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31.10 |
Mettere
le mani sulla libertà - Intervista a Massimo Cacciari
Duemilauno. Politica e futuro (Feltrinelli, 2001) è un libro nel
quale Massimo Cacciari, a colloquio con Gianfranco Bettin, ragiona
sulla crisi del nostro tempo e sui grandi problemi d'identità e
di azione politica che sfidano oggi la ricollocazione
dell'"homo democraticus". La globalizzazione, la
sicurezza, il multiculturalismo, l'innovazione tecnologica, il
lavoro, i partiti, la Rete, diventano occasione per una
riflessione disincantata ma non pessimista.
Professor Cacciari, la drammatizzazione della realtà in questi
giorni pare segnare davvero una sconfitta della politica, forse
anche l'annuncio di una sua fine.
No, certamente non la fine. Piuttosto, la detronizzazione della politica.
Ma
nelle società democratiche la "detronizzazione"
comporta il rischio di un'asfissia della democrazia.
Sì, ma questo processo mi pare che vada definito come un declino del Politico verso una prepotente supremazia del Tecnico e dell'Economico. Però starei ben attento a credere che la depoliticizzazione della società e delle sue norme sia un prodotto dell'avvento digitale e di Internet. La visione di un tramonto della politica - o della sua "inutilità - è essenzialmente politica, e fa comunque parte di una corrente del pensiero europeo che si esprime compiutamente già all'inizio dell'Ottocento, nell'ambito della elaborazione del pensiero liberale. Però quel processo avviene ora in un contesto che ne modifica, inevitabilmente, la natura e soprattutto l'identità ideologica. L'ipotesi della depoliticizzazione è sorretta da una precisa volontà politica. Vorrei dire che far passare l'immagine dello Stato come macchina organizzativo-burocratica, declassando la politica al ruolo di una amministrazione ("efficienza, nell'interesse del cittadino"), è il messaggio più forte che viene comunicato da questa volontà. Quindi non più conflitti, ma l'armonizzazione efficientista all'interno di un "pensiero unico". Parlavo, infatti, della nuova supremazia del Tecnico e dell'Economico. Scientificizzazione e burocratizzazione riducono. fino ad annullarlo, lo spazio della politica. E se i grandi drammi del secolo scorso avevano ridato spazio e qualità al confronto, al conflitto ideologico, alla contrapposizione schmittiana amico/nemico, dopo l'89 questo spazio si chiude. Non è che la storia finisca, come dice invece Fukuyama; la storia piuttosto celebra un vinto e un vincitore. E in questo spazio ridotto, prevale una nuova identità dello Stato. Prevale una concezione che subordina la politica, spoliticizzandola, alle infinite meraviglie che offre la tecnologia. La depoliticizzazione è immanente all'idea stessa dello Stato contemporaneo, il cui fine è la costituzione di una struttura tecno-burocratico-razionale dove i cittadini siano isolati - chiusi ciascuno nel proprio "particolare" - e tutti i corpi intermedi siano soltanto organizzazioni sindacali d'interesse o strutture che non disturbino l'efficienza produttiva dello Stato.
Siamo
già avanti, su questo percorso?
Si insedia una forma di capitalismo autopropulsivo che trova la propria legittimazione nell'aderenza alla "scientificità" della tecnica, e che, però, si manifesta refrattario a qualsiasi sorta di governo, o di controllo. Ma questo non vuol dire affatto che la politica abbia esaurito le proprie possibilità, occorre saper esprimere una dialettica nuova, una nuova cultura. Quale? Un'idea della politica nella quale, come dice Machiavelli, "il popolo torni a metter le mani sulla sua libertà". C'è una crisi evidente del modello liberista puro, per quanto oggi sia il vincitore; bisogna lavorare a creare uno spazio nuovo, corretto, del federalismo, recuperando la tradizione di Montesquieu, Tommasea, Cattaneo.
Ma
federalismo e globalizzazione, come combinarli?
Le grandi culture, le grandi civiltà, non possono essere antiglobaliste, sono globaliste per vocazione. Una battaglia antiglobalista è stupida, perdente. Ma una globalità senza polarità al proprio interno non è un globo, è un piatto deserto.
I
poli. Ritorna dunque il concetto del confronto, del conflitto.
Questo non è un problema astratto, la demonizzazione del confronto è patrimonio soltanto dei pasdaran del liberismo. Sono evidenti - anche nei fatti tragici della realtà d'oggi - le reazioni che vengono da tutte le culture, che si oppongono al linguaggio unico segnato dal dominio di una visione autoreferenziale dello Stato, come se questo fosse un'entità astratta, asettica, e non l'espressione di valori, idee, scelte.Quello che prevale oggi non è la globalizzazione, è l'omologazione.
Eppure
la Rete sembra poter affermare la cultura della diversità, della
differenziazione.
La Rete esprime simbolicamente le contraddizioni della globalizzazione. Da una parte, è strumento per la comunicazione d'informazioni (e questa è la sua valenza orizzontale, quantitativa), ma dall'altra manifesta le più ampie potenzialità di liberazione individuale.
Potenzialità che, però, sembrano ancora tutte da sviluppare.
In questa prima fase, la Rete sta globalizzando la subordinazione di massa, risucchia l'interiorità all'interno del lavoro. Lo specchio del mondo e la fabbrica virtuale sono le due facce di una identità da definire, occorrerebbe davvero creare un "Manifesto della Rete". Mi pare comunque che gli effetti di spiazzamento delle nuove tecnologie non siano non si siano ancora manifestati che in minima parte.
E
questo diventa particolarmente pericoloso in un contesto storico
nel quale la forma dello Stato pare fissarsi nel modello di una
"democrazia procedurale".
Per questo, parlo di forme nuove della politica, perfino di un nuovo lessico. Altrimenti diventa consensuale la forma di una "democrazia senza cittadini".
Quali
sono le forme nuove della politica?
Mi chiederei anzitutto quali possano essere i soggetti di una politica nuova. E allora io penso, per esempio, all'Europa, ma certo non nella sua forma attuale di area di sviluppo economico-commerciale. Solo che dal punto di vista politico, mi pare che la scelta fatta fin'ora sia quella di un modello che ricalca la storia della formazione degli Stati nazionali: temo che una simile proposizione non ci porti da nessuna parte. La democratizzazione come parlamentarizzazione non ha futuro.
Qual'è
il modello alternativo?
Esiste, certamente, una cultura europea, ma l'idea di un unico popolo europeo è fantapolitica. Proporre il progetto di un Parlamento eletto da tutti i popoli europei mi pare una cosa che non funzioni. L'uscita credo che si possa trovare soltanto con una rielaborazione del progetto federalista, da Cattaneo a Spinelli. L'obiettivo dev'essere una vera Confederazione, come quella elvetica, come la nordamericana.
Crisi
della democrazia, del parlamentarismo, ma anche della sinistra.
La sinistra paga drammaticamente la propria incapacità a seguire le trasformazioni della società, resta tuttora ancorata a forme ed egemonie che oggi non esprimono più contenuti significativi di realtà. Ci sono nuove figure sociali che prescindono dal vecchio catalogo e che però non vengono usate, non sono tutelate (penso ai "Netslaves"), né promosse. Nell'inerzia della politica, bloccata ancora nelle forme tradizionali e nelle ideologie, il ritardo della sinistra, che non ha saputo riparare l'erosione della propria base sociale, è evidente. Non è affatto vero che siamo diventati tutti capitalisti e grassi borghesi.
E la
destra?
Beh, ci sono due destre. C'è quella che ha stravinto, d'impronta neoliberista, e poi c'è l'altra - sociale, leghista, localista - che però è stata battuta, sconfitta, perduta nei suoi riferimenti culturali, che non contano più niente.
Ma,
almeno nella politica italiana, manca comunque un terreno comune
di confronto.
Questo è il paese che dalla consociazione è passato alla dissociazione, che non è capace di elaborare una forma di associazione, un ethos comune. Soltanto la definizione di un patto comune può consentire lo sviluppo di una reale competizione. una competizione a tutto campo, come quella tra patrizi e plebei che fece grande Roma. Intanto, la destra ha vinto. Ma è una vittoria di Pirro. La destra cavalca l'onda forte del neoliberismo, ma si ritrova con tutti i problemi di prospettiva irrisolti. La crisi della sinistra appare, anch'essa, lontana da una soluzione. Questo problema, però, non è solo italiano. E non è, poi, che tutti passiamo il nostro tempo davanti alla tv. (L'Indice n° 10 - ottobre 2001)
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30.10 |
Israele:
pronti ad usare l'atomica
Lo dice Avi Pazner, portavoce del governo Sharon-Peres M.M.
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30.10 |
L'avversario
di Ignacio Ramonet
Era l'11
settembre. Distolti dalla loro missione ordinaria da piloti pronti a
tutto, gli aerei si scagliano verso il cuore della grande città per
abbattere i simboli di un sistema politico inviso. Tutto accade in
un lampo: deflagrazioni, facciate che saltano in aria, crolli di
edifici in un fracasso infernale. I superstiti atterriti fuggono
coperti di calcinacci e di polvere.
I media
trasmettono la tragedia in diretta…
New
York, 2001? No, Santiago del Cile, 11 settembre 1973. Colpo di stato
del generale Pinochet, con la complicità degli Stati Uniti, contro
il socialista Salvator Allende, e bombardamento a tappeto del
palazzo presidenziale, che provoca decine di morti e instaura per
quindici anni un regime di terrore…
Al di là
dei legittimi sentimenti di compassione per le vittime innocenti
degli odiosi attentati di New York, come non convenire che gli Stati
Uniti non sono - non più di qualunque altro - un paese innocente?
Non hanno forse partecipato ad azioni politiche violente e spesso
clandestine in America latina, in Africa, in Medioriente, in Asia?
Portandosi dietro una tragica scia di morti, di
"desaparecidos", di torturati, incarcerati, esiliati…
L'atteggiamento dei dirigenti e dei media occidentali, che fanno a
gara nel mostrarsi filoamericani, non può farci dimenticare una
crudele realtà: in tutto il mondo, e in particolare nei paesi del
Sud, il sentimento che più spesso si è sentito esprimere
dall'opinione pubblica in occasione di questi condannabili attentati
si può riassumere nella frase:
"E'
un fatto tristissimo, certo, ma non è un caso che sia capitato a
loro!"
Per
comprendere una reazione del genere forse non è inutile ricordare
che già durante tutto il periodo della "guerra fredda"
(1948-1989) gli Stati Uniti avevano portato avanti una
"crociata" contro il comunismo. La quale ha assunto talora
le dimensioni di una guerra di sterminio : migliaia di comunisti
liquidati in Iran, duecentomila oppositori di sinistra soppressi in
Guatemala, quasi un milione di comunisti uccisi in Indonesia…Le
pagine più atroci del libro nero dell'imperialismo americano sono
state scritte nel corso di questi anni, segnati per di più dagli
orrori della guerra del Vietnam (1962-1975).Era, già allora,
"il Bene" in lotta contro "il Male". Ma
all'epoca, secondo Washington, sostenere i terroristi non era
necessariamente immorale. Tramite la Cia, gli Stati Uniti
predisposero attentati in luoghi pubblici, dirottamenti di aerei,
sabotaggi e assassini. A Cuba contro il regime di Fidel Castro, in
Nicaragua contro i Sandinisti, in Afghanistan contro i sovietici.
Proprio qui, in Afghanistan, con il sostegno di due stati tutt'altro
che democratici - l'Arabia Saudita e il Pakistan - negli anni '70
Washington incoraggiò la creazione di brigate islamiste reclutate
nel mondo arabo - musulmano e composte da quelli che i media
chiamavano "freedom fighters", combattenti per la libertà.
Come è noto fu in quelle circostanze che la Cia ingaggiò e formò
l'ormai celebre Osama bin Laden.
Dal 1991
gli Stati Uniti si sono insediati nella posizione di unica
iperpotenza, emarginando di fatto le Nazioni Unite. Avevano promesso
di instaurare un "nuovo ordine internazionale" più
giusto, nel cui nome hanno condotto la guerra del Golfo contro
l'Iraq. Ma non per questo hanno receduto da una posizione di
scandalosa parzialità a favore d'Israele, a discapito dei diritti
dei palestinesi (si legga Alain Gresh "Israel, Palestine. Vérités
sur conflit" Fayard, Paris 2001).
E per di
più, nonostante le proteste internazionali, hanno mantenuto contro
l'Iraq un embargo implacabile che non ha scalfito il regime ma
provoca la morte di migliaia di innocenti. Tutto questo ha lasciato
il segno sull'opinione pubblica del mondo arabo - musulmano,
facilitando la formazione di un terreno di cultura sul quale ha
potuto espandersi l'islamismo antiamericano.
Come il
dottor Frankenstein, gli Stati Uniti vedono ora la loro creatura di
un tempo - Osama bin Laden - rivolgerglisi contro con demenziale
violenza. E si apprestano a combatterlo con l'appoggio dell'Arabia
Saudita e del Pakistan, i due stati che in questi ultimi trent'anni
hanno dato il maggior contributo alla diffusione delle reti
islamiste nel mondo intero, talora anche con metodi terroristici!
Gli
uomini che circondano il presidente George W. Bush, da veterani
della guerra fredda, non sono certo scontenti di questi sviluppi.
Come per miracolo, grazie agli attentati dell'11 settembre hanno
infatti recuperato un fattore strategico di importanza primaria, del
quale il tracollo dell'Unione sovietica li aveva privati per un
decennio: un avversario. Finalmente! Sotto il nome di terrorismo,
questo avversario designato, come ognuno avrà compreso, è ormai
l'islamismo.
