occupazione, i militari israeliani si sono macchiati di un altro orrendo massacro nei confronti della popolazione civile palestinese: 15 persone sono state uccise e decine ferite mentre i soldati israeliani tenevano lontani dal villaggio giornalisti e delegati della Croce Rossa, che premevano per entrare nel luogo dell'eccidio. I militari d'occupazione hanno setacciato casa per casa il piccolo villaggio sparando all'impazzata allo scopo di terrorizzare la popolazione civile e arrestando decine di patrioti palestinesi che si battono contro l'occupazione militare del loro paese. Un medico palestinese, parlando ai microfoni della BBC ha affermato che i corpi dei caduti giacciono sul ciglio delle strade poiche' i militari non permettono ad alcuna organizzazione umanitaria di entrare nell'epicentro del massacro. Ad Abu Dis un altro giovane palestinese di 25 anni e' morto, colpito da pallottole israeliane al volto mentre tentava di colpire con delle pietre un carroarmato. Presso Hebron un gruppo di operai palestinesi e' stato fatto oggetto di un agguato da parte di coloni ebrei armati che hanno sparato verso l'auto sulla quale viaggiavano . Sei operai sono rimasti gravemente feriti.

www.arabcomint.com

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23.10

La prima vittima della guerra? La verità
 

I morti di Timisoara, il cormorano del Golfo Persico, la lettera da Sarajevo: cronologia (vera) di scoop falsi. Dalla guerra di Crimea, primo conflitto della storia seguito da fotografi e giornalisti, alle due guerre mondiali. Dalla rivolta contro il regime di Ceausescu all’operazione "Desert Storm". Gli intrecci, le distorsioni, le manipolazioni operate sulle notizie da stampa e governi.

Manipolata. Controllata. Costruita ad arte. Confezionata ad uso e consumo dei mass-media. E dell’opinione pubblica. Aveva ragione il senatore californiano Hiram W. Johnson quando, nel bel mezzo della Prima guerra mondiale, pronunciò una frase destinata a passare alla storia. "The first casualty when the war comes is truth", disse Johnson davanti al Senato degli Stati Uniti. Traduzione? La prima vittima della guerra è la verità. E’ il 1917. Ma gli intrecci tra informazione, guerra e opinione pubblica sono evidenti da tempo. I finti scoop, le immagini false, le cosiddette "bufale di guerra" hanno già fatto il loro ingresso sulla scena bellica e mass-mediatica. Dalla Crimea alla Seconda guerra mondiale, dalla guerra del Golfo al conflitto che ha lacerato la ex Yugoslavia: gli esempi di notizie contraffatte sono decine e decine.
Il primo caso risale alla guerra di Crimea. Il set è la valle di Balaclava, dove nel 1854 le truppe britanniche subiscono una pesante sconfitta schiacciate dall’esercito russo. "Si tratta della prima guerra in cui compaiono i giornalisti, aiutati anche dal nuovo mezzo di comunicazione disponibile: il telegrafo", spiega Claudio Fracassi, ex direttore di Paese Sera e di Avvenimenti, autore – tra gli altri – di due saggi dedicati proprio alla manipolazione delle notizie in guerra e non: "Sotto la notizia niente" (edizioni Altritalia, 1994) e "Le notizie hanno le gambe corte" (Rizzoli, 1996).
I fatti? La ricostruzione della battaglia scritta da William Russell per il Times di Londra è un po’ troppo realistica secondo il governo inglese. Bisogna riparare. E in fretta. Il fotoreporter Roger Fenton viene inviato al fronte per scattare immagini più rassicuranti: tavole imbandite, soldati sorridenti e ben nutriti, scene di esultanza e vittoria. Nessun morto. Niente sangue. "Più che una guerra sembrava un pic nic", commenta Fracassi. Le immagini, ça va sans dire, erano clamorosamente finte. Ma lo scopo era raggiunto. Il morale degli inglesi sollevato da terra.
Quasi un secolo più tardi, nel corso della Seconda guerra mondiale, ecco un altro falso. Lo rivela un’inchiesta televisiva realizzata nel 1995 per conto della Bbc e curata dal produttore "appassionato di storia" Jerome Kuehl. Ve lo ricordate lo sbarco in Normandia, nel 1944? Lo sgomento nello sguardo dei soldati Usa, con i fucili tenuti in alto sopra gli elmetti, mentre raggiungono le coste francesi sprofondati nelle acque dell’Atlantico?
Ebbene, anche quel filmato era finto: le immagini dell’operazione "Overlord" furono girate ricorrendo a comparse e set immaginari ricostruiti sulle spiagge di Slapton, tranquilla località del Devonshire, in Inghilterra.
Nel dicembre del 1989, poi, un altro filmato fa il giro del mondo. A Timisoara, nel nord della Romania, viene scoperta una fossa comune da cui emergono i cadaveri di uomini, donne e bambini. Sono 4632, dicono. Sono i morti ammazzati dal regime comunista di Nicolae Ceausescu. La prima a darne notizia è l’agenzia di stampa Tanjug di Belgrado. Salvo, però, scoprire, alcune settimane dopo, che i cadaveri erano "solo" tredici. Riesumati per l’occasione da un vecchio cimitero dove sono sepolti alcuni senzatetto. Il caso è costruito ad hoc dal fronte anti-Ceausescu, che invita sul posto i reporter e i cameramen di tutto il mondo per filmare le atrocità commesse dal dittatore rumeno.
Altra guerra, altri scoop. Altre immagini finte. Durante la Guerra del Golfo le manipolazioni dell’informazione si sprecano. L’immagine del cormorano agonizzante, imbrattato di petrolio, scuote l’opinione pubblica. E’ il gennaio del 1991: peccato, però, che in quella stagione non ci siano cormorani sul Golfo Persico. Le foto, infatti, sono state scattate dalla Reuters nella primavera del 1983, durante la guerra Iran-Iraq. I filmati, invece, sono girati da un reporter televisivo con l’aiuto di un inconsapevole cormorano. Preso a prestito da uno zoo.
E le dune di sabbia dietro le quali infuria la battaglia? Tutte finte. Si trovano a Dharhan, vicino agli alberghi dove sono di stanza gli inviati. A 650 chilometri dal fronte. Anche le manifestazioni di protesta dei kuwaitiani contro Saddam Hussein sono finte: organizzate, allestite e girate negli studios di Hollywood dall’agenzia di pubbliche relazioni Usa Hill & Knowlton. Infine un piccolo caso emerso durante il conflitto bosniaco. Ce lo racconta Claudio Fracassi: "Nel 1994 alcuni giornali e periodici italiani pubblicarono la lettera di una monaca bosniaca, suor Lucy, che descriveva le violenze subite da parte di alcuni soldati serbi. Dopo qualche mese si scoprì, però, che la lettera era in realtà un’opera di fantasia, scritta da un certo Alfredo Contran. Vincitore addirittura di un premio letterario".

Claudia Cassino

http://www.storiainrete.com/rassegna/cormorano/

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22.10

Recensione del libro "Fascismo e Islam"

In un uno dei momenti di maggior tensione tra Occidente e mondo islamico, una piccola casa editrice pubblica un interessante saggio sui rapporti, tutt’altro che conflittuali, tra l’Italia fascista e l’Islam tra gli anni Venti e Trenta.
Il Fascismo e l’Islam di Enrico Galoppini (Edizioni all’Insegna del Veltro – Viale Osacca 13, 43100 Parma, tel.: 0521 290880 - insegnadelveltro@libero.it , pp. 158, 12,91 € pari a 24 mila lire), racconta in modo documentato l’interesse pratico se non opportunistico (ma comunque mai conflittuale) con cui Roma guardò all’Islam, soprattutto quella parte di Islam rappresentata dai Paesi arabi del Medio Oriente.
Del volume, che ha una introduzione dello storico Franco Cardini, la rivista on line di Storia Contemporanea "Storia in Rete" (www.storiainrete.com) per gentile concessione dell’Editore, riproduce da oggi un estratto del quarto capitolo, quello dedicato alla "Libia nella politica islamica del fascismo" (www.storiainrete.com/anticipazioni/fascismo-islam/).
 
Per approfondimenti:
L'immagine dell'Islam nell'Italia tra le due guerre mondiali
Il fascismo e l'Islam (rec. su "Storia in Network")
I rapporti tra il fascismo e il mondo arabo-islamico
 

22.10

Gentili Socie/Soci,
desiderio comunicarVi che lo scorso aprile è uscito il mio 'Egitto. Affari esteri 1967-1986', edito dalla Edistudio di Pisa, la stessa che pubblica "Africana".
È volontà dell'editore Brunetto Casini offrire una copia omaggio del libro a tutte/i le/i socie-i, al momento della ventura assemblea 2001 dell'Associazione di Studi Extraeuropei (prevista per l'ultimo trimestre del corrente anno), quando sarà distribuito il n. VII (2001) di "Africana". 
In caso vogliate prender nota degli argomenti trattati dal volume, e/o segnalarlo ad istituti, biblioteche, associazioni, ecc., potete digitare la seguente pagina web: http://www.geocities.com/ga57/egypt.html


Giovanni Armillotta
http://foreignaffairs.tripod.com/armillotta/home_it.html
http://go.to/armillotta

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22.10

Diario speciale
Vogliamo fare un'inchiesta. Abbiamo bisogno di voi. Se decidete di aiutarci, potete scegliere di rispondere all'e-mail oppure collegarvi direttamente al questionario on line

(http://www.diario.it/cnt/notizie/inchiesta/questionario.htm)

Un'inchiesta insieme ai lettori
Mercoledì 17 ottobre. Ore 16.00. Riunione di redazione. Qualcuno è scandalizzato che alla marcia della Pace di Assisi si siano viste pochissime bandiere americane. Ne nasce una discussione accesa che dura per quasi un'ora. La domanda riguarda i sentimenti degli italiani, e in particolare degli italiani di sinistra, nei confronti degli Stati Uniti. C'è chi dice che gli americani sono odiati perché sono potenti, come la Juventus. E chi snocciola dati e malefatte Usa. Qualcuno dice che il poco amore e la diffidenza nascono dal fatto che molti non sono mai stati in America. Si parla di Olocausto e di Iran, di Vietnam e di Kosovo. L'argomento provoca discussioni così animate che alla fine siamo tutti d'accordo solo su una cosa: per rispondere alla domanda l'unica strada è scrivere un'inchiesta. E' quello che vogliamo fare, partendo dai nostri lettori. Chi vuole può rispondere al questionario, cercando magari di limitarsi a impressioni, ricordi, immagini concrete, più che lanciarsi in complicate analisi sociopolitiche. Da parte nostra, tenteremo di porre sei domande precise.

Che sentimenti ti suscita la visione della bandiera a stelle e strisce?

Che cosa ti fa venire in mente la parola «America»?

Ti commuovono di più i morti dei Twins o quelli dell'Afghanistan?

Che peso ha la questione palestinese nei tuoi sentimenti verso gli Usa?

Sei mai stato negli Stati Uniti? Ti piacerebbe andarci? Dove andresti o dove sei andato?

Racconta un episodio della tua vita che abbia a che fare con l'America o con gli americani

Se desideri essere citato nell'inchiesta scrivi il tuo nome.

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Batoty: Dio mi aiuti.
Habashy: Che succede? Che succede?
Batoty: Dio mi aiuti.
[rumori di numerosi tonfi e tintinnii che si susseguono per circa quindici secondi]
[un segnale modulato simile all'allarme generale inizia e continua fino al termine della registrazione]
Batoty: Dio mi aiuti.
Habashy: Che sta succedendo?
Habashy: Che sta succedendo, Gameel? Che succede?
[quattro segnali simili al beep dell'allarme acustico]
Habashy: Cos'è questo? Cos'è questo? Hai spento tu i motori?
[cambio e aumento del suono, udibile solo dal microfono del primo ufficiale]

Volo 990. Il 31 ottobre 1999 un Boeing Egypt Air si inabissò davanti al Massachusetts. Leggere ora le registrazioni delle voci nella cabina di pilotaggio mette i brividi. Che cosa accadde?

Diario della settimana è in edicola mentre termina la seconda settimana di guerra. Oltre all'aereo dimenticato dell'Egypt Air, un'inchiesta sull'Onu e sulla sua inutilità, un ritratto delle facce da guerra (contrite o contratte, ma tutte sotto contratto) che affollano gli schermi televisivi, un'intervista al comandante afghano Hekmatyar e un viaggio in Alaska, dove 190 mila caribù rischiano di scomparire a causa del via alle trivellazioni petrolifere, nell'indifferenza generale.

Ritornano le nostre inchieste italiane. Qui si racconta della miracolosa ascesa commerciale (grazie alla tv) della Eminflex, l'azienda di materassi che aveva come contabile un boss.

Buona lettura

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Il sommario della settimana
Numero 42. Da venerdì 19 a giovedì 25 ottobre 2001

Caro Diario

Il buon senso
Una volta erano "laici" Colloquio con Giorgio Vercellin

La seconda settimana
Volo 990, l'ombra dei kamikaze di Massimiliano Boschi
Il Nobel al Palazzo di gomma di Riccardo Romani
Facce di guerra di Maria Novella Oppo
Ho un bin Laden di carta nel wc di Massimo Cavallini
"Osama fa richieste ragionevoli" di Gabriella Bianchi
Il petrolio è peggio dei lupi di Fabrizio Carbone

Tutta la città ne parla
Una settimana di notizie da: Assisi, Milano, Roma, Reggio Emilia, Trieste e Persano
(ma anche l'Agenda, I numeri, In fondo a destra e le Biblioteche)

I nostri inviati
I materassi di Giacomo Riina di Giuseppe Bascietto
Sempre caro mi fu quel caveau di Pierluigi Iezzi

Vedi alla voce Cultura
Alla ricerca del Prete G di Giovanni Nardi
La musica si fa bella di Luca Damiani

Lo spettatore esigente
Cinevisioni: La maledizione dello scorpione di giada di Marco Lodoli
E inoltre: Cinema, Opera, Teatro, Musica pop, Rassegne, Edicola, Radio, Film in tv, Mostre, Documentario

Le recensioni
Bruno Schulz, David Grossman, Aldo Garzia, Grei Marcus, Bruno Kiniger, Doc, Louis L'Amour, Corrado Stajano

Lettura
Quegli yankees socialisti di Richard Rorty
Il visconte e lo yankee di René de Chateaubriand

Tutto il mondo ne parla
Storie, notizie e curiosità da: Romania, Marshall, Cile, Egitto, Malaysia

Un certo stile
Altro circo, altro teatro di Gian Luca Favetto

Se ne sono andati
Herbert Ross, Hermes Gagliardi, Salvatore Pacelli di Andrea Jacchia

Le rubriche

Florence Nightingale, Nicola Montella, Laura Pariani, Federico Chiacchiari, Elvio Giudici, Attilio Scarpellini, Oliviero Ponte di Pino, Massimo Onofri, Maria Novella Oppo, Luca Fontana, Alessandro Robecchi, Allan Bay, Stefano Bartezzaghi, Elfo

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21.10

Cultura dell'intimidazione e il dovere di resistenza

Marco Tarchi

("Diorama Letterario" n. 247, settembre 2001)

L’insofferenza degli intellettuali liberali verso le idee che non godono della loro approvazione si sta facendo sempre più evidente. La tentazione di omologare le opinioni del pubblico all’interno del quadro definito dai parametri dell’ideologia dominante, lasciandole libere di scegliere soltanto fra le varianti più o meno conservatrici o progressiste dello stesso credo è in continua crescita, tanto da mettere in forse il futuro della dialettica democratica nei paesi occidentali. Non contenti di occupare quasi tutte le tribune dell’informazione e di usarle per rovesciare sui dissidenti l’accusa di coltivare nostalgie totalitarie – ovviamente inconfessate –, guardandosi bene dal prendere in considerazione i loro argomenti, i sacerdoti del nuovo culto ideologico sono ormai passati alla fase della sistematica messa in guardia contro chiunque si ostini a non accettarlo.

Come paventavamo già cinque anni orsono, quando abbiamo dedicato un fascicolo di "Diorama" al tema L’intolleranza liberale, i metodi applicati a tale scopo non sono purtroppo diversi da quelli usati fino a pochi anni orsono dai custodi della precedente egemonia. Al massimo, la differenza è di grado, non di sostanza. Se per i marxisti l’accusa di fascismo era l’arma sempre a portata di mano per mettere fuori gioco gli oppositori, l’arsenale delegittimante dei loro successori è più ampio, includendo l’antiamericanismo, il terzomondismo, l’antioccidentalismo, il fondamentalismo ("verde" o religioso), l’integralismo, le "nostalgie" – che possono essere comuniste, comunitarie, autoritarie o di altra specie, a seconda delle circostanze –, il populismo (quando a praticarlo sono gli altri), lo statalismo e via scomunicando. Chiunque sia toccato dall’uno o dall’altro di questi epiteti è degradato ipso facto a potenziale nemico dell’umanità e dei suoi diritti e perciò messo all’indice. Se è un politico, viene trattato con sufficienza, disprezzo e ironia, alla stregua di un mentecatto o di un ciarlatano. Se è un intellettuale, i suoi spazi di espressione sono limitati, le sue idee non vengono reputate degne di commento o confutazione, i suoi scritti non vengono recensiti e interviste, tribune libere giornalistiche e partecipazioni a dibattiti televisivi gli sono sostanzialmente precluse.

Che questa situazione stia riducendo progressivamente l’area del dissenso culturale in Occidente è un dato di fatto facilmente verificabile. Se ancora dieci anni fa l’attenzione giornalistica per le correnti intellettuali non conformiste, sia pure in forme spesso disinformate e mistificanti, era un dato ordinario, oggi la si può dare per estinta. In Francia, l’Alain de Benoist che un tempo scriveva sul "Figaro" e sollevava fiumi d’inchiostro di commentatori incuriositi o allarmati dalle sue tesi, è stato espulso dai circuiti della comunicazione e condannato all’ostracismo professionale e alla disoccupazione; Roger Garaudy è trattato da pazzo antisemita, Régis Debray linciato periodicamente sulla stampa. In Germania, il settimanale "Junge Freiheit", malgrado l’evidente inflessione conservatrice, si è vista chiudere addirittura il conto corrente bancario perché giudicata poco "politicamente corretta". In Italia, se sui fermenti di critica al liberalismo spuntati a destra è stato steso un velo di assoluto silenzio, non è che la sinistra a suo tempo tentata dal trasversalismo se la passi molto meglio; tutt’al più vegeta. Ma non per questo cessa il martellamento degli opinion makers insediati nei grandi giornali e nelle reti televisive, il cui obiettivo è, evidentemente, la conversione o la resa senza condizioni degli avversari. Ai quali non si concede la parola ma si addebitano, spesso senza possibilità di replica, propositi o atteggiamenti esposti alla pubblica esecrazione.

Sono molti gli esempi di questa situazione che si potrebbero citare, ma l’attualità ci consiglia di selezionarne due su cui riflettere. Uno attiene al modo ipocrita e selettivo con cui vengono presentati dagli opinionisti liberali i termini degli scontri etno-nazionali che attualmente insanguinano varie parti del pianeta. L’altro alla rappresentazione dei soggetti coinvolti nel movimento anti-globalizzazione e dei loro argomenti.

Per affrontare la prima di queste due questioni possiamo partire da un paradosso. Chiediamo a chi ci legge di immaginare quale sarebbe stata, tre anni fa, la reazione del "ceto colto" se sul maggiore quotidiano italiano fosse comparso un editoriale del seguente tenore:

"Il micidiale attentato di giovedì scorso a Pristina non farà altro, temo, che confermare l’immagine del conflitto serbo-kosovaro che ormai si è affermata nell’opinione pubblica e nei media occidentali: l’immagine di una faida inarrestabile in cui le responsabilità delle due parti sostanzialmente si equivalgono. Basta però una domanda – anzi due – a fare sorgere in proposito qualche dubbio: se domani per miracolo cessassero improvvisamente le violenze da parte kosovara, chi può dubitare che la stessa cosa non accadrebbe immediatamente anche da parte serba? Ma chi può dirsi minimamente sicuro, invece, che, se ad astenersi per prima da ogni violenza fosse la Serbia, la controparte kosovara farebbe altrettanto? L’iniziativa dell’attacco, insomma, è sempre kosovara, e del resto è fatale che sia così, dal momento che è la parte kosovara che intende modificare con la lotta la realtà di fatto decisa fin qui dagli eventi. Lotta con quale fine? L’opinione pubblica e i media occidentali non riescono, molto ragionevolmente, che a ritenere possibile un solo fine: l’accordo con la Serbia. La responsabilità del mancato raggiungimento del quale è, per solito, ancora una volta, attribuita a entrambe le parti, alla loro mutua irragionevolezza. Ma è certo che le cose stiano così, che esista questa equivalenza? Vediamo. Anche se da parte serba vi fosse il governo più pacifista immaginabile, un punto almeno esso riterrebbe certamente irrinunciabile per un accordo: la rinuncia definitiva da parte kosovara a contestare la legittimità dell’esistenza della Federazione Jugoslava almeno entro i confini del 1995 (Croazia, Slovenia e Bosnia-Erzegovina esclusi, naturalmente). Tutto si può immaginare tranne che un qualunque governo jugoslavo sia mai disposto a firmare un accordo che non preveda una tale clausola (del resto ritenuta ragionevolissima, credo, da qualunque ragionevole lettore di questo giornale). Ma è mai immaginabile una simile rinuncia da parte kosovara? Ogni osservatore imparziale non può che nutrire al riguardo il massimo scetticismo: basti pensare che ancora qualche settimana fa il "diplomatico" Rugova ha ribadito nel modo più solenne che ai kosovari va riconosciuto il diritto all’autogoverno, a un’amministrazioe autonoma. È superfluo discettare se ciò sarebbe o no giusto: l’importante è capire che ciò equivarebbe di fatto alla cancellazione della Federazione Jugoslava. E del resto era proprio in questo senso – si può essere sicuri – che Rugova voleva che le sue parole fossero intese. Egli ha sempre saputo, infatti, che un’autorità kosovara che accettasse il diritto della Federazione Jugoslava a esistere negli attuali confini, molto verosimilmente perderebbe all’istante qualunque autorità".

