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QUELLA TALPA ALLA MOBILE    COSE DI COSA NOSTRA

Quella Talpa alla mobile

DI BIANCA STANCANELLI

Un’Alfetta blindata bianca parte sgommando e si lascia alle spalle il portone della squadra mobile di Palermo. È la macchina del vicequestore Antonino Cassarà, 38 anni, vicedirigente della mobile. Alla guida c’è l’autista che l’accompagna da anni dappertutto, Natale mondo. Sul sedile posteriore c’è un altro agente, Roberto Antiochia, ufficialmente in ferie in quei giorni, tornato a Palermo per scortare Cassarà. In una stanza della questura una talpa alza un telefono, compone un numero. "Sono parfiti", avverte. Da sei giorni Cassarà non torna a casa, è rimasto in ufficio a lavorare. Ora, prima di uscire, ha telefonato alla moglie Laura: "c’è niente da mangiare? Stò arrivando". È il 6 agosto 1985, un martedì, l’orologiio segna le 14,55.

Nell’afa del primo pomeriggio l’Alfetta corre a sirena spiegata nelle strade deserte. Imbocca la corsia preferenziale di via Libertà, l’arteria centrale di Palermo. Sette minuti dopo varca il cancello di un condominio di via Croce Rossa, un gruppo di palazzoni, divisi da aiuole e vialetti. Al numero 81, in un appartamento all’ottavo piano, abita la famiglia Cassarà. Di fronte al numero 77, un commando di nove killer è appostato sulle scale dal primo al terzo piano. Gli assassini hanno già i kalashnikov puntati sul portone di fronte.

L’Alfetta si ferma davanti ai tre gradini che conducono nell’atrio del palazzo al numero civico 81. Sul balcone dell’ottavo piano, Laura Cassarà, si è affacciata in attesa dell’arrivo del marito, non vede nulla che possa insospettirla. Accanto a lei c’è una bambina di due anni, Elvira, la più piccola dei suoi tre figli. Antonino Cassarà, chiamato affettuosamente Ninni dai famigliari e dagli amici, spalanca lo sportello, scende, alza gli occhi verso il balcone, guarda la moglie e la figlia, supera a passo svelto il muso dell’Alfetta, dirigendosi verso il portone. Dietro di lui, l’agente Antiochia si guarda intorno e segue Cassarà con la pistola in pugno.

In quel momento dal condominio di fronte i killer sparano la prima raffica: è il "puntamento", per inquadrare meglio la vittima nel mirino. Laura Cassarà pensa ad una bomba. Poi, si scatena la tempesta di fuoco. I kalashnikov scaraventano contro l’obbiettivo 250 proiettili. Solo due colpiscono il vicequestore. Il primo lo ferisce al braccio mentre sale i tre gradini che conducono nell’atrio. Gli strappa via il gomito. Il secondo proiettile gli spezza l’aorta. Cassarà si accascia sul pavimento davante alle scale. Antiochia, colpito alla testa, crolla a terra dietro di lui. L’agente Mondo scampa alle raffiche, protetto in parte dalla macchina blindata ed in parte da una fioriera. È il solo a salvarsi da quella pioggia di piombo e quella fortuna gli costerà per anni l’ingiusto sospetto d’aver consegnato Ninni Cassarà ai suoi assassini: nel 1988, anche lui assassinato dalla mafia.

 

L’inferno di via Croce Rossa dura pochi secondi. Laura Cassarà vola giu dalle scale con la figlia in braccio. Suona a tutte le porte. Nessuno apre. Solo al secondo piano un uscio si chiude. La donna lascia la bambina nelle braccia di un vicino. Arriva nell’atrio, s’inginocchia di slincio davanti al marito, gli prende la testa fra le braccia. E’ l’ultimo abbraccio: Ninni Cassarà è già morto.