A questo
punto sono possibili tutti i più temuti sbandamenti. Compresa una
moderna versione del maccartismo, con gli avversari della
globalizzazione come bersaglio. L'anticomunismo vi era piaciuto?
L'anti-islamismo vi entusiasmerà!
(Le Monde diplomatique" n.10 anno VIII ottobre 2001 allegato al "Manifesto" )
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29.10 |
La
C.I.A. e l'estremismo islamico
La Cia e l'estremismo islamico: un'alleanza boomerang «Dall'accordo "afghano" anni '70 agli attacchi anti-Usa degli ex "alleati" fu l’alleanza stretta dalla Cia con gli estremisti islamici contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan a spianare la via al terrorismo degli integralisti musulmani che, ironia della storia, ultimamente colpisce direttamente proprio gli interessi americani, negli Stati Uniti e altrove». John K. Cooley, giornalista e scrittore, attualmente corrispondente da Atene di Abc News, non ha dubbi e nel suo volume Una guerra empia. La Cia e l’estremismo islamico (Elèuthera, luglio 2000, pp. 399, lire 35 mila) documenta in modo dettagliato i vari passaggi di questa pagina di storia cominciandone la ricostruzione ben prima di quel 1979 che vide gli Stati Uniti avviare un rapporto stretto con i terroristi in funzione antisovietica. Cooley, tra l’altro, spiega che gli Usa, per mano della Cia e con la collaborazione fattiva di Pakistan, Arabia Saudita e Cina, armarono, addestrarono e finanziarono 250 mila mercenari islamici di ogni parte del mondo. «Gli analisti occidentali, nei loro pensatoi, e i servizi di controspionaggio di Washington, Londra, Parigi e Roma si chiedevano: chi è il principale nemico del nostro nemico, il comunismo? In che modo potrebbe aiutarci? E, nello stesso tempo, come possiamo contrastare i leader del terzo mondo e le loro dottrine, che consideriamo al servizio del comunismo?», scrive l’autore. E poi spiega come si avviarono i contatti con personalità degli stati islamici e arabi più conservatori. «Fu così - scrive Cooley - che ebbe inizio quello che in un primo tempo era un semplice flirt tra gli Usa e l’Islam e che si esprimeva con un sostegno moderato e prudente, in genere occulto, agli attivisti politici "islamisti"». L'autore sostiene che sulla scorta di questi nuovi contatti, Gli Usa e alcuni alleati, finanziarono «una serie di guerre per procura» in Africa e in Asia, contro i propri avversari, spesso alleati veri o supposti di Mosca. Quando il Cremlino guidato da Breznev decise l’invasione dell’Afghanistan nel 1979, la Casa Bianca di Carter vide nell’iniziativa una minaccia all’equilibrio mondiale ma anche una buona occasione per «assestare un colpo decisivo al già vacillante impero sovietico nell’area a nord dell’Afghanistan». Fu così che quella che Cooley definisce «love story» fra gli Usa e l’islamismo ebbe un nuovo «sussulto di passione» con l’alleanza tra la dittatura militare pakistana, d’ispirazione islamica, e gli americani. Dieci anni dopo l’Armata rossa sarà sconfitta e le vicende afghane daranno un colpo duro all’intero impero sovietico ormai al collasso. Nel frattempo, in Afghanistan il movimento dei Talebani, favorito da Pakistan e Arabia Saudita, conquisterà il potere e lo gestirà in modo liberticida terrorizzando la popolazione nel nome di un’interpretazione severa dell’islamismo sunnita. Ma il grande movimento mercenario messo in moto dagli Usa avrà effetti anche fuori dei confini afghani. I Talebani e l’orrore che seminano è solo una delle conseguenza. Le altre toccheranno direttamente anche gli americani: alle tensioni destabilizzanti in Egitto (attacchi ai turisti e agli autoctoni), Cecenia, Algeria e altri paesi, infatti, si affiancano gli attentati tragici al World Trade Center e alle ambasciate americane di Nairobi (1998, 247 morti, 12 cittadini Usa) e di Dar-es-Salaam (dieci morti, cento feriti). E così il terrorismo islamico e la sua eminenza grigia, Usama bin Laden, da protetti alleati degli Stati Uniti diventano i principali nemici della Cia e della Casa Bianca. http://www.kontrokultura.org/archivio/cia_islamici.html
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29.11 |
Qualche
dubbio lecito - Controvento
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27.10 |
Italiani
perseguitati negli USA dopo l'11 settembre
The harassment of Italians during World
War II has particular relevance today and serves as a warning of
what could RePorterNoteBook@aol.com
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26.10 |
Il
meglio del peggio del sito www.virusilgiornaleonline.com
Una straordinaria antologia
di normale follia da terzo millennio.
C'e' Z''L (che Dio abbia in gloria il ricordo del sapiente religioso) aggiunto al nome di quell'inqualificabile individuo che chiedeva l'espulsione di tutti i palestinesi ("zecche" e "parassiti") dalla loro terra in nome della Bibbia in cui lui nemmeno credeva (cfr. www.arabcomint.com); c'e' Pannella che si e' tolto la divisa dell'esercito croato (vi ricordate la terrificante foto?), indossa la bandiera USA e sostiene di essere antipacifista quanto lo era nel 1938 (?), c'e' una vergognosa entita', presumo forzitaliota, che si fa chiamare "Toscanalibertaria", c'e' il Risveglio Spirituale di Prato, c'e' Veneto Liberale (che non so se ama o odia Toscanalibertaria), c'e' una che piange di commozione quando legge Oriana Fallaci, c'e' gente che giura che d'ora in poi berra' solo Coca Cola e c'e' una incredibile "progressiva breznevizzazione" dell'Italia. Sento quella calda aria di pazzia che si percepiva in un lontano gennaio del 1933, tra le nevi di Berlino. E un enorme desiderio di trovarmi su un altro pianeta, ancora piu' lontano di quello dei raeliani.
Firmato: l'Antilibertario
1) Falso TG1,
Rahman Zeevi Z"L- non
ha mai avuto la testa rasata.
Gentili Signori, ho
sentito come il TG1 ha commentato l'assassinio del ministro
israeliano Rahman Zeevi, detto Gandhi.
La giornalista ha detto
"Il ministro assassinato era chiamato Gandhi in
contrapposizione alle sue idee estremiste di destra e perchè da
giovane portava gli occhiali neri e la testa rasata". Il
Ministro Zeevi Z"L portava gli occhiali perchè era molto
miope, portava gli occhiali da sole perchè in Israele la luce
fortissima ed è bene usarli. Non ha mai avuto la testa rasata - ma
una bellissima capigliatura soprattutto quando era giovane. Veniva
da tutti affettuosamente detto Gandhi perchè in effetti e
comprensibilmente non era un amante dei terroristi e di Arafat di
cui ha detto la famosa frase: "Non conosco al mondo cosa
peggiore di Jasser Arafat". Era uomo di destra, è vero,
persona dolcissima, valoroso soldato e amante del suo Paese.
Era una persona
squisita e onesta oltre che simpaticissima e umana. Farlo passare
per skinheads mi è sembrato fazioso e irriverente. Credo che alla
memoria di Rahman Zeevi dovebbero andare le scuse della RAI. Deborah
Fait.
2)
Amiche ed amici, vi giro questa lettera di
Deborah Fait alla RAI.
Penso che la
maggior parte dei giornalisti italiani, quando parla di Israele,
abbia un retropensiero, rigido come un riflesso condizionato,
che li spinge a pensare che in fondo gli Israeliani - specie se
di destra e se non si fidano di Arafat - si meritano
di essere uccisi
dagli arabi militanti nelle diverse organizzazioni palestiniste.
Questo retropensiero è disumano ed ha radici nella formazione
del pensiero totalitario: la menzogna diventa verità; non solo
si fa il male, ma si pretende che sia chiamato e stimato come
bene; l'altro non è un nemico con cui battersi, perdendo o
vincendo, ma un alieno da annientare... E così via.
Mauro Vaiani.
3)
Noi siamo Israeliani, solidarietà
ad Israele.
Su
iniziativa di Italian Honest Reporting, di associazioni e
gruppi di cittadini, domenica 14 ottobre si terrà a Milano, piazza
Cordusio ore 11, una manifestazione di solidarietà con
Israele. Ad un mese dagli attentati in America, omaggio alle
vittime
e si esprimerà
solidarietà agli Stati Uniti ricordando Israele sotto
l'attacco di governi e gruppi fanatici ed estremisti dalla sua
indipendenza nel '48. Nazionalismo e socialismo panarabo sono
i padri del totalitarismo sempre più estremista e
fanatico di
Al Qaeda e degli
altri terroristi arabi. La vita, le conquiste civili e
sociali, l'economia e la scienza di Israele sono la prova che
la libertà è l'unica strada verso la prosperità, la
cultura, la pace. Una prova talmente stridente con quel museo
degli orrori che sono gli stati arabi mediorientali, che i
capi, gli amici e i non nemici del terrorismo totalitario oggi
vorrebbero cancellare con ancora più violenza di quanto i
loro padri nazionalisti e socialisti arabi ne usarono per
tentare di stroncarla sul nascere. Israele
è uno stato di
diritto e l'unica democrazia del Medio Oriente. E'una
terra dove ci sono la libertà religiosa, il rispetto per le
origini e le tradizioni, il pluralismo linguistico e
culturale, rispetto per le diversità psicologiche e sessuali,
laicità delle istituzioni e uguaglianza di fronte alla legge.
Toscanalibertaria groups.
4)
Miracolo a Milano.
Ho
trovato un piccolo report del buon esito della
manifestazione di p.za Cordusio a Milano.
Sono molto
felice di aver portato una testimonianza di solidarietà
e amicizia con Israele dalla Toscana, da Insieme per Prato,
dal suo gruppo di studio Toscana Libertaria. Credo che
momenti pubblici, per strada, in cui si riproponga la
semplice verità
che la pace può
nascere solo con la sconfitta del terrorismo e dell'odio e
che Israele deve vivere sicura, siano necessari.
Appoggio quanti
propongono di ripetere un momento come quello di Milano a
Livorno, città in cui il conformismo e la pigrizia
culturale hanno permesso a vere e proprie menzogne
totalitarie di diventare verità per tante persone... ma
anche città in cui è
in atto o è
possibile un risveglio cultural, civile e spirituale. Mauro
Vaiani, Prato.
5)
Franco Dell'Alba
dice che sei l'unica voce fuori dal
coro.
No, non
sei l'unica. Sul sito di Veneto Liberale, ho
sostenuto una lunga discussione sugli errori della
politica israeliana:
una
discussione inutile perchè i miei interlocutori erano
trasportati da una adesione incondizionata e acritica
(ovviamente
sulla
questione dell'esistenza, nella sicurezza, dello Stato
d'Israele, anch'io sono per un'adesione altrettanto
incondizionata), oltre che da fattori emozionali (Israele
ha sempre e comunque ragione!), verso la politica
israeliana della destra al potere.
Così, per il
fatto di non schierarmi acriticamente verso la politica
della destra Israeliana, io, che sono un irriducibile
amico di Israele e degli israeliani, sono passato per loro
nemico. Anche lì, i miei interlocutori non sono
tutti della mia stessa opinione,
ma almeno la
discussione ha assunto toni di confronto scevri da ogni
oltranzismo emozionale. Vittorio Vivona.
6)
Bandiere americane e israeliane.
Siamo
antipacifisti oggi come nel '38 e sull'attacco Usa,
1. i Radicali lo approvano e hanno manifestato
davanti all'ambasciata americana a Roma, 2. Emma
Bonino ha dichiarato: non ci sono alternative alle
armi, ma attenzione alla santa alleanza. 3.
Marco
Pannella: noi siamo anti-pacifisti oggi come lo
eravamo nel 1938, quando i pacifisti sostenevano un
criterio di equidistanza da tutti. "Viva gli
Usa. C'è chi le bandiere americane le brucia e c'è
chi le alza". Con Bonino, Pannella,
Capezzone, Taradsh e una cinquantina di radicali
abbiamo manifestato a sostegno della politica
statunitense e dell'attacco militare in Afghanistan.
Abbiamo anche esposto uno striscione raffigurante le
bandiere di Usa, Isreaele e il simbolo radicale con
Gandhi, mentre molti sventolavano la bandiera a
stelle e strisce e il vessillo della Gran Bretagna.
Emma Bonino ha lodato Tony Blair, criticato la
posizione 'defilata' dell'Italia ed ha sottolineato
che ora Berlusconi "soffre del feedback della
gaffe sulla superiorita' dell'Occidente
sull'Islam". Capezzone, segretario dei
radicali, ha affermato che "in Italia il
governo è timidissimo e l'opposizione è
stradivisa, con gli ultrà Agnoletto, Casarini e
Bertinotti scatenati su tutte le tv". Yascha
Reibman.
7)
Santoro,
rileggiti Martin Luther King.
Vi
prego di dedicare 5 minuti di tempo
all'articolo di Maria Giovanna Maglie apparso su
Il Giornale del 7/10/2001.
Non
possiamo non sapere. Leone
Paserman, presidente della Comunità ebraica di
Roma, incontrerà il senatore Claudio
Petruccioli, presidente della
Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai in
merito alla trasmissione di Michele Santoro
sul Medio Oriente (puntata
del 28
settembre) ed io esprimo massima solidarietà
al Presidente Paserman. Trasmissioni come quella di
Michele Santoro sul Medio Oriente ledono
il diritto costituzionale dei cittadini
italiani a essere informati e non
disinformati.