C’è da scommettere che un fondo del genere, in prima pagina del "Corriere della Sera", in piena guerra civile nel Kosovo, con le diplomazie disperanti della buona riuscita delle trattative di Rambouillet, avrebbe sollevato un putiferio. L’establishment intellettuale sarebbe insorto sostenendo l’impossibilità di equiparare le ragioni dei repressi e discriminati kosovari, maggioritari nel territorio abitato, con quelle dei serbi guidati dal "guerrafondaio" Milosevic. Si sarebbe gridato ai lesi diritti dell’uomo, al collaborazionismo e al cinismo di chi avallava i metodi coloniali adottati dai Serbi verso la popolazione albanese, si sarebbe messa sotto accusa l’artificiosità dell’impianto statale jugoslavo, tenuto ormai assieme solo con la spietata forza della polizia e dell’esercito. E si sarebbe ripreso a invocare un intervento armato dell’Occidente – Unione Europea o Nato – contro l’arroganza dei serbi, popolo da sempre di sentimenti nazionalisti e xenofobi, ossessionato dalla propria storia passata e dall’idea di avere una missione di civiltà da compiere nei Balcani e perciò spinto a voler difendere ad ogni costo il proprio dominio sui luoghi "santi" della propria epopea nazionale, senza alcun riguardo ai rapporti di forza numerica con le popolazioni di altra etnia residenti, ormai in quote nettamente maggioritarie, sui territori cari alla sua epopea lirico-religiosa.

Già: le cose sarebbero andate proprio così. È strano però che un articolo così concepito sia effettivamente comparso in prima pagina sul quotidiano milanese, senza suscitare il minimo scandalo e senza veder espresse da parte di nessun commentatore le controdeduzioni che abbiamo abbozzato. La spiegazione di questo sorprendente atteggiamento sta nel fatto che il pezzo, firmato da Ernesto Galli della Loggia e comparso il 12 agosto 2001, è intitolato Israele, il torto di esistere e si differenzia da quello da noi riportato per i soggetti coinvolti: laddove noi abbiamo scritto Serbia si legge invece Israele, dove abbiamo scritto kosovari bisogna leggere palestinesi, Pristina sta per Gerusalemme, Rugova per Arafat.

La differenza non è certamente da poco; ma riguarda la sostanza del discorso o solo l’identità degli attori? Vale la pena di rifletterci per qualche momento. A noi pare che, sia che se ne sottoscrivano sia che se ne contestino le ricadute in termini di giudizio, il ragionamento di Galli della Loggia fili alla perfezione anche nella versione rivista e corretta. E allora, come mai né all’autore né ad altri collaboratori del "Corriere della Sera" è venuto in mente di applicarlo alle vicende balcaniche, riservandolo esclusivamente al conflitto che insanguina la Palestina?

La risposta è elementare: si tratta di un classico caso di due pesi e due misure, di rifiuto di applicare logiche identiche a casi analoghi. Nell’articolo del vero Galli della Loggia, Israele incarna l’Occidente sedicente liberale alle prese con un popolo "altro". In quello dello pseudo-Galli, la Serbia ha il ruolo di sfidante di quello stesso Occidente, e lo stesso scambio avviene tra palestinesi e kosovari. Eppure, si può onestamente negare che le umiliazioni che i primi subiscono nella terra in cui sono nate innumerevoli generazioni di loro antenati siano minori di quelle inflitte da Belgrado ai discendenti degli slavi convertiti all’Islam alcuni secoli orsono? Ci sono motivi oggettivi che possano far rifiutare la denominazione di apartheid al regime di subordinazione e sopraffazione cui sono condannati i palestinesi dai governi israeliani, quando quella stessa formula è stata di continuo usata per descrivere le traversie dei compatrioti di Rugova nella Jugoslavia degli anni Novanta? C’è una giustificazione della guerriglia indipendentista dell’Uçk, tanto cara alla Nato, che non si applichi alle formazioni combattenti palestinesi? La pulizia etnica subìta dai palestinesi nel 1948, e prima e dopo quella data, ha prodotto forse meno vittime di quella imputata a militari e paramilitari serbi prima della guerra scatenata dalla Nato per proteggere i diritti umani della "martoriata" popolazione albanese? La risposta, in tutti i casi, è no. E non è tutto: è possibile accusare Milosevic e lo Stato jugoslavo di aver messo in atto uccisioni di capi militari albanesi presentandole come "atti di difesa preventiva" contro i rischi di terrorismo (che l’Uçk seminava a piene mani contro poliziotti e funzionari slavi)? Ancora una volta: no. E se Milosevic le avesse annunciate e giustificate, non sarebbe stato immediatamente denunciato a quel Tribunale dell’Aia che oggi lo detiene per dare una lezione a chi ha osato sfidare il potere egemonico statunitense? Non è possibile dubitarne. E allora, perché nessuna organizzazione internazionale si è sognata di promettere a Sharon, già pesantemente coinvolto nei massacri di Sabra e Shatila e ora programmatore del terrorismo di Stato, una "Norimberga mediorientale"? E se accusare Israele di discriminare e perseguitare i palestinesi, di negare a quelli di loro che ne sono stati espulsi con la violenza e con il terrore dalle proprie case e terre il diritto al ritorno in patria, significa macchiarsi di antisemitismo – come l’internazionale ideologica liberale urla da ogni tribuna dopo che la Conferenza internazionale sul razzismo di Durban ha osato denunciare il colonialismo esercitato ai danni delle popolazioni indigene nei territori arabi occupati –, perché si sono riversate pesanti contumelie sul capo degli intellettuali jugoslavi (incluso il futuro democratico presidente Kostunica) che ai tempi di Rambouillet denunciavano il crescente odio antislavo diffuso fra gli albanesi, che vediamo oggi di nuovo all’opera in Macedonia?

Sarebbe tempo sprecato attendere risposte razionali a questi quesiti, posti in punto di fatto e non con i toni della propaganda. Così come Galli della Loggia e i suoi compagni di fede non si degnerebbero certamente di riflettere sul fatto che mai il "macellaio" Milosevic, nella sua lotta contro la guerriglia kosovara, ha abbinato alla repressione militare – almeno sino a quando non sono entrati in gioco i bombardamenti "umanitari" della Nato – le sistematiche demolizioni di case e villaggi abitati dai "nemici" o le distruzioni con i bulldozers delle condotte dell’acqua potabile dei campi-profughi che Sharon ha deciso e messo in atto. E tantomeno ha proclamato la necessità di uccidere i padri dei guerriglieri per arginare gli assalti terroristi.

No; malgrado il monito di Kofi Annan a Durban sull’impossibilità di scusare con la memoria della tragedia genocida subìta dal popolo ebraico i torti quotidianamente inflitti dagli israeliani ai palestinesi, le tante voci del coro liberale che dominano incontrastate la scena informativa continueranno comunque a fustigare, come fa il loro occasionale portavoce, la pretesa di riconoscere ai palestinesi di fare ritorno nelle località da cui furono cacciati nel 1948, argomentando con formidabile cinismo che "è superfluo discettare se ciò sarebbe o no giusto", perché "l’importante è capire che ciò equivarrebbe alla cancellazione di Israele". Ancora una volta: si sentono mai usare parole simili quando in gioco sono i ceceni e i russi, oppure i timoresi e gli indonesiani, o i tibetani e i cinesi?

Non ci sarebbe bisogno di esempi così lampanti per ribadire ciò che qualunque osservatore disincantato dovrebbe avere ben chiaro, cioè che il liberalismo, lungi dall’essere una dottrina basata su princìpi di valore universale come pretendono da secoli i suoi teorici, è oggi un’ideologia piegata ai bisogni di un sistema di dominio che ha un referente politico-statuale essenziale (gli Stati Uniti d’America), un modello sociale di riferimento (il capitalismo liberista), una considerevole riserva di risorse (finanziarie, militari, informative) e una visione del mondo da imporre a livello planetario (l’occidentalismo). È in relazione alle necessità tattiche e strategiche di questo sistema che gli intellettuali liberali orientano attenzioni e giudizi, decidendo quali cause sostenere, quali tacere e quali demonizzare, in ossequio ai medesimi schemi che hanno guidato le mosse di tanti intellettuali nazionalisti all’epoca d’oro dell’imperialismo coloniale.

Ciò appare altrettanto evidente se passiamo, più brevemente, al secondo caso di attualità al quale abbiamo fatto cenno in apertura.

Dopo gli incidenti avvenuti a Genova in occasione del contestato incontro degli otto "grandi" del mondo, gli ideologi del liberalismo hanno scatenato una forte controffensiva massmediale, tesa ad annichilire la ragioni di quanti si oppongono, da diverse prospettive, al progetto di omologazione culturale e spartizione diseguale della ricchezza che è implicito nell’attuale processo di globalizzazione. Tralasciamo qui gli argomenti spesi in merito all’uso della violenza come strumento di protesta, senz’altro condivisibili purché si applichino anche, ragionevolmente, agli apparati di repressione dello Stato, per accennare ad un altro versante lungo il quale questa controffensiva si è dispiegata. È degno di nota il modo in cui buona parte dell’intellighentzija liberale (quella di indole conservatrice, oggi prevalente in Italia) ha cercato di liquidare le ragioni dei contestatori appiattendole su uno sfondo marxista. Ora, che nel pulviscolo di organizzazioni che hanno fatto del no global la loro bandiera ve ne siano un buon numero – a partire dalla costellazione dei "centri sociali" – in cui allignano, sia pure a livello più simbolico che dottrinario, reminiscenze di marxismo, classismo, operaismo e altri detriti delle effervescenze politico-sociali degli scorsi tre decenni, è senz’altro vero. Ma lo è altrettanto che né questi materiali si sono condensati in una piattaforma ideologica monolitica, né essi sono le uniche fonti di ispirazione di un movimento che, come spesso succede nei fenomeni di protesta, convoglia forme di antagonismo molto eterogenee e caratterizzate assai più in negativo, per i bersagli polemici che si scelgono, che in positivo, per una proposta organica di soluzione dei problemi che indicano. Tacciare di marxismo o nostalgie comuniste ogni opposizione al globalismo è una scorciatoia per negare validità alle sensibilità e alle critiche che vi si manifestano senza prendersi neanche la briga di valutarne l’attendibilità; è, insomma, un gesto di propaganda collocabile sullo stesso piano delle perorazioni di un Agnoletto o di un Casarini, non certo il frutto di un’analisi ragionata.

Ciò non significa che una simile semplificazione non paghi; tutt’altro. Da mezzo secolo a questa parte, questa strategia dell’amalgama ha consentito di neutralizzare tutti i sussulti che hanno messo in discussione l’assetto politico e sociale dei paesi occidentali. L’ammaestramento popolare all’uso della coppia oppositiva destra/sinistra come griglia di interpretazione della realtà ha prodotto, in questo senso, gli effetti sperati. Chi si sentiva orientato a destra è stato istigato a liquidare come "di sinistra" istanze potenzialmente trasversali come il pacifismo, il neutralismo in materia di relazioni internazionali, l’ecologismo, l’autodeterminazione dei popoli, il riscatto dall’indigenza del Terzo Mondo; chi simpatizzava per la sinistra ha fatto lo stesso con il comunitarismo, il localismo, le critiche al distacco della classe politica dalle preoccupazioni del cittadino medio – bollate come segni di populismo –, la meritocrazia. Qualche tema sgradito, come la rinascita delle identità territoriali e delle "piccole patrie", ha addirittura subìto, in periodi diversi, il fuoco incrociato di entrambi i campi (sentirsi fieri dell’essere corsi, occitani, gallesi o frisoni era considerato "di sinistra" fra il ’68 e tutti gli anni Ottanta, ma da un paio di lustri viene ritenuto un atteggiamento "di destra"). Nei casi estremi, questa contrapposizione di comodo poteva essere surriscaldata dal ricorso a categorie di intensità emotiva maggiore, come l’antifascismo o, più sporadicamente, l’anticomunismo. Sinché il gioco delle elisioni così governato funzionava, non c’era bisogno di altri interventi.

La crisi della sinistra già comunista ha però confuso le carte in tavola. Quelle componenti che non si sono riciclate in appendice progressista del fronte liberale solo in parte si sono infatti accontentate di tener duro attorno a posizioni ortodosse. Molti di coloro che si sentivano di sinistra per un generico desiderio di equità sociale o per disgusto dell’ordine sociale e culturale esistente hanno aperto le proprie inquietudini ad altre influenze, fra le quali il rifiuto dell’omologazione all’american way of life e dell’occidentalizzazione planetaria ha assunto, pur tra molte contraddizione, un ruolo rilevante. Significativamente, questo stato d’animo ha consentito la convergenza attorno ad alcuni bersagli polemici di soggetti di altra formazione, specialmente cattolici. Si spiega così il particolare accanimento con cui molti opinionisti liberali, in cuor loro fervidi sostenitori della secolarizzazione e della riduzione della religione a sopravvivenza folklorico-museale del tutto astratta dalle logiche politiche, hanno richiamato la Chiesa di Roma alla necessità di condannare e isolare gli interni fermenti antiglobalisti. Ovviamente, qui quel che importa non è il conflitto fra i forsennati dei due campi, figure un po’ patetiche come Gianni Baget Bozzo o don Vitaliano Della Sala; contano gli editorialisti dei quotidiani sedicenti moderati e le associazioni ecclesiali. Lo sforzo dei primi di colpire le seconde è indicativo del ruolo di agit-prop in cui certi uomini di cultura si sono calati, raccogliendo il testimone dagli avversari di un tempo. La spensieratezza con cui hanno raccolto etichette buone per altre epoche ("catto-comunisti", che fa il paio con il "grigioverdi" "o verdi-bruni" che serve sempre più di frequente, nella letteratura politica di lingua inglese, francese e tedesca a squalificare i più coerenti teorici dell’ecologismo) appiccicandole addosso ai soggetti sgraditi, fa pensare.

È difficile credere che quanti oggi pensano che in chiesa sta rientrando Marx, che nel mondo cattolico brulica la genìa di coloro che vorrebbero mettere insieme Vangelo e analisi marxista, fino a ieri non se ne siano accorti, ed anzi abbiano concentrato le loro analisi sulla riscossa conservatrice promossa dal papato di Karol Woytila, sull’autorità del pontefice e sulla sua capacità di annichilire la teologia della liberazione. Ed è più sensato pensare che il loro parere non sia cambiato, che gli odierni anatemi servano estemporaneamente a centrare un bersaglio di passaggio. Resta però il fatto che, oggi, affermare che il marxismo abbandonato dalla sinistra intellettuale gode di popolarità in ambienti ecclesiali, serve a squalificare come paramarxiste tutte le analisi critiche della globalizzazione e dei suoi effetti che hanno radici nella cultura cattolica. Analisi che i campioni dell’egemonia liberale presentano scrivendo tale termine fra virgolette, sottintendendo che si tratta invece di sproloqui senza senso, così come fra virgolette o accompagnate dal velenoso aggettivo "cosiddetto" finiscono formule come "sfruttamento capitalistico" e "imperialismo", "dipendenza" dall’Occidente del Terzo Mondo, che purtroppo hanno tutti i crismi della odierna realtà.

Bizzarro, e nel contempo triste: proprio gli esponenti di quel filone di pensiero che ha a lungo rivendicato a se stesso senso di equilibrio e realismo, imputando agli avversari il tradimento dell’ideale scientifico dell’avalutatività, impiegano oggi i propri riferimenti di valore per dar forza ad una vera e propria cultura dell’intimidazione, gonfia di toni striduli, arroganza, disprezzo delle altrui ragioni. Evidentemente, anche fra gli intellettuali, qualunque sia il colore dei valori che coltivano, il desiderio di conquista, difesa e gestione del potere prevale spesso sulla capacità di autocontrollo. Occorre prenderne atto e, quanto più forte si fa l’offensiva dei sostenitori di un pensiero a vocazione monopolistica, organizzare solide linee di resistenza. È sempre più evidente, agli occhi di chi vuol vedere, che in un mondo dominato dal potere suggestivo dei media le vere battaglie di libertà si combattono sul terreno delle idee. Non disertarle, oggi più che mai, è un dovere civile per quei critici dell’egemonia liberale che non soffrono né di complessi di inferiorità né di vocazioni al collateralismo o al gregariato.

Marco Tarchi

NOTE

1 Sara' bene ricordare che la colpa di Garaudy è quella di aver denunciato un uso strumentale del genocidio ebraico da parte dei governanti israeliani, in termini sostanzialmente non troppo dissimili da quelli usati da Kofi Annan alla recente conferenza Onu sul razzismo, mentre a Debray è imputata la critica dell'aggressione della Nato alla Serbia. Quanto a De Benoist, tutto il suo percorso intellettuale non conformista lo condanna all'anatema dei benpensanti.

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20.10

Aggiornamento dalla Palestina

19 Ottobre 2001: Assedio ed assassini: in una giornata di alta tensione, si sono verificati incidenti in tutta la Cisgiordania occupata, con vittime e violenze nella West Bank ed a Gaza. I disordini sono scoppiati allorche' una serie di bulldozers e tanks dell'esercito israeliano sono penetrati a Betlemme e Beit Jala.

A Betlemme, quattro palestinesi, tra cui una donna ed un poliziotto, sono stati assassinati dai militari d'occupazione durante i funerali dei tre palestinesi, tra i quali il leader del gruppo di resistenza Tanzim, Atef Abayat, uccisi ieri da un missile lanciato contro l'auto sulla quale viaggiavano.

Fonti ospedaliere di Gaza hanno denunciato la morte di un giovane palestinese colpito da pallottole alla testa mentre protestava al valico di Karni, tra Gaza e l'Egitto. Precedentemente, un adolescente palestinese di 13 anni, Basel al-Mubasher, era rimasto ucciso dallo scoppio di una granata nei pressi del campo profughi di Khan Yunis.

E si sono svolti oggi i funerali di Riham Nabil, la bimba di 10 anni uccisa ieri durante il bombardamento della scuola elementare di Jenin. Nel vile attacco contro la scuola, oltre a Riham, altre sette bambine sono state ferite, due delle quali versano in gravi condizioni presso l'ospedale della citta' palestinese.

L'attivista Kamel Hamed, amico del membro dei Tanzim ucciso ieri, ha detto ai microfoni dell'Associated Press che "la lotta dei palestinesi continuera' fino a che un solo soldato ed un solo colono resteranno nella nostra terra".

www.arabcomint.com

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17.10

Rivista di scrittori migranti
 
E' con soddisfazione che vi informo dell'uscita on-line del numero cinque della nostra pubblicazione trimestrale, la Rivista Sagarana, accessibile all'indirizzo www.sagarana.net .
Con questo numero la Rivista Sagarana festeggia il suo primo compleanno.
Spero che gli articoli, i saggi, i racconti, le poesie, le "dicas", la mostra fotografica e i testi della nuova sezione, "la lavagna del sabato", ti regalino momenti di piacevole lettura.
Colgo l'occasione per informarvi che a partire dal 1 Novembre potrai trovare on-line, nel sito della scuola, una nuova sessione interamente dedicata ad un importante evento letterario che ha avuto luogo a Lucca nel Luglio 2001: Il primo seminario italiano degli scrittori migranti.
 
 Cordialmente,
 
Julio Monteiro Martins

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16.10

Terzani risponde alla Fallaci
 

"Il sultano e San Francesco"
di Tiziano Terzani
(Corriere della Sera, 8 ottobre 2001)

Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. 

Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle «Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. 

Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo.
Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la compassione.

Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia», scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanità, un’opera che sembra essere ancora di un’inquietante attualità.
Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta.

Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L’orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’uccidere.
«Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me», scriveva nel 1925 quella bell’anima di Gandhi. Ed aggiungeva: «Finché l’uomo non si metterà di sua volontà all’ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza».
E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, «Libertà duratura». O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmen questa. 

Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all’inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.
Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza - ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra nostra e così via.

Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologice - Stati Uniti in testa - d’impegnarsi solennemente con tutta l’umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per sé un’arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta.

In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werde n: ethische Politik von Sokrates bis Mozart ( L’arte di non essere governati: l’etica politica da Socrate a Mozart ). L’autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio.
Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine.
Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. 

A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle «Tigri Tamil», votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di «Hamas» che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell’innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali. 

Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’atto di «una guerra di religione» degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure «un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale», come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. 

Un vecchio accademico dell’Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. «Gli assassini suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno attaccato la politica estera americana», scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri - l’ultimo, Blowback , contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia edito da Garzanti ndr ) ha del profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo «contraccolpo» al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo.  

Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.
Il «contraccolpo» dell’attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’Islam.
Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico». Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l’analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L’occasione per uscirne è ora. 

Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri. 

A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti.

È per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria bellica - combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l’America così particolare.

Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo «codardi», usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni.
L’aver diviso il mondo in maniera - mi pare - «talebana», fra «quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro.

Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle «cicale» ed agli intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace.
Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo «ufficiale» della politica e dell’establishment mediatico, c’è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l’America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell’America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam?
Per i politici - me ne rendo conto - è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l’angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah. No. Non li invidio, i politici.

Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America.

Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore , ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori?

Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato 'Omar al-Khayàm? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che già studiano l’inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. 

Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme».

Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati («vide il male ed il peccato»), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn - era il 1219 - perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati. 

Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia.

Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: «La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere «No». Ma non possiamo rinunciare alla speranza.

«Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. «È possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?» Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due fattori - un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire.

Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto».

Per difendersi, Oriana, non c’è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’è bisogno d’ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M’è sempre piaciuta nei Jataka , le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, «vede» che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri.

Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden?

«Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate», scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose : una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì.

L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del «nemico» da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; è l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla.

Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?

Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare.
I governi occidentali oggi sono uniti nell’essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. «Dateci qualcosa di più carino del capitalismo», diceva il cartello di un dimostrante in Germania. «Un mondo giusto non è mai NATO», c’era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo «più giusto» è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po’ più di moralità.

La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l’ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi.
Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche.

L’interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i «lavoretti sporchi» di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera.
Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l’etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze.

A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s’è «globalizzata», perché non ha resistito all’assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato.

Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’io non mi ci ritrovo più.

Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia.

Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte.

Tiziano Terzani

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15.10

di M.M.

In fondo, era così semplice la spiegazione. Ce la offre infatti l'Espresso, con una copertina storica. 

Al posto di tette o di sederi  femminili, questa volta vediamo un giovane musulmano, vestito come ci si veste in tanti paesi orientali - cioè in maniera un po' più comoda e meno ridicola di quella che mi viene imposta quando devo andare a fare un interpretariato.

Il giovane sta gridando, come si usa nei cortei e nelle manifestazioni: la faccia è all'incirca quella di un metalmeccanico che esige il rinnovo del contratto.

Il titolo sotto dice: "LUI TI ODIA!".

Poi, in caso "TU" non avessi capito il messaggio, aggiunge la domanda: "E TU?".

