"COSE DI
COSA NOSTRA"
Gli uomini d’onore sono in
Sicilia probabilmente più di cinquemila. Scelti dopo durissima selezione,
obbedienti a regole severe, dei veri professionisti del crimine. Anche
quando si definiscono "soldati", sono in realtà generali. O
meglio cardinali di una chiesa molto meno indulgente di quella cattolica. Le
loro scelte di vita sono intransigenti. Cosa Nostra costituisce un mondo a
sé che va compreso nella sua globalità. Con riferimento soprattutto al
principio di rispetto della verità, vitale per l’organizzazione. Nessuno
forse si è dato la briga di capire come mai il "traditore"
Buscetta al maxiprocesso di Palermo abbia potuto deporre nel silenzio
assoluto delle gabbie piene di un centinaio di mafiosi. Il fatto è che
Buscetta godeva di grande prestigio personale in seno all’organizzazione,
ma soprattutto che, benché pentito e quindi infame, egli era stato vittima
di un torto inammissibile da parte dei suoi compagni di un tempo. Avevamo
ucciso due dei suoi figli che non erano neppure uomini d’onore. Il
silenzio che ha accolto le sue dichiarazioni gli dava ragione quando
sosteneva di essere lui il vero uomo d’onore, mentre i "Corleonesi"
e i loro alleati erano la feccia di Cosa Nostra, non avendo rispettato le
regole.
Un altro esempio conferma la razionalità
delle regole su cui si basa la mafia. È norma che il figlio di un uomo d’onore
ucciso da Cosa Nostra non possa essere accolto nell’organizzazione cui
apparteneva il padre. Perché? Per il famoso obbligo di dire la verità. Nel
momento in cui entra a far parte di Cosa Nostra, il figlio avrebbe il diritto
di sapere perché suo padre è stato ucciso, il diritto di esigere spiegazioni
che sarebbero fonte di grossi problemi. Allora si è deciso di vietarne l’ammissione
proprio per evitare di doversi trovare nella necessità di mentirgli.
Queste regole ed altre analoghe
rappresentano l’esasperazione di valori e di comportamenti tipicamente
siciliani. Nella vita quotidiana se ne riscontrano moltissimi esempi. Così,
in Sicilia, è buona regola non girare armati, a meno di essere pronti a
servirsi dell’arma. Se uno porta con sé la pistola, sa che deve usarla,
perché sa che colui che gli sta di fronte, lui, lo farà. Il concetto di arma
dissuasiva, non esiste da queste parti. La pistola si porta perché serve a
sparare e non a intimidire.
Un giorno ho assistito a Palermo a una scena
di strada estremamente significativa. Un tizio protesta contro l’altro che
ha parcheggiato di traverso, intralciando la circolazione. Si agita, urla. L’altro
lo osserva indifferente e poi continua a parlare con un suo amico come se
niente fosse. Il tizio non fa una piega e se ne va senza fiatare. Aveva
capito, davanti all’atteggiamento sicuro dell’interlocutore, che, se
avesse insistito, le cose avrebbero preso una brutta piega e lui sarebbe
uscito perdente dallo scontro. Questa è la Sicilia, l’isola del potere e
della patologia del potere.
In questa Sicilia, in questa Cosa Nostra
dalle regole inappetibili e dal formalismo intransigente, sono nati i pentiti.
Nelle aule dei palazzi di giustizia circolava un rassicurante luogo comune:
"il mafioso non parla mai, altrimenti sarebbe o un pazzo o un uomo
morto". Giustissimo in una situazione, diciamo così, di normalità. Non
in piena guerra di mafia. Non in piena offensiva dello stato.
Dietro il luogo comune del mafioso che non
parla si nasconde qualcosa d’altro: fatalismo, scoramento, rifiuto di andare
avanti. Non è un caso che appena un uomo d’onore ha espresso il desiderio
di collaborare sia stato battezzato anche troppo rivelatore
"pentito", "delatore", "infame", facendo il
gioco di Cosa Nostra, mettendo in bella mostra la cultura del peccato che ci
assilla, la mancanza di pragmatismo che ci affligge.
Sono stato pesantemente attaccato sul
tema dei pentiti. Mi hanno accusato di aver con loro dei rapporti
"intimistici", del tipo " conversazione accanto al
caminetto". Si sono chiesti come avevo fatto a convincere tanta gente a
collaborare e hanno insinuato che avevo fatto loro delle promesse mentre ne
estorcevano le confessioni. Hanno insinuato che nascondevo nei
"cassetti" la "parte politica" delle dichiarazioni di
Buscetta. Si è giunti a insinuare perfino che collaboravo con una parte della
mafia per eliminare l’altra. L’apice si è toccato con le lettere del
"corvo", in cui si sosteneva che con l’aiuto e la complicità di
De Gennaro, del capo della polizia e di alcuni colleghi, avevo fatto tornare
in Sicilia il pentito Contorno affidandogli la missione di sterminare i "Corleonesi"!
Insomma, se qualche risultato avevo
raggiunto nella lotta contro la mafia era perché, secondo quelle lettere,
avevo calpestato il codice e, commesso gravi delitti. Però gli atti dei miei
processi sono sotto gli occhi di tutti e sfido chiunque a scovare anomalie di
sorta. Centinaia di esperti avvocati ci hanno provato, ma invano.