Nessuno
nega al conduttore il diritto ad avere le proprie
opinioni, ma dovrebbe dare la possibilità
anche a chi non la pensa come lui di esprimersi.
Tornano alla mente, purtroppo, parole che vorremmo
superate e che Michele Santoro dovrebbe rileggere.
Quelle di Martin Luther King: 'Dite che non odiate
gli ebrei e che siete solo antisionisti.
E io
rispondo: dite la verita! Quando la gente attacca i
sionisti in realtà intende gli ebrei. Cos'è
l'antisionismo?
E'
negare al popolo ebraico un diritto fondamentale che
vogliamo veder riconosciuto ai popoli dell'Africa e
di tutto il mondo".
Yasha
Reibman, consigliere regionale Radicali - Lista
Bonino.
8)
Allora coraggio,
facciamo un bel passaparola
e
manifestiamo a Milano! Intervenite numerosi con le
vostre bandiere d'Israele! Bereny.
"Dite che non odiate gli ebrei e che siete solo antisionisti. E io rispondo: dite la verità! Quando la gente attacca i sionisti in realtà intende gli ebrei. Cos'e' l'antisionismo? E' negare al popolo ebraico un diritto fondamentale che vogliamo veder riconosciuto ai popoli dell'Africa e di tutto il mondo." (Martin Luther King).
9)
Il "Buon"
Libano fondamentalista.
Non
dimentichiamoci del buon Libano, di cui nessuno
parla, pur essendo sicuramente fondamentalista
quanto la patria dei talebani. Endrio.
10)
Da oggi cambia tutto:
Bevo solo Coca Cola e mangio solo
Americano.
Avevo
deciso di non scrivere sui fatti d'America.
Leggendo tanti pennivendoli che si fanno seghe
mentali per trovare giustificazioni ad un branco
di assassini senza scrupoli pensavo che non ne
valesse la pena. Ma ho cambiato idea.
L'articolo
della Fallaci e quello di Guzzanti mi hanno
fatto uscire dal torpore. Bisogna urlare in
faccia ai protettori degli assassini che sono un
branco di vigliacchi ignoranti indegni di stare
nel consesso degli umani. Chi difende o cerca di
giustificare un atto tanto barbaro come la morte
di seimila persone innocenti merita
l'ostracismo. Difendersi dietro ad un premio
internazionale o alla tessera di parlamentare è
inqualificabile. Non sono mai stato
filoamericano, non sono mai entrato in un
Mc'Donald, non ho mai comprato scarpe e felpe
USA, non ho mai bevuto Fanta o Coca Cola (come fanno
i sinistri illuminati-pacifisti).
Da
oggi cambia tutto: Berrò solo Coca Cola e
mangerò solo Americano. Sono stanco di sentire
e di leggere dei poveri del mondo, uccisi ed
affamati dall'occidente ricco e globalizzatore.
Sono stanco di vedere sceicchi ultramiliardari
che non spendono un centesimo per il loro popolo
e chiedono aiuti umanitari a chi asassinano
proditoriamente.
Sono
stanco di sentir parlare di mine antiuomo
costruite in Italia per uccidere i bambini del
terzo mondo. Ma gli AK 47 chi
li fabbrica, Berlusconi? Le mine chi
le piazza, Bossi? La guerra santa chi
l'ha dichiarata, Fini? No cari amici, basta
menzogne.
La
Fallaci, donna di sinistra, si è schierata con
il mondo civile, seguiamo l'esempio e
mettiamo una patata bollente in bocca
ai
"pacifisti illuminati" così diranno
meno corbellerie. Pier Luigi de Piccoli.
11)
L'articolo
di Oriana Fallaci è soprattutto in un punto:
dire che il re è nudo.
L'islamismo
politicizzato e terrorista è una galassia di
organizzazioni moderne, ricche,
dotate di armi e tecnologie avanzate e
uomini che hanno una determinazione a
distruggere. Non sono poveri, miserabili,
vittime dell'Occidente. Se la sinistra
continua a considerarli degni di tutela
politica, o ad attribuire loro dignità
di interlocutori politici, rischia
l'implosione e l'impotenza. Non sono avversari
dell'occidentalizzazione, della
modernizzazione, della globalizzazione. Sono
il frutto dell'occidentalizzazione, della
modernizzazione, della globalizzazione. Anzi
di quello che è uno dei lati oscuri della
nostra civiltà: il totalitarismo. Sono
gli epigoni del totalitarismo, della conquista
organizzata del potere assoluto da parte di
fazioni settarie e crudeli. Essi ci odiano, ci
calpestano, ci uccidono. Odiano,
calpestano e uccidono ancora di più gli
Arabi, intesi come le persone, le tribù,
i popoli e le culture che vivono nei paesi
della Lega Araba (molto diversi da loro ma che
l'internazionale del terrore cercherà di
trasformare in una massa unica, omogenea,
conformista, unita da una sola lingua e da un
solo pensiero, come i totalitarismi che
li hanno preceduti). Probabilmente hanno
l'obiettivo di prendere il potere in uno o più
stati arabi, magari a
cominciare dal Pakistan e da lì, aggredire
gli altri stati islamici uno ad uno; poi
i paesi non totalmente islamici; e poi, chissà, tentare
la conquista del mondo. Deve cadere il regime
dei Talibani, dobbiamo aiutare coloro che
vogliono riportare l'Afganistan alle sue
tradizioni e alla sua storia, le sue tribù
e province al loro autogoverno. Speriamo
che coloro che guideranno questa guerra
abbiano la determinazione per portarla avanti
e per portarla al successo. Mauro Vaiani,
Toscanalibertaria Prato.
12)
Oriana Fallaci? Complimenti alla Toscana
di cui è figlia.
La
rabbia e L'orgoglio
- Oriana Fallaci prima
pagina Corriere. Sono sempre stata
un'ammiratrice della Fallaci, da
quando
ero giovanissima. Questa volta ha superato
se stessa. E' grande, è strepitosa. Complimenti
alla Toscana di cui è figlia.
Non
mi vergogno di dire che leggendo il
suo articolo ho pianto. E sapeste quanta
rabbia mi fa, da buona Toscana, che una
come lei ce l'abbiamo così lontana.
Cambierà qualcosa, comunque. Deve. E
presto. Deborah.
13)
On. Berlusconi
indisturbato Santoro breznevizza l'Italia.
Sig. Presidente del Consiglio, Sen. Guzzanti, indisturbato Santoro sta breznevizzando l'Italia. Trovo assolutamente grave e indesiderabile che un conduttore come Santoro possa offendere, insultare e danneggiare ulteriormente dal pulpito della RAI un popolo amico come quello d'Israele, già dissanguato dal terrorismo internazionale. Temo, inoltre, che lo spazio dato agli organizzatori del terrorismo di stampo palestinista sui teleschermi italiani, specialmente dopo l'11 settembre, possa contribuire alla progressiva breznevizzazione di questo Paese. Cordialmente Andras Bereny, Brescia.
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26.10 |
(editoriale di Massimo Fini uscito su Il
Tempo del 25 Ottobre 2001) Le tre ragazze parevano completamente
dimentiche di uno dei migliori frutti del pensiero europeo: quel
filone di pensiero che fa capo all'antropologo e strutturalista
francese Lévi-Strauss, chiamato «relativismo culturale» (che A furia di guardare con orrore la condizione delle donne islamiche, quelle occidentali hanno perso di vista la propria. Quando mi trovavo a Teheran, nell'Iran khomeinista, Hassan Gaddiri, che era allora viceministro degli Esteri e che conosceva bene l'Italia per aver studiato all'Università di Perugia, mi disse una volta: «Voi non mandate giù la storia del chador, ma in Occidente c'è una pubblicità martellante che obbliga le donne ad essere sempre levigate, curate, perfette, belle, giovani, da noi una donna può invecchiare serenamente. E allora, che cos'è più coestrittivo, il chador o la vostra pubblicità?». Ma dicono Melandri, Mussolini e Burt in coro: chador a parte, alle donne islamiche, soprattutto nei Paesi più integralisti, sono negati dei diritti fondamentali, abbiamo il dovere di intervenire. Ma quelli che per noi sono diritti fondamentali, per altre culture lo sono meno, perché privilegiano i legami, familiari e clanici,sulla libertà individuale. Sbagliano? Chi può dirlo? Ma ammettiamo pure che la condizione della donna musulmana sia davvero intollerabile come noi la vediamo. Se così è saranno le donne musulmane, un certo giorno, a ribellarsi e a portarsi al passo di quelle occidentali. Quando capiremo che il primo, fondamentale, diritto di libertà di ogni popolo, di ogni cultura, è quello di filarsi da sé la propria storia, secondo le proprie vocazioni e senza pelose supervisioni? Sono alcuni secoli che noi occidentali
andiamo in giro per il mondo con la convinzione di avere il sole in
fronte e la verità in tasca. E abbiamo partorito l'eurocentrismo, il
colonialismo, l'imperialismo, l'internazionalismo comunista, il
nazismo e adesso questo modello di sviluppo economico che non lascia
spazio alcuno ad altre culture, ad altre storie, ad altre tradizioni e
pretende di omologare l'intero pianeta, da Ulan Bator a Kabul a New
York a Mosca a Nairobi, secondo lo schema democratico e al libero
mercato. Crediamo di essere liberali e siamo totalitari, nella testa e
nella prassi, senza rendercene conto. Ed è questa aggressività,
basata sulla convinzione, esplicita o sottaciuta, di essere portatori
di una «cultura superiore», che evoca ed eccita quella altrui, in
particolare di una cultura, l'islamica, anch'essa convinta, in modo
esplicito o sottaciuto, della propria «unicità» e «superiorità».
E quello in atto è uno scontro fra due integralismi che si specchiano
l'un l'altro senza vedersi.
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26.10 |
Luca T. Barone |
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26.10 |
Indice di Diario della settimana Il questionario
sui vostri sentimenti nei confronti dell'America ha già ricevuto più
di mille risposte. Avete scritto in massa. Stiamo leggendo, scegliendo,
tagliando. E venerdì prossimo sul giornale ci sarà una lunghissima
inchiesta che avrete scritto voi. Piccola anticipazione (e risposta
dovuta): molti di voi se la sono presa per la domanda sulla commozione
("Vi hanno commosso di più i morti di New York o quelli
dell'Afghanistan?"). Era volutamente provocatoria e anche
necessaria, secondo noi. Necessaria per capire quali sentimenti e quali
emozioni stiano provocando in Italia le tragedie degli ultimi tempi. Le
risposte alla sesta richiesta ("Racconta un episodio della tua vita
che abbia a che fare con l'America o con gli americani") sono
sorprendenti. Meriterebbero di essere raccolte in un libro. Sulla copertina del
numero di Diario in edicola,
c'è Bush vestito da cinese. Il titolo è "Autunno inverno
2001-2002". La sensazione è che il Terzo Millennio avrà
imperatori dai costumi molto antichi. L'inchiesta, di Francesco Piccolo,
è invece dedicata all'odio che dilania la dirigenza dei Ds. Il
"grande partito della sinistra" non esiste più, ma il sole
dell'avvenire è ancora lontano dall'alba. Antologia dell'East River è
un articolo che riguarda i morti e il nostro modo di ricordarli: lo
spunto è la notizia che il New York Times dedicherà un
necrologio a ognuna delle vittime dell'11 settembre. Dal Tagikistan, un
reportage sulle attività (turistiche) dell'Alleanza del Nord, impegnata
a scortare giornalisti e turisti che vogliano entrare in Afghanistan.