Tradotto, significa, se non ricambi il suo odio, se non gli spacchi la faccia, non sei un vero uomo, non hai le palle. O meglio, visto che di spaccare la faccia non se ne parla, se non batti le mani tutte le volte che le bombe centrano un villaggio afgano, o non denunci l'immigrato clandestino che si muove con fare sospetto alle cinque di mattina per andare a lavorare in nero, o se non appoggi la chiusura della moschea sotto casa...

Il messaggio comunque è doppio. Oltre a istigare alla trasformazione di tutti i ragionier-rossi in lupi, esso offre anche una spiegazione di ciò che è successo: "lui ci odia". Punto, fine, cosa vuoi aggiungere? 

Ora, se non siamo deficienti quanto il lettore medio dell'Espresso, ci accorgiamo che la principale funzione di una pseudo-spiegazione del genere è di sfuggire alla spiegazione reale.

Che poi non è nemmeno tanto complicata.

La questione fondamentale si chiama Arabia Saudita. Se non si capisce la questione saudita, non si potrà mai capire ciò che e' avvenuto. Ma quanto se ne sa in giro?

Partiamo dal fatto ovvio - l'Arabia Saudita e' un paese teoricamente molto ricco. Soltanto che tutte le ricchezze di questo paese sono in mano a circa 30.000 persone che hanno la fortuna di essere nati nella cosiddetta "famiglia reale". Il loro potere e' assoluto e copre ogni settore della vita nazionale.

I loro soldi, come si sa, provengono dal petrolio, che essi vendono sostanzialmente a un pugno di aziende americane, sostanzialmente al prezzo deciso da quelle stesse aziende. A loro volta, essi investono questi soldi in America e soprattutto in Inghilterra; qualcuno anche in Mediaset.

Questo significa che queste persone fanno parte a tutti gli effetti del cosiddetto Occidente. Che abbiano nomi esotici cambia poco la realtà: per i sauditi, e' proprio come se a possedere tutte le ricchezze del paese fosse qualcuno che si chiama John Smith.

Ora, da una decina di anni, esiste un movimento di protesta contro questo stato di cose. Ci sono cioè persone che dicono che non va bene che tutta una nazione sia in mano a 30.000 persone e che le altre non abbiano alcun diritto.

Quindi, la situazione sarebbe pronta per una rivoluzione. Una rivoluzione borghese, come fu all'inizio quella francese: non stiamo parlando di drammatiche situazioni di miseria, come in Palestina o di tragedie come in Iraq. Stiamo parlando di milioni di persone mediamente colte, che si trovano senza alcuna possibilità di esprimersi, di contare, di agire e neanche di trovare lavoro: infatti, la Famiglia Reale preferisce dare lavoro a un medico americano, strapagato, che a un laureato locale che un giorno potrebbe piantare grane, anche se costerebbe di meno.

Solo che chi protesta, viene regolarmente arrestato, torturato o decapitato in piazza. Non ci vorrebbe molto per spazzare via la banda di briganti e mandarli a godere di un lussuoso esilio in Inghilterra.

Solo che la Banda Reale, molto saggiamente, si è premunita facendo occupare militarmente il paese dai loro clienti, cioè dalle basi statunitensi. Oltre a numerosissimi soldati statunitensi, in grado di schiacciare qualunque insurrezione, la Banda Reale si è rivolta anche a una curiosa istituzione tipicamente americana: gli eserciti privati di mercenari, guidati da ex-dirigenti militari e della CIA. Queste aziende - reperibili anche su Internet dove offrono i loro "servizi" - permettono al
governo degli Stati Uniti di affiancare alle attività militari autorizzate dal Congresso anche altre attività che non sono sottoposte ad alcun tipo di controllo.

Le aziende assicurano un servizio completo: addestramento e preparazione di forze repressive, le più aggiornate tecniche di tortura e di spionaggio e - quando occorre - anche l'intervento diretto contro gli oppositori.

Una cosa che gli oppositori trovano particolarmente offensiva è la  presenza sia dei soldati  americani sia delle bande mercenarie nei "luoghi santi" dell'Islam, di cui proprio la Banda Reale si dichiara "custode".
Non è facile fare un parallelo da noi, visto che i parametri in questo caso sono molto diversi; forse, potremmo dire, è come se il direttore degli Uffizi avesse fatto occupare mezzo museo da tombaroli armati.

Da alcuni anni, a causa di vicende che sarebbero lunghe da raccontare, la maggioranza dei sauditi si oppone al regime della Banda Reale.

L'opposizione è cominciata con proteste pacifiche, con appelli a Amnesty International e ai diritti umani. Da parte della Banda Reale, queste proteste hanno incontrato le stesse risposte che nel 1905 incontrarono le sommosse russe (guidate, anche in quel caso, da qualche prete barbuto); da parte del mondo, invece? Beh, la risposta la sapete voi che leggete: se siete al corrente della situazione saudita, vuol dire che i media hanno dato ascolto alle loro proteste; se non ne siete al corrente, vuol dire che i media hanno dato più rilievo ad altre cose.

Seconda tappa per gli oppositori, quindi, la lotta armata. Il problema però è che la Bastiglia non era difesa da qualche mercenario svizzero, ma dall'esercito della nazione più potente del pianeta. Che non ha lealtà sentimentali, ma sa benissimo che la Banda Reale è totalmente dipendente dai suoi interessi, mentre una nazione indipendente non lo sarebbe per definizione. Quindi, è impossibile sperare di combattere la banda reale senza combattere chi la sostiene - un po' come sarebbe stato vano combattere contro la Repubblica Sociale senza prendere di petto anche i tedeschi, oppure contro i comunisti in Afghanistan senza attaccare anche i  russi.

 La terza tappa, non condivisa da tutti, quindi, consiste in una serie di azioni militari contro le basi dell'esercito occupante sul suolo nazionale, e poi contro una nave nel vicino Yemen.

Ora, il nemico ha una struttura particolare. Non c'è un re da colpire; piuttosto, c'è un sistema economico - come ben sa chiunque faccia parte della famiglia dei Bin Ladin, amici dei Bush - che ha come braccio armato un sistema militare. Da tempo, l'ala armata del movimento dissidente
 saudita aveva avvertito gli Stati Uniti che se non toglievano l'appoggio alla Banda Reale, il movimento avrebbe colpito gli stessi Stati Uniti.

Ora, se si vuole portare l'attacco all'occupante per convincerlo ad abbandonare al suo destino la Banda Reale, gli obiettivi sono piuttosto ovvi: il cuore dell'intera macchina economica, cioè i palazzi gemelli che ospitano la più alta concentrazione di flusso economico globale al mondo,
 e il cuore dell'intera macchina militare, il Pentagono. La sede centrale di tutte le più importanti aziende del mondo e la sede centrale del più potente sistema di terrore del pianeta non sono la Torre di Pisa o il Colosseo. L'obiettivo dei dissidenti sauditi e dei loro alleati non erano quindi i "simboli dell'Occidente", ma piuttosto i luoghi di potere di chi permette alla Banda di imperversare in Arabia Saudita. E chi ha condotto questi attacchi ha considerato i "danni collaterali" - come dicono i militari americani - con la stessa cinica indifferenza con cui gli americani hanno guardato i morti innocenti di Hiroshima, o quelli - dimenticatissimi - di Panama.

Questi fatti non hanno molto a che vedere con la sofferenza dei palestinesi o degli iracheni. Per cui sbaglia anche chi dice che per "combattere il terrorismo, bisogna risolvere la questione palestinese".

Indirettamente, è vero, i palestinesi sono vittime della stessa violenza di cui sono vittime i sauditi, come lo sono anche gli iracheni; ma è anche vero che le loro storie sono diverse, le reazioni sono diverse e comunque la ribellione attuale nasce in Arabia Saudita, attorno al problema saudita: Iraq e Palestina sono essenzialmente riferimenti simbolici.

In fondo, il problema saudita è di tipo borghese. Non somiglia agli orrori di Sabra e Chatila, o alla mostruosità dell'assedio di Hebron. Somiglia  piuttosto alla nostra situazione ai tempi di tangentopoli: immaginiamoci una società in cui ogni critica a Craxi o a De Lorenzo avesse comportato l'arresto, la tortura e forse la morte. In cui se non facevi di cognome Gava, non potevi sperare in altro che qualche posto umile e secondario di lavoro.
Immaginiamoci che il potere dei Craxi fosse garantito da soldati cinesi di occupazione e da mercenari privati cinesi; che a preparare le torture dei dissidenti, fossero stati esperti con gli occhi a mandorla.

Non è così difficile da capire. E questi sono i dati di partenza. Senza questi non ha senso né condannare né assolvere, né parlare di civiltà o di non civiltà, né condurre azioni pacifiste o belliciste.

"In questo preciso periodo l'oriente con le sue atmosfere mistiche fatte di  monocromie e profumi è musa ispiratrice di designers, stilisti e  architetti"... Da un manuale che mi è toccato tradurre in questi giorni. Anche l'oriente fa occidente, purché si possa vendere e non morda.

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13.10

Nuovi volti dell'antisemitismo al Senato di Francia

Per chi ha seguito le polemiche - istigate ad arte - seguite all'incontro interreligioso in Campidoglio di alcuni giorni fa e sull'"inaccettabile" presenza di Yusuf al-Qaradâwi alla giornata organizzata dalla Comunità di S.Egidio, e soprattutto è al corrente degli sforzi che negli ambienti che contano si fanno per creare una figura d'interlocutore musulmano "modello",
ogni commento appare superfluo. 

A tutti gli amici dell'ICCII mando un caro saluto e buon lavoro

Abdal Qader Vincenzo


COLLOQUE AU SÉNAT DE FRANCE : NOUVEAUX VISAGES DE L'ANTISEMITISME

A l'occasion de la sortie du livre "Nouveaux Visages de l'Antisemitisme"
et à l'initiative du B'nai B'rith Paris Ile de France

Le dimanche 14 octobre 2001
au Sénat, Salle Medicis
Palais du Luxembourg
15 rue de Vaugirard
750006 Paris


13h30 Accueil

14h De l'antisémitisme à l'antisionisme

Modérateur : Mickaël PRAZAN

- Alexandre DELVALLE, chercheur
- Paul KIEUSSEIAN, président de l'Association arménienne Sassoun
- Abdul Hadi PALAZZI, secrétaire de l'Association Musulmane Italienne
- Pierre André TAGUIEFF, chercheur
- Jacques TARNERO, chercheur

16h Pause

16h30 Après Durban

Modératrice : Pascale ZONSZAIN

- Introduction par Richard SERERO, 1er vice Président de la LICRA
- Corinne LEPAGE, Ancien Ministre, Présidente de CAP 21
- Général GALLOIS
- Georges William GOLDNADEL, Président d'Avocats sans Frontières
- Alain GRIOTTERAY, journaliste

18h30 Conclusion

19h Conférence de presse

Réservation et inscription nécessaire au 01 55 07 85 45 / Fax :01 42 82 70
63

Une pièce d'identité sera exigée à l'entrée

PAF 50 F (7,62 Euros)

--------------------------------


L'événement : Nouveaux visages de l'antisémitisme
(NM7 Éditions, 48 rue Lafitte - 75009, Septembre 2001)

"Ces dernières années les conceptions islamistes du jihad contre l'infidèle
ont filtré dans le grand public. Du Soudan à l'Afghanistan, de Gaza à New
York, de l'Egypte à l'Algérie, les appels au jihad répétaient les mêmes
thèmes, inscrits dans la même structure idéologique. Une telle homogénéité
ne peut s'improviser, elle n'est pas non plus la conséquence d'agents
extérieurs circonstanciels. Au contraire, elle s'inscrit dans une
permanence historique articulée sur des fondations juridiques, idéologiques
et culturelles. A ces facteurs s'ajoute la manipulation du jihad par des
agents extérieurs. Ainsi même si le jihad est conceptuellement islamique,
il fut aussi derrière cet écran une guerre chrétienne. Ce fut la guerre
contre Israël, du courant antisioniste euro-chrétien et arabe, celle des
rivalités franco-américaines dans la conquête des marchés arabes, celle de
l'URSS contre Israël et les Etats Unis, celle des Etats Unis contre
l'emprise soviétique en Afghanistan." (extrait du chapitre de Bat Ye'Or :
l'antisionisme euro-arabe).

Les Nouveaux Visages de l'Antisémitisme est un ouvrage collectif. C'est un
travail difficile auquel se sont livrés les auteurs. Difficile parce qu'ils
ont eu le courage d'aller à contre-courant d'idées reçues et banalisées.
Difficile surtout parce qu'il leur a fallu lever des tabous douloureux.

Cet ouvrage donne aussi la parole à des croyants musulmans, chrétiens et
juifs, capables de dénoncer la supercherie de ceux qui prêchent la haine
des hommes au nom de la raison de D-eu.

Un ouvrage grand public pour comprendre et analyser. Des textes inédits
pour comprendre la haine anti-israélienne d'aujourd'hui. C'est la même
haine historique qui a généré le nazisme.

Avec Bat Ye'Or, le Cheikh Abdul Hadi Palazzi, Jacques Tarnero, Le Père
Duvernoy, le Père Remaud, Jean Pierre Faye, Clément Weill Raynal, Frédéric
Encel, Bernard Fauvarque, Yohanan Manor.

L'ouvrage sera disponible en librairie dans quelques semaines au prix de
139 F (21,19 Euros).

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TABLE DES MATIÈRES


Préface: Israël, coupable par nature?,
par Jacques Tarnero ...9

Avant-propos ...17


PREMIÈRE PARTIE: FAITS ET ANALYSES

Chapitre I : L'antisionisme euro-arabe,
par Bat Ye'or, écrivain ...23

Chapitre II : Antisionisme et antisémitisme dans le monde islamique
contemporain,
par Cheikh Abdul Hadi Palazzi, Secrétaire Général de l'Association
Musulmane Italienne ...71

Chapitre III : La théologie palestinienne ses représentants, ses buts et
ses dangers,
par Malcolm Lowe ...105

Chapitre IV: L'antisémitisme des manuels scolaires palestiniens,
par Yohanan Manor, politologue ...123

Chapitre V : L'image d'Israël dans la presse française de 1947 à 1982,
par Laurence Coulon, enseignante  ...151

Chapitre VI: L'affaire du « Tunnel des mosquées » vue par l'Agence France
Presse,
par Clément Weill-Raynal, journaliste ...203

Chapitre VII: 2001, l'odyssée des médias. Les médias français seraient-ils
devenus antisémites ?,
par Paul Foster, chercheur ...221


SECONDE PARTIE: DÉBATS

  Chapitre VIII: Formes limites de l'antisémitisme,
  par Daniel Sibony, psychanalyste, professeur de mathématiques ...231

  Chapitre IX: Antisémitisme, ancien et « nouveau » ,
  par Jean-Pierre Faye, philosophe, écrivain ...239

Chapitre X : Une maladie de l'âme,
par Jacques Tarnero, sociologue  ...245

Chapitre XI: L'antisionisme au travers de la presse catholique,
par Bernard Fauvarque, journaliste ...267

Chapitre XII: Palestine: information ou propagande?,
par Michel Remaud, prêtre ...281

Chapitre XIII : Antisionisme et antisémitisme,
par Claude Duvernoy, pasteur ...285

Chapitre XIV : Le « Shoah business » de Roger Garaudy et la négation
identitaire,
par Michaël Prazan et Tristan Mendès France, journalistes, ...311

Chapitre XV : À propos de l' antisionisme,
par Frédéric Lauze, politologue ...321

Chapitre XVI : De l'antisionisme à l'antisémitisme contexte géopolitique et
rapports ambigus,
par Frédéric Encel, docteur en géopolitique, professeur ...355


TAVOLA ROTONDA AL SENATO DI FRANCIA: NUOVI VOLTI DELL'ANTISEMITISMO


In occasione della pubblicazione del libro "Nouveaux Visages de
l'Antisemitisme"
e per iniziativa del B'nai B'rith Paris Ile de France

Domenica 14 octobre 2001
al Senato di Francia, Sala Medicis,
Palais du Luxembourg
15 rue de Vaugirard
750006 Parigi


13:30 - Ingresso

14:00 - Dall'antisemitismo all'antisionismo

Moderatore : Mickaël PRAZAN

- Alexandre DELVALLE, ricercatore
- Paul KIEUSSEIAN, presidente del'Associazione armena Sassoun
- Abdul Hadi PALAZZI, segretario dell'Associazione Musulmani Italiani
- Pierre André TAGUIEFF, ricercatore
- Jacques TARNERO, ricercatore

16:00 - Pausa

16:30 - Dopo Durban

Moderatrice : Pascale ZONSZAIN

- Introduzione di Richard SERERO, 1° Vice Presidente della LICRA
- Corinne LEPAGE, Ex Ministro, Presidente del CAP 21
- Generale GALLOIS
- Georges William GOLDNADEL, Presidente di Avvocati senza Frontiere
- Alain GRIOTTERAY, giornalista

18:30 - Conclusione

19:00 - Conferenza stampa

Prenotazione e registrazione Tel: 01 55 07 85 45 / Fax: 01 42 82 70 63

All'ingresso sarà richiesto di esibire un documento d'identità

Costo del biglietto: 50 franchi (7,62 Euro)


-----------------------------------------------------------------------
Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana
http://shell.spqr.net/islam/
mailto:islam@spqr.net 

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10.10

Multiculturalismo ed Europa. Club Limes Pordenone

Invio il programma - ancora provvisorio - del convegno di studi che fa
seguito a quello i cui atti sono stati pubblicati sul numero 32 di
"Trasgressioni", completo delle note informative di ordine logistico.
Spero nella partecipazione del maggior numero dei destinatari di questo
messaggio.

HISTORIA GRUPPO STUDI STORICI E SOCIALI
LIMES RIVISTA ITALIANA DI GEOPOLITICA
LiMes Club Pordenone
Università degli Studi di Udine
Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia
convegno "MULTICULTURALISMO ED EUROPA. Immigrazione, relazioni
internazionali, difesa"
PORDENONE, Auditorium regione Friuli-Venezia Giulia, via Roma 2

Sabato 10 e domenica 11 NOVEMBRE 2001

PROGRAMMA PROVVISORIO
GIORNATA DI SABATO
ORE 10.00 Apertura convegno. Saluto delle autorità : Renzo Tondo (Presidente
regione Friuli-Venezia Giulia); Elio De Anna (Presidente della Provincia di
Pordenone), Furio Honsell (Rettore dell'Università di Udine), Oliviano
Spadotto (Presidente Consorzio Studi Universitari di Pordenone), Pier Carlo
Craighero (Direttore Centro universitario Polifunzionale di Pordenone).
I SESSIONE ORE 10.30
MULTICULTURALISMO E IMMIGRAZIONE
NOI (ITALIA E EUROPA)
Ilvo Diamanti (Università di Urbino) La politica e l'economia europea di
fronte all'immigrazione; Marco Tarchi (Università di Firenze) Assimilazione,
differenze, xenofobia. Concetti ed equivoci; Sergio Benvenuto (MondOperaio)
La percezione europea del fenomeno migratorio; Guido Bolaffi (Ministero del
lavoro e politiche sociali) La realtà italiana; Alain de Benoist (Krisis e
Elements) L'esperienza francese; Luigi Melica (Università di Lecce) Diritto
comunitario e diritto interno di fronte all'immigrazione extracomunitaria;
Lucio Caracciolo (LiMes) Profili geopolitici;
PAUSA PRANZO 0RE 13.30
RIPRESA LAVORI ORE 15.00
II SESSIONE
MULTICUTURALISMO E IMMIGRAZIONE
GLI ALTRI
Alessandro Vitale (Università di Milano) La Russia e l'Europa orientale
Ludovico Incisa di Camerana (Istituto italo-latino americano) Le Americhe
Antonella Caruso (Università di Lugano) Il mondo islamico
Luca M. Birindelli (Heartland. Eurasian review of geopolitics) La Cina
PAUSA CAFFE' ORE 17.00
III SESSIONE ORE 17.30
IL FUTURO DELL'EUROPA
Marta Dassù (Centro studi Politica internazionale) Europa e stati membri.
Vantaggi e problemi.
Claudio Maria Polidori (Consigliere giuridico delle Forze Armate) Difesa
europea?
Guglielmo Cevolin (Università di Udine) Costituzione europea?
Gian Andrea Gaiani (Analisi difesa) Siamo in grado di difenderci?
SOSPENSIONE LAVORI 19.30
RITROVO PER LA CENA DI GALA 20.15
CENA DI GALA 20.40
. . .
GIORNATA DI DOMENICA
RIPRESA LAVORI 10.00
IV SESSIONE
EUROPA E U.S.A.
Danilo Zolo (Università di Firenze) Dal 'New World Order' alla 'New World
War'
Alessandro Colombo (Università di Milano) O.N.U., N.A.T.O., U.S.A., Europa
Antonio Sema (LiMes) Informatica e conflitti
Interventi dal pubblico (con prenotazione) ORE 11.30
TAVOLA ROTONDA FINALE ORE 12.00
EUROPA-USA
Sergio Benvenuto, Lucio Caracciolo, Alessandro Colombo, Ludovico Incisa di
Camerana, Ilvo Diamanti, Marco Tarchi, Danilo Zolo.
1. Europa-Usa: in che cosa siamo uguali e in che cosa siamo diversi;
2. Differenti problemi e soluzioni in relazione a 'multiculturalismo e
immigrazione';
3. Multiculturalismo, immigrazione, Europa: fattore di crisi o elemento di
potenza?
RELAZIONE DI SINTESI 13.15
CONCLUSIONE CONVEGNO E BUFFET FINALE ORE 13.30

guglielmo@mailbox.dsnet.it 

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10.10

Hollywood e la guerra

L'ennesima conferma di quanto l'establishment hollywoodiano sia organico alle strategie statunitensi di dominio planetario e non una semplice industria dello svago...

Anche disertando le sale in cui vengono proiettati i film di questa vera e propria "agenzia governativa" si può contribuire ad indebolire il colosso americano.