"Ma che torna a fare? Restatena in vacanza. Qui, tra quelli che trasferiscono e quelli che ammazzano, chissà quanti saremo alla fine dell’estate". Martedì 6 nAgosto 1985, le nove del mattino. Al telefono con un collega, Cassarà prova a scherzare. Il gran sole dell’estate siciliana abbaglia gli alberi polverosi di piazza della Vittoria, davanti al portone della squadra mobile. La finesra dell’ufficio, al primo piano, incornicia un cielo reso opaco dall’afa. cassarà ha l’aria stanca, la pelle grigia, le occhiaie. da sei giorni dorme sui divani della mobile. Mangia panini. lavora senza sosta per scoprire chi ha ammazzato il suo amico Beppe montana, il commissario segugio che dava la caccia ai latitanti di Cosa Nostra. Nove giorni prima,alle nove di sera, l’hanno assassinato sulla piazzola di cemento di un piccolo cantiere navale, tra le barche di Porticello, un paese di ma re a 15 chilometri da Palermo. Montana tornava da una gita in motoscafo con la fidanzata e gli amici, indossava solo il costume da bagno, non aveva neppure lapistola. Quando gli hanno sparato cinque colpi di pistola in faccia, Montana stava parlando col padrone del cantiere di noie del motoscafo.

 

È’ stato l’inizio della peggiore estate della questura di Palermo. Domenico 28 luglio, l’assassinio di Montana. Venerdì 2 agosto, in una stanza della squadra mobile, è morto di botte Salvatore Marino, un picciotto di borgata sospettato d’aver partecipato all’agguato contro il commissario. Il corpo di Marino, hanno urlato i parenti, era gonfio, nero di lividi. in ore e ore d’interrogatorio, in una stanza dalla quale sono entrate ed uscite almeno una cinquantina di persone fra poliziotti e carabinieri, gli è stato pefino cacciato a forza un tubo in gola per traccanare acqua e sale: la <cassetta>, così i palermitani chiamano quella tortura

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"COSE DI COSA NOSTRA"

Gli uomini d’onore sono in Sicilia probabilmente più di cinquemila. Scelti dopo durissima selezione, obbedienti a regole severe, dei veri professionisti del crimine. Anche quando si definiscono "soldati", sono in realtà generali. O meglio cardinali di una chiesa molto meno indulgente di quella cattolica. Le loro scelte di vita sono intransigenti. Cosa Nostra costituisce un mondo a sé che va compreso nella sua globalità. Con riferimento soprattutto al principio di rispetto della verità, vitale per l’organizzazione. Nessuno forse si è dato la briga di capire come mai il "traditore" Buscetta al maxiprocesso di Palermo abbia potuto deporre nel silenzio assoluto delle gabbie piene di un centinaio di mafiosi. Il fatto è che Buscetta godeva di grande prestigio personale in seno all’organizzazione, ma soprattutto che, benché pentito e quindi infame, egli era stato vittima di un torto inammissibile da parte dei suoi compagni di un tempo. Avevamo ucciso due dei suoi figli che non erano neppure uomini d’onore. Il silenzio che ha accolto le sue dichiarazioni gli dava ragione quando sosteneva di essere lui il vero uomo d’onore, mentre i "Corleonesi" e i loro alleati erano la feccia di Cosa Nostra, non avendo rispettato le regole.

Un altro esempio conferma la razionalità delle regole su cui si basa la mafia. È norma che il figlio di un uomo d’onore ucciso da Cosa Nostra non possa essere accolto nell’organizzazione cui apparteneva il padre. Perché? Per il famoso obbligo di dire la verità. Nel momento in cui entra a far parte di Cosa Nostra, il figlio avrebbe il diritto di sapere perché suo padre è stato ucciso, il diritto di esigere spiegazioni che sarebbero fonte di grossi problemi. Allora si è deciso di vietarne l’ammissione proprio per evitare di doversi trovare nella necessità di mentirgli.

Queste regole ed altre analoghe rappresentano l’esasperazione di valori e di comportamenti tipicamente siciliani. Nella vita quotidiana se ne riscontrano moltissimi esempi. Così, in Sicilia, è buona regola non girare armati, a meno di essere pronti a servirsi dell’arma. Se uno porta con sé la pistola, sa che deve usarla, perché sa che colui che gli sta di fronte, lui, lo farà. Il concetto di arma dissuasiva, non esiste da queste parti. La pistola si porta perché serve a sparare e non a intimidire.