Dall'Egitto: perché nelle strade del Cairo del moderato Mubarak
l'antimericanismo è così acceso? Gruinard è l'isola scozzese dove
l'antrace fu testata su topi e conigli nel 1941. Bioport, il nome della
corporation che dovrebbe proteggere gli Usa dai bacilli e non lo fa
affatto. Buona lettura
Caro Diario Il buon senso L’inchiesta vecchio
stile La terza settimana Tutta la città ne
parla Vedi alla voce
Cultura Lo spettatore
esigente Lettura Le recensioni Tutto il mondo ne
parla Un certo stile Se ne sono andati Le rubriche
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25.10 |
Aggiornamento
dalla Palestina
24 Ottobre 2001: Altri cinque palestinesi uccisi: cinque palestinesi sono stati uccisi da colpi d'arma da fuoco a Tulkarem, in Cisgiordania, dove l'esercito israeliano ha fatto un'incursione in nottata. Lo si e' appreso da fonti ospedaliere palestinesi. Le vittime avevano tutte attorno ai venti anni e sono cadute in un' imboscata di soldati israeliani nei pressi del cimitero di Tulkarem. Sale a 35 il numero di palestinesi uccisi dal 18 ottobre. 24 Ottobre 2001: 15 carriarmati israeliani accerchiano un villaggio: una colonna di carri armati israeliani ha completamente accerchiato e bloccato un villaggio palestinese in Cisgiordania. Secondo quanto dichiarato all' agenzia di stampa francese 'Afp' dal sindaco di Beit Rima, un villaggio di circa 4.000 abitanti a poca distanza da Ramallah, i soldati israeliani sembrano essere alla caccia di persone sospette. La nuova incursione israeliana nei Territori e' sostenuta da alcuni elicotteri. 24 Ottobre 2001: Battaglia a Betlemme: soldati e carri armati israeliani hanno aperto il fuoco a Betlemme alle prime ore di oggi, dopo che, per tutta la notte, colpi sparati dai tanks avevano martellato il vicino campo profughi di Aida.Le incursioni dell'esercito a Betlemme e in altre cinque città palestinesi sono cominciate venerd? scorso, dopo che estremisti palestinesi avevano ucciso Rehavam Zevi, ministro israeliano della destra ultrarazzista e acerrimo nemico del "processo di pace". L'assassinio di Zevi voleva vendicare l'uccisione di Abu Ali Mustafa, leader palestinese "eliminato" da missili israeliani in agosto e tutti i centinaia di leaders politici, attivisti e membri della resistenza palestinese assassinati da Israele in 50 anni di storia. I responsabili ospedalieri hanno parlato finora di cinque palestinesi feriti da granate, ma è impossibile fare un bilancio esatto delle perdite, anche perché le ambulanze e i mezzi di soccorso non possono circolare per le strade bersagliate dalle pallottole. I carri armati israeliani sono entrati nel cuore della città palestinese, dove hanno scambiato colpi con giovani armati che si battono per ricacciare le aggressioni dell'esercito d'occupazione contro il loro territorio. 24 Ottobre 2001: Il massacro di Beit Rima: nel villaggio palestinese di Beit Rima, accerchiato questa mattina da 15 blindati dell'esercito d'occupazione, i militari israeliani si sono macchiati di un altro orrendo massacro nei confronti della popolazione civile palestinese: 15 persone sono state uccise e decine ferite mentre i soldati israeliani tenevano lontani dal villaggio giornalisti e delegati della Croce Rossa, che premevano per entrare nel luogo dell'eccidio. I militari d'occupazione hanno setacciato casa per casa il piccolo villaggio sparando all'impazzata allo scopo di terrorizzare la popolazione civile e arrestando decine di patrioti palestinesi che si battono contro l'occupazione militare del loro paese. Un medico palestinese, parlando ai microfoni della BBC ha affermato che i corpi dei caduti giacciono sul ciglio delle strade poiche' i militari non permettono ad alcuna organizzazione umanitaria di entrare nell'epicentro del massacro. Ad Abu Dis un altro giovane palestinese di 25 anni e' morto, colpito da pallottole israeliane al volto mentre tentava di colpire con delle pietre un carroarmato. Presso Hebron un gruppo di operai palestinesi e' stato fatto oggetto di un agguato da parte di coloni ebrei armati che hanno sparato verso l'auto sulla quale viaggiavano . Sei operai sono rimasti gravemente feriti.
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23.10 |
La
prima vittima della guerra? La verità
I morti di Timisoara, il cormorano del Golfo Persico, la lettera da Sarajevo: cronologia (vera) di scoop falsi. Dalla guerra di Crimea, primo conflitto della storia seguito da fotografi e giornalisti, alle due guerre mondiali. Dalla rivolta contro il regime di Ceausescu all’operazione "Desert Storm". Gli intrecci, le distorsioni, le manipolazioni operate sulle notizie da stampa e governi. Manipolata.
Controllata. Costruita ad arte. Confezionata ad uso e consumo dei
mass-media. E dell’opinione pubblica. Aveva ragione il senatore
californiano Hiram W. Johnson quando, nel bel mezzo della
Prima guerra mondiale, pronunciò una frase destinata a passare alla
storia. "The first casualty when the war comes is truth",
disse Johnson davanti al Senato degli Stati Uniti. Traduzione? La
prima vittima della guerra è la verità. E’ il 1917. Ma gli
intrecci tra informazione, guerra e opinione pubblica sono evidenti
da tempo. I finti scoop, le immagini false, le cosiddette
"bufale di guerra" hanno già fatto il loro ingresso sulla
scena bellica e mass-mediatica. Dalla Crimea alla Seconda guerra
mondiale, dalla guerra del Golfo al conflitto che ha lacerato la ex
Yugoslavia: gli esempi di notizie contraffatte sono decine e decine. Claudia Cassino http://www.storiainrete.com/rassegna/cormorano/
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22.10 |
Recensione
del libro "Fascismo e Islam"
In un uno dei momenti di maggior tensione
tra Occidente e mondo islamico, una piccola casa editrice pubblica un
interessante saggio sui rapporti, tutt’altro che conflittuali, tra
l’Italia fascista e l’Islam tra gli anni Venti e Trenta.
Il Fascismo e l’Islam di
Enrico Galoppini (Edizioni all’Insegna del Veltro – Viale Osacca
13, 43100 Parma, tel.: 0521 290880 - insegnadelveltro@libero.it
, pp. 158, 12,91 € pari a 24 mila lire), racconta in modo documentato l’interesse
pratico se non opportunistico (ma comunque mai conflittuale) con cui
Roma guardò all’Islam, soprattutto quella parte di Islam
rappresentata dai Paesi arabi del Medio Oriente.
Del volume, che ha una introduzione dello
storico Franco Cardini, la rivista on line di Storia
Contemporanea "Storia in Rete" (www.storiainrete.com)
per gentile concessione dell’Editore, riproduce da oggi un
estratto del quarto capitolo, quello dedicato alla "Libia nella
politica islamica del fascismo" (www.storiainrete.com/anticipazioni/fascismo-islam/).
Per approfondimenti:
L'immagine dell'Islam
nell'Italia tra le due guerre mondiali
Il fascismo e l'Islam (rec.
su "Storia in Network")
I rapporti tra il fascismo e
il mondo arabo-islamico
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22.10 |
Gentili Socie/Soci,
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22.10 |
Diario speciale Vogliamo fare un'inchiesta. Abbiamo bisogno di voi. Se decidete di aiutarci, potete scegliere di rispondere all'e-mail oppure collegarvi direttamente al questionario on line (http://www.diario.it/cnt/notizie/inchiesta/questionario.htm) Un'inchiesta insieme
ai lettori Che sentimenti ti suscita la visione della bandiera a stelle e strisce? Che cosa ti fa venire in mente la parola «America»? Ti commuovono di più i morti dei Twins o quelli dell'Afghanistan? Che peso ha la questione palestinese nei tuoi sentimenti verso gli Usa? Sei mai stato negli Stati Uniti? Ti piacerebbe andarci? Dove andresti o dove sei andato? Racconta un episodio della tua vita che abbia a che fare con l'America o con gli americani Se desideri essere citato nell'inchiesta scrivi il tuo nome. -------------------- Batoty:
Dio mi aiuti. Volo 990. Il 31 ottobre 1999 un Boeing Egypt Air si inabissò davanti al Massachusetts. Leggere ora le registrazioni delle voci nella cabina di pilotaggio mette i brividi. Che cosa accadde? Diario della settimana è in edicola mentre termina la seconda settimana di guerra. Oltre all'aereo dimenticato dell'Egypt Air, un'inchiesta sull'Onu e sulla sua inutilità, un ritratto delle facce da guerra (contrite o contratte, ma tutte sotto contratto) che affollano gli schermi televisivi, un'intervista al comandante afghano Hekmatyar e un viaggio in Alaska, dove 190 mila caribù rischiano di scomparire a causa del via alle trivellazioni petrolifere, nell'indifferenza generale. Ritornano le nostre inchieste italiane. Qui si racconta della miracolosa ascesa commerciale (grazie alla tv) della Eminflex, l'azienda di materassi che aveva come contabile un boss. Buona
lettura Caro Diario Il
buon senso La
seconda settimana Tutta
la città ne parla I
nostri inviati Vedi
alla voce Cultura Lo
spettatore esigente Le
recensioni Lettura Tutto
il mondo ne parla Un
certo stile Se ne
sono andati Le rubriche Florence Nightingale, Nicola Montella, Laura Pariani, Federico Chiacchiari, Elvio Giudici, Attilio Scarpellini, Oliviero Ponte di Pino, Massimo Onofri, Maria Novella Oppo, Luca Fontana, Alessandro Robecchi, Allan Bay, Stefano Bartezzaghi, Elfo
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21.10 |
Cultura
dell'intimidazione e il dovere di resistenza
Marco Tarchi ("Diorama Letterario" n. 247, settembre 2001) L’insofferenza degli intellettuali liberali verso le idee che non godono della loro approvazione si sta facendo sempre più evidente. La tentazione di omologare le opinioni del pubblico all’interno del quadro definito dai parametri dell’ideologia dominante, lasciandole libere di scegliere soltanto fra le varianti più o meno conservatrici o progressiste dello stesso credo è in continua crescita, tanto da mettere in forse il futuro della dialettica democratica nei paesi occidentali. Non contenti di occupare quasi tutte le tribune dell’informazione e di usarle per rovesciare sui dissidenti l’accusa di coltivare nostalgie totalitarie – ovviamente inconfessate –, guardandosi bene dal prendere in considerazione i loro argomenti, i sacerdoti del nuovo culto ideologico sono ormai passati alla fase della sistematica messa in guardia contro chiunque si ostini a non accettarlo. Come paventavamo già cinque anni orsono, quando abbiamo dedicato un fascicolo di "Diorama" al tema L’intolleranza liberale, i metodi applicati a tale scopo non sono purtroppo diversi da quelli usati fino a pochi anni orsono dai custodi della precedente egemonia. Al massimo, la differenza è di grado, non di sostanza. Se per i marxisti l’accusa di fascismo era l’arma sempre a portata di mano per mettere fuori gioco gli oppositori, l’arsenale delegittimante dei loro successori è più ampio, includendo l’antiamericanismo, il terzomondismo, l’antioccidentalismo, il fondamentalismo ("verde" o religioso), l’integralismo, le "nostalgie" – che possono essere comuniste, comunitarie, autoritarie o di altra specie, a seconda delle circostanze –, il populismo (quando a praticarlo sono gli altri), lo statalismo e via scomunicando. Chiunque sia toccato dall’uno o dall’altro di questi epiteti è degradato ipso facto a potenziale nemico dell’umanità e dei suoi diritti e perciò messo all’indice. Se è un politico, viene trattato con sufficienza, disprezzo e ironia, alla stregua di un mentecatto o di un ciarlatano. Se è un intellettuale, i suoi spazi di espressione sono limitati, le sue idee non vengono reputate degne di commento o confutazione, i suoi scritti non vengono recensiti e interviste, tribune libere giornalistiche e partecipazioni a dibattiti televisivi gli sono sostanzialmente precluse. Che questa situazione stia riducendo progressivamente l’area del dissenso culturale in Occidente è un dato di fatto facilmente verificabile. Se ancora dieci anni fa l’attenzione giornalistica per le correnti intellettuali non conformiste, sia pure in forme spesso disinformate e mistificanti, era un dato ordinario, oggi la si può dare per estinta. In Francia, l’Alain de Benoist che un tempo scriveva sul "Figaro" e sollevava fiumi d’inchiostro di commentatori incuriositi o allarmati dalle sue tesi, è stato espulso dai circuiti della comunicazione e condannato all’ostracismo professionale e alla disoccupazione; Roger Garaudy è trattato da pazzo antisemita, Régis Debray linciato periodicamente sulla stampa. In Germania, il settimanale "Junge Freiheit", malgrado l’evidente inflessione conservatrice, si è vista chiudere addirittura il conto corrente bancario perché giudicata poco "politicamente corretta". In Italia, se sui fermenti di critica al liberalismo spuntati a destra è stato steso un velo di assoluto silenzio, non è che la sinistra a suo tempo tentata dal trasversalismo se la passi molto meglio; tutt’al più vegeta. Ma non per questo cessa il martellamento degli opinion makers insediati nei grandi giornali e nelle reti televisive, il cui obiettivo è, evidentemente, la conversione o la resa senza condizioni degli avversari. Ai quali non si concede la parola ma si addebitano, spesso senza possibilità di replica, propositi o atteggiamenti esposti alla pubblica esecrazione. Sono molti gli esempi di questa situazione che si potrebbero citare, ma l’attualità ci consiglia di selezionarne due su cui riflettere. Uno attiene al modo ipocrita e selettivo con cui vengono presentati dagli opinionisti liberali i termini degli scontri etno-nazionali che attualmente insanguinano varie parti del pianeta. L’altro alla rappresentazione dei soggetti coinvolti nel movimento anti-globalizzazione e dei loro argomenti. Per affrontare la prima di queste due questioni possiamo partire da un paradosso. Chiediamo a chi ci legge di immaginare quale sarebbe stata, tre anni fa, la reazione del "ceto colto" se sul maggiore quotidiano italiano fosse comparso un editoriale del seguente tenore: "Il micidiale attentato di giovedì scorso a Pristina non farà altro, temo, che confermare l’immagine del conflitto serbo-kosovaro che ormai si è affermata nell’opinione pubblica e nei media occidentali: l’immagine di una faida inarrestabile in cui le responsabilità delle due parti sostanzialmente si equivalgono. Basta però una domanda – anzi due – a fare sorgere in proposito qualche dubbio: se domani per miracolo cessassero improvvisamente le violenze da parte kosovara, chi può dubitare che la stessa cosa non accadrebbe immediatamente anche da parte serba? Ma chi può dirsi minimamente sicuro, invece, che, se ad astenersi per prima da ogni violenza fosse la Serbia, la controparte kosovara farebbe altrettanto? L’iniziativa dell’attacco, insomma, è sempre kosovara, e del resto è fatale che sia così, dal momento che è la parte kosovara che intende modificare con la lotta la realtà di fatto decisa fin qui dagli eventi. Lotta con quale fine? L’opinione pubblica e i media occidentali non riescono, molto ragionevolmente, che a ritenere possibile un solo fine: l’accordo con la Serbia. La responsabilità del mancato raggiungimento del quale è, per solito, ancora una volta, attribuita a entrambe le parti, alla loro mutua irragionevolezza. Ma è certo che le cose stiano così, che