Los Angeles, 8/10/2001 ore 21:01 
Attacco: il Pentagono chiede aiuto a Hollywood

In un'inversione dei ruoli, gli specialisti di intelligence del governo americano hanno chiesto ai cineasti di Hollywood di entrare nella testa di Osama Bin Laden: registi e sceneggiatori sono stati riuniti segretamente dalle forze armate Usa presso l'University of Southern California per delineare i possibili obiettivi e scenari di terrore che potrebbero essere nella mente del miliardario terrorista.
Tra i partecipanti alla riunione - ha appreso il quotidiano di spettacolo 'Variety' - c'è stato lo sceneggiatore di 'Die Hard', Steven De Souza, il suo collega televisivo David Engelbach, di 'MacGyver', e il regista Joseph Zito, di 'Delta Force One', 'Missing in Action' e 'The Abduction'.
Oltre a questi tre nomi con ovvi collegamenti con soggetti di terrorismo, sono stati convocati anche David Fincher ('Fight Club'), Spike Jonze (Being John Malkovich') e Mary Lambert ('The In Crowd').
"E' uno sforzo mirato sulle minacce a breve termine contro il Paese", ha detto a Variety una fonte dell'Università in cui si è svolto il seminario, guidato in videoconferenza dal Pentagono dal generale del'esercito Kenneth Bergquist.

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10.10

Contro la guerra

GUERRE&PACE
guerrepace@mclink.it 

Vi inviamo un comunicato in merito agli attacchi USA e la Marcia Perugia- Assisi e il sommario del numero 83 - ottobre 2001 di G&P

cari saluti, la redazione

Contro la guerra, contro la Nato

Domenica 7 ottobre è iniziata l'aggressione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna contro l'Afghanistan. Anche quest'aggressione, come quelle contro l'Iraq e contro la Jugoslavia, utilizza motivazioni "ideali" per estendere il controllo politico-economico e la presenza militare statunitense in aree di grande rilevanza strategica, ieri il Medio Oriente e i Balcani, oggi l'Asia centrale. Anche quest'aggressione, ritardata per coinvolgere gli stati islamici e mascherata da assicurazioni particolarmente roboanti e ipocrite sul proposito di colpire solo "obiettivi militari", si risolverà nel massacro dei civili, già iniziato con la tragedia dei profughi e con i bombardamenti sulle città afghane.

Appare quindi urgente la mobilitazione di massa, nelle piazze, nelle scuole, nelle fabbriche e anche con la marcia Perugia-Assisi del 14 ottobre prossimo, contro questa guerra e contro la partecipazione ad essa dell'Italia, che il parlamento si accinge a votare in violazione della nostra Costituzione. 

Viceversa, la piattaforma su cui i dirigenti della "Tavola della pace" hanno convocato la marcia è peggio che ambigua. Risponde al deliberato tentativo di dividere il movimento offrendo coperture e sponde ai "pacifisti da bombadamento" cioè a quanti, con il pretesto della "lotta al terrorismo", intendono marciare per la pace e insieme sostenere la guerra di Bush, comunque travestita da "operazione di polizia".
Tale tentativo è oggi particolarmente irresponsabile, ma anche fragile e destinato al fallimento, di fronte alla forza del movimento articolato, diversificato e unitario che si è espresso a Genova. Nonostante le violenze squadriste del governo, esso va dando vita ai social forum in tutto il paese e ha ribadito con chiarezza, anche nella manifestazione del 27 settembre scorso a Napoli, il suo "No" alla guerra e alla Nato.
Invitiamo quindi tutte le forze sinceramente amanti della pace, comprese quelle presenti nella "Tavola", a rifiutare la trappola del falso pacifismo e a partecipare alla Perugia-Assisi sulla base della piattaforma del Genoa Social Forum, dietro il suo striscione e confluendo nella piazza tematica di Santa Maria degli Angeli da esso oganizzata.

"Guerre&Pace"

Milano, 8 ottobre 2001


sommario - N.83 ottobre

Mondo/mese
"L'Italia farà la sua parte". Noi no (W. Peruzzi) 

USA
Sergio Finardi, La politica estera di Bush 

MESSICO
La "marcia" non è finita 
intervista di Aldo Zanchetta a Carlos Fazio 
Plan Puebla Panama e resistenza popolare (A. Zanchetta) 

INDONESIA
Alberto Melandri Scenari del nuovo millennio 
L'INSICUREZZA GLOBALE 
Ken Coates Preparando la guerra spaziale 
Chi ci guadagna 
Il conto per gli Alleati 
Il Trattato Abm 
Achille Lodovisi Una Convenzione senza controlli 
I batteri di Bush (p.m.) 
Uranio impoverito? No, plutonio (J. Lichfield) 
Luigi Di Noia, Un secolo di trattati infranti 
ECONOMIA MONDO
Antonio Mazzeo, Se Italia vuol dire Impregilo 

IMMIGRAZIONE
Moreno Biagioni Come riprendere l'iniziativa 
PROCESSI&DIRITTI
Ilario Salucci La condanna di "Paraga" 
Riflessioni di un testimone (Agostino Zanotti) 
Anna Maria Costantini Walter Rossi. Una ferita ancora aperta 
Come fu assassinato Walter Rossi (A.M. Costantini) 

MOVIMENTI
Salvatore Cannavò Per una grande Alleanza sociale 

TERRORISMO E GUERRA 
Alexander Cockburn, Jeffrey St Clair 11 settembre: senso e non senso 
Gli strani crociati di Bush 
James Ingalls Chi ha creato la rete del terrore 
Effetti collaterali indesiderati (Chalmers Johnson) 
Piero Maestri Una guerra per il controllo globale 
Claudio Jampaglia Da Genova alla guerra 

Recensioni&segnalazioni 
Mastrolonardo, I nemici aggressivi; Questioni
della globalizzazione; Una nazione di guerrieri (W. Peruzzi) 

Senzatitolo 

inserto speciale
UN ANNO DI INTIFADA

G&P - 1 copia L.7000; abbonamento 10 numeri L.60.000

GUERRE&PACE
via Pichi 1 - Milano
tel 0289422081 - fax 0289425770
guerrepace@mclink.it


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6.10

Indice di Diario della settimana
 

Diario della settimana è in edicola. Potete decidere se comprarlo con il cd (Arturo Benedetti Michelangeli interpreta Bach, Scarlatti. Chopin, Bach e Marescotti) oppure senza. Fate voi (ma il cd è bello). Nel numero trovate: 25 idee per salvare il mondo che ci hanno dato, tra gli altri, Ralph Dahrendorf, Bernardo Bertolucci, Corrado Passera, Mario Deaglio, Gian Carlo Caselli, Michail Kalashnikov, Paco Ignacio Taibo II, Fabio Fazio e Muhammed Yunus. Intanto, in Italia... Gianni Barbacetto spiega che cosa significano e che cosa comporteranno le gaffe del Premier, la legge sulle rogatorie, quella sul falso in bilancio e quella sul conflitto di interessi. Domenico Marcello racconta che cosa sono e come funzionano i paradisi fiscali e perché è difficile che George W. Bush decida di assediare un castello da 7 mila miliardi di dollari per trovare gli spiccioli di Osama bin Laden. Alessandro Cassin è andato alla Annin Flag Co. di New York, una ditta che produce bandiere a stelle e strisce da 180 anni e sta facendo soldi a palate grazie al suo 25 per cento di operai libanesi ed egiziani. Sergio Trippodo dal Pakistan ricostruisce i problemi interni del presidente Pervez Musharraf e spiega perché l'appoggio all'azione americana è tutt'altro che scontato. David Silvera, da Tel Aviv, è andato a incontrare un gruppo di oltre mille ex generali israeliani che propongono il ritiro unilaterale dai territori. Rezia Corsini racconta la guerra dal Kosovo, Carla Rescia analizza la Finanziaria di guerra che si appresta a essere approvata dalla maggioranza in Italia. Giusy Concina descrive le disavventure di una donna che ha attraversato l'Arabia Saudita in automobile.

Nel resto del giornale trovate l'incontro tra Giuseppe Montesano e Andrea Zanzotto, il poeta che sta per compiere 80 anni. Marco Lodoli ha visto Paul, Mick e gli altri di Ken Loach, Marco Mathieu ha incontrato Leonard Cohen per parlare di Ten new songs, il suo nuovo cd, Luca Fontana (per un errore l'articolo è uscito a firma Allan Bay, ce ne scusiamo) si scaglia contro la "Gultura nazzionale" sbandierata al Maurizio Costanzo Show dal Presidente della Regione Lazio, Francesco Storace.

Buona lettura

******************************

Il buon senso
Intanto in Italia di Gianni Barbacetto

Civiltà sepolte
Buone idee per salvare il mondo di 25 donne e uomini di buona volontà
Tutta colpa del paradiso  di Domenico Marcello
Oh capitano, non mio capitano di Alessandro Cassin
La marcia indietro del generale   di Sergio Trippodo
La pace vista dai guerrieri  di Davide Silvera
La finanziaria "di guerra"  di Carla Rescia
Perché in tanti odiano gli Usa  di David Fiesoli
Professione homeless  di Riccardo Romani
Vade retro, femmina  di Giusy Concina

Tutta la città ne parla
Una settimana di notizie da: Roma, Milano, Varese
(ma anche I numeri, In fondo a destra, l'Agenda )

Vedi alla voce Cultura
Il girotondo di Zanzotto  di Giuseppe Montesano

Lo spettatore esigente
Cinevisioni: Paul, Mick e gli altri di Marco Lodoli
E inoltre: Musica contemporanea, Dvd, Teatro, Musica Pop, Rassegne, Edicola, Radio, Film in tv, Documentario

Lettura
Adonai, senti la mia proposta... di Ferruccio fÖlKel

Le recensioni
Natalia Ginzburg, Michael Chabon, Mazel Tov, Franco Matteucci

Un certo stile
Cohen e la sua terra  di Marco Mathieu

Se ne sono andati
Nguyen Van Thieu di Andrea Jacchia

Le rubriche
Florence Nightingale, Nicola Montella, Laura Pariani, Carlo Boccadoro, Attilio Scarpellini, Diego Perugini, Paola Damiani, Massimo Onofri, Laura Forzinetti, Maria Novella Oppo, Luca Fontana, Alessandro Robecchi, Stefano Bartezzaghi, Elfo

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6.10

Enduring freedom Vs Enduring justice
 
I rischi che oggi l'Occidente sta correndo sono forti, e di due tipi. Il primo è esterno: il dilagare di un terrorismo determinato e feroce, appoggiato a un credo politico travestito da fede religiosa ma che ha buone probabilità di invadere sul serio il campo dei credenti islamici. Spetta alle classi dirigenti e ai mass media occidentali fare le scelte corrette, che isolino la cultura dell'estremismo apocalittico e sappiano valorizzare le differenze e le diversità presenti nel mondo islamico rafforzando il dialogo con le componenti di esso disposte a sostenerlo. Il secondo rischio è esterno : l'esplodere di un individualismo accompagnato dalla "perdita di una cultura del limite" che provoca in ciascun occidentale , e dunque in ciascuno di noi, un'angoscia profonda, un illimitato desiderio di possedere e di primeggiare, quindi una frustrazione che si cerca di esorcizzare proiettandola al di fuori. Il "nemico interno" alla civiltà occidentale, che regolarmente abbiamo battuto, poteva essere l'altro ieri il nazismo, ieri il comunismo, oggi sembra emergere in tale ruolo l'estremismo islamico ( e, secondo alcuni, l'Islam tout court). La società occidentale sembra non riuscire a guardare con disincanto alla propria storia e a individuare le ragioni per le quali, nell'età della globalizzazione compiuta, l'Est e il Sud del mondo hanno maturato contro di essa un rancore che potrebbe anche deflagare in odio generalizzato. La società occidentale si sente "il migliore dei mondi possibili" e non riesce a distinguere fra la bontà dei suoi principi e delle sue realizzazioni e l'inadeguatezza dei suoi risultati a livello planetario. Eppure, la contraddizione fra i principi ispirati ai Diritti dell'Uomo e la realtà di un mondo nel quale i quattro quinti dell'umanità (oltre quattro miliardi di esseri umani) vivono al minimo e al di sotto del minimo di dignitosa sussistenza, dovrebbe essere palese ad ognuno. Ma l'Occidente vive il dramma di una civiltà orgogliosamente sicura e orgogliosa di sé nel suo complesso, fatta però d'individui assediati da quel che il vecchio Eric Fromm ha qualificato come il complesso dell'Avere, e per questo insoddisfatti e insicuri. Da qui il continuo bisogno della ricerca di un Nemico Metafisico. Col rischio di materializzare sul serio i nemici evocati. L'Islam è ancora molto lontano dall'essere in blocco un nemico dell'Occidente. Rischia di divenirlo - dando ragione alle infauste profezie travestite da analisi di Samuel Hungtington - se gli occidentali continueranno a trattarlo come tale senza le distinzioni dovute. Questo per quanto riguarda il problema generale.
Ma perché l'attentato dell'11 settembre? Quanto alle reazioni degli Stati Uniti, che appare oggi come il problema specifico, ci troviamo dinnanzi a una questione di diritto internazionale. Gli USA sono il paese colpito dagli attentati dell'11 settembre: ma quel che vale anche per gli individui vale per tutti gli stati, compresa la superpotenza. Non ci si può dire certi della colpevolezza di chicchessia e individuare addirittura i complici senza prima esibire le prove chiare, evidenti e incontrovertibili della colpevolezza dell'accusato. Non si può imporre a nessuno stato di consegnare un ospite di esso senza esibire prove certe e fondate sulle quali basare la ragionevolezza della richiesta. Quando poi si predispongano azioni militari per le quali si chiede consenso e appoggio agli alleati, non si può pretendere che tale consenso e tale appoggio siano incondizionati e non soggetti a verifica; è illegittimo in altri termini rivendicare a sé il diritto alla segretezza e alla copertura dei propri atti, comunque giustificate. A livello internazionale, le responsabilità di Usama bin Laden vanno sottoposte al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, che appare come l'unico organo in grado di legittimamente decidere in materia. Ogni altra scelta è illegale e illegittima; essa pone lo stato che se ne assume la responsabilità, in una condizione illegale e illegittima nei confronti del consorzio delle nazioni.
 

Franco Cardini  

3.10

Il dio nascosto
New York, 11 Settembre 2001

Nel Maggio del 1453 Costantinopoli, la seconda
Roma, cadde nelle mani dei musulmani. L'impressione
nell'Europa cristiana fu enorme. Le violenze
inenarrabili subite dai devoti abitanti dell'antica
città erano sulla bocca di tutti. Un intero mondo
sembrava essere sul punto di crollare sotto i colpi
dei saraceni. Il papato, dapprima con Niccolò V e
poi con Pio II, si adoperò perché i principi
cristiani si coalizzassero per una nuova grande
crociata. Non tutti, però, pensarono alle armi come
all'unica risposta possibile. La Chiesa cristiana,
non ancora segnata dallo scisma luterano, era
abbastanza giovane e spregiudicata per lasciare che
al suo interno si levassero in piena libertà voci
tanto autorevoli quanto discordanti con quella che
era l'opinione generale. Tra esse spiccava quella
del cardinale tedesco Nikolas da Kues, detto,
latinamente, il Cusano, il quale, nella città di
Bressanone, dove dal 1452 svolgeva, non senza
difficoltà politiche, la sua attività pastorale,
compose un'opera, nel cui titolo, non la parola
guerra era evocata, ma il suo opposto, la pace.
"De pace fidei" si chiamava infatti questo libro
ricco di dottrina, scritto di getto nel Settembre
dello stesso anno. In esso il Cusano, con la
radicalità che contraddistingueva il suo pensiero
filosofico, rifletteva sulla possibilità di
trasformare quella che ai più sembrava l'inizio di
uno "scontro di civiltà" in un'occasione imperdibile
per creare le condizioni di una pacifica convivenza
di mondi culturali apparentemente inconciliabili.
"Concordanza di differenze" era lo slogan
rivoluzionario del nostro cardinale.

***

Deus absconditus

Cusano immagina una conferenza celeste promossa
al cospetto di Dio onnipotente da un angelo
impietositosi per l'infelice condizione umana.
Ad essa partecipano tutti i rappresentanti delle
varie fedi, pagani compresi. Gli argomenti discussi
riguardano i principali articoli di fede, i riti e
i sacramenti. La speranza è quella di giungere
ad una concordanza finale tra le varie religioni.
Non è facile, per un lettore moderno, orientarsi
in un simile dedalo concettuale e teologico, ma
l'idea che sta a fondamento di tutta l'impresa
cusaniana è di una straordinaria attualità.
Il Dio, egli scrive, che ogni uomo onora in fondo
al suo cuore, se non altro nel momento in cui
la stella del disastro screzia il cielo della sua
esistenza terrena (lo rivela, ad esempio,
l'espressione "Dio mio!" che l'improvvisa visione
della catastrofe estorce perfino alla bocca
del più incallito ateo), questo Dio ultimo e
incomprensibile è un Dio radicalmente nascosto,
un Deus absconditus. È questo il Dio comune a tutte
le fedi, non quello di cui ciascuna fede, con
il suo particolare rito, produce un'immagine a misura
delle proprie esigenze. Già il filosofo Senofane,
nel V° sec. a.C, osservava sarcasticamente che se
i cavalli pensassero onorerebbero un dio equino e
considerebbero "falso e bugiardo" un Dio in forma
umana... La violenza nasce nel momento in cui
un'immagine dell'unico Dio nascosto si sovrappone
fino a cancellarla all'esperienza di questa divinità
incommensurabile. Allora, grazie a questa idolatria,
si origina ciò che oggi chiamiamo "fondamentalismo",
fenomeno puramente sociologico che, lungi dal
significare una radicalizzazione dell'esperienza
religiosa, ne rappresenta invece un impoverimento
essenziale ed una deformazione empia. L'idolatra
omaggia infatti col suo culto sanguinario un'immagine
fatta dall'uomo, e quasi sempre da un uomo spaventato,
e ad essa "sacrifica" vite, esistenze e popoli.

***
Religio una in rituum varietate

Che ne è allora della varietà dei riti, delle
differenze culturali tra mondi spirituali lontani?
E' solo una finzione di cui sbarazzarsi? La risposta
di Cusano è netta. I riti, le innumerevoli esperienze
religiose che si sono succedute nella storia, se
correttamente intese, sono solo vie diverse attraverso
le quali l'unico Dio per sempre nascosto si comunica
in modo sempre diverso a umanità storiche sempre
diverse. Sono "congetture" intorno a ciò che non ha
nome. La differenza culturale non è perciò fondamento
dell'intolleranza, come oggi credono i cinici
sostenitori della tesi dello "scontro di civiltà", ma,
scrive il Cusano, è un "accrescimento di pietà" per
il solo Dio inaccessibile. Forse è sufficiente citare
questa meravigliosa formula per comprendere perché
i geni del Rinascimento italiano, dall'Alberti a
Leonardo fino a Bruno, fossero soliti chiamare lo
schivo cardinale tedesco con l'appellativo di "divino".

Rocco Ronchi

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2.10

Sfondo porte aperte

Cari amici, colleghi, conoscenti,

per molti  di voi sfonderò delle porte aperte, ma non importa. Sull’articolo della Fallaci apparso l’altro ieri sul Corriere sono emersi concetti assai simili a quelli espressi qualche giorno fa dal nostro capo del governo. Entrambi, pur usando pulpiti, platee e lessici ben diversi, hanno  esposto sostanzialmente la stessa idea: l’Occidente, con la sua civiltà di libertà, democrazia e progresso è superiore all’Islam.

Ciò che mi muove a scrivervi è la triste constatazione che, da noi, la Fallaci e Berlusconi non sono affatto soli.

Specie in queste settimane, tale concetto l’ho più volte sentito sull’autobus, in fila alla posta, al mercato, l’ho incontrato spesso nei forum d’internet e nelle Lettere al Direttore dei quotidiani. Con le loro affermazioni, questi due italiani hanno dato voce ad un pensiero condiviso da molti, moltissimi altri italiani.   L’ho penso anch’io!”, Era ora che lo si dicesse a gran voce!”.

Per questo è bene riflettere. Per questo non possiamo tacere.

Tra le molte contraddizioni e le non-argomentazioni, ho preferito isolare tre punti principali dal testo della Fallaci: 

1)      La Fallaci fonda le sue dodici cartelle essenzialmente sul concetto che tutti i musulmani, da Bin Laden al marocchino al bengalese, abbiano come principale obiettivo quello di islamizzare il nostro progredito e democratico Occidente cristiano. Da qui invita tutti gli italiani a “svegliarsi” e a rendersi conto che se non ci si oppone a questa nuova “Crociata”, domani avremo il “muezzin invece delle campane e il chador al posto delle minigonne”. Basa questa tesi, da una parte, sulla sua personale esperienza di giornalista nel mondo arabo-islamico negli anni ’70-80 e, dall’altra, sulle affermazioni che gli organi d’informazione nostrani attribuiscono ad un tale di nome Bin Laden. L’Islam della Fallaci è dunque limitato ai suoi ricordi (di paesi che vent’anni fa erano assai più contrapposti ideologicamente all’Occidente di quanto non lo siano oggi) e ai presunti deliri di Bin Laden e dei suoi seguaci. Dal basso dei miei 25 anni, dalla povertà delle mie conoscenze e dal misero dei miei soggiorni nei paesi arabi, ho scoperto un Islam assai più vasto e ricco di quello della Fallaci. Sono italiano anch’io e non ho motivi per esser di parte. Ma andiamo avanti.  

2)      Dice chiaramente che le due culture (la nostra e la loro) non sono affatto paragonabili. Dà sfoggio della sua erudizione ricordando quanto illustri siano le nostre radici (da Omero alle astronavi, menziona solo chi le conviene menzionare!) mentre liquida in poche righe i fondamenti dell’altra cultura (“Cerca cerca, io non ci trovo che Maometto col suo Corano e Averroè coi suoi meriti da studioso, Arafat ci trova anche i numeri e la matematica”). A parte il dubbio se sia possibile o meno pesare due culture come fossero pere o banane (Dante 3 kg, al-Mutanabbi mezzo), la Fallaci dà più volte la prova d’ignorare gran parte del sistema culturale arabo-islamico. Come può pesare le mele con le banane se non ha le banane fra le mani? Fuor di metafora, se conosce l’Islam solo di sfuggita, come può permettersi di giudicarlo, di paragonarlo a ciò che invece dimostra di conoscere così bene, ciò che le appartiene, la sua cultura di provenienza? Già sapevamo che uno dei luoghi comuni più benevoli sugli arabo-musulmani è proprio quello di ridurli a traduttori di Aristotele, a trascrittori di cifre indiane e ad inventori del cannocchiale…e la Fallaci conferma.  