Un giorno ho assistito a Palermo a una scena di strada estremamente significativa. Un tizio protesta contro l’altro che ha parcheggiato di traverso, intralciando la circolazione. Si agita, urla. L’altro lo osserva indifferente e poi continua a parlare con un suo amico come se niente fosse. Il tizio non fa una piega e se ne va senza fiatare. Aveva capito, davanti all’atteggiamento sicuro dell’interlocutore, che, se avesse insistito, le cose avrebbero preso una brutta piega e lui sarebbe uscito perdente dallo scontro. Questa è la Sicilia, l’isola del potere e della patologia del potere.

In questa Sicilia, in questa Cosa Nostra dalle regole inappetibili e dal formalismo intransigente, sono nati i pentiti. Nelle aule dei palazzi di giustizia circolava un rassicurante luogo comune: "il mafioso non parla mai, altrimenti sarebbe o un pazzo o un uomo morto". Giustissimo in una situazione, diciamo così, di normalità. Non in piena guerra di mafia. Non in piena offensiva dello stato.

Dietro il luogo comune del mafioso che non parla si nasconde qualcosa d’altro: fatalismo, scoramento, rifiuto di andare avanti. Non è un caso che appena un uomo d’onore ha espresso il desiderio di collaborare sia stato battezzato anche troppo rivelatore "pentito", "delatore", "infame", facendo il gioco di Cosa Nostra, mettendo in bella mostra la cultura del peccato che ci assilla, la mancanza di pragmatismo che ci affligge.

Sono stato pesantemente attaccato sul tema dei pentiti. Mi hanno accusato di aver con loro dei rapporti "intimistici", del tipo " conversazione accanto al caminetto". Si sono chiesti come avevo fatto a convincere tanta gente a collaborare e hanno insinuato che avevo fatto loro delle promesse mentre ne estorcevano le confessioni. Hanno insinuato che nascondevo nei "cassetti" la "parte politica" delle dichiarazioni di Buscetta. Si è giunti a insinuare perfino che collaboravo con una parte della mafia per eliminare l’altra. L’apice si è toccato con le lettere del "corvo", in cui si sosteneva che con l’aiuto e la complicità di De Gennaro, del capo della polizia e di alcuni colleghi, avevo fatto tornare in Sicilia il pentito Contorno affidandogli la missione di sterminare i "Corleonesi"!

Insomma, se qualche risultato avevo raggiunto nella lotta contro la mafia era perché, secondo quelle lettere, avevo calpestato il codice e, commesso gravi delitti. Però gli atti dei miei processi sono sotto gli occhi di tutti e sfido chiunque a scovare anomalie di sorta. Centinaia di esperti avvocati ci hanno provato, ma invano.

La domanda da persi dovrebbe essere un’altra: perché questi uomini d’onore hanno mostrato di fidarsi di me? Credo perché sanno quale rispetto io abbia per i loro tormenti,perché sono sicuri che non li inganno,m che non interpreto la mia parte di magistratura in modo burocratico, e che non provo timore reverenziale nei confronti di nessuno. E soprattutto perché sanno che, quando parlano con me, hanno di fronte un interlocutore che ha respirato la stessa aria di cui loro si nutrono.

Sono nato nello stesso quartiere di molti di loro. Conosco a fondo l’anima Siciliana. Da una inflessione di voce, da una strizzatine d’occhi capisco molto di più che da luoghi discorsi.

Sono dunque diventato una sorta di difensore di tutti i pentiti perché, in un modo o nell’altro, li rispetto di tutti, anche coloro che mi hanno deluso, come in parte Contorno. Ho condiviso la loro dolorosa avventura, ho sentito quanto faticavano a parlare di sé, a raccontare misfatti di cui ignoravano le possibili ripercussioni negative personali, sapendo che su entrambi i lati della barricata si annidano nemici in agguato pronti a far loro pagare cara la violazione della legge dell’omertà.