esista questa equivalenza? Vediamo. Anche se da parte serba vi fosse il governo più pacifista immaginabile, un punto almeno esso riterrebbe certamente irrinunciabile per un accordo: la rinuncia definitiva da parte kosovara a contestare la legittimità dell’esistenza della Federazione Jugoslava almeno entro i confini del 1995 (Croazia, Slovenia e Bosnia-Erzegovina esclusi, naturalmente). Tutto si può immaginare tranne che un qualunque governo jugoslavo sia mai disposto a firmare un accordo che non preveda una tale clausola (del resto ritenuta ragionevolissima, credo, da qualunque ragionevole lettore di questo giornale). Ma è mai immaginabile una simile rinuncia da parte kosovara? Ogni osservatore imparziale non può che nutrire al riguardo il massimo scetticismo: basti pensare che ancora qualche settimana fa il "diplomatico" Rugova ha ribadito nel modo più solenne che ai kosovari va riconosciuto il diritto all’autogoverno, a un’amministrazioe autonoma. È superfluo discettare se ciò sarebbe o no giusto: l’importante è capire che ciò equivarebbe di fatto alla cancellazione della Federazione Jugoslava. E del resto era proprio in questo senso – si può essere sicuri – che Rugova voleva che le sue parole fossero intese. Egli ha sempre saputo, infatti, che un’autorità kosovara che accettasse il diritto della Federazione Jugoslava a esistere negli attuali confini, molto verosimilmente perderebbe all’istante qualunque autorità". C’è da scommettere che un fondo del genere, in prima pagina del "Corriere della Sera", in piena guerra civile nel Kosovo, con le diplomazie disperanti della buona riuscita delle trattative di Rambouillet, avrebbe sollevato un putiferio. L’establishment intellettuale sarebbe insorto sostenendo l’impossibilità di equiparare le ragioni dei repressi e discriminati kosovari, maggioritari nel territorio abitato, con quelle dei serbi guidati dal "guerrafondaio" Milosevic. Si sarebbe gridato ai lesi diritti dell’uomo, al collaborazionismo e al cinismo di chi avallava i metodi coloniali adottati dai Serbi verso la popolazione albanese, si sarebbe messa sotto accusa l’artificiosità dell’impianto statale jugoslavo, tenuto ormai assieme solo con la spietata forza della polizia e dell’esercito. E si sarebbe ripreso a invocare un intervento armato dell’Occidente – Unione Europea o Nato – contro l’arroganza dei serbi, popolo da sempre di sentimenti nazionalisti e xenofobi, ossessionato dalla propria storia passata e dall’idea di avere una missione di civiltà da compiere nei Balcani e perciò spinto a voler difendere ad ogni costo il proprio dominio sui luoghi "santi" della propria epopea nazionale, senza alcun riguardo ai rapporti di forza numerica con le popolazioni di altra etnia residenti, ormai in quote nettamente maggioritarie, sui territori cari alla sua epopea lirico-religiosa. Già: le cose sarebbero andate proprio così. È strano però che un articolo così concepito sia effettivamente comparso in prima pagina sul quotidiano milanese, senza suscitare il minimo scandalo e senza veder espresse da parte di nessun commentatore le controdeduzioni che abbiamo abbozzato. La spiegazione di questo sorprendente atteggiamento sta nel fatto che il pezzo, firmato da Ernesto Galli della Loggia e comparso il 12 agosto 2001, è intitolato Israele, il torto di esistere e si differenzia da quello da noi riportato per i soggetti coinvolti: laddove noi abbiamo scritto Serbia si legge invece Israele, dove abbiamo scritto kosovari bisogna leggere palestinesi, Pristina sta per Gerusalemme, Rugova per Arafat. La differenza non è certamente da poco; ma riguarda la sostanza del discorso o solo l’identità degli attori? Vale la pena di rifletterci per qualche momento. A noi pare che, sia che se ne sottoscrivano sia che se ne contestino le ricadute in termini di giudizio, il ragionamento di Galli della Loggia fili alla perfezione anche nella versione rivista e corretta. E allora, come mai né all’autore né ad altri collaboratori del "Corriere della Sera" è venuto in mente di applicarlo alle vicende balcaniche, riservandolo esclusivamente al conflitto che insanguina la Palestina? La risposta è elementare: si tratta di un classico caso di due pesi e due misure, di rifiuto di applicare logiche identiche a casi analoghi. Nell’articolo del vero Galli della Loggia, Israele incarna l’Occidente sedicente liberale alle prese con un popolo "altro". In quello dello pseudo-Galli, la Serbia ha il ruolo di sfidante di quello stesso Occidente, e lo stesso scambio avviene tra palestinesi e kosovari. Eppure, si può onestamente negare che le umiliazioni che i primi subiscono nella terra in cui sono nate innumerevoli generazioni di loro antenati siano minori di quelle inflitte da Belgrado ai discendenti degli slavi convertiti all’Islam alcuni secoli orsono? Ci sono motivi oggettivi che possano far rifiutare la denominazione di apartheid al regime di subordinazione e sopraffazione cui sono condannati i palestinesi dai governi israeliani, quando quella stessa formula è stata di continuo usata per descrivere le traversie dei compatrioti di Rugova nella Jugoslavia degli anni Novanta? C’è una giustificazione della guerriglia indipendentista dell’Uçk, tanto cara alla Nato, che non si applichi alle formazioni combattenti palestinesi? La pulizia etnica subìta dai palestinesi nel 1948, e prima e dopo quella data, ha prodotto forse meno vittime di quella imputata a militari e paramilitari serbi prima della guerra scatenata dalla Nato per proteggere i diritti umani della "martoriata" popolazione albanese? La risposta, in tutti i casi, è no. E non è tutto: è possibile accusare Milosevic e lo Stato jugoslavo di aver messo in atto uccisioni di capi militari albanesi presentandole come "atti di difesa preventiva" contro i rischi di terrorismo (che l’Uçk seminava a piene mani contro poliziotti e funzionari slavi)? Ancora una volta: no. E se Milosevic le avesse annunciate e giustificate, non sarebbe stato immediatamente denunciato a quel Tribunale dell’Aia che oggi lo detiene per dare una lezione a chi ha osato sfidare il potere egemonico statunitense? Non è possibile dubitarne. E allora, perché nessuna organizzazione internazionale si è sognata di promettere a Sharon, già pesantemente coinvolto nei massacri di Sabra e Shatila e ora programmatore del terrorismo di Stato, una "Norimberga mediorientale"? E se accusare Israele di discriminare e perseguitare i palestinesi, di negare a quelli di loro che ne sono stati espulsi con la violenza e con il terrore dalle proprie case e terre il diritto al ritorno in patria, significa macchiarsi di antisemitismo – come l’internazionale ideologica liberale urla da ogni tribuna dopo che la Conferenza internazionale sul razzismo di Durban ha osato denunciare il colonialismo esercitato ai danni delle popolazioni indigene nei territori arabi occupati –, perché si sono riversate pesanti contumelie sul capo degli intellettuali jugoslavi (incluso il futuro democratico presidente Kostunica) che ai tempi di Rambouillet denunciavano il crescente odio antislavo diffuso fra gli albanesi, che vediamo oggi di nuovo all’opera in Macedonia? Sarebbe tempo sprecato attendere risposte razionali a questi quesiti, posti in punto di fatto e non con i toni della propaganda. Così come Galli della Loggia e i suoi compagni di fede non si degnerebbero certamente di riflettere sul fatto che mai il "macellaio" Milosevic, nella sua lotta contro la guerriglia kosovara, ha abbinato alla repressione militare – almeno sino a quando non sono entrati in gioco i bombardamenti "umanitari" della Nato – le sistematiche demolizioni di case e villaggi abitati dai "nemici" o le distruzioni con i bulldozers delle condotte dell’acqua potabile dei campi-profughi che Sharon ha deciso e messo in atto. E tantomeno ha proclamato la necessità di uccidere i padri dei guerriglieri per arginare gli assalti terroristi. No; malgrado il monito di Kofi Annan a Durban sull’impossibilità di scusare con la memoria della tragedia genocida subìta dal popolo ebraico i torti quotidianamente inflitti dagli israeliani ai palestinesi, le tante voci del coro liberale che dominano incontrastate la scena informativa continueranno comunque a fustigare, come fa il loro occasionale portavoce, la pretesa di riconoscere ai palestinesi di fare ritorno nelle località da cui furono cacciati nel 1948, argomentando con formidabile cinismo che "è superfluo discettare se ciò sarebbe o no giusto", perché "l’importante è capire che ciò equivarrebbe alla cancellazione di Israele". Ancora una volta: si sentono mai usare parole simili quando in gioco sono i ceceni e i russi, oppure i timoresi e gli indonesiani, o i tibetani e i cinesi? Non ci sarebbe bisogno di esempi così lampanti per ribadire ciò che qualunque osservatore disincantato dovrebbe avere ben chiaro, cioè che il liberalismo, lungi dall’essere una dottrina basata su princìpi di valore universale come pretendono da secoli i suoi teorici, è oggi un’ideologia piegata ai bisogni di un sistema di dominio che ha un referente politico-statuale essenziale (gli Stati Uniti d’America), un modello sociale di riferimento (il capitalismo liberista), una considerevole riserva di risorse (finanziarie, militari, informative) e una visione del mondo da imporre a livello planetario (l’occidentalismo). È in relazione alle necessità tattiche e strategiche di questo sistema che gli intellettuali liberali orientano attenzioni e giudizi, decidendo quali cause sostenere, quali tacere e quali demonizzare, in ossequio ai medesimi schemi che hanno guidato le mosse di tanti intellettuali nazionalisti all’epoca d’oro dell’imperialismo coloniale. Ciò appare altrettanto evidente se passiamo, più brevemente, al secondo caso di attualità al quale abbiamo fatto cenno in apertura. Dopo gli incidenti avvenuti a Genova in occasione del contestato incontro degli otto "grandi" del mondo, gli ideologi del liberalismo hanno scatenato una forte controffensiva massmediale, tesa ad annichilire la ragioni di quanti si oppongono, da diverse prospettive, al progetto di omologazione culturale e spartizione diseguale della ricchezza che è implicito nell’attuale processo di globalizzazione. Tralasciamo qui gli argomenti spesi in merito all’uso della violenza come strumento di protesta, senz’altro condivisibili purché si applichino anche, ragionevolmente, agli apparati di repressione dello Stato, per accennare ad un altro versante lungo il quale questa controffensiva si è dispiegata. È degno di nota il modo in cui buona parte dell’intellighentzija liberale (quella di indole conservatrice, oggi prevalente in Italia) ha cercato di liquidare le ragioni dei contestatori appiattendole su uno sfondo marxista. Ora, che nel pulviscolo di organizzazioni che hanno fatto del no global la loro bandiera ve ne siano un buon numero – a partire dalla costellazione dei "centri sociali" – in cui allignano, sia pure a livello più simbolico che dottrinario, reminiscenze di marxismo, classismo, operaismo e altri detriti delle effervescenze politico-sociali degli scorsi tre decenni, è senz’altro vero. Ma lo è altrettanto che né questi materiali si sono condensati in una piattaforma ideologica monolitica, né essi sono le uniche fonti di ispirazione di un movimento che, come spesso succede nei fenomeni di protesta, convoglia forme di antagonismo molto eterogenee e caratterizzate assai più in negativo, per i bersagli polemici che si scelgono, che in positivo, per una proposta organica di soluzione dei problemi che indicano. Tacciare di marxismo o nostalgie comuniste ogni opposizione al globalismo è una scorciatoia per negare validità alle sensibilità e alle critiche che vi si manifestano senza prendersi neanche la briga di valutarne l’attendibilità; è, insomma, un gesto di propaganda collocabile sullo stesso piano delle perorazioni di un Agnoletto o di un Casarini, non certo il frutto di un’analisi ragionata. Ciò non significa che una simile semplificazione non paghi; tutt’altro. Da mezzo secolo a questa parte, questa strategia dell’amalgama ha consentito di neutralizzare tutti i sussulti che hanno messo in discussione l’assetto politico e sociale dei paesi occidentali. L’ammaestramento popolare all’uso della coppia oppositiva destra/sinistra come griglia di interpretazione della realtà ha prodotto, in questo senso, gli effetti sperati. Chi si sentiva orientato a destra è stato istigato a liquidare come "di sinistra" istanze potenzialmente trasversali come il pacifismo, il neutralismo in materia di relazioni internazionali, l’ecologismo, l’autodeterminazione dei popoli, il riscatto dall’indigenza del Terzo Mondo; chi simpatizzava per la sinistra ha fatto lo stesso con il comunitarismo, il localismo, le critiche al distacco della classe politica dalle preoccupazioni del cittadino medio – bollate come segni di populismo –, la meritocrazia. Qualche tema sgradito, come la rinascita delle identità territoriali e delle "piccole patrie", ha addirittura subìto, in periodi diversi, il fuoco incrociato di entrambi i campi (sentirsi fieri dell’essere corsi, occitani, gallesi o frisoni era considerato "di sinistra" fra il ’68 e tutti gli anni Ottanta, ma da un paio di lustri viene ritenuto un atteggiamento "di destra"). Nei casi estremi, questa contrapposizione di comodo poteva essere surriscaldata dal ricorso a categorie di intensità emotiva maggiore, come l’antifascismo o, più sporadicamente, l’anticomunismo. Sinché il gioco delle elisioni così governato funzionava, non c’era bisogno di altri interventi. La crisi della sinistra già comunista ha però confuso le carte in tavola. Quelle componenti che non si sono riciclate in appendice progressista del fronte liberale solo in parte si sono infatti accontentate di tener duro attorno a posizioni ortodosse. Molti di coloro che si sentivano di sinistra per un generico desiderio di equità sociale o per disgusto dell’ordine sociale e culturale esistente hanno aperto le proprie inquietudini ad altre influenze, fra le quali il rifiuto dell’omologazione all’american way of life e dell’occidentalizzazione planetaria ha assunto, pur tra molte contraddizione, un ruolo rilevante. Significativamente, questo stato d’animo ha consentito la convergenza attorno ad alcuni bersagli polemici di soggetti di altra formazione, specialmente cattolici. Si spiega così il particolare accanimento con cui molti opinionisti liberali, in cuor loro fervidi sostenitori della secolarizzazione e della riduzione della religione a sopravvivenza folklorico-museale del tutto astratta dalle logiche politiche, hanno richiamato la Chiesa di Roma alla necessità di condannare e isolare gli interni fermenti antiglobalisti. Ovviamente, qui quel che importa non è il conflitto fra i forsennati dei due campi, figure un po’ patetiche come Gianni Baget Bozzo o don Vitaliano Della Sala; contano gli editorialisti dei quotidiani sedicenti moderati e le associazioni ecclesiali. Lo sforzo dei primi di colpire le seconde è indicativo del ruolo di agit-prop in cui certi uomini di cultura si sono calati, raccogliendo il