3)      Date le premesse e il loro svolgimento, conclude invitandoci ad innalzare un muro: chiudiamoci, non facciamoli passare! Tralasciando la banale osservazione che una cultura - come la Storia c’insegna - può arricchirsi grazie anche all’incontro/scontro con altre culture, e pur sforzandoci d’immaginare un’Occidente formatosi nell’Iperuranio, lontano dalle impurità che da quattordici secoli lo circondano, viene spontanea la domanda: se la nostra cultura, la nostra civiltà occidentale è così eccelsa, elevata e superiore, perché mai dovremmo temere di fronte a tanta ‘barbarie’? Come potrebbe mai un Bin Ladin rovesciare millenni di libertà, di democrazia, di conquiste scientifiche, etiche, umane, e riportarci tutti in quell’oscuro medioevo fatto di barbe lunghe e donne coperte? Per le Fallaci e i Berlusconi, la certezza di superiorità risiedeva solo in quelle due torri, tanto che ora, tra le macerie, brancolano e innalzano muri? Se l’identità culturale italiana è ormai così “radicata e formata”, come ripete la Fallaci, perché mai potrebbe venir scalfita da corpi estranei incivili, perché mai dovrebbe abdicare di fronte alla minaccia del terrore? Di cosa hanno veramente paura le moltissime Fallaci che sono tra noi? 

Vi lascio questa domanda, oltre al testo integrale dell’articolo del Corriere. Molte altre porte aperte ci sono da sfondare, molti altri punti da sottolineare. Vi esorto allora, a partecipare ad un dibattito che, a mio parere, non va  lasciato cadere. Scrivete, scrivetevi tra voi, scrivete ad altri, scrivete al Corsera. Ma non rimaniamo in silenzio a lasciar parlare coloro che ignorano la storia della loro stessa civiltà.

Lorenzo Trombetta

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2.10

La lettera della Fallaci
 

Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l'altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. «Vittoria! Vittoria!». Uomini, donne, bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile possa essere definito uomo, donna, bambino. Ho saputo che alcune cicale di lusso, politici o cosiddetti politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali, nonché altri individui che non meritano la qualifica di cittadini, si comportano sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: «Bene. Agli americani gli sta bene». E sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d'una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso. Arrabbiata come me, la poetessa afro-americana Maya Angelou ieri ha ruggito: «Be angry. It's good to be angry, it's healthy. Siate arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. È sano». E se a me fa bene io non lo so. Però so che non farà bene a loro, intendo dire a chi ammira gli Usama Bin Laden, a chi gli esprime comprensione o simpatia o solidarietà. Hai acceso un detonatore che da troppo tempo ha voglia di scoppiare, con la tua richiesta. Vedrai. Mi chiedi anche di raccontare come l'ho vissuta io, quest'Apocalisse. Di fornire insomma la mia testimonianza. Incomincerò dunque da quella. Ero a casa, la mia casa è nel centro di Manhattan, e alle nove in punto ho avuto la sensazione d'un pericolo che forse non mi avrebbe toccato ma che certo mi riguardava. La sensazione che si prova alla guerra, anzi in combattimento, quando con ogni poro della tua pelle senti la pallottola o il razzo che arriva, e rizzi gli orecchi e gridi a chi ti sta accanto: «Down! Get down! Giù! Buttati giù». L'ho respinta. Non ero mica in Vietnam, non ero mica in una delle tante e fottutissime guerre che sin dalla Seconda Guerra Mondiale hanno seviziato la mia vita! Ero a New York, perbacco, in un meraviglioso mattino di settembre, anno 2001. Ma la sensazione ha continuato a possedermi, inspiegabile, e allora ho fatto ciò che al mattino non faccio mai. Ho acceso la Tv. Bè, l'audio non funzionava. Lo schermo, sì. E su ogni canale, qui di canali ve ne sono quasi cento, vedevi una torre del World Trade Center che bruciava come un gigantesco fiammifero. Un corto circuito? Un piccolo aereo sbadato? Oppure un atto di terrorismo mirato? Quasi paralizzata son rimasta a fissarla e mentre la fissavo, mentre mi ponevo quelle tre domande, sullo schermo è apparso un aereo. Bianco, grosso. Un aereo di linea. Volava bassissimo. Volando bassissimo si dirigeva verso la seconda torre come un bombardiere che punta sull'obiettivo, si getta sull'obiettivo. Sicché ho capito. Ho capito anche perché nello stesso momento l'audio è tornato e ha trasmesso un coro di urla selvagge. Ripetute, selvagge. «God! Oh, God! Oh, God, God, God! Gooooooood! Dio! Oddio! Oddio! Dio, Dio, Dioooooooo!» E l'aereo s'è infilato nella seconda torre come un coltello che si infila dentro un panetto di burro.
Erano le 9 e un quarto, ora. E non chiedermi che cosa ho provato durante quei quindici minuti. Non lo so, non lo ricordo. Ero un pezzo di ghiaccio. Anche il mio cervello era ghiaccio. Non ricordo nemmeno se certe cose le ho viste sulla prima torre o sulla seconda. La gente che per non morire bruciata viva si buttava dalle finestre degli ottantesimi o novantesimi piani, ad esempio. Rompevano i vetri delle finestre, le scavalcavano, si buttavano giù come ci si butta da un aereo avendo addosso il paracadute, e venivano giù così lentamente. Agitando le gambe e le braccia, nuotando nell'aria. Sì, sembravano nuotare nell'aria. E non arrivavano mai. Verso i trentesimi piani, però, acceleravano. Si mettevano a gesticolar disperati, suppongo pentiti, quasi gridassero help-aiuto-help. E magari lo gridavano davvero. Infine cadevano a sasso e paf! Sai, io credevo d'aver visto tutto alle guerre. Dalle guerre mi ritenevo vaccinata, e in sostanza lo sono. Niente mi sorprende più. Neanche quando mi arrabbio, neanche quando mi sdegno. Però alle guerre io ho sempre visto la gente che muore ammazzata. Non l'ho mai vista la gente che muore ammazzandosi cioè buttandosi senza paracadute dalle finestre d'un ottantesimo o novantesimo o centesimo piano. Alle guerre, inoltre, ho sempre visto roba che scoppia. Che esplode a ventaglio. E ho sempre udito un gran fracasso. Quelle due torri, invece, non sono esplose. La prima è implosa, ha inghiottito se stessa. La seconda s'è fusa, s'è sciolta. Per il calore s'è sciolta proprio come un panetto di burro messo sul fuoco. E tutto è avvenuto, o m'è parso, in un silenzio di tomba. Possibile? C'era davvero, quel silenzio, o era dentro di me?
Devo anche dirti che alle guerre io ho sempre visto un numero limitato di morti. Ogni combattimento, duecento o trecento morti. Al massimo, quattrocento.
Come a Dak To, in Vietnam. E quando il combattimento è finito, gli americani si son messi a raccattarli, contarli, non credevo ai miei occhi. Nella strage di Mexico City, quella dove anch'io mi beccai un bel po' di pallottole, di morti ne raccolsero almeno ottocento. E quando credendomi morta mi scaraventarono nell'obitorio, i cadaveri che presto mi ritrovai intorno e addosso mi sembrarono un diluvio. Bè, nelle due torri lavoravano quasi cinquantamila persone. E ben pochi hanno fatto in tempo ad evacuare. Gli ascensori non funzionavano più, ovvio, e per scendere a piedi dagli ultimi piani ci voleva un'eternità. Fiamme permettendo. Non lo conosceremo mai, il numero dei morti. (Quarantamila, quarantacinquemila...?). Gli americani non lo diranno mai. Per non sottolineare l'intensità di questa Apocalisse. Per non dar soddisfazione a Usama Bin Laden e incoraggiare altre Apocalissi. E poi le due voragini che hanno assorbito le decine di migliaia di creature son troppo profonde. Al massimo gli operai dissottèrrano pezzettini di membra sparse. Un naso qui, un dito là. Oppure una specie di melma che sembra caffè macinato e invece è materia organica. Il residuo dei corpi che in un lampo si polverizzarono. Ieri il sindaco Giuliani ha mandato altri diecimila sacchi. Ma sono rimasti inutilizzati.

***


Che cosa sento per i kamikaze che sono morti con loro? Nessun rispetto. Nessuna pietà. No, neanche pietà. Io che in ogni caso finisco sempre col cedere alla pietà. A me i kamikaze cioè i tipi che si suicidano per ammazzare gli altri sono sempre stati antipatici, incominciando da quelli giapponesi della Seconda Guerra Mondiale. Non li ho mai considerati Pietri Micca che per bloccar l'arrivo delle truppe nemiche danno fuoco alle polveri e saltano in aria con la cittadella, a Torino. Non li ho mai considerati soldati. E tantomeno li considero martiri o eroi, come berciando e sputando saliva il signor Arafat me li definì nel 1972. (Ossia quando lo intervistai ad Amman, luogo dove i suoi marescialli addestravano anche i terroristi della Baader-Meinhof). Li considero vanesi e basta. Vanesi che invece di cercar la gloria attraverso il cinema o la politica o lo sport la cercano nella morte propria e altrui. Una morte che invece del Premio Oscar o della poltrona ministeriale o dello scudetto gli procurerà (credono) ammirazione. E, nel caso di quelli che pregano Allah, un posto nel Paradiso di cui parla il Corano: il Paradiso dove gli eroi si scopano le Urì. Scommetto che sono vanesi anche fisicamente. Ho sotto gli occhi la fotografia dei due kamikaze di cui parlo nel mio «Insciallah»: il romanzo che incomincia con la distruzione della base americana (oltre quattrocento morti) e della base francese (oltre trecentocinquanta morti) a Beirut. Se l'erano fatta scattare prima d'andar a morire, quella fotografia, e prima d'andar a morire erano stati dal barbiere. Guarda che bel taglio di capelli. Che baffi impomatati, che barbetta leccata, che basette civettuole...
Eh! Chissà come friggerebbe il signor Arafat ad ascoltarmi. Sai, tra me e lui non corre buon sangue. Non mi ha mai perdonato né le roventi differenze di opinione che avemmo durante quell'incontro né il giudizio che su di lui espressi nel mio libro «Intervista con la storia». Quanto a me, non gli ho mai perdonato nulla. Incluso il fatto che un giornalista italiano imprudentemente presentatosi a lui come «mio amico», si sia ritrovato con una rivoltella puntata contro il cuore. Ergo, non ci frequentiamo più. Peccato. Perché se lo incontrassi di nuovo, o meglio se gli concedessi udienza, glielo urlerei sul muso chi sono i martiri e gli eroi. Gli urlerei: illustre Signor Arafat, i martiri sono i passeggeri dei quattro aerei dirottati e trasformati in bombe umane. Tra di loro la bambina di quattro anni che si è disintegrata dentro la seconda torre. Illustre Signor Arafat, i martiri sono gli impiegati che lavoravano nelle due torri e al Pentagono. Illustre Signor Arafat, i martiri sono i pompieri morti per tentar di salvarli. E lo sa chi sono gli eroi? Sono i passeggeri del volo che doveva buttarsi sulla Casa Bianca e che invece si è schiantato in un bosco della Pennsylvania perché loro si son ribellati! Per loro sì che ci vorrebbe il Paradiso, illustre Signor Arafat. Il guaio è che ora fa Lei il capo di Stato ad perpetuum. Fa il monarca. Rende visita al Papa, afferma che il terrorismo non le piace, manda le condoglianze a Bush. E nella sua camaleontica abilità di smentirsi, sarebbe capace di rispondermi che ho ragione. Ma cambiamo discorso. Io sono molto ammalata, si sa, e a parlare con gli Arafat mi viene la febbre.

***


Preferisco parlare dell'invulnerabilità che tanti, in Europa, attribuivano all'America. Invulnerabilità? Ma come invulnerabilità?!? Più una società è democratica e aperta, più è esposta al terrorismo. Più un paese è libero, non governato da un regime poliziesco, più subisce o rischia i dirottamenti o i massacri che sono avvenuti per tanti anni in Italia in Germania e in altre regioni d'Europa. E che ora avvengono, ingigantiti, in America. Non per nulla i paesi non democratici, governati da un regime poliziesco, hanno sempre ospitato e finanziato e aiutano i terroristi. L'Unione Sovietica, i paesi satelliti dell'Unione Sovietica e la Cina Popolare, ad esempio. La Libia di Gheddafi, l'Iraq, l'Iran, la Siria, il Libano arafattiano, lo stesso Egitto, la stessa Arabia Saudita di cui Usama Bin Laden è suddito, lo stesso Pakistan, ovviamente l'Afghanistan, e tutte le regioni musulmane dell'Africa. Negli aeroporti e sugli aerei di quei paesi io mi sono sempre sentita sicura. Serena come un neonato che dorme. L'unica cosa che temevo era essere arrestata perché scrivevo male dei terroristi. Negli aeroporti e sugli aerei europei, invece, mi sono sempre sentita nervosetta. Negli aeroporti e sugli aerei americani, addirittura nervosa. E a New York, due volte nervosa.
(A Washington, no. Devo ammetterlo. L'aereo sul Pentagono non me lo aspettavo davvero). A mio giudizio, insomma, non è mai stato un problema di «se»: è sempre stato un problema di «quando». Perché credi che martedì mattina il mio subconscio abbia avvertito quella inquietudine, quella sensazione di pericolo? Perché credi che contrariamente alle mie abitudini abbia acceso il televisore? Perché credi che fra le tre domande che mi ponevo mentre la prima torre bruciava e l'audio non funzionava, ci fosse quella sull'attentato? E perché credi che appena apparso il secondo aereo abbia capito? Poiché l'America è il Paese più forte del mondo, il più ricco, il più potente, il più moderno, ci sono cascati quasi tutti in quel tranello. Gli americani stessi, a volte. Ma la vulnerabilità dell'America nasce proprio dalla sua forza, dalla sua ricchezza, dalla sua potenza, dalla sua modernità. La solita storia del cane che si mangia la coda.
Nasce anche dalla sua essenza multi-etnica, dalla sua liberalità, dal suo rispetto per i cittadini e per gli ospiti. Esempio: circa ventiquattro milioni di americani sono arabi-musulmani. E quando un Mustafà o un Muhammed viene diciamo dall'Afghanistan per visitare lo zio, nessuno gli proibisce di frequentare una scuola di pilotaggio per imparare a guidare un 757. Nessuno gli proibisce d'iscriversi a un'Università (cosa che spero cambi) per studiare chimica e biologia: le due scienze necessarie a scatenare una guerra batteriologica. Nessuno. Neppure se il governo teme che quel figlio di Allah dirotti il 757 oppure butti una fiala di batteri nel deposito dell'acqua e scateni una strage. (Dico «se» perché stavolta il governo non ne sapeva un bel niente e la figuraccia fatta dalla Cia e dall'Fbi va al di là d'ogni limite. Se fossi il presidente degli Stati Uniti io li caccerei tutti a pedate nei posteriori per cretineria). E detto ciò torniamo al ragionamento iniziale. Quali sono i simboli della forza, della ricchezza, della potenza, della modernità americane? Non certo il jazz e il rock and roll, il chewing-gum e l'hamburger, Broadway ed Hollywood. Sono i suoi grattacieli. Il suo Pentagono. La sua scienza. La sua tecnologia. Quei grattacieli impressionanti, così alti, così belli che ad alzar gli occhi quasi dimentichi le piramidi e i divini palazzi del nostro passato. Quegli aerei giganteschi, esagerati, che ormai usano come un tempo usavano i velieri e i camion perché tutto qui si muove con gli aerei. Tutto. La posta, il pesce fresco, noi stessi (E non dimenticare che la guerra aerea l'hanno inventata loro. O almeno sviluppata fino all'isteria). Quel Pentagono terrificante, quella fortezza che fa paura solo a guardarla. Quella scienza onnipresente, onnipossente. Quella tecnologia raggelante che in pochissimi anni ha stravolto la nostra esistenza quotidiana, la nostra millenaria maniera di comunicare, mangiare, vivere. E dove li ha colpiti, il reverendo Usama Bin Laden? Sui grattacieli, sul Pentagono. Come? Con gli aerei, con la scienza, con la tecnologia. By the way: sai cosa mi impressiona di più in questo tristo ultramiliardario, questo mancato play-boy che anziché corteggiare le principesse bionde e folleggiare nei night-club (come faceva a Beirut quando aveva vent’anni) si diverte ad ammazzar la gente in nome di Maometto e di Allah? Il fatto che il suo sterminato patrimonio derivi anche dai guadagni d'una Corporation specializzata nel demolire, e che egli stesso sia un esperto demolitore. La demolizione è una specialità americana.

***


Quando ci siamo incontrati t'ho visto quasi stupefatto dall'eroica efficienza e dall'ammirevole unità con cui gli americani hanno affrontato quest'Apocalisse. Eh, sì. Nonostante i difetti che le vengono continuamente rinfacciati, che io stessa le rinfaccio, (ma quelli dell’Europa e in particolare dell’Italia sono ancora più gravi), l'America è un paese che ha grosse cose da insegnarci. E a proposito dell'eroica efficienza lasciami cantare un peana per il sindaco di New York. Quel Rudolph Giuliani che noi italiani dovremmo ringraziare in ginocchio. Perché ha un cognome italiano, è un oriundo italiano, e ci fa fare bella figura dinanzi al mondo intero. E’ un grande anzi grandissimo sindaco, Rudolph Giuliani. Te lo dice una che non è mai contenta di nulla e di nessuno incominciando da se stessa. E' un sindaco degno d'un altro grandissimo sindaco col cognome italiano, Fiorello La Guardia, e tanti dei nostri sindaci dovrebbero andare a scuola da lui. Presentarsi a capo chino, anzi con la cenere sul capo, e chiedergli: «Sor Giuliani, per cortesia ci dice come si fa?». Lui non delega i suoi doveri al prossimo, no. Non perde tempo nelle bischerate e nelle avidità. Non si divide tra l'incarico di sindaco e quello di ministro o deputato. (C'è nessuno che mi ascolta nelle tre città di Stendhal, insomma a Napoli e a Firenze e a Roma?). Essendo corso subito, e subito entrato nel secondo grattacielo, ha rischiato di trasformarsi in cenere con gli altri. S'è salvato per un pelo e per caso. E nel giro di quattro giorni ha rimesso in piedi la città. Una città che ha nove milioni e mezzo di abitanti, bada bene, e quasi due nella sola Manhattan. Come abbia fatto, non lo so. E' malato come me, pover'uomo. Il cancro che torna e ritorna ha beccato anche lui. E, come me, fa finta d’essere sano: lavora lo stesso. Ma io lavoro a tavolino, perbacco, stando seduta! Lui, invece... Sembrava un generale che partecipa di persona alla battaglia. Un soldato che si lancia all'attacco con la baionetta. «Forza, gente, forzaaa! Tiriamoci su le maniche, sveltiii!» Ma poteva farlo perché quella gente era, è, come lui. Gente senza boria e senza pigrizia, avrebbe detto mio padre, e con le palle. Quanto all'ammirevole capacità di unirsi, alla compattezza quasi marziale con cui gli americani rispondono alle disgrazie e al nemico, bè: devo ammettere che lì per lì ha stupito anche me. Sapevo, sì, che era esplosa al tempo di Pearl Harbor, cioè quando il popolo s'era stretto intorno a Roosevelt e Roosevelt era entrato in guerra contro la Germania di Hitler e l'Italia di Mussolini e il Giappone di Hirohito. L'avevo annusata, sì, dopo l'assassinio di Kennedy. Ma a questo era seguita la guerra in Vietnam, la lacerante divisione causata dalla guerra in Vietnam, e in un certo senso ciò mi aveva ricordato la loro Guerra Civile d'un secolo e mezzo fa. Così, quando ho visto bianchi e neri piangere abbracciati, dico abbracciati, quando ho visto democratici e repubblicani cantare abbracciati «God save America, Dio salvi l'America», quando gli ho visto cancellare tutte le divergenze, sono rimasta di stucco. Lo stesso, quando ho udito Bill Clinton (persona verso la quale non ho mai nutrito tenerezze) dichiarare «Stringiamoci intorno a Bush, abbiate fiducia nel nostro presidente». Lo stesso, quando le medesime parole sono state ripetute con forza da sua moglie Hillary ora senatore per lo Stato di New York. Lo stesso, quando sono state reiterate da Lieberman, l'ex candidato democratico alla vice-presidenza. (Soltanto lo sconfitto Al Gore è rimasto squallidamente zitto). E lo stesso quando il Congresso ha votato all'unanimità d'accettare la guerra, punire i responsabili. Ah, se l'Italia imparasse questa lezione! È un Paese così diviso, l'Italia. Così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all'interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Pei propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la Torre di Giotto o la Torre di Pisa, l'opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all'opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell'opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani.
Nasce dal loro patriottismo. Io non so se in Italia avete visto e capito quel che è successo a New York quando Bush è andato a ringraziar gli operai (e le operaie) che scavando nelle macerie delle due torri cercano di salvare qualche superstite ma non tiran fuori che qualche naso o qualche dito. Senza cedere, tuttavia. Senza rassegnarsi, sicché se gli domandi come fanno ti rispondono: «I can allow myself to be exhausted not to be defeated. Posso permettermi d'essere esausto, non d'essere sconfitto». Tutti. Giovani, giovanissimi, vecchi, di mezz'età. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola... L'avete visti o no? Mentre Bush li ringraziava non facevano che sventolare le bandierine americane, alzare il pugno chiuso, ruggire: «Iuessè! Iuessè! Iuessè! Usa! Usa! Usa!». In un paese totalitario avrei pensato: «Ma guarda come l'ha organizzata bene il Potere!». In America, no. In America queste cose non le organizzi. Non le gestisci, non le comandi. Specialmente in una metropoli disincantata come New York, e con operai come gli operai di New York. Sono tipacci, gli operai di New York. Più liberi del vento. Quelli non obbediscono neanche ai loro sindacati. Ma se gli tocchi la bandiera, se gli tocchi la Patria... In inglese la parola Patria non c'è. Per dire Patria bisogna accoppiare due parole. Father Land, Terra dei Padri. Mother Land, Terra Madre. Native Land, Terra Nativa. O dire semplicemente My Country, il Mio Paese. Però il sostantivo Patriotism c'è. L'aggettivo Patriotic c'è. E a parte la Francia, forse non so immaginare un Paese più patriottico dell'America. Ah! Io mi son tanto commossa a vedere quegli operai che stringendo il pugno e sventolando la bandiera ruggivano Iuessè-Iuessè-Iuessè, senza che nessuno glielo ordinasse. E ho provato una specie di umiliazione. Perché gli operai italiani che sventolano il tricolore e ruggiscono Italia-Italia io non li so immaginare. Nei cortei e nei comizi gli ho visto sventolare tante bandiere rosse. Fiumi, laghi, di bandiere rosse. Ma di bandiere tricolori gliene ho sempre viste sventolar pochine. Anzi nessuna. Mal guidati o tiranneggiati da una sinistra arrogante e devota all'Unione Sovietica, le bandiere tricolori le hanno sempre lasciate agli avversari. E non è che gli avversari ne abbiano fatto buon uso, direi. Non ne hanno fatto nemmeno spreco, graziaddio. E quelli che vanno alla Messa, idem. Quanto al becero con la camicia verde e la cravatta verde, non sa nemmeno quali siano i colori del tricolore. Mi-sun-lumbard, mi-sun-lumbard. Quello vorrebbe riportarci alle guerre tra Firenze e Siena. Risultato, oggi la bandiera italiana la vedi soltanto alle Olimpiadi se per caso vinci una medaglia. Peggio: la vedi soltanto negli stadi, quando c'è una partita internazionale di calcio. Unica occasione, peraltro, in cui riesci a udire il grido Italia-Italia.
Eh! C'è una bella differenza tra un paese nel quale la bandiera della Patria viene sventolata dai teppisti negli stadi e basta, e un paese nel quale viene sventolata dal popolo intero. Ad esempio, dagli irreggimentabili operai che scavano nelle rovine per tirar fuori qualche orecchio o qualche naso delle creature massacrate dai figli di Allah. Oppure per raccogliere quel caffè macinato.