La domanda da persi dovrebbe essere un’altra:
perché questi uomini d’onore hanno mostrato di fidarsi di me? Credo perché
sanno quale rispetto io abbia per i loro tormenti,perché sono sicuri che non
li inganno,m che non interpreto la mia parte di magistratura in modo
burocratico, e che non provo timore reverenziale nei confronti di nessuno. E
soprattutto perché sanno che, quando parlano con me, hanno di fronte un
interlocutore che ha respirato la stessa aria di cui loro si nutrono.
Sono nato nello stesso quartiere di molti di
loro. Conosco a fondo l’anima Siciliana. Da una inflessione di voce, da una
strizzatine d’occhi capisco molto di più che da luoghi discorsi.
Sono dunque diventato una sorta di difensore
di tutti i pentiti perché, in un modo o nell’altro, li rispetto di tutti,
anche coloro che mi hanno deluso, come in parte Contorno. Ho condiviso la loro
dolorosa avventura, ho sentito quanto faticavano a parlare di sé, a
raccontare misfatti di cui ignoravano le possibili ripercussioni negative
personali, sapendo che su entrambi i lati della barricata si annidano nemici
in agguato pronti a far loro pagare cara la violazione della legge dell’omertà.
Provate a mettervi al loro posto: erano
uomini d’onore, riveriti, stipendiati da un’organizzazione più seria e
più solida di uno Stato sovrano, ben protetti dal loro infallibile servizio d’ordine,
che all’improvviso si trovano a doversi confrontare con uno Stato
indifferente, da una parte, e con un’organizzazione inferocita per il
tradimento, dall’altra.
Io ho cercato di immedesimarsi nel loro
dramma umano e prima di passare agli interrogativi veri e propri, mi sono
sforzato sempre di comprendere i problemi personali di ognuno e di collocarli
in un contesto preciso. Scegliendo argomenti che possono confortare il pentito
nelle sua ansia di parlare. Ma non ingannandolo mai sulle difficoltà che lo
attendono per il semplice fatto di collaborare con la giustizia.
Non gli ha dato mai del tu, al contrario di
tanti altri; non lo ho mai insultato, come alcuni credono di essere
autorizzati a fare, e neppure gli ha portato dolci siciliani, come qualcuno ha
insinuato: "Falcone porta tutti i giorni i cannoli a Buscetta….."
Tra me e loro c’è sempre un tavolo, nel senso proprio e metaforico del
termine: sono pagato dallo Stato perseguire dei criminali, non per farmi degli
amici. A volte ci si chiede se ci sono pentiti "veri" e pentiti
"falsi". Rispondo che è facile da capire se si conoscono le regole
di Cosa Nostra. Un malavitoso di Adrano (Catania), un certo Pellegriti che
aveva già collaborato utilmente coi magistrati per delitti commessi in
provincia di Catania, aveva stranamente dichiarato di essere informato sull’assassinio
a Palermo del presidente della Regione Siciliana, PierSanti Mattarella. Nel
1989 mi reco con alcuni colleghi a trovarlo in prigione per saperne di più e
il Pellegriti racconta di essere stato incaricato da mafiosi palermitani e
catanesi di recapitare nel capoluogo siciliano la armi destinate all’assassinio.
Era chiaro fin dalle primissime battute che
mentiva. Infatti è ben strano che è un’organizzazione come Cosa Nostra,
che ha sempre avuto grande disponibilità di armi, avesse la necessità di
portare pistole a Palermo; ne è poi pensabile, conoscendo le ferree regole
della mafia, che un omicidio "eccellente", deciso al più alto
livello della Commissione, venga affidato ad altri che ad uomini dell’organizzazione
di provata fede, i quali ne avrebbero dovuto preventivamente informare solo i
capi del territorio in cui l’azione si sarebbe svolta; mai comunque estranei
come il Pellegriti. I riscontri delle dichiarazioni di Pellegriti subito
disposti, hanno confermato, come era previsto, che si trattava di accuse
inventate di sana pianta.
Questa avventura ha anche reso più
autentico il mio senso dello Stato. Confrontandomi con lo "Statomafia"
mi sono reso conto di quanto esso sia più funzionale ed efficiente del nostro
Stato e quanto, proprio per questa ragione, sia indispensabile impegnarsi al
massimo per conoscerlo a fondo allo scopo di combatterlo.
Mi rimane comunque una buona dose di
scetticismo, non però alla maniera di Leonardo Sciascia che sentiva il
bisogno di Stato, ma nello Stato non aveva fiducia. Il mio scetticismo,
piuttosto che una diffidenza sospettosa, è quel dubbio metodico che finisce
col rinsaldare le convinzioni. Io credo nello Stato, e ritengo che sia proprio
la mancanza di senso dello Stato, di Stato come valore interiorizzato, a
generare quelle distorsioni presenti nell’animo siciliano: il dualismo tra
società e Stato; il ripiegamento sulla famiglia, sul gruppo, sul clan; la
ricerca di un alibi che permetta a ciascuno di vivere e lavorare in perfetta
autonomia, senza alcun riferimento a regole di vita collettiva. Che cosa se
non il miscuglio di anomia e di violenza primitiva è all’origine della
mafia? Quella mafia che essenzialmente, a pensarci bene, non è altro che
espressione di un bisogno di ordine e quindi di Stato.
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