testimone dagli avversari di un tempo. La spensieratezza con cui hanno raccolto etichette buone per altre epoche ("catto-comunisti", che fa il paio con il "grigioverdi" "o verdi-bruni" che serve sempre più di frequente, nella letteratura politica di lingua inglese, francese e tedesca a squalificare i più coerenti teorici dell’ecologismo) appiccicandole addosso ai soggetti sgraditi, fa pensare. È difficile credere che quanti oggi pensano che in chiesa sta rientrando Marx, che nel mondo cattolico brulica la genìa di coloro che vorrebbero mettere insieme Vangelo e analisi marxista, fino a ieri non se ne siano accorti, ed anzi abbiano concentrato le loro analisi sulla riscossa conservatrice promossa dal papato di Karol Woytila, sull’autorità del pontefice e sulla sua capacità di annichilire la teologia della liberazione. Ed è più sensato pensare che il loro parere non sia cambiato, che gli odierni anatemi servano estemporaneamente a centrare un bersaglio di passaggio. Resta però il fatto che, oggi, affermare che il marxismo abbandonato dalla sinistra intellettuale gode di popolarità in ambienti ecclesiali, serve a squalificare come paramarxiste tutte le analisi critiche della globalizzazione e dei suoi effetti che hanno radici nella cultura cattolica. Analisi che i campioni dell’egemonia liberale presentano scrivendo tale termine fra virgolette, sottintendendo che si tratta invece di sproloqui senza senso, così come fra virgolette o accompagnate dal velenoso aggettivo "cosiddetto" finiscono formule come "sfruttamento capitalistico" e "imperialismo", "dipendenza" dall’Occidente del Terzo Mondo, che purtroppo hanno tutti i crismi della odierna realtà. Bizzarro, e nel contempo triste: proprio gli esponenti di quel filone di pensiero che ha a lungo rivendicato a se stesso senso di equilibrio e realismo, imputando agli avversari il tradimento dell’ideale scientifico dell’avalutatività, impiegano oggi i propri riferimenti di valore per dar forza ad una vera e propria cultura dell’intimidazione, gonfia di toni striduli, arroganza, disprezzo delle altrui ragioni. Evidentemente, anche fra gli intellettuali, qualunque sia il colore dei valori che coltivano, il desiderio di conquista, difesa e gestione del potere prevale spesso sulla capacità di autocontrollo. Occorre prenderne atto e, quanto più forte si fa l’offensiva dei sostenitori di un pensiero a vocazione monopolistica, organizzare solide linee di resistenza. È sempre più evidente, agli occhi di chi vuol vedere, che in un mondo dominato dal potere suggestivo dei media le vere battaglie di libertà si combattono sul terreno delle idee. Non disertarle, oggi più che mai, è un dovere civile per quei critici dell’egemonia liberale che non soffrono né di complessi di inferiorità né di vocazioni al collateralismo o al gregariato. Marco Tarchi NOTE 1 Sara' bene ricordare che la colpa di Garaudy è quella di aver denunciato un uso strumentale del genocidio ebraico da parte dei governanti israeliani, in termini sostanzialmente non troppo dissimili da quelli usati da Kofi Annan alla recente conferenza Onu sul razzismo, mentre a Debray è imputata la critica dell'aggressione della Nato alla Serbia. Quanto a De Benoist, tutto il suo percorso intellettuale non conformista lo condanna all'anatema dei benpensanti.
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20.10 |
19 Ottobre 2001: Assedio ed assassini: in una giornata di alta tensione, si sono verificati incidenti in tutta la Cisgiordania occupata, con vittime e violenze nella West Bank ed a Gaza. I disordini sono scoppiati allorche' una serie di bulldozers e tanks dell'esercito israeliano sono penetrati a Betlemme e Beit Jala. A Betlemme, quattro palestinesi, tra cui una donna ed un poliziotto, sono stati assassinati dai militari d'occupazione durante i funerali dei tre palestinesi, tra i quali il leader del gruppo di resistenza Tanzim, Atef Abayat, uccisi ieri da un missile lanciato contro l'auto sulla quale viaggiavano. Fonti ospedaliere di Gaza hanno denunciato la morte di un giovane palestinese colpito da pallottole alla testa mentre protestava al valico di Karni, tra Gaza e l'Egitto. Precedentemente, un adolescente palestinese di 13 anni, Basel al-Mubasher, era rimasto ucciso dallo scoppio di una granata nei pressi del campo profughi di Khan Yunis. E si sono svolti oggi i funerali di Riham Nabil, la bimba di 10 anni uccisa ieri durante il bombardamento della scuola elementare di Jenin. Nel vile attacco contro la scuola, oltre a Riham, altre sette bambine sono state ferite, due delle quali versano in gravi condizioni presso l'ospedale della citta' palestinese. L'attivista Kamel Hamed, amico del membro dei Tanzim ucciso ieri, ha detto ai microfoni dell'Associated Press che "la lotta dei palestinesi continuera' fino a che un solo soldato ed un solo colono resteranno nella nostra terra".
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17.10 |
Rivista
di scrittori migranti
E' con soddisfazione
che vi informo dell'uscita on-line del numero cinque della
nostra pubblicazione trimestrale, la Rivista Sagarana, accessibile
all'indirizzo www.sagarana.net
.
Con questo numero la
Rivista Sagarana festeggia il suo primo compleanno.
Spero che gli articoli,
i saggi, i racconti, le poesie, le "dicas", la
mostra fotografica e i testi della nuova sezione, "la lavagna
del sabato", ti regalino momenti di piacevole lettura.
Colgo l'occasione per
informarvi che a partire dal 1 Novembre potrai trovare on-line, nel
sito della scuola, una nuova sessione interamente dedicata ad un
importante evento letterario che ha avuto luogo a Lucca nel Luglio
2001: Il primo seminario italiano degli scrittori migranti.
Cordialmente,
Julio Monteiro Martins
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16.10 |
Terzani
risponde alla Fallaci
"Il sultano e San
Francesco" Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle «Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina dell’immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero
mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’impressione di
stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo. Il tuo
sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha
qualcosa da dire si faccia avanti e taccia», scrisse, disperato dal
fatto che, dinanzi all’indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale,
alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era
sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio.
Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste,
riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio
per scrivere Gli ultimi giorni dell’umanità, un’opera che sembra
essere ancora di un’inquietante attualità. Il
nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L’orrore
indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo
di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento
anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole,
pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri
istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno
di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile
ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e
l’uccidere. Quel
che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno.
Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al
mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in
discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci
illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non
arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all’inevitabilità
della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Perché
non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di
quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci
illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza
per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e,
tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi
nucleari, armi chimiche e armi batteriologice - Stati Uniti in testa -
d’impegnarsi solennemente con tutta l’umanità a non usarle mai per
primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe
un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo
fa un vantaggio morale - di per sé un’arma importante per il futuro
-, ma potrebbe anche disinnescare l’orrore indicibile ora attivato
dalla reazione a catena della vendetta. In
questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non
sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in
Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werde n:
ethische Politik von Sokrates bis Mozart ( L’arte di non essere
governati: l’etica politica da Socrate a Mozart ). L’autore è
Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di
tornare all’Università di Berlino. La affascinante tesi di
Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile,
nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le
sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello
delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’uomo la necessità di
rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà.
Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare
Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che è anche una
protezione -, lo condanna all’esilio dove quello fonda la prima città.
La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle «Tigri Tamil», votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di «Hamas» che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell’innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali. Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’atto di «una guerra di religione» degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure «un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale», come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un
vecchio accademico dell’Università di Berkeley, un uomo certo non
sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa
storia una interpretazione completamente diversa. «Gli assassini
suicidi dell’11 settembre non hanno attaccato l’America: hanno
attaccato la politica estera americana», scrive Chalmers Johnson nel
numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri -
l’ultimo, Blowback , contraccolpo, uscito l’anno scorso (in Italia
edito da Garzanti ndr ) ha del profetico - si tratterebbe appunto di un
ennesimo «contraccolpo» al fatto che, nonostante la fine della Guerra
Fredda e lo sfasciarsi dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno
mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni
militari nel mondo. Con
una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto
della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’elenco di tutti
gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli
assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti
nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente
coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente
dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri. A
proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato
come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’Afghanistan,
pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è
legato al fatto d’essere il passaggio obbligato di qualsiasi
conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio
dell’Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche
ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il
Pakistan, l’India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto
senza dover passare dall’Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato
che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono
state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per
trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera
americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry
Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire
quell’oleodotto attraverso l’Afghanistan. È dunque possibile che,
dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la
democrazia, l’imminente attacco contro l’Afghanistan nasconda anche
altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. È per questo che nell’America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’industria petrolifera con quelli dell’industria bellica - combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’interno del paese, in ragione dell’emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l’America così particolare. Il
fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal
pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’aggettivo «codardi»,
usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la
censura di certi programmi e l’allontanamento da alcuni giornali, di
collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste
preoccupazioni. Il tuo
attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle «cicale» ed agli
intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è una
funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra
cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere
togliere l’aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d’aver
risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio
il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte
altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di
guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America. Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore , ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l’Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato 'Omar al-Khayàm? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’arabo, oltre ai tanti che già studiano l’inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme». Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati («vide il male ed il peccato»), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’era ancora la Cnn - era il 1219 - perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all’accampamento dei crociati. Mi diverte pensare che l’uno disse all’altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’orrore dell’olocausto atomico pose una bella domanda: «La sindrome da fine del mondo, l’alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’uomo più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere «No». Ma non possiamo rinunciare alla speranza. «Mi dica, che cosa spinge l’uomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. «È possibile dirigere l’evoluzione psichica dell’uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione?» Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’era da sperare: l’influsso di due fattori - un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto». Per
difendersi, Oriana, non c’è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi
ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’è bisogno d’ammazzare. Ed
anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M’è sempre
piaciuta nei Jataka , le storie delle vite precedenti di Buddha, quella
in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione
anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone.