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Il fatto è che l'America è un paese speciale, caro mio. Un paese da invidiare, di cui esser gelosi, per cose che non hanno nulla a che fare con la ricchezza eccetera. Lo è perché è nato da un bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una patria, e dall'idea più sublime che l'Uomo abbia mai concepito: l'idea della Libertà, anzi della libertà sposata all'idea di uguaglianza. Lo è anche perché a quel tempo l'idea di libertà non era di moda. L'idea di uguaglianza, nemmeno. Non ne parlavano che certi filosofi detti Illuministi, di queste cose. Non li trovavi che in un costosissimo librone a puntate detto l'Encyclopedie, questi concetti. E a parte gli scrittori o gli altri intellettuali, a parte i principi e i signori che avevano i soldi per comprare il librone o i libri che avevano ispirato il librone, chi ne sapeva nulla dell'Illuminismo? Non era mica roba da mangiare, l'Illuminismo! Non ne parlavan neppure i rivoluzionari della Rivoluzione Francese, visto che la Rivoluzione Francese sarebbe incominciata nel 1789 ossia tredici anni dopo la Rivoluzione Americana che scoppiò nel 1776. (Altro particolare che gli antiamericani del bene-agli-americani-gli-sta-bene ignorano o fingono di dimenticare. Razza di ipocriti).
È un paese speciale, un paese da invidiare, inoltre, perché quell'idea venne capita da contadini spesso analfabeti o comunque ineducati. I contadini delle colonie americane. E perché venne materializzata da un piccolo gruppo di leader straordinari: da uomini di grande cultura, di gran qualità. The Founding Fathers, i Padri Fondatori. Ma hai idea di chi fossero i Padri Fondatori, i Benjamin Franklin e i Thomas Jefferson e i Thomas Paine e i John Adams e i George Washington eccetera? Altro che gli avvocaticchi (come giustamente li chiamava Vittorio Alfieri) della Rivoluzione Francese! Altro che i cupi e isterici boia del Terrore, i Marat e i Danton e i Saint Just e i Robespierre! Erano tipi, i Padri Fondatori, che il greco e il latino lo conoscevano come gli insegnanti italiani di greco e di latino (ammesso che ne esistano ancora) non lo conosceranno mai. Tipi che in greco s'eran letti Aristotele e Platone, che in latino s'eran letti Seneca e Cicerone, e che i principii della democrazia greca se l'eran studiati come nemmeno i marxisti del mio tempo studiavano la teoria del plusvalore. (Ammesso che la studiassero davvero). Jefferson conosceva anche l'italiano. (Lui diceva «toscano»). In italiano parlava e leggeva con gran speditezza. Infatti con le duemila piantine di vite e le mille piantine di olivo e la carta da musica che in Virginia scarseggiava, nel 1774 il fiorentino Filippo Mazzei gli aveva portato varie copie d'un libro scritto da un certo Cesare Beccaria e intitolato «Dei Delitti e delle Pene». Quanto all'autodidatta Franklin, era un genio. Scienziato, stampatore, editore, scrittore, giornalista, politico, inventore. Nel 1752 aveva scoperto la natura elettrica del fulmine e aveva inventato il parafulmine. Scusa se è poco. E fu con questi leader straordinari, questi uomini di gran qualità, che nel 1776 i contadini spesso analfabeti e comunque ineducati si ribellarono all'Inghilterra. Fecero la guerra d'indipendenza, la Rivoluzione Americana.
Bè... Nonostante i fucili e la polvere da sparo, nonostante i morti che ogni guerra costa, non la fecero coi fiumi di sangue della futura Rivoluzione Francese. Non la fecero con la ghigliottina e coi massacri della Vandea. La fecero con un foglio che insieme al bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una patria, concretizzava la sublime idea della libertà anzi della libertà sposata all'uguaglianza. La Dichiarazione d'Indipendenza. «We hold these Truths to be self-evident... Noi riteniamo evidenti queste verità. Che tutti gli Uomini sono creati uguali. Che sono dotati dal Creatore di certi inalienabili Diritti. Che tra questi Diritti v'è il diritto alla Vita, alla Libertà, alla Ricerca della Felicità. Che per assicurare questi Diritti gli Uomini devono istituire i governi...». E quel foglio che dalla Rivoluzione Francese in poi tutti gli abbiamo bene o male copiato, o al quale ci siamo ispirati, costituisce ancora la spina dorsale dell'America. La linfa vitale di questa nazione. Sai perché? Perché trasforma i sudditi in cittadini. Perché trasforma la plebe in Popolo. Perché la invita anzi le ordina di governarsi, d'esprimere le proprie individualità, di cercare la propria felicità. Tutto il contrario di ciò che il comunismo faceva proibendo alla gente di ribellarsi, governarsi, esprimersi, arricchirsi, e mettendo Sua Maestà lo Stato al posto dei soliti re. «Il comunismo è un regime monarchico, una monarchia di vecchio stampo. In quanto tale taglia le palle agli uomini. E quando a un uomo gli tagli le palle non è più un uomo» diceva mio padre. Diceva anche che invece di riscattare la plebe il comunismo trasformava tutti in plebe. Rendeva tutti morti di fame.
Bè, secondo me l'America riscatta la plebe. Sono tutti plebei, in America. Bianchi, neri, gialli, marroni, viola, stupidi, intelligenti, poveri, ricchi. Anzi i più plebei sono proprio i ricchi. Nella maggioranza dei casi, certi piercoli! Rozzi, maleducati. Lo vedi subito che non hanno mai letto Monsignor della Casa, che non hanno mai avuto nulla a che fare con la raffinatezza e il buon gusto e la sophistication. Nonostante i soldi che sprecano nel vestirsi, ad esempio, son così ineleganti che in paragone la regina d'Inghilterra sembra chic. Però sono riscattati, perdio. E a questo mondo non c'è nulla di più forte, di più potente, della plebe riscattata. Ti rompi sempre le corna con la Plebe Riscattata. E con l'America le corna se le sono sempre rotte tutti. Inglesi, tedeschi, messicani, russi, nazisti, fascisti, comunisti. Da ultimo se le son rotte perfino i vietnamiti che dopo la vittoria son dovuti scendere a patti con loro sicché quando un ex presidente degli Stati Uniti va a fargli una visitina toccano il cielo con un dito. «Bienvenu, Monsieur le President, bienvenu!». Il guaio è che i vietnamiti non pregano Allah. E con i figli di Allah la faccenda sarà dura. Molto lunga e molto dura. Ammenoché il resto dell'Occidente non smetta di farsela addosso. E ragioni un po' e gli dia una mano.

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Non sto parlando, ovvio, alle iene che se la godono a veder le immagini delle macerie e ridacchiano bene-agli-americani-gli-sta-bene. Sto parlando alle persone che pur non essendo stupide o cattive, si cullano ancora nella prudenza e nel dubbio. E a loro dico: sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d'andar contro corrente cioè d'apparire razzisti (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione), non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione, forse, comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All'annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci… Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po' più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri... Cristo! Non vi rendete conto che gli Usama Bin Laden si ritengono autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché bevete il vino o la birra, perché non portate la barba lunga o il chador, perché andate al teatro e al cinema, perché ascoltate la musica e cantate le canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa vostra, perché guardate la televisione, perché portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi, perché scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi pare? Non v'importa neanche di questo, scemi? Io sono atea, graziaddio. E non ho alcuna intenzione di lasciarmi ammazzare perché lo sono.
Da vent'anni lo dico, da vent'anni. Con una certa mitezza, non con questa passione, vent'anni fa su questa roba scrissi un articolo di fondo per il «Corriere». Era l'articolo di una persona abituata a stare con tutte le razze e tutti i credi, d'una cittadina abituata a combattere tutti i fascismi e tutte le intolleranze, d'una laica senza tabù. Ma era anche l'articolo di una persona indignata con chi non sentiva il puzzo di una Guerra Santa a venire, e ai figli di Allah gliene perdonava un po' troppe. Feci un ragionamento che suonava press'appoco così, vent'anni fa. «Che senso ha rispettare chi non rispetta noi? Che senso ha difendere la loro cultura o presunta cultura quando loro disprezzano la nostra? Io voglio difendere la nostra, e v'informo che Dante Alighieri mi piace più di Omar Khayan». Apriti cielo. Mi crocifissero. «Razzista, razzista!». Eh, furono gli stessi progressisti (a quel tempo si chiamavano comunisti) a crocifiggermi. Del resto quell'insulto me lo presi anche quando i sovietici invasero l'Afghanistan. Li ricordi quei barbuti con la sottana e il turbante che prima di sparare il mortaio, anzi a ciascun colpo di mortaio, berciavano le lodi del Signore? «Allah akbar! Allah akbar!». Io li ricordo bene. E a veder accoppiare la parola Dio al colpo di mortaio, mi venivano i brividi. Mi pareva d'essere nel Medioevo, e dicevo: «I sovietici sono quello che sono. Però bisogna ammettere che a far quella guerra proteggono anche noi. E li ringrazio». Riapriti cielo. «Razzista, razzista!». Nella loro cecàggine non volevan neanche sentirmi parlare delle mostruosità che i figli di Allah commettevano sui militari fatti prigionieri. (Gli segavano le braccia e le gambe, rammenti? Un vizietto a cui s'erano già abbandonati in Libano coi prigionieri cristiani ed ebrei). Non volevano che lo dicessi, no. E pur di fare i progressisti applaudivano gli americani che rincretiniti dalla paura dell’Unione Sovietica riempivan di armi l'eroico-popolo-afghano. Addestravano i barbuti, e coi barbuti un barbutissimo Usama Bin Laden. Via-i-russi-dall'Afghanistaaaan! I-russi- devono-andarsene-dall'Afghanistaaaan! Bè, i russi se ne sono andati dall'Afghanistan: contenti? E dall'Afghanistan i barbuti del barbutissimo Usama Bin Laden sono arrivati a New York con gli sbarbati siriani egiziani iracheni libanesi palestinesi sauditi che componevano la banda dei diciannove kamikaze identificati: contenti? Peggio: ora qui si discute sul prossimo attacco che ci colpirà con le armi chimiche, biologiche, radioattive, nucleari. Si dice che la nuova strage è inevitabile perché l’Iraq gli fornisce il materiale. Si parla di vaccinazioni, di maschere a gas, di peste. Ci si chiede quando avverrà... Contenti?
Alcuni non sono né contenti né scontenti. Se ne fregano e basta. Tanto l'America è lontana, tra l'Europa e l'America c'è un oceano... Eh, no, cari miei. No. C'è un filo d'acqua. Perché quando è in ballo il destino dell'Occidente, la sopravvivenza della nostra civiltà, New York siamo noi. L'America siamo noi. Noi italiani, noi francesi, noi inglesi, noi tedeschi, noi austriaci, noi ungheresi, noi slovacchi, noi polacchi, noi scandinavi, noi belgi, noi spagnoli, noi greci, noi portoghesi. Se crolla l'America, crolla l'Europa. Crolla l'Occidente, crolliamo noi. E non solo in senso finanziario cioè nel senso che, mi pare, vi preoccupa di più. (Una volta, ero giovane e ingenua, dissi ad Arthur Miller: «Gli americani misurano tutto coi soldi, non pensano che ai soldi». E Arthur Miller mi rispose: «Voi no?»). In tutti i sensi crolliamo, caro mio. E al posto delle campane ci ritroviamo i muezzin, al posto delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di cammella. Neanche questo capite, neanche questo volete capire?!? Blair lo ha capito. È venuto qui e ha portato anzi rinnovato a Bush la solidarietà degli inglesi. Non una solidarietà espressa con le chiacchiere e i piagnistei: una solidarietà basata sulla caccia ai terroristi e sull’alleanza militare. Chirac, no. Come sai la scorsa settimana era qui in visita ufficiale.
Una visita prevista da tempo, non una visita ad hoc. Ha visto le macerie delle due torri, ha saputo che i morti sono un numero incalcolabile anzi inconfessabile, ma non s'è sbilanciato. Durante l'intervista alla Cnn ben quattro volte la ma amica Cristiana Amanpour gli ha chiesto in qual modo e in qual misura intendesse schierarsi contro questa Jihad, e per quattro volte Chirac ha evitato una risposta. È sgusciato via come un'anguilla. Veniva voglia di gridargli: «Monsieur le President! Ricorda lo sbarco in Normandia? Lo sa quanti americani sono crepati in Normandia per cacciare i nazisti anche dalla Francia?». Escluso Blair, del resto, neanche fra gli altri europei vedo Riccardi Cuor di Leone. E tantomeno ne vedo in Italia dove il governo non ha individuato quindi arrestato alcun complice o sospetto complice di Usama Bin Laden. Perdio, signor cavaliere, perdio! Malgrado la paura della guerra, in ogni paese d'Europa è stato individuato e arrestato qualche complice di Usama Bin Laden. In Francia, in Germania, in Inghilterra, in Spagna... Ma in Italia dove le moschee di Milano e di Torino e di Roma traboccano di mascalzoni che inneggiano a Usama Bin Laden, di terroristi in attesa di far saltare in aria la Cupola di San Pietro, nessuno. Zero. Nulla. Nessuno. Mi spieghi, signor cavaliere: son così incapaci i Suoi poliziotti e carabinieri? Son così coglioni i Suoi servizi segreti? Son così scemi i Suoi funzionari? E son tutti stinchi di santo, tutti estranei a ciò che è successo e succede, i figli di Allah che ospitiamo? Oppure a fare le indagini giuste, a individuare e arrestare chi finoggi non avete individuato e arrestato, Lei teme di subire il solito ricatto razzista-razzista? Io, vede, no.
Cristo! Io non nego a nessuno il diritto di avere paura. Chi non ha paura della guerra è un cretino. E chi vuol far credere di non avere paura alla guerra, l’ho scritto mille volte, è insieme un cretino e un bugiardo. Ma nella Vita e nella Storia vi sono casi in cui non è lecito aver paura. Casi in cui aver paura è immorale e incivile. E quelli che, per debolezza o mancanza di coraggio o abitudine a tenere il piede in due staffe si sottraggono a questa tragedia, a me sembrano masochisti.

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Masochisti, sì, masochisti. Perché vogliamo farlo questo discorso su ciò che tu chiami Contrasto-fra-le-Due-Culture? Bè, se vuoi proprio saperlo, a me dà fastidio perfino parlare di due culture: metterle sullo stesso piano come se fossero due realtà parallele, di uguale peso e di uguale misura. Perché dietro la nostra civiltà c'è Omero, c'è Socrate, c'è Platone, c'è Aristotele, c'è Fidia, perdio. C'è l'antica Grecia col suo Partenone e la sua scoperta della Democrazia. C'è l'antica Roma con la sua grandezza, le sue leggi, il suo concetto della Legge. Le sue sculture, la sua letteratura, la sua architettura. I suoi palazzi e i suoi anfiteatri, i suoi acquedotti, i suoi ponti, le sue strade. C'è un rivoluzionario, quel Cristo morto in croce, che ci ha insegnato (e pazienza se non lo abbiamo imparato) il concetto dell'amore e della giustizia. C'è anche una Chiesa che mi ha dato l'Inquisizione, d'accordo. Che mi ha torturato e bruciato mille volte sul rogo, d'accordo. Che mi ha oppresso per secoli, che per secoli mi ha costretto a scolpire e dipingere solo Cristi e Madonne, che mi ha quasi ammazzato Galileo Galilei. Me lo ha umiliato, me lo ha zittito. Però ha dato anche un gran contributo alla Storia del Pensiero: sì o no? E poi dietro la nostra civiltà c'è il Rinascimento. C'è Leonardo da Vinci, c'è Michelangelo, c'è Raffaello, c’è la musica di Bach e di Mozart e di Beethoven. Su su fino a Rossini e Donizetti e Verdi and Company. Quella musica senza la quale noi non sappiamo vivere e che nella loro cultura o supposta cultura è proibita. Guai se fischi una canzonetta o mugoli il coro del Nabucco. E infine c'è la Scienza, perdio. Una scienza che ha capito parecchie malattie e le cura. Io sono ancora viva, per ora, grazie alla nostra scienza: non quella di Maometto. Una scienza che ha inventato macchine meravigliose. Il treno, l'automobile, l'aereo, le astronavi con cui siamo andati sulla Luna e su Marte e presto andremo chissàddove. Una scienza che ha cambiato la faccia di questo pianeta con l'elettricità, la radio, il telefono, la televisione, e a proposito: è vero che i santoni della sinistra non vogliono dire ciò che ho appena detto?!? Dio, che bischeri! Non cambieranno mai. Ed ora ecco la fatale domanda: dietro all’altra cultura che c’è?
Boh! Cerca cerca, io non ci trovo che Maometto col suo Corano e Averroè coi suoi meriti di studioso. (I Commentari su Aristotele eccetera), Arafat ci trova anche i numeri e la matematica. Di nuovo berciandomi addosso, di nuovo coprendomi di saliva, nel 1972 mi disse che la sua cultura era superiore alla mia, molto superiore alla mia, perché i suoi nonni avevano inventato i numeri e la matematica. Ma Arafat ha la memoria corta. Per questo cambia idea e si smentisce ogni cinque minuti. I suoi nonni non hanno inventato i numeri e la matematica. Hanno inventato la grafia dei numeri che anche noi infedeli adopriamo, e la matematica è stata concepita quasi contemporaneamente da tutte le antiche civiltà. In Mesopotamia, in Grecia, in India, in Cina, in Egitto, tra i Maya... I suoi nonni, Illustre Signor Arafat, non ci hanno lasciato che qualche bella moschea e un libro col quale da millequattrocento anni mi rompono le scatole più di quanto i cristiani me le rompano con la Bibbia e gli ebrei con la Torah. E ora vediamo quali sono i pregi che distinguono questo Corano. Davvero pregi? Dacché i figli di Allah hanno semidistrutto New York, gli esperti dell'Islam non fanno che cantarmi le lodi di Maometto: spiegarmi che il Corano predica la pace e la fratellanza e la giustizia. (Del resto lo dice anche Bush, povero Bush. E va da sé che Bush deve tenersi buoni i ventiquattro milioni di americani-musulmani, convincerli a spifferare quel che sanno sugli eventuali parenti o amici o conoscenti devoti a Usama Bin Laden). Ma allora come la mettiamo con la storia dell'Occhio-per-Occhio-Dente-per-Dente? Come la mettiamo con la faccenda del chador anzi del velo che copre il volto delle musulmane, sicché per dare una sbirciata al prossimo quelle infelici devon guardare attraverso una fitta rete posta all'altezza degli occhi? Come la mettiamo con la poligamia e col principio che le donne debbano contare meno dei cammelli, che non debbano andare a scuola, non debbano andare dal dottore, non debbano farsi fotografare eccetera? Come la mettiamo col veto degli alcolici e la pena di morte per chi li beve? Anche questo sta nel Corano. E non mi sembra mica tanto giusto, tanto fraterno, tanto pacifico.
Ecco dunque la mia risposta alla tua domanda sul Contrasto-delle-Due-Culture. Al mondo c'è posto per tutti, dico io. A casa propria tutti fanno quel che gli pare. E se in alcuni paesi le donne sono così stupide da accettare il chador anzi il velo da cui si guarda attraverso una fitta rete posta all'altezza degli occhi, peggio per loro. Se son così scimunite da accettar di non andare a scuola, non andar dal dottore, non farsi fotografare eccetera, peggio per loro. Se son così minchione da sposare uno stronzo che vuole quattro mogli, peggio per loro. Se i loro uomini sono così grulli da non bere la birra e il vino, idem. Non sarò io a impedirglielo. Ci mancherebbe altro. Sono stata educata nel concetto di libertà, io, e la mia mamma diceva: «Il mondo è bello perché è vario». Ma se pretendono d'imporre le stesse cose a me, a casa mia... Lo pretendono. Usama Bin Laden afferma che l'intero pianeta Terra deve diventar musulmano, che dobbiamo convertirci all'Islam, che con le buone o con le cattive lui ci convertirà, che a tal scopo ci massacra e continuerà a massacrarci. E questo non può piacerci, no. Deve metterci addosso una gran voglia di rovesciar le carte, ammazzare lui. Però la cosa non si risolve, non si esaurisce, con la morte di Usama Bin Laden. Perché gli Usama Bin Laden sono decine di migliaia, ormai, e non stanno soltanto in Afghanistan o negli altri paesi arabi. Stanno dappertutto, e i più agguerriti stanno proprio in Occidente. Nelle nostre città, nelle nostre strade, nelle nostre università, nei gangli della tecnologia. Quella tecnologia che qualsiasi ottuso può maneggiare. La Crociata è in atto da tempo. E funziona come un orologio svizzero, sostenuta da una fede e da una perfidia paragonabile soltanto alla fede e alla perfidia di Torquemada quando gestiva l'Inquisizione. Infatti trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Trattarli con indulgenza o tolleranza o speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso.
Te lo dice una che quel tipo di fanatismo lo ha conosciuto abbastanza bene in Iran, in Pakistan, in Bangladesh, in Arabia Saudita, in Kuwait, in Libia, in Giordania, in Libano, e a casa sua. Cioè in Italia. Lo ha conosciuto, ed anche attraverso episodi triviali, anzi grotteschi, ne ha avuto raggelanti conferme. Io non dimentico mai quel che mi accadde all'ambasciata iraniana di Roma quando chiesi il visto per recarmi a Teheran, per intervistare Khomeini, e mi presentai con le unghie smaltate di rosso. Per loro, segno di immoralità. Mi trattarono come una prostituta da bruciare sul rogo. Mi ingiunsero di levarlo immediatamente quel rosso. E se non gli avessi detto anzi urlato che cosa gradivo levare, anzi tagliare a loro... Non dimentico nemmeno quel che mi accadde a Qom, la città santa di Khomeini, dove in quanto donna venni respinta da tutti gli alberghi. Per intervistare Khomeini dovevo mettermi il chador, per mettermi il chador dovevo togliermi i blue jeans, per togliermi i blue jeans dovevo appartarmi, e naturalmente avrei potuto effettuare l'operazione nell'automobile con la quale ero giunta da Teheran. Ma l'interprete me lo impedì. Lei-è-pazza, lei-è-pazza, a-fare-una-cosa-simile-a-Qom-si-finisce-fucilati. Preferì portarmi all'ex Palazzo Reale dove un custode pietoso ci ospitò, ci prestò l'ex Sala del Trono. Infatti io mi sentivo come la Madonna che per dare alla luce il Bambin Gesù si rifugia insieme a Giuseppe nella stalla scaldata dall'asino e dal bue. Ma a un uomo e a una donna non sposati fra loro il Corano vieta di appartarsi dietro una porta chiusa, ahimé, e d'un tratto la porta si aprì. Il mullah addetto al Controllo della Moralità irruppe strillando vergogna-vergogna, peccato-peccato, e v'era solo un modo per non finire fucilati: sposarsi. Firmare l'atto di matrimonio a scadenza (quattro mesi) che il mullah ci sventolava sulla faccia. Il guaio è che l'interprete aveva una moglie spagnola, una certa Consuelo per nulla disposta ad accettare la poligamia, e io non volevo sposare nessuno. Tantomeno un iraniano con la moglie spagnola e nient'affatto disposta ad accettare la poligamia. Nel medesimo tempo non volevo finir fucilata ossia perdere l'intervista con Khomeini. In tal dilemma mi dibattevo e...
Ridi, ne son certa. Ti sembrano barzellette. Bè, allora il seguito di questo episodio non te lo racconto. Per farti piangere ti racconto quello dei dodici giovanotti impuri che finita la guerra del Bangladesh vidi giustiziare a Dacca. Li giustiziarono sul campo dello stadio di Dacca, a colpi di baionetta nel torace o nel ventre, e alla presenza di ventimila fedeli che dalle tribune applaudivano in nome di Dio. Tuonavano «Allah akbar, Allah akbar». Lo so, lo so: nel Colosseo gli antichi romani, quegli antichi romani di cui la mia cultura va fiera, si divertivano a veder morire i cristiani dati in pasto ai leoni. Lo so, lo so: in tutti i paesi d'Europa i cristiani, quei cristiani ai quali malgrado il mio ateismo riconosco il contributo che hanno dato alla Storia del Pensiero, si divertivano a veder bruciare gli eretici. Però è trascorso parecchio tempo, siamo diventati un pochino più civili, e anche i figli di Allah dovrebbero aver compreso che certe cose non si fanno. Dopo i dodici giovanotti impuri ammazzarono un bambino che per salvare il fratello condannato a morte s'era buttato sui giustizieri. A lui schiacciarono la testa con gli scarponi da militare. E se non ci credi, bè: rileggi la mia cronaca o la cronaca dei giornalisti francesi e tedeschi che inorriditi quanto me erano lì con me. Meglio: guardati le fotografie che uno di essi scattò. Comunque il punto che mi preme sottolineare non è questo. È che, concluso lo scempio, i ventimila fedeli (molte donne) lasciarono le tribune e scesero nel campo. Non in maniera scomposta, cialtrona, no. In maniera ordinata, solenne. Lentamente composero un corteo e, sempre in nome di Dio, passarono sopra i cadaveri. Sempre tuonando Allah-akbar, Allah-akbar. Li distrussero come le due Torri di New York. Li ridussero a un tappeto sanguinolento di ossa spiaccicate.
Oh, potrei continuare all'infinito. Dirti cose mai dette, cose da farti rizzare i capelli in testa. Su quel rimbambito di Khomeini, ad esempio, che dopo l'intervista tenne un comizio a Qom per dichiarare che io lo accusavo di tagliare i seni alle donne. Da tale comizio ricavò un video che per mesi venne trasmesso alla televisione di Teheran sicché, quando l'anno successivo tornai a Teheran, venni arrestata appena scesa dall'aereo. E la vidi brutta, sai, proprio brutta. Era il periodo degli ostaggi americani... potrei parlarti di quel Mujib Rahman che, sempre a Dacca, aveva ordinato ai suoi guerriglieri di eliminarmi in quanto europea pericolosa, e meno male che a rischio della propria vita un colonnello inglese mi salvò. O di quel palestinese di nome Habash che per venti minuti mi fece tenere un mitragliatore puntato alla testa. Dio, che gente! I soli coi quali abbia avuto un rapporto civile restano il povero Alì Bhutto cioè il primo ministro del Pakistan, morto impiccato perché troppo amico dell’Occidente, e il bravissimo re di Giordania: re Hussein. Ma quei due erano musulmani quanto io son cattolica. Comunque voglio darti la conclusione del mio ragionamento. Una conclusione che non piacerà a molti, visto che difendere la propria cultura, in Italia, sta diventando peccato mortale. E visto che intimiditi dall’impropria parola «razzista», tutti tacciono come conigli.