Provate a mettervi al loro posto: erano uomini d’onore, riveriti, stipendiati da un’organizzazione più seria e più solida di uno Stato sovrano, ben protetti dal loro infallibile servizio d’ordine, che all’improvviso si trovano a doversi confrontare con uno Stato indifferente, da una parte, e con un’organizzazione inferocita per il tradimento, dall’altra.

Io ho cercato di immedesimarsi nel loro dramma umano e prima di passare agli interrogativi veri e propri, mi sono sforzato sempre di comprendere i problemi personali di ognuno e di collocarli in un contesto preciso. Scegliendo argomenti che possono confortare il pentito nelle sua ansia di parlare. Ma non ingannandolo mai sulle difficoltà che lo attendono per il semplice fatto di collaborare con la giustizia.

Non gli ha dato mai del tu, al contrario di tanti altri; non lo ho mai insultato, come alcuni credono di essere autorizzati a fare, e neppure gli ha portato dolci siciliani, come qualcuno ha insinuato: "Falcone porta tutti i giorni i cannoli a Buscetta….." Tra me e loro c’è sempre un tavolo, nel senso proprio e metaforico del termine: sono pagato dallo Stato perseguire dei criminali, non per farmi degli amici. A volte ci si chiede se ci sono pentiti "veri" e pentiti "falsi". Rispondo che è facile da capire se si conoscono le regole di Cosa Nostra. Un malavitoso di Adrano (Catania), un certo Pellegriti che aveva già collaborato utilmente coi magistrati per delitti commessi in provincia di Catania, aveva stranamente dichiarato di essere informato sull’assassinio a Palermo del presidente della Regione Siciliana, PierSanti Mattarella. Nel 1989 mi reco con alcuni colleghi a trovarlo in prigione per saperne di più e il Pellegriti racconta di essere stato incaricato da mafiosi palermitani e catanesi di recapitare nel capoluogo siciliano la armi destinate all’assassinio.

Era chiaro fin dalle primissime battute che mentiva. Infatti è ben strano che è un’organizzazione come Cosa Nostra, che ha sempre avuto grande disponibilità di armi, avesse la necessità di portare pistole a Palermo; ne è poi pensabile, conoscendo le ferree regole della mafia, che un omicidio "eccellente", deciso al più alto livello della Commissione, venga affidato ad altri che ad uomini dell’organizzazione di provata fede, i quali ne avrebbero dovuto preventivamente informare solo i capi del territorio in cui l’azione si sarebbe svolta; mai comunque estranei come il Pellegriti. I riscontri delle dichiarazioni di Pellegriti subito disposti, hanno confermato, come era previsto, che si trattava di accuse inventate di sana pianta.

Questa avventura ha anche reso più autentico il mio senso dello Stato. Confrontandomi con lo "Statomafia" mi sono reso conto di quanto esso sia più funzionale ed efficiente del nostro Stato e quanto, proprio per questa ragione, sia indispensabile impegnarsi al massimo per conoscerlo a fondo allo scopo di combatterlo.

Mi rimane comunque una buona dose di scetticismo, non però alla maniera di Leonardo Sciascia che sentiva il bisogno di Stato, ma nello Stato non aveva fiducia. Il mio scetticismo, piuttosto che una diffidenza sospettosa, è quel dubbio metodico che finisce col rinsaldare le convinzioni. Io credo nello Stato, e ritengo che sia proprio la mancanza di senso dello Stato, di Stato come valore interiorizzato, a generare quelle distorsioni presenti nell’animo siciliano: il dualismo tra società e Stato; il ripiegamento sulla famiglia, sul gruppo, sul clan; la ricerca di un alibi che permetta a ciascuno di vivere e lavorare in perfetta autonomia, senza alcun riferimento a regole di vita collettiva. Che cosa se non il miscuglio di anomia e di violenza primitiva è all’origine della mafia? Quella mafia che essenzialmente, a pensarci bene, non è altro che espressione di un bisogno di ordine e quindi di Stato.

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Aggiornato il 12/06/01