Lui, che ha già i poteri della preveggenza, «vede» che uno dei
passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo
previene buttandolo nell’acqua ad affogare per salvare gli altri. Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden? «Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate», scrive in questi giorni dall’India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose : una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì. L’immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del «nemico» da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’Afghanistan, ordina l’attacco alle Torri Gemelle; è l’ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa essere l’uomo d’affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame? Questo
non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di
usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche
economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del
nemico da debellare. La
vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi,
rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che
erano stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo
l’ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il
terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei
nostri paesi. L’interesse
nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per
questo ora Washington riscopre l’utilità del Pakistan, prima tenuto a
distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a
causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto
autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i «lavoretti
sporchi» di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa
metterà sulla sua lista nera. A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell’Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s’è «globalizzata», perché non ha resistito all’assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato. Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’io non mi ci ritrovo più. Per questo sto, anch’io ritirato, in una sorta di baita nell’Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte. Tiziano Terzani |
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15.10 |
di M.M. In fondo, era così
semplice la spiegazione. Ce la offre infatti l'Espresso, con una
copertina storica. Al posto di tette o
di sederi femminili, questa volta vediamo un giovane musulmano,
vestito come ci si veste in tanti paesi orientali - cioè in maniera un
po' più comoda e meno ridicola di quella che mi viene imposta quando
devo andare a fare un interpretariato. Ora, se non siamo
deficienti quanto il lettore medio dell'Espresso, ci accorgiamo che la
principale funzione di una pseudo-spiegazione del genere è di sfuggire
alla spiegazione reale. Ora, da una decina di anni, esiste un movimento di protesta contro questo stato di cose. Ci sono cioè persone che dicono che non va bene che tutta una nazione sia in mano a 30.000 persone e che le altre non abbiano alcun diritto. Quindi, la situazione sarebbe pronta per una rivoluzione. Una rivoluzione borghese, come fu all'inizio quella francese: non stiamo parlando di drammatiche situazioni di miseria, come in Palestina o di tragedie come in Iraq. Stiamo parlando di milioni di persone mediamente colte, che si trovano senza alcuna possibilità di esprimersi, di contare, di agire e neanche di trovare lavoro: infatti, la Famiglia Reale preferisce dare lavoro a un medico americano, strapagato, che a un laureato locale che un giorno potrebbe piantare grane, anche se costerebbe di meno. Solo che chi protesta, viene
regolarmente arrestato, torturato o decapitato in piazza. Non ci
vorrebbe molto per spazzare via la banda di briganti e mandarli a godere
di un lussuoso esilio in Inghilterra. L'opposizione è
cominciata con proteste pacifiche, con appelli a Amnesty International e
ai diritti umani. Da parte della Banda Reale, queste proteste hanno
incontrato le stesse risposte che nel 1905 incontrarono le sommosse
russe (guidate, anche in quel caso, da qualche prete barbuto); da parte
del mondo, invece? Beh, la risposta la sapete voi che leggete: se siete
al corrente della situazione saudita, vuol dire che i media hanno dato
ascolto alle loro proteste; se non ne siete al corrente, vuol dire che i
media hanno dato più rilievo ad altre cose. Indirettamente, è
vero, i palestinesi sono vittime della stessa violenza di cui sono
vittime i sauditi, come lo sono anche gli iracheni; ma è anche vero che
le loro storie sono diverse, le reazioni sono diverse e comunque la
ribellione attuale nasce in Arabia Saudita, attorno al problema saudita:
Iraq e Palestina sono
essenzialmente riferimenti simbolici. |
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13.10 |
Nuovi
volti dell'antisemitismo al Senato di Francia
Per chi ha seguito le polemiche -
istigate ad arte - seguite all'incontro interreligioso in Campidoglio di
alcuni giorni fa e sull'"inaccettabile" presenza di Yusuf
al-Qaradâwi alla giornata organizzata dalla Comunità di S.Egidio, e
soprattutto è al corrente degli sforzi che negli ambienti che contano
si fanno per creare una figura d'interlocutore musulmano
"modello", A tutti gli amici dell'ICCII mando un caro saluto e buon lavoro Abdal Qader Vincenzo
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10.10 |
Multiculturalismo
ed Europa. Club Limes Pordenone
Invio il programma -
ancora provvisorio - del convegno di studi che fa Sabato 10 e domenica
11 NOVEMBRE 2001 PROGRAMMA PROVVISORIO
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10.10 |
Hollywood
e la guerra
L'ennesima conferma di quanto l'establishment hollywoodiano sia organico alle strategie statunitensi di dominio planetario e non una semplice industria dello svago... Anche disertando le sale in cui vengono proiettati i film di questa vera e propria "agenzia governativa" si può contribuire ad indebolire il colosso americano. Los Angeles,
8/10/2001 ore 21:01 In un'inversione dei
ruoli, gli specialisti di intelligence del governo americano hanno
chiesto ai cineasti di Hollywood di entrare nella testa di Osama Bin
Laden: registi e sceneggiatori sono stati riuniti segretamente dalle
forze armate Usa presso l'University of Southern California per
delineare i possibili obiettivi e scenari di terrore che potrebbero
essere nella mente del miliardario terrorista.
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10.10 |
Contro
la guerra
GUERRE&PACE GUERRE&PACE
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6.10 |
Indice
di Diario della settimana
Diario della settimana è in edicola. Potete decidere se comprarlo con il cd (Arturo Benedetti Michelangeli interpreta Bach, Scarlatti. Chopin, Bach e Marescotti) oppure senza. Fate voi (ma il cd è bello). Nel numero trovate: 25 idee per salvare il mondo che ci hanno dato, tra gli altri, Ralph Dahrendorf, Bernardo Bertolucci, Corrado Passera, Mario Deaglio, Gian Carlo Caselli, Michail Kalashnikov, Paco Ignacio Taibo II, Fabio Fazio e Muhammed Yunus. Intanto, in Italia... Gianni Barbacetto spiega che cosa significano e che cosa comporteranno le gaffe del Premier, la legge sulle rogatorie, quella sul falso in bilancio e quella sul conflitto di interessi. Domenico Marcello racconta che cosa sono e come funzionano i paradisi fiscali e perché è difficile che George W. Bush decida di assediare un castello da 7 mila miliardi di dollari per trovare gli spiccioli di Osama bin Laden. Alessandro Cassin è andato alla Annin Flag Co. di New York, una ditta che produce bandiere a stelle e strisce da 180 anni e sta facendo soldi a palate grazie al suo 25 per cento di operai libanesi ed egiziani. Sergio Trippodo dal Pakistan ricostruisce i problemi interni del presidente Pervez Musharraf e spiega perché l'appoggio all'azione americana è tutt'altro che scontato. David Silvera, da Tel Aviv, è andato a incontrare un gruppo di oltre mille ex generali israeliani che propongono il ritiro unilaterale dai territori. Rezia Corsini racconta la guerra dal Kosovo, Carla Rescia analizza la Finanziaria di guerra che si appresta a essere approvata dalla maggioranza in Italia. Giusy Concina descrive le disavventure di una donna che ha attraversato l'Arabia Saudita in automobile. Nel resto del giornale trovate l'incontro tra Giuseppe Montesano e Andrea Zanzotto, il poeta che sta per compiere 80 anni. Marco Lodoli ha visto Paul, Mick e gli altri di Ken Loach, Marco Mathieu ha incontrato Leonard Cohen per parlare di Ten new songs, il suo nuovo cd, Luca Fontana (per un errore l'articolo è uscito a firma Allan Bay, ce ne scusiamo) si scaglia contro la "Gultura nazzionale" sbandierata al Maurizio Costanzo Show dal Presidente della Regione Lazio, Francesco Storace. Buona lettura ****************************** Il buon senso Civiltà
sepolte Tutta la città ne
parla Vedi alla voce
Cultura Lo spettatore
esigente Adonai, senti la mia proposta... di Ferruccio fÖlKel Le
recensioni Un
certo stile Se
ne sono andati Le
rubriche
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6.10 |
Enduring freedom Vs Enduring
justice
I rischi che oggi l'Occidente sta
correndo sono forti, e di due tipi. Il primo è esterno: il dilagare
di un terrorismo determinato e feroce, appoggiato a un credo politico
travestito da fede religiosa ma che ha buone probabilità di invadere
sul serio il campo dei credenti islamici. Spetta alle classi dirigenti
e ai mass media occidentali fare le scelte corrette, che isolino la
cultura dell'estremismo apocalittico e sappiano valorizzare le
differenze e le diversità presenti nel mondo islamico rafforzando il
dialogo con le componenti di esso disposte a sostenerlo. Il secondo
rischio è esterno : l'esplodere di un individualismo accompagnato
dalla "perdita di una cultura del limite" che provoca in
ciascun occidentale , e dunque in ciascuno di noi, un'angoscia
profonda, un illimitato desiderio di possedere e di primeggiare,
quindi una frustrazione che si cerca di esorcizzare proiettandola al
di fuori. Il "nemico interno" alla civiltà occidentale, che
regolarmente abbiamo battuto, poteva essere l'altro ieri il nazismo,
ieri il comunismo, oggi sembra emergere in tale ruolo l'estremismo
islamico ( e, secondo alcuni, l'Islam tout court). La società
occidentale sembra non riuscire a guardare con disincanto alla propria
storia e a individuare le ragioni per le quali, nell'età della
globalizzazione compiuta, l'Est e il Sud del mondo hanno maturato
contro di essa un rancore che potrebbe anche deflagare in odio
generalizzato. La società occidentale si sente "il migliore dei
mondi possibili" e non riesce a distinguere fra la bontà dei
suoi principi e delle sue realizzazioni e l'inadeguatezza dei suoi
risultati a livello planetario. Eppure, la contraddizione fra i
principi ispirati ai Diritti dell'Uomo e la realtà di un mondo nel
quale i quattro quinti dell'umanità (oltre quattro miliardi di esseri
umani) vivono al minimo e al di sotto del minimo di dignitosa
sussistenza, dovrebbe essere palese ad ognuno. Ma l'Occidente vive il
dramma di una civiltà orgogliosamente sicura e orgogliosa di sé nel
suo complesso, fatta però d'individui assediati da quel che il
vecchio Eric Fromm ha qualificato come il complesso dell'Avere, e per
questo insoddisfatti e insicuri. Da qui il continuo bisogno della
ricerca di un Nemico Metafisico. Col rischio di materializzare sul
serio i nemici evocati. L'Islam è ancora molto lontano dall'essere in
blocco un nemico dell'Occidente. Rischia di divenirlo - dando ragione
alle infauste profezie travestite da analisi di Samuel Hungtington -
se gli occidentali continueranno a trattarlo come tale senza le
distinzioni dovute. Questo per quanto riguarda il problema generale.
Ma perché l'attentato dell'11 settembre? Quanto alle reazioni degli Stati Uniti, che appare oggi come il problema specifico, ci troviamo dinnanzi a una questione di diritto internazionale. Gli USA sono il paese colpito dagli attentati dell'11 settembre: ma quel che vale anche per gli individui vale per tutti gli stati, compresa la superpotenza. Non ci si può dire certi della colpevolezza di chicchessia e individuare addirittura i complici senza prima esibire le prove chiare, evidenti e incontrovertibili della colpevolezza dell'accusato. Non si può imporre a nessuno stato di consegnare un ospite di esso senza esibire prove certe e fondate sulle quali basare la ragionevolezza della richiesta. Quando poi si predispongano azioni militari per le quali si chiede consenso e appoggio agli alleati, non si può pretendere che tale consenso e tale appoggio siano incondizionati e non soggetti a verifica; è illegittimo in altri termini rivendicare a sé il diritto alla segretezza e alla copertura dei propri atti, comunque giustificate. A livello internazionale, le responsabilità di Usama bin Laden vanno sottoposte al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, che appare come l'unico organo in grado di legittimamente decidere in materia. Ogni altra scelta è illegale e illegittima; essa pone lo stato che se ne assume la responsabilità, in una condizione illegale e illegittima nei confronti del consorzio delle nazioni. Franco Cardini |
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3.10 |
Il
dio nascosto
New York, 11 Settembre 2001
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2.10 |
Sfondo
porte aperte
Cari amici, colleghi, conoscenti, per molti di voi sfonderò delle porte aperte, ma non importa. Sull’articolo della Fallaci apparso l’altro ieri sul Corriere sono emersi concetti assai simili a quelli espressi qualche giorno fa dal nostro capo del governo. Entrambi, pur usando pulpiti, platee e lessici ben diversi, hanno esposto sostanzialmente la stessa idea: l’Occidente, con la sua civiltà di libertà, democrazia e progresso è superiore all’Islam. Ciò che mi muove a scrivervi è la triste constatazione che, da noi, la Fallaci e Berlusconi non sono affatto soli. Specie in queste settimane, tale concetto l’ho più volte sentito sull’autobus, in fila alla posta, al mercato, l’ho incontrato spesso nei forum d’internet e nelle Lettere al Direttore dei quotidiani. Con le loro affermazioni, questi due italiani hanno dato voce ad un pensiero condiviso da molti, moltissimi altri italiani. “L’ho penso anch’io!”, “Era ora che lo si dicesse a gran voce!”. Per questo è bene riflettere. Per questo non possiamo tacere. Tra le molte contraddizioni e le non-argomentazioni, ho preferito isolare tre punti principali dal testo della Fallaci: 1)
La Fallaci fonda le sue dodici cartelle essenzialmente sul
concetto che tutti i musulmani, da Bin Laden al marocchino al bengalese,
abbiano come principale obiettivo quello di islamizzare il nostro
progredito e democratico Occidente cristiano. Da qui invita tutti gli
italiani a “svegliarsi” e a rendersi conto che se non ci si oppone a
questa nuova “Crociata”, domani avremo il “muezzin invece delle
campane e il chador al posto delle minigonne”. Basa questa tesi, da
una parte, sulla sua personale esperienza di giornalista nel mondo
arabo-islamico negli anni ’70-80 e, dall’altra, sulle affermazioni
che gli organi d’informazione nostrani attribuiscono ad un tale di
nome Bin Laden. L’Islam della Fallaci è dunque limitato ai suoi
ricordi (di paesi che vent’anni fa erano assai più contrapposti
ideologicamente all’Occidente di quanto non lo siano oggi) e ai
presunti deliri di Bin Laden e dei suoi seguaci. Dal basso dei miei 25
anni, dalla povertà delle mie conoscenze e dal misero dei miei
soggiorni nei paesi arabi, ho scoperto un Islam assai più vasto e ricco
di quello della Fallaci. Sono italiano anch’io e non ho motivi per
esser di parte. Ma andiamo avanti. 2)
Dice chiaramente che le due culture (la nostra e la loro) non
sono affatto paragonabili. Dà sfoggio della sua erudizione ricordando
quanto illustri siano le nostre radici (da Omero alle astronavi,
menziona solo chi le conviene menzionare!) mentre liquida in poche righe
i fondamenti dell’altra cultura (“Cerca cerca, io non ci trovo che
Maometto col suo Corano e Averroè coi suoi meriti da studioso, Arafat
ci trova anche i numeri e la matematica”). A parte il dubbio se sia
possibile o meno pesare due culture come fossero pere o banane (Dante 3
kg, al-Mutanabbi mezzo), la Fallaci dà più volte la prova d’ignorare
gran parte del sistema culturale arabo-islamico. Come può pesare le
mele con le banane se non ha le banane fra le mani? Fuor di metafora, se
conosce l’Islam solo di sfuggita, come può permettersi di giudicarlo,
di paragonarlo a ciò che invece dimostra di conoscere così bene, ciò
che le appartiene, la sua cultura di provenienza? Già sapevamo che uno
dei luoghi comuni più benevoli sugli arabo-musulmani è proprio quello
di ridurli a traduttori di Aristotele, a trascrittori di cifre indiane e
ad inventori del cannocchiale…e la Fallaci conferma. 3)
Date le premesse e il loro svolgimento, conclude invitandoci ad
innalzare un muro: chiudiamoci, non facciamoli passare! Tralasciando la
banale osservazione che una cultura - come la Storia c’insegna - può
arricchirsi grazie anche all’incontro/scontro con altre culture, e pur
sforzandoci d’immaginare un’Occidente formatosi nell’Iperuranio,
lontano dalle impurità che da quattordici secoli lo circondano, viene
spontanea la domanda: se la nostra cultura, la nostra civiltà
occidentale è così eccelsa, elevata e superiore, perché mai dovremmo
temere di fronte a tanta ‘barbarie’? Come potrebbe mai un Bin Ladin
rovesciare millenni di libertà, di democrazia, di conquiste
scientifiche, etiche, umane, e riportarci tutti in quell’oscuro
medioevo fatto di barbe lunghe e donne coperte? Per le Fallaci e i
Berlusconi, la certezza di superiorità risiedeva solo in quelle due
torri, tanto che ora, tra le macerie, brancolano e innalzano muri? Se
l’identità culturale italiana è ormai così “radicata e
formata”, come ripete la Fallaci, perché mai potrebbe venir scalfita
da corpi estranei incivili, perché mai dovrebbe abdicare di
fronte alla minaccia del terrore? Di cosa hanno veramente paura
le moltissime Fallaci che sono tra noi? Vi lascio questa domanda, oltre al testo integrale dell’articolo del Corriere. Molte altre porte aperte ci sono da sfondare, molti altri punti da sottolineare. Vi esorto allora, a partecipare ad un dibattito che, a mio parere, non va lasciato cadere. Scrivete, scrivetevi tra voi, scrivete ad altri, scrivete al Corsera. Ma non rimaniamo in silenzio a lasciar parlare coloro che ignorano la storia della loro stessa civiltà. Lorenzo Trombetta
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2.10 |
La lettera
della Fallaci
Mi chiedi di
parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio
che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle
cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni
gioiscono come l'altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza.