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Io non vado a rizzare tende alla Mecca. Io non vado a cantar Paternostri e Avemarie dinanzi alla tomba di Maometto. Io non vado a fare pipì sui marmi delle loro moschee, non vado a fare la cacca ai piedi dei loro minareti. Quando mi trovo nei loro paesi (cosa dalla quale non traggo mai diletto) non dimentico mai d'essere un'ospite e una straniera. Sto attenta a non offenderli con abiti o gesti o comportamenti che per noi sono normali e per loro inammissibili. Li tratto con doveroso rispetto, doverosa cortesia, mi scuso se per sbadatezza o ignoranza infrango qualche loro regola o superstizione. E questo urlo di dolore e di sdegno io te l'ho scritto avendo dinanzi agli occhi immagini che non sempre mi davano le apocalittiche scene con le quali ho incominciato il discorso. A volte invece di quelle vedevo l'immagine per me simbolica (quindi infuriante) della gran tenda con cui un'estate fa i mussulmani somali sfregiarono e smerdarono e oltraggiarono per tre mesi piazza del Duomo a Firenze. La mia città.
Una tenda rizzata per biasimare condannare insultare il governo italiano che li ospitava ma non gli concedeva le carte necessarie a scorrazzare per l’Europa e non gli lasciava portare in Italia le orde dei loro parenti. Mamme, babbi, fratelli, sorelle, zii, zie, cugini, cognate incinte, e magari i parenti dei parenti. Una tenda situata accanto al bel palazzo dell'Arcivescovado sul cui marciapiede tenevano le scarpe o le ciabatte che nei loro paesi allineano fuori dalle moschee. E insieme alle scarpe o le ciabatte, le bottiglie vuote dell'acqua con cui si lavavano i piedi prima della preghiera. Una tenda posta di fronte alla cattedrale con la cupola del Brunelleschi, e a lato del Battistero con le porte d'oro del Ghiberti. Una tenda, infine, arredata come un rozzo appartamentino: sedie, tavolini, chaise-longues, materassi per dormire e per scopare, fornelli per cuocere il cibo e appestare la piazza col fumo e col puzzo. E, grazie alla consueta incoscienza dell'Enel che alle nostre opere d'arte tiene quanto tiene al nostro paesaggio, fornita di luce elettrica. Grazie a un radio-registratore, arricchita dalla vociaccia sguaiata d'un muezzin che puntualmente esortava i fedeli, assordava gli infedeli, e soffocava il suono delle campane. Insieme a tutto ciò, le gialle strisciate di urina che profanavano i marmi del Battistero. (Perbacco! Hanno la gettata lunga, questi figli di Allah! Ma come facevano a colpire l'obiettivo separato dalla ringhiera di protezione e quindi distante quasi due metri dal loro apparato urinario?) Con le gialle strisciate di urina, il fetore dello sterco che bloccava il portone di San Salvatore al Vescovo: la squisita chiesa romanica (anno Mille) che sta alle spalle di piazza del Duomo e che i figli di Allah avevano trasformato in cacatoio. Lo sai bene.
Lo sai bene perché fui io a chiamarti, pregarti di parlarne sul «Corriere», ricordi? Chiamai anche il sindaco che, glielo concedo, venne gentilmente a casa mia. Mi ascoltò, mi dette ragione. «Ha ragione, ha proprio ragione...». Ma la tenda non la tolse. Se ne dimenticò o non gli riuscì. Chiamai anche il ministro degli Esteri che era un fiorentino, anzi uno di quei fiorentini che parlano con l'accento molto fiorentino, nonché coinvolto nella faccenda. E pure lui, glielo concedo, mi ascoltò. Mi dette ragione: «Eh, sì. Ha ragione, sì». Ma per toglier la tenda non mosse un dito e, quanto ai figli di Allah che urinavano sul Battistero e smerdavano San Salvatore al Vescovo, presto li accontentò. (Mi risulta che i babbi e le mamme e i fratelli e le sorelle e gli zii e le zie e i cugini e le cognate incinte ora stiano dove volevano stare). Cioè a Firenze e in altre città d’Europa. Allora cambiai sistema. Chiamai un simpatico poliziotto che dirige l'ufficio-sicurezza e gli dissi: «Caro poliziotto, io non sono un politico. Quando dico di fare una cosa, la faccio. Inoltre conosco la guerra e di certe cose me ne intendo. Se entro domani non levate la fottuta tenda, io la brucio. Giuro sul mio onore che la brucio, che neanche un reggimento di carabinieri riuscirebbe a impedirmelo, e per questo voglio essere arrestata. Portata in galera con le manette. Così finisco su tutti i giornali». Bè, essendo più intelligente degli altri, nel giro di poche ore lui la levò. Al posto della tenda rimase soltanto un'immensa e disgustosa macchia di sudiciume. Però fu una vittoria di Pirro. Lo fu in quanto non influì per niente sugli altri scempi che da anni feriscono e umiliano quella che era la capitale dell'arte e della cultura e della bellezza, non scoraggiò per niente gli altri arrogantissimi ospiti della città: gli albanesi, i sudanesi, i bengalesi, i tunisini, gli algerini, i pakistani, i nigeriani che con tanto fervore contribuiscono al commercio della droga e della prostituzione a quanto pare non proibito dal Corano. Eh, sì: sono tutti dov'erano prima che il mio poliziotto togliesse la tenda. Dentro il piazzale degli Uffizi, ai piedi della Torre di Giotto. Dinanzi alla Loggia dell'Orcagna, intorno alle Logge del Porcellino. Di faccia alla Biblioteca Nazionale, all'entrata dei musei. Sul Ponte Vecchio dove ogni tanto si pigliano a coltellate o a revolverate. Sui Lungarni dove hanno preteso e ottenuto che il Municipio li finanziasse (Sissignori, li finanziasse). Sul sagrato della Chiesa di San Lorenzo dove si ubriacano col vino e la birra e i liquori, razza di ipocriti, e dove dicono oscenità alle donne. (La scorsa estate, su quel sagrato, le dissero perfino a me che ormai sono un'antica signora. E va da sé che mal gliene incolse. Oooh, se mal gliene incolse! Uno sta ancora lì a mugulare sui suoi genitali). Nelle storiche strade dove bivaccano col pretesto di vender-la-merce. Per merce intendi borse e valige copiate dai modelli protetti da brevetto, quindi illegali, gigantografie, matite, statuette africane che i turisti ignoranti credono sculture del Bernini, roba-da-annusare. («Je connais mes droits, conosco i miei diritti» mi sibilò, sul Ponte Vecchio, uno a cui avevo visto vendere la roba-da-annusare). E guai se il cittadino protesta, guai se gli risponde quei-diritti-vai-ad-esercitarli-a-casa-tua. «Razzista, razzista!». Guai se camminando tra la merce che blocca il passaggio un pedone gli sfiora la presunta scultura del Bernini. «Razzista, razzista!». Guai se un Vigile Urbano gli si avvicina, azzarda: «Signor figlio di Allah, Eccellenza, le dispiacerebbe spostarsi un capellino e lasciar passare la gente?». Se lo mangiano vivo. Lo aggrediscono col coltello. Come minimo, gli insultano la mamma e la progenie. «Razzista, razzista!». E la gente sopporta, rassegnata. Non reagisce nemmeno se gli gridi ciò che il mio babbo urlava durante il fascismo: «Ma non ve ne importa nulla della dignità? Non ce l'avete un po' d'orgoglio, pecoroni?».
Succede anche nelle altre città, lo so. A Torino, per esempio. Quella Torino che fece l'Italia e che ormai non sembra nemmeno una città italiana. Sembra Algeri, Dacca, Nairobi, Damasco, Beirut. A Venezia. Quella Venezia dove i piccioni di piazza San Marco sono stati sostituiti dai tappetini con la «merce» e perfino Otello si sentirebbe a disagio. A Genova. Quella Genova dove i meravigliosi palazzi che Rubens ammirava tanto sono stati sequestrati da loro e deperiscono come belle donne stuprate. A Roma. Quella Roma dove il cinismo della politica d'ogni menzogna e d'ogni colore li corteggia nella speranza d'ottenerne il futuro voto, e dove a proteggerli c'è lo stesso Papa. (Santità, perché in nome del Dio Unico non se li prende in Vaticano? A condizione che non smerdino anche la Cappella Sistina e le statue di Michelangelo e i dipinti di Raffaello: sia chiaro). Mah! Ora son io che non capisco. Anziché figli-di-Allah in Italia li chiamano «lavoratori stranieri». Oppure «mano-d'opera-di-cui-v'è-bisogno». E sul fatto che alcuni di loro lavorino, non ho alcun dubbio. Gli italiani son diventati talmente signorini. Vanno in vacanza alle Seychelles, vengon a New York per comprare i lenzuoli da Bloomingdale's. Si vergognano a fare gli operai e i contadini, e non puoi più associarli col proletariato. Ma quelli di cui parlo, che lavoratori sono? Che lavoro fanno? In che modo suppliscono al bisogno della mano d'opera che l'ex proletariato italiano non fornisce più? Bivaccando nella città col pretesto della merce-da-vendere? Bighellonando e deturpando i nostri monumenti? Pregando cinque volte al giorno? E poi c'è un'altra cosa che non capisco. Se davvero son tanto poveri, chi glieli dà i soldi per il viaggio sulla nave o sul gommone che li porta in Italia? Chi glieli dà i dieci milioni a testa (come minimo dieci milioni) necessari a comprarsi il biglietto? Non glieli darà mica Usama Bin Laden allo scopo d’avviare una conquista che non è solo una conquista di anime, è anche una conquista di territorio?
Bè, anche se non glieli dà, questa faccenda non mi convince. Anche se i nostri ospiti sono assolutamente innocenti, anche se fra loro non c'è nessuno che vuole distruggermi la Torre di Pisa o la Torre di Giotto, nessuno che vuol mettermi il chador, nessuno che vuol bruciarmi sul rogo di una nuova Inquisizione, la loro presenza mi allarma. Mi incute disagio. E sbaglia chi questa faccenda la prende alla leggera o con ottimismo. Sbaglia, soprattutto, chi paragona l'ondata migratoria che s'è abbattuta sull'Italia e sull'Europa con l'ondata migratoria che si rovesciò sull'America nella seconda metà dell'Ottocento anzi verso la fine dell'Ottocento e all'inizio del Novecento. Ora ti dico perché.
N on molto tempo fa mi capitò di captare una frase pronunciata da uno dei mille presidenti del Consiglio di cui l'Italia s'è onorata in pochi decenni. «Eh, anche mio zio era un emigrante! Io lo ricordo mio zio che con la valigetta di fibra partiva per l'America!». O qualcosa del genere. Eh, no, caro mio. No. Non è affatto la stessa cosa. E non lo è per due motivi abbastanza semplici.
Il primo è che nella seconda metà dell'Ottocento l'ondata migratoria in America non avvenne in maniera clandestina e per prepotenza di chi la effettuava. Furono gli americani stessi a volerla, sollecitarla. E per un preciso atto del Congresso. «Venite, venite, ché abbiamo bisogno di voi. Se venite, vi si regala un bel pezzo di terra». Ci hanno fatto anche un film, gli americani. Quello con Tom Cruise e Nicole Kidman, e del quale m'ha colpito il finale. La scena dei disgraziati che corrono per piantare la bandierina bianca sul terreno che diventerà loro, sicché solo i più giovani e i più forti ce la fanno. Gli altri restano con un palmo di naso e alcuni nella corsa muoiono. Ch’io sappia, in Italia non c'è mai stato un atto del Parlamento che invitasse anzi sollecitasse i nostri ospiti a lasciare i loro paesi. Venite-venite-ché-abbiamo-tanto-bisogno-di-voi, se-venite-vi-regaliamo-il-poderino-nel-Chianti. Da noi ci sono venuti di propria iniziativa, coi maledetti gommoni e in barba ai finanzieri che cercavano di rimandarli indietro. Più che d’una emigrazione s’è trattato dunque d’una invasione condotta all’insegna della clandestinità. Una clandestinità che disturba perché non è mite e dolorosa. È arrogante e protetta dal cinismo dei politici che chiudono un occhio e magari tutti e due. Io non dimenticherò mai i comizi con cui l’anno scorso i clandestini riempiron le piazze d’Italia per ottenere i permessi di soggiorno. Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi. Quelle voci irose che mi riportavano alla Teheran di Khomeini. Non li dimenticherò mai perché mi sentivo offesa dalla loro prepotenza in casa mia, e perché mi sentivo beffata dai ministri che ci dicevano: «Vorremmo rimpatriarli ma non sappiamo dove si nascondono». Stronzi! In quelle piazze ve n’erano migliaia, e non si nascondevano affatto. Per rimpatriarli sarebbe bastato metterli in fila, prego-gentile-signore-s’accomodi, e accompagnarli ad un porto od aeroporto.
Il secondo motivo, caro nipote dello zio con la valigetta di fibra, lo capirebbe anche uno scolaro delle elementari. Per esporlo bastano un paio di elementi. Uno: l’America è un continente. E nella seconda metà dell’Ottocento cioè quando il Congresso Americano dette il via all’immigrazione, questo continente era quasi spopolato. Il grosso della popolazione si condensava negli stati dell’Est ossia gli stati dalla parte dell’Atlantico, e nel Mid-West c’era ancora meno gente. La California era quasi vuota. Beh, l’Italia non è un continente. È un paese molto piccolo e tutt’altro che spopolato. Due: l’America è un paese assai giovane. Se pensi che la Guerra d’Indipendenza si svolse alla fine del 1700, ne deduci che ha appena duecento anni e capisci perché la sua identità culturale non è ancora ben definita. L’Italia, al contrario, è un paese molto vecchio. La sua storia dura da almeno tremila anni. La sua identità culturale è quindi molto precisa e bando alle chiacchiere: non prescinde da una religione che si chiama religione cristiana e da una chiesa che si chiama Chiesa Cattolica. La gente come me ha un bel dire: io-con-la-chiesa-cattolica-non-c'entro. C'entro, ahimé c'entro. Che mi piaccia o no, c'entro. E come farei a non entrarci? Sono nata in un paesaggio di chiese, conventi, Cristi, Madonne, Santi. La prima musica che ho udito venendo al mondo è stata la musica della campane. Le campane di Santa Maria del Fiore che all'Epoca della Tenda la vociaccia sguaiata del muezzin soffocava. È in quella musica, in quel paesaggio, che sono cresciuta. È attraverso quella musica e quel paesaggio che ho imparato cos'è l'architettura, cos'è la scultura, cos'è la pittura, cos'è l'arte. È attraverso quella chiesa (poi rifiutata) che ho incominciato a chiedermi cos'è il Bene, cos'è il Male, e perdio...
Ecco: vedi? Ho scritto un'altra volta «perdio». Con tutto il mio laicismo, tutto il mio ateismo, son così intrisa di cultura cattolica che essa fa addirittura parte del mio modo d'esprimermi. Oddio, mioddio, graziaddio, perdio, Gesù mio, Dio mio, Madonna mia, Cristo qui, Cristo là. Mi vengon così spontanee, queste parole, che non m'accorgo nemmeno di pronunciarle o di scriverle. E vuoi che te la dica tutta? Sebbene al cattolicesimo non abbia mai perdonato le infamie che m'ha imposto per secoli incominciando dall'Inquisizione che m'ha pure bruciato la nonna, povera nonna, sebbene coi preti io non ci vada proprio d'accordo e delle loro preghiere non sappia proprio che farne, la musica delle campane mi piace tanto. Mi accarezza il cuore. Mi piacciono pure quei Cristi e quelle Madonne e quei Santi dipinti o scolpiti. Infatti ho la mania delle icone. Mi piacciono pure i monasteri e i conventi. Mi danno un senso di pace, a volte invidio chi ci sta. E poi ammettiamolo: le nostre cattedrali son più belle delle moschee e delle sinagoghe. Si o no? Sono più belle anche delle chiese protestanti. Guarda, il cimitero della mia famiglia è un cimitero protestante. Accoglie i morti di tutte le religioni ma è protestante. E una mia bisnonna era valdese. Una mia prozia, evangelica. La bisnonna valdese non l'ho conosciuta. La prozia evangelica, invece, sì. Quand'ero bambina mi portava sempre alle funzioni della sua chiesa in via de' Benci a Firenze, e... Dio, quanto m'annoiavo! Mi sentivo talmente sola con quei fedeli che cantavano i salmi e basta, quel prete che non era un prete e leggeva la Bibbia e basta, quella chiesa che non mi sembrava una chiesa e che a parte un piccolo pulpito aveva un gran crocifisso e basta. Niente angeli, niente Madonne, niente incenso... Mi mancava perfino il puzzo dell'incenso, e avrei voluto trovarmi nella vicina basilica di Santa Croce dove queste cose c'erano. Le cose cui ero abituata. E aggiungo: nella mia casa di campagna, in Toscana, v'è una minuscola cappella. Sta sempre chiusa. Dacché la mamma è morta non ci va nessuno. Però a volte ci vado, a spolverare, a controllare che i topi non ci abbiano fatto il nido, e nonostante la mia educazione laica mi ci trovo a mio agio. Nonostante il mio mangiapretismo, mi ci muovo con disinvoltura. E credo che la stragrande maggioranza degli italiani ti confesserebbe la medesima cosa. (A me la confessò Berlinguer).
Santiddio! (Ci risiamo). Sto dicendoti che noi italiani non siamo nelle condizioni degli americani: mosaico di gruppi etnici e religiosi, guazzabuglio di mille culture, nel medesimo tempo aperti ad ogni invasione e capaci di respingerla. Sto dicendoti che, proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un' ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell'altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto dicendoti che da noi non c'è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o male conquistati, la nostra Patria. Significherebbe regalargli l'Italia. E io l'Italia non gliela regalo.