«Vittoria! Vittoria!». Uomini, donne, bambini. Ammesso che chi fa
una cosa simile possa essere definito uomo, donna, bambino. Ho
saputo che alcune cicale di lusso, politici o cosiddetti politici,
intellettuali o cosiddetti intellettuali, nonché altri individui
che non meritano la qualifica di cittadini, si comportano
sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: «Bene. Agli americani
gli sta bene». E sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata
d'una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni
distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto
di sputargli addosso. Io gli sputo addosso. Arrabbiata come me, la
poetessa afro-americana Maya Angelou ieri ha ruggito: «Be angry. It's good to be angry, it's
healthy. Siate
arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. È sano». E se a me fa bene
io non lo so. Però so che non farà bene a loro, intendo dire a chi
ammira gli Usama Bin Laden, a chi gli esprime comprensione o
simpatia o solidarietà. Hai acceso un detonatore che da troppo
tempo ha voglia di scoppiare, con la tua richiesta. Vedrai. Mi
chiedi anche di raccontare come l'ho vissuta io, quest'Apocalisse.
Di fornire insomma la mia testimonianza. Incomincerò dunque da
quella. Ero a casa, la mia casa è nel centro di Manhattan, e alle
nove in punto ho avuto la sensazione d'un pericolo che forse non mi
avrebbe toccato ma che certo mi riguardava. La sensazione che si
prova alla guerra, anzi in combattimento, quando con ogni poro della
tua pelle senti la pallottola o il razzo che arriva, e rizzi gli
orecchi e gridi a chi ti sta accanto: «Down! Get down! Giù! Buttati giù». L'ho respinta. Non ero mica in Vietnam,
non ero mica in una delle tante e fottutissime guerre che sin dalla
Seconda Guerra Mondiale hanno seviziato la mia vita! Ero a New York,
perbacco, in un meraviglioso mattino di settembre, anno 2001. Ma la
sensazione ha continuato a possedermi, inspiegabile, e allora ho
fatto ciò che al mattino non faccio mai. Ho acceso la Tv. Bè,
l'audio non funzionava. Lo schermo, sì. E su ogni canale, qui di
canali ve ne sono quasi cento, vedevi una torre del World Trade
Center che bruciava come un gigantesco fiammifero. Un corto
circuito? Un piccolo aereo sbadato? Oppure un atto di terrorismo
mirato? Quasi paralizzata son rimasta a fissarla e mentre la
fissavo, mentre mi ponevo quelle tre domande, sullo schermo è
apparso un aereo. Bianco, grosso. Un aereo di linea. Volava
bassissimo. Volando bassissimo si dirigeva verso la seconda torre
come un bombardiere che punta sull'obiettivo, si getta
sull'obiettivo. Sicché ho capito. Ho capito anche perché nello
stesso momento l'audio è tornato e ha trasmesso un coro di urla
selvagge. Ripetute, selvagge. «God! Oh, God! Oh, God, God, God!
Gooooooood! Dio! Oddio! Oddio! Dio,
Dio, Dioooooooo!» E l'aereo s'è infilato nella seconda torre come
un coltello che si infila dentro un panetto di burro.
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2.10 |
Conferenza
di Pace in Medioriente
L’Italia e l’Europa per la pace in Medio Oriente "Conferenza nazionale per la pace in Medio Oriente" Bologna, 9 – 10 ottobre 2001 Premessa. "La Perugia-Assisi contro il terrorismo per la riconciliazione tra i popoli" promossa dalla Tavola della Pace, organizza una conferenza a Bologna dal titolo "L’Italia e l’Europa per la Pace in Medio Oriente" al fine di affermare il principio che questo è il momento in cui tutti i popoli e gli stati della Terra si devono unire per costruire un nuovo ordine mondiale fondato sul rispetto della vita e sul ripudio della violenza, del terrorismo e della guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti. La pace e la sicurezza, basate sul diritto dei popoli e sul legittimo riconoscimento dei loro diritti, vanno perseguite con l’assunzione di responsabilità della società civile e delle sue organizzazioni, cui deve corrispondere un nuovo e diverso impegno degli Stati. Le Nazioni Unite e tutte le istituzioni internazionali e democratiche debbono essere sostenute nella loro azione per mettere fine a tutti i conflitti e alle grandi violazioni dei diritti umani che continuano a insanguinare il mondo. Per rafforzare e garantire la democrazia e la sicurezza è necessaria l’affermazione dei diritti e della legittimità per tutti i popoli della terra. Il Medio Oriente è da troppi anni teatro di conflitti e luogo di violazione del diritto internazionale. Per la democrazia e la convivenza pacifica di tutti è necessaria una pace giusta e durevole, nel riconoscimento dei reciproci diritti dei popoli che vivono in quell’area, e per ristabilire il diritto e la legalità . Nel momento in cui si vogliono sconfiggere guerra e violenze non si può disattendere ancora una soluzione giusta che riporti un equa soluzione alla questione palestinese. I palestinesi affermano il loro diritto a vivere da uomini e donne liberi in uno stato proprio, entro confini garantiti internazionalmente, realmente sovrani sul proprio territorio, nel mutuo riconoscimento degli stessi diritti per il popolo israeliano. Dal 28 settembre 2000 la Palestina è di nuovo teatro di uno scenario opposto, che si sostituisce alle voci delle persone che, dalle due parti, continuano a riaffermare la necessità di un dialogo, di un negoziato per una soluzione equa e duratura. I rapporti delle varie agenzie dell'Onu, della Banca Mondiale e delle organizzazioni della società civile descrivono le drammatiche condizioni di vita del popolo palestinese. La gravissima crisi in corso e le drammatiche condizioni di vita del popolo palestinese sollecitano un deciso intervento politico e umanitario dell’Italia, dell’Europa e dell’Onu. La società civile e le sue organizzazioni associative debbono promuovere con la propria partecipazione attiva azioni di cooperazione e di solidarietà a tutti i livelli e in tutti i campi. Per promuovere questo obiettivo, si propone di organizzare una "Conferenza nazionale per la pace in Medio Oriente" da tenersi a Bologna il 9 e 10 ottobre 2001, in occasione e in preparazione della 4a Assemblea dell’Onu dei Popoli e della Marcia per la pace Perugia-Assisi del prossimo 14 ottobre 2001. Il collegamento tra questi eventi consentirà una maggiore amplificazione dei temi e delle proposte al centro della Conferenza.
Gli obiettivi. La "Conferenza nazionale per la pace in Medio Oriente" si propone di: - riflettere sulla grave crisi in corso e sollecitare il Governo italiano, l’Europa e l’Onu ad assumere tutte le iniziative concrete necessarie per fermare le azioni militari contro le popolazioni civili e delle violazioni dei diritti umani, inviare aiuti concreti alla popolazione palestinese, promuovere la ripresa del negoziato, la completa applicazione degli accordi già sottoscritti e il raggiungimento di un accordo finale basato sulle risoluzioni delle Nazioni Unite;- promuovere lo sviluppo delle iniziative di solidarietà e cooperazione con il popolo palestinese per affrontare la fase di emergenza che si è aperta con la rottura del processo di pace favorendo la relazione tra soggetti nazionali e internazionali in Europa e in Palestina; - esprimere il nostro pieno sostegno a tutte le forze di pace che in Palestina e Israele si battono per la costruzione di una pace giusta, basata sul reciproco rispetto dei diritti umani, sulle risoluzioni delle Nazioni Unite e dunque sul principio "Due Stati per due Popoli" con Gerusalemme capitale di entrambi. Le conclusioni della Conferenza saranno presentate a Perugia, nell’ambito della 4a Assemblea dell’Onu dei Popoli (11-13 ottobre), e saranno rilanciate domenica 14 ottobre durante la Marcia per la pace Perugia-Assisi. I principali ospiti israeliani e palestinesi, dopo essere stati a Bologna, parteciperanno ad entrambi gli eventi insieme agli organizzatori della Conferenza.
Programma Martedì 9 ottobre 2001 10.00 – 10.30 Gli obiettivi della Conferenza Flavio Lotti Tavola della Pace 10.30 – 12.30 La situazione in Palestina e Israele prima sessione tematica con interventi degli invitati palestinesi e israeliani dibattito 12.30 – 14.00 Pausa 14.00 – 16.00 La situazione in Palestina e Israele seconda sessione tematica con interventi degli invitati palestinesi e israeliani dibattito 16.00 – 16.15 Pausa 16.15 – 18.30 Le proposte e l’impegno della società civile e delle istituzioni locali italiane Stefano Marini Coordinamento Nazionale Enti Locali per la Pace Betty Leone CGIL Nazionale Tom Benetollo ARCI Nazionale Giulio Marcon ICS Mario Gay Associazione ONG Italiane
Mercoledì 10 ottobre 2001 9.30 – 10.30 L’Italia e l’Europa per la pace in Medio Oriente sintesi dei lavori e delle proposte emerse durante le due sessioni tematiche
Tavola Rotonda Luisa Morgantini Parlamento Europeo Enzo Ghigo Coordinamento Presidenti delle Regioni Leonardo Domenici ANCI Pierre Galand ECCP Network Europeo 12.00 – 12.15 Pausa 12.15 – 13.00 Conclusioni Sono previsti interventi di politici, parlamentari, rappresentanti dell’associazionismo italiano e degli enti locali. ùI promotori: Tavola della Pace Piattaforma delle ONG Italiane per la Palestina Consorzio Italiano di Solidarietà
Patrocinio: Regione Emilia Romagna Sono stati invitati: Daphna Golan Groag Schmulik Mustapha Barghouthi Nourit Peled Rana Nashashibi Salah Salah Hanno dato la propria adesione all'iniziativa: ARCI Emilia Romagna, ARCI Nazionale, Associazione Donne in Nero, Associazione Giorgio la Pira RTM, CGIL, CGIL Camera del Lavoro di Bologna, CGIL Camera del Lavoro Milano, CGIL Camera del Lavoro di Modena, CGIL Camera del Lavoro di Torino, CGIL Piemonte, CGIL Toscana, CISP, COCIS, Comitato Modena incontra Jenin, Coordinamento Nazionale Enti Locali per la Pace, COSPE,CRIC, DI-SVI, FIOM CGIL, Fondazione Terre des hommes, Gruppo dei Socialisti Europei, Gruppo Unitario della sinistra europea - verdi nordici, GVC, NEXUS CGIL, Peace Games, Progetto Sviluppo CGIL, UISP Nazionale. Per informazioni: Fabio Artuso Segreteria Organizzativa c/o Uisp Emilia Romagna, via Riva Reno 75/3, Bologna tel. 051/233612 – 051 125881 e-mail convegno.mo@uisp.it |
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1.10 |
L'Islam
d'Italia ha paura
Viaggio
nell'inquietudine dei 700 mila islamici del nostro Paese ISLAM LAICO ISLAM ECUMENICO ISLAM APOLITICO ISLAM ORTODOSSO ISLAM POLITICO ISLAM RIVOLUZIONARIO
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