***


Io sono italiana. Sbagliano gli sciocchi che mi credono ormai americana. Io la cittadinanza americana non l'ho mai chiesta. Anni fa un ambasciatore americano me la offrì sul Celebrity Status, e dopo averlo ringraziato gli risposi: «Sir, io all'America sono assai legata. Ci litigo sempre, la rimprovero sempre, eppure le sono profondamente legata. L'America è per me un amante anzi un marito al quale resterò sempre fedele. Ammesso che non mi faccia le corna. Voglio bene a questo marito. E non dimentico mai che se non si fosse scomodato a fare la guerra a Hitler e Mussolini, oggi parlerei tedesco. Non dimentico mai che se non avesse tenuto testa all' Unione Sovietica, oggi parlerei russo. Gli voglio bene e m'è simpatico. Mi piace ad esempio il fatto che quando arrivo a New York e porgo il passaporto col Certificato di Residenza, il doganiere mi dica con un gran sorriso: Welcome home. Benvenuta a casa. Mi sembra un gesto così generoso, così affettuoso. Inoltre mi ricorda che l'America è sempre stata il Refugium Peccatorum della gente senza patria. Ma io la patria ce l'ho già, Sir. La mia Patria è l'Italia, e l'Italia è la mia mamma. Sir, io amo l'Italia. E mi sembrerebbe di rinnegare la mia mamma a prendere la cittadinanza americana». Gli risposi anche che la mia lingua è l'italiano, che in italiano scrivo, che in inglese mi traduco e basta. Nello stesso spirito in cui mi traduco in francese, cioè sentendolo una lingua straniera. E poi gli risposi che quando ascolto l'Inno di Mameli mi commuovo. Che a udire quel Fratelli-d'Italia, l'Italia-s'è-desta, parapà-parapà-parapà, mi viene il nodo alla gola. Non mi accorgo nemmeno che come inno è bruttino. Penso solo: è l'inno della mia Patria. Del resto il nodo alla gola mi vien pure a guardare la bandiera bianca rossa e verde che sventola. Teppisti degli stadi a parte, s'intende. Io ho una bandiera bianca rossa e verde dell'Ottocento. Tutta piena di macchie, macchie di sangue, tutta rosa dai topi. E sebbene al centro vi sia lo stemma sabaudo (ma senza Cavour e senza Vittorio Emanuele II e senza Garibaldi che a quello stemma si inchinò noi l'Unità d'Italia non l'avremmo fatta), me la tengo come l'oro. La custodisco come un gioiello. Siamo morti per quel tricolore, Cristo! Impiccati, fucilati, decapitati. Ammazzati dagli austriaci, dal Papa, dal Duca di Modena, dai Borboni. Ci abbiamo fatto il Risorgimento, col quel tricolore. E l'Unità d'Italia, e la guerra sul Carso, e la Resistenza. Per quel tricolore il mio trisnonno materno Giobatta combatté a Curtatone e Montanara, rimase orrendamente sfregiato da un razzo austriaco. Per quel tricolore i miei zii paterni sopportarono ogni pena dentro le trincee del Carso. Per quel tricolore mio padre venne arrestato e torturato a Villa Triste dai nazi-fascisti. Per quel tricolore la mia intera famiglia fece la Resistenza e l'ho fatta anch'io. Nelle file di Giustizia e Libertà, col nome di battaglia Emilia. Avevo quattordici anni. Quando l'anno dopo mi congedarono dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, mi sentii così fiera. Gesummaria, ero stata un soldato italiano! E quando venni informata che col congedo mi spettavano 14.540 lire, non sapevo se accettarle o no. Mi pareva ingiusto accettarle per aver fatto il mio dovere verso la Patria. Poi le accettai. In casa eravamo tutti senza scarpe. E con quei soldi ci comprai le scarpe per me e per le mie sorelline.
Naturalmente la mia patria, la mia Italia, non è l'Italia d'oggi. L'Italia godereccia, furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in pensione prima dei cinquant'anni e che si appassionano solo per le vacanze all'estero o le partite di calcio. L'Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o una diva di Hollywood venderebbero la figlia a un bordello di Beirut ma se i kamikaze di Usama Bin Laden riducono migliaia di newyorchesi a una montagna di cenere che sembra caffè macinato sghignazzan contenti bene-agli-americani-gli-sta-bene. L'Italia squallida, imbelle, senz'anima, dei partiti presuntuosi e incapaci che non sanno né vincere né perdere però sanno come incollare i grassi posteriori dei loro rappresentanti alla poltroncina di deputato o di ministro o di sindaco. L'Italia ancora mussolinesca dei fascisti neri e rossi che ti inducono a ricordare la terribile battuta di Ennio Flaiano: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Non è nemmeno l'Italia dei magistrati e dei politici che ignorando la consecutio-temporum pontificano dagli schermi televisivi con mostruosi errori di sintassi. (Non si dice «Credo che è»: animali! Si dice «Credo che sia»). Non è nemmeno l'Italia dei giovani che avendo simili maestri affogano nell'ignoranza più scandalosa, nella superficialità più straziante, nel vuoto. Sicché agli errori di sintassi loro aggiungono gli errori di ortografia e se gli domandi chi erano i Carbonari, chi erano i liberali, chi era Silvio Pellico, chi era Mazzini, chi era Massimo D'Azeglio, chi era Cavour, chi era Vittorio Emanuele II, ti guardano con la pupilla spenta e la lingua pendula. Non sanno nulla al massimo sanno recitare la comoda parte degli aspiranti terroristi in tempo di pace e di democrazia, sventolare le bandiere nere, nasconder la faccia dietro i passamontagna, i piccoli sciocchi. Gli inetti. E tantomeno è l’Italia delle cicale che dopo aver letto questi appunti mi odieranno per aver scritto la verità. Tra una spaghettata e l’altra mi malediranno, mi augureranno d’essere uccisa dai loro protetti cioè da Usama Bin Laden. No, no: la mia Italia è un'Italia ideale. È l'Italia che sognavo da ragazzina, quando fui congedata dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, ed ero piena di illusioni. Un'Italia seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto. E quest'Italia, un'Italia che c’è anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade. Perché, che a invaderla siano i francesi di Napoleone o gli austriaci di Francesco Giuseppe o i tedeschi di Hitler o i compari di Usama Bin Laden, per me è lo stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem.
Col che ti saluto affettuosamente, caro il mio Ferruccio, e t'avverto: non chiedermi più nulla. Meno che mai, di partecipare a risse o a polemiche vane. Quello che avevo da dire l'ho detto. La rabbia e l'orgoglio me l'hanno ordinato. La coscienza pulita e l'età me l'hanno consentito. Ma ora devo rimettermi a lavorare, non voglio essere disturbata. Punto e basta.

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2.10

Conferenza di Pace in Medioriente
 

L’Italia e l’Europa per la pace in Medio Oriente

"Conferenza nazionale per la pace in Medio Oriente"

Bologna, 9 – 10 ottobre 2001

Premessa.

"La Perugia-Assisi contro il terrorismo per la riconciliazione tra i popoli" promossa dalla Tavola della Pace, organizza una conferenza a Bologna dal titolo "L’Italia e l’Europa per la Pace in Medio Oriente" al fine di affermare il principio che questo è il momento in cui tutti i popoli e gli stati della Terra si devono unire per costruire un nuovo ordine mondiale fondato sul rispetto della vita e sul ripudio della violenza, del terrorismo e della guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti.

La pace e la sicurezza, basate sul diritto dei popoli e sul legittimo riconoscimento dei loro diritti, vanno perseguite con l’assunzione di responsabilità della società civile e delle sue organizzazioni, cui deve corrispondere un nuovo e diverso impegno degli Stati. Le Nazioni Unite e tutte le istituzioni internazionali e democratiche debbono essere sostenute nella loro azione per mettere fine a tutti i conflitti e alle grandi violazioni dei diritti umani che continuano a insanguinare il mondo. Per rafforzare e garantire la democrazia e la sicurezza è necessaria l’affermazione dei diritti e della legittimità per tutti i popoli della terra.

Il Medio Oriente è da troppi anni teatro di conflitti e luogo di violazione del diritto internazionale. Per la democrazia e la convivenza pacifica di tutti è necessaria una pace giusta e durevole, nel riconoscimento dei reciproci diritti dei popoli che vivono in quell’area, e per ristabilire il diritto e la legalità .

Nel momento in cui si vogliono sconfiggere guerra e violenze non si può disattendere ancora una soluzione giusta che riporti un equa soluzione alla questione palestinese. I palestinesi affermano il loro diritto a vivere da uomini e donne liberi in uno stato proprio, entro confini garantiti internazionalmente, realmente sovrani sul proprio territorio, nel mutuo riconoscimento degli stessi diritti per il popolo israeliano.

Dal 28 settembre 2000 la Palestina è di nuovo teatro di uno scenario opposto, che si sostituisce alle voci delle persone che, dalle due parti, continuano a riaffermare la necessità di un dialogo, di un negoziato per una soluzione equa e duratura.

I rapporti delle varie agenzie dell'Onu, della Banca Mondiale e delle organizzazioni della società civile descrivono le drammatiche condizioni di vita del popolo palestinese. La gravissima crisi in corso e le drammatiche condizioni di vita del popolo palestinese sollecitano un deciso intervento politico e umanitario dell’Italia, dell’Europa e dell’Onu. La società civile e le sue organizzazioni associative debbono promuovere con la propria partecipazione attiva azioni di cooperazione e di solidarietà a tutti i livelli e in tutti i campi.

Per promuovere questo obiettivo, si propone di organizzare una "Conferenza nazionale per la pace in Medio Oriente" da tenersi a Bologna il 9 e 10 ottobre 2001, in occasione e in preparazione della 4a Assemblea dell’Onu dei Popoli e della Marcia per la pace Perugia-Assisi del prossimo 14 ottobre 2001. Il collegamento tra questi eventi consentirà una maggiore amplificazione dei temi e delle proposte al centro della Conferenza.

 

Gli obiettivi.

La "Conferenza nazionale per la pace in Medio Oriente" si propone di:

- riflettere sulla grave crisi in corso e sollecitare il Governo italiano, l’Europa e l’Onu ad assumere tutte le iniziative concrete necessarie per fermare le azioni militari contro le popolazioni civili e delle violazioni dei diritti umani, inviare aiuti concreti alla popolazione palestinese, promuovere la ripresa del negoziato, la completa applicazione degli accordi già sottoscritti e il raggiungimento di un accordo finale basato sulle risoluzioni delle Nazioni Unite;

- promuovere lo sviluppo delle iniziative di solidarietà e cooperazione con il popolo palestinese per affrontare la fase di emergenza che si è aperta con la rottura del processo di pace favorendo la relazione tra soggetti nazionali e internazionali in Europa e in Palestina;

- esprimere il nostro pieno sostegno a tutte le forze di pace che in Palestina e Israele si battono per la costruzione di una pace giusta, basata sul reciproco rispetto dei diritti umani, sulle risoluzioni delle Nazioni Unite e dunque sul principio "Due Stati per due Popoli" con Gerusalemme capitale di entrambi.

Le conclusioni della Conferenza saranno presentate a Perugia, nell’ambito della 4a Assemblea dell’Onu dei Popoli (11-13 ottobre), e saranno rilanciate domenica 14 ottobre durante la Marcia per la pace Perugia-Assisi. I principali ospiti israeliani e palestinesi, dopo essere stati a Bologna, parteciperanno ad entrambi gli eventi insieme agli organizzatori della Conferenza.

 

Programma

Martedì 9 ottobre 2001

10.00 – 10.30 Gli obiettivi della Conferenza

Flavio Lotti Tavola della Pace

10.30 – 12.30 La situazione in Palestina e Israele

prima sessione tematica con interventi degli invitati palestinesi e israeliani

dibattito

12.30 – 14.00 Pausa

14.00 – 16.00 La situazione in Palestina e Israele

seconda sessione tematica con interventi degli invitati palestinesi e israeliani

dibattito

 16.00 – 16.15 Pausa

 16.15 – 18.30 Le proposte e l’impegno della società civile e delle istituzioni locali italiane

Stefano Marini Coordinamento Nazionale Enti Locali per la Pace

Betty Leone CGIL Nazionale

Tom Benetollo ARCI Nazionale

Giulio Marcon ICS

Mario Gay Associazione ONG Italiane

 

Mercoledì 10 ottobre 2001

9.30 – 10.30 L’Italia e l’Europa per la pace in Medio Oriente

sintesi dei lavori e delle proposte emerse durante le due sessioni tematiche

 

Tavola Rotonda

Luisa Morgantini Parlamento Europeo

Enzo Ghigo Coordinamento Presidenti delle Regioni

Leonardo Domenici ANCI

Pierre Galand ECCP Network Europeo

12.00 – 12.15 Pausa

12.15 – 13.00 Conclusioni

Sono previsti interventi di politici, parlamentari, rappresentanti dell’associazionismo italiano e degli enti locali.

ùI promotori:

Tavola della Pace

Piattaforma delle ONG Italiane per la Palestina

Consorzio Italiano di Solidarietà

 

Patrocinio:

Regione Emilia Romagna

Sono stati invitati:

Daphna Golan

Groag Schmulik

Mustapha Barghouthi

Nourit Peled

Rana Nashashibi

Salah Salah

Hanno dato la propria adesione all'iniziativa:

ARCI Emilia Romagna, ARCI Nazionale, Associazione Donne in Nero, Associazione Giorgio la Pira RTM, CGIL, CGIL Camera del Lavoro di Bologna, CGIL Camera del Lavoro Milano, CGIL Camera del Lavoro di Modena, CGIL Camera del Lavoro di Torino, CGIL Piemonte, CGIL Toscana, CISP, COCIS, Comitato Modena incontra Jenin, Coordinamento Nazionale Enti Locali per la Pace, COSPE,CRIC, DI-SVI, FIOM CGIL, Fondazione Terre des hommes, Gruppo dei Socialisti Europei, Gruppo Unitario della sinistra europea - verdi nordici, GVC, NEXUS CGIL, Peace Games, Progetto Sviluppo CGIL, UISP Nazionale.

Per informazioni:

Fabio Artuso

Segreteria Organizzativa c/o Uisp Emilia Romagna, via Riva Reno 75/3, Bologna

tel. 051/233612 – 051 125881

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1.10

L'Islam d'Italia ha paura

Viaggio nell'inquietudine dei 700 mila islamici del nostro Paese

MAGDI ALLAM (La Repubblica, 30 settembre 2001)

ROMA - L'islam d'Italia ha paura. Ha paura per gli sviluppi della guerra che potrebbero provocare delle vittime civili in Afghanistan. Ha paura per i contraccolpi in Italia, il rischio che esploda un razzismo nei confronti dei musulmani. Unanime è la condanna della recente dichiarazione di Berlusconi sulla superiorità della civiltà occidentale. E' un universo di 719 mila persone, compresi i clandestini e i convertiti, di etnie diverse concentrati in maggioranza al Nord e soprattutto in Lombardia. Ma non è un blocco monolitico: tra le sue sei principali anime emergono delle differenze significative. C'è chi considera la crisi come un'eccezionale opportunità per far conoscere il vero islam che nulla ha a che fare con il terrorismo, si sottolinea con soddisfazione il crescente interesse degli italiani per la religione di Allah. C'è chi lancia l'allarme: anche in Italia potrebbe esplodere un'ondata di terrorismo di matrice islamica, i seguaci di Bin Laden ci sono e usciranno allo scoperto. C'è infine una piccola minoranza che si schiera apertamente con i Taliban e difende Bin Laden invocando la Jihad, la Guerra santa, contro l'America.

ISLAM LAICO
La maggioranza dei musulmani in Italia è laica. Solo il 5 per cento frequenta abitualmente le moschee. Younes Tawfik, romanziere e saggista iracheno, è un paladino della laicità dell'islam che, tiene a sottolineare, non è sinonimo di ateismo. E' preoccupato: «Stamani mi ha telefonato da Roma il giornalista iraniano Ahmad Rafat. Mi ha detto che davanti all'edicola un italiano gli ha urlato in faccia: "Vattene via, fuori tutti i musulmani dall'Italia, i musulmani sono tutti terroristi". Ho paura dell'ostilità degli italiani contro i musulmani. Ecco perché sono state inopportune le dichiarazioni di Berlusconi sulla superiorità della civiltà occidentale». Khaled Fouad Allam, islamologo all'università di Trieste, è anch'egli preoccupato: «Ho paura per il rischio di scivolare verso forme di razzismo, non si fa distinzione tra islam e islamismo, tra la religione e un'ideologia politica che strumentalizza la fede». Sul futuro dice che è difficile fare delle previsioni: «In Italia non esiste una comunità musulmana organica. Credo che la reazione alla guerra sarà di pessimismo, ci sarà un ripiegamento su se stessi. Ma non credo che ci sarà della violenza. Quando ci furono i massacri di musulmani in Bosnia, qui in Italia non ci fu alcuna reazione».

ISLAM ECUMENICO
Molti dei convertiti italiani sono attratti dalla mistica sufi e da un islam impegnato nella ricerca dei valori comuni con il cristianesimo. Uno dei suoi più insigni esponenti è Gabriele Mandel, Gran Maestro della confraternita sufi turca JerrahiHalveti: «Vorrei quasi dire che dal male viene il bene. Ho trovato da parte della gente molta più disponibilità e interesse. A Milano il Corano è il libro più venduto, è un bestseller. Molti mi telefonano per dirmi: "Siamo con voi musulmani, non con Berlusconi». Mandel è consapevole che «ci sono degli esaltati ma per fortuna sono una minoranza. Ma l'islam non ha nulla a che fare con il terrorismo». E rivela: «Qui a Milano c'è una cellula attiva di Bin Laden ma nessuno osa dire niente. Se i servizi segreti fossero più attenti, capirebbero».

ISLAM APOLITICO
E' una corrente islamica che sostiene il primato della fede. In Italia è rappresentata da Mohammad Omrani, marocchino e seguace della confraternita Jamaat al Dawa ual Tabligh (Comunità dell'Appello e dell'Annuncio): «Noi non ci occupiamo di politica in alcun modo. Noi rispettiamo le leggi italiane. Certamente sono preoccupato, chiediamo a Dio la sua misericordia, noi non vogliamo la guerra né contro i musulmani né contro altri». E se dovesse esplodere la guerra? «Noi non vogliamo che nessun musulmano in Italia violi le leggi dello Stato», dice con tranquillità, «chi non è d'accordo se ne torni nel suo paese».

ISLAM ORTODOSSO
E' l'islam attivo sulla promozione del culto islamico nel rispetto delle leggi italiane. Omar Camiletti, italiano convertito all'islam, segretario della Lega musulmana mondiale, è ottimista: «Vedo interno a me molta più simpatia e calore, da parte degli italiani c'è una maggiore riflessione sull'islam». Il pericolo, per Camiletti, si annida all'interno dell'islam italiano: «Bisogna tagliare i ponti con l'islam settario e violento che si considera tutore della verità. Mi riferisco ai nostri fratelli dell'Ucoii. Bisogna rompere senza indugi con l'ideologia che alimenta il fanatismo». Abdul Hadi Palazzi, dell'Associazione musulmani italiani, facendo anche lui riferimento all'Ucoii, denuncia «la presenza in Italia di un'area islamica che legittima il terrorismo. Ci stiamo rendendo conto che le basi dell'integralismo terroristico sono più forti in Occidente che non negli stessi paesi musulmani».

ISLAM POLITICO
E' l'islam che controlla la maggioranza delle moschee e che fa principalmente riferimento all'Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia). Il suo presidente Nur Dachan, di origine siriana, è conciliante: «Vorrei tranquillizzare gli italiani, noi musulmani saremo i primi a difendere l'Italia. Siamo contro tutte le stragi: quelle di New York e Washington ma anche quelle di Sabra e Chatila». Il segretario dell'Ucoii, Hamza Piccardo, sviluppa così questo concetto: «Siamo contro tutti i terrorismi, compreso quello di Israele e degli Stati Uniti. Noi siamo musulmani italiani, non siamo americani». E fa una considerazione interessante: «Ho fatto un minisondaggio interpellando un centinaio di fratelli. Ho chiesto loro: cosa pensate dell'eventuale aggressione americana contro l'Afghanistan? Il 99 per cento non ha avuto dubbi: sarebbe pari a un'aggressione alla nazione islamica. Ma ciò non vuol dire che ci sarebbe una reazione violenta qui in Italia».

ISLAM RIVOLUZIONARIO
Solo una minoranza dei musulmani italiani si riconosce nell'islam rivoluzionario che predica la Jihad intesa come Guerra santa. Aisha Barbara Farina, curatrice dell'opuscolo Al Mujahidah (La combattente islamica), emerge come uno dei suoi esponenti di punta. L'ultimo numero è dedicato proprio ai Taliban e a Bin Laden. Vi si legge: «Poiché shaykh Usama bin Laden è uno dei pochi musulmani abbastanza coraggiosi da accusare apertamente gli Usa e Israele dei loro crimini, è facile gioco puntare il dito contro di lui ogni volta che accade qualcosa ad un americano o ad un israeliano. Questi nemici dell'Islam non hanno ancora capito che se spudoratamente si ammazzano innocenti civili, tra il miliardo e 200 mila musulmani, prima o poi qualcuno di questi oppressi si vendicherà contro i soldati dei Paesi che li opprimono». Al cellulare dalla sua abitazione a Carmagnola, provincia di Torino, risponde prima il marito, l'imam senegalese Abulqadir Fall Mamour: «Noi siamo fieri di essere con i nostri fratelli. Siamo sempre fedeli al patto. Siamo con i Taliban. Siamo contro l'America qualunque cosa succederà». Interviene Barbara: «Non è stato Bin Laden. Noi cercheremo in tutti i modi di stare dalla parte dell'Afghanistan. Speriamo che Dio ci dia la forza di combattere, anche con la parola, questo è il nostro piccolo Jihad».

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