Alcune
considerazioni sul futuro della lingua sarda
Ultimamente si fa un gran parlare sulla questione della lingua
sarda. Ciò è estremamente positivo, ma il tanto discutere ha creato un eccessivo
ottimismo sul completo recupero dell’idioma sardo, ottimismo del tutto fuori
luogo per svariati motivi.
Innanzitutto l’introduzione della “limba” nelle scuole,
di cui si parla in toni trionfalistici,
non c’è
stata in maniera massiccia, e laddove invece c’è stata, si è sempre trattato di
un insegnamento superficiale, discontinuo, e messo in pratica in maniera
tutt’altro che scientifica, il più delle volte in modo volutamente
folkloristico.
Inoltre ci sono due aspetti della
lingua sarda attuale che non sono indicatori di una sua buona salute. Il primo
aspetto è il fatto che la lingua sarda ha perso quasi del tutto la capacità di
coniare nuovi termini che esprimano concetti e oggetti del mondo moderno;
l’altro è il fatto che più passa il tempo e più si perde l’uso di parole e modi
di dire originari, sostituiti da termini e espressioni estrapolate
dall’italiano. Quest’ultimo aspetto pareva fosse esclusiva prerogativa dei
giovani, i quali molto spesso non conoscono le parole più antiche e meno usate
del sardo. Invece pare che oggi sia una caratteristica incredibilmente diffusa
tra le persone adulte, soprattutto se di livello culturale
medio-alto.
Il fatto che la lingua sarda sia
oramai una lingua statica è pacifico, e tale circostanza non offre purtroppo
grandi spunti di ottimismo. Sono lontani infatti i tempi in cui ogni parola
estranea veniva fagocitata dal sardo e rimodulata secondo le caratteristiche del
nostro parlare. Mi viene in mente “bicicletta” che il sardo trasformava in
“briciketta”, “motorino” che diventava “motedda”, “finestrino” che cambiava in
“balconittu” e via dicendo. Oggi non succede più, si preferisce optare per la
soluzione più facile, ossia impiegare direttamente il vocabolo italiano.
Ultimamente ho sentito un signore di Ozieri usare la parola sarda
“beste” per indicare la custodia del telefono cellulare: è però un caso
isolato, tutti oramai usano il termine “custodia”. Questa creazione di termini
nuovi partendo da similitudini e impiegando parole già esistenti dandogli un
significato figurato (in senso figurato la custodia di un cellulare non è che la
sua “veste”!) è considerata da molti una forzatura, un sintomo di povertà
lessicale. A mio avviso è tutto il contrario, basti pensare al lessico notevole
di cui dispone la lingua italiana, forse la lingua che più al mondo fa uso di
similitudini e accostamenti figurativi, fino ad arrivare all’eccesso che alcune
parole sono oramai conosciute nel loro significato figurato e non più in quello
autentico. Penso ad esempio al termine “racimolare”: ben pochi sanno che in origine
significava raccogliere racemi (ciò che in sardo si esprime con
“iskaluzare”); al termine
“zizzania” che per tutti è sinonimo di “discordia”, mentre invece è un’erba
che si insinua tra le viti; o al termine “mortificare” che si usa in senso figurato per
indicare l’atto di offendere, vituperare, ma il cui significato autentico e
ormai in disuso è quello di ridurre in fin di vita. Altro che povertà lessicale!
Sarebbe bello che il sardo riuscisse ancora a creare parole che rispecchiano i
tempi moderni usando similitudini e sensi figurati. Purtroppo invece si avverte
una staticità disarmante.
Il secondo indicatore negativo - il
più preoccupante - è quello relativo all’impiego di una moltitudine di parole e
modi di dire italiani nell’uso della lingua sarda, e come ho detto, è grave che
questa sia una caratteristica di molte persone acculturate. Ho sentito dire,
anche in trasmissioni televisive: “leare su
sopravvento”, “pro cantu concernede”, “ kenza soluzione de
continuidade”, “su massimu riserbu”, “ass’ennesima
potenza” e altri obbrobri simili, in massima parte opera di intellettuali,
professori, personalità dell’arte e della cultura. A confronto con tali
espressioni, i piccoli difetti che caratterizzano il sardo dei giovani sono
peccati veniali. Eppure esistono tantissimi modi di dire in sardo che possono
sostituire queste ridicole espressioni: l’italiano “prendere il
sopravvento” si può esprimere in sardo come “leare
fua” o
“leare
manu”;
“senza soluzione di continuità” si esprime facilmente con
“kenza
fine” o
con l’aggettivo “isvilidu/a” e così via. Il fenomeno in
questione si manifesta in tutte le varianti del sardo, anche in gallurese, e in
quest’ ultimo caso spesso è stato strumentalizzato al fine di dimostrare
l’estraneità di tale parlata dal contesto sardo e la sua assimilazione al
contesto linguistico italiano. Ma tale strumentalizzazione non regge per due
ovvi motivi: innanzitutto, non sembra verosimile che i galluresi di uno o due
secoli fa usassero espressioni tipo “pa cantu
rigualda” o “una condizioni di assoluta indigenza” o “a suscitatu un nutevoli
interessi”, come ho sentito dire oggigiorno, e dunque queste ultime sono
bruttissime infiltrazioni italiane, non certo espressioni tipiche galluresi;
inoltre pare insensato considerare come italiana e non sarda una parlata in cui
si dice “sculivitti” per “sculaccioni” (in logudorese
“isculivittas”), “fraili” per “fucina” (in logudorese
“fraile”), “mastru di l’ascia” per “falegname” (in Logudoro
“mastru
de ascia”), “kitzu” per “presto” (logudorese “kitto”), e se volessi continuare
riempirei decine e decine di pagine!
Tornando al problema di fondo, mi
pare che l’eccessivo uso di termini italiani nel parlare in limba sia un atto
che snatura pericolosamente l’essenza del sardo stesso. Ciò si manifesta non
solo nei modi di dire ma anche nell’uso di aggettivi e avverbi, rendendo ancora
più povero il lessico sardo. Partiamo dagli aggettivi: si sente spesso dire da
chi parla il sardo parole come “annanta” per “aggiunta”, “beranu” per “primavera”, ma quando poi si tratta di usare
parole derivate come “aggiuntivo” o “primaverile” si impiegano direttamente le
parole italiane.
Non sarebbe
meglio coniare nuove parole che derivino dai sostantivi? Così
“aggiuntivo” si portebbe esprimere con
“annantivu” o “annantinu” (da “annanta”) come “primaverile” sarebbe
“beraninu” (da “beranu”). Passando agli avverbi, si nota che i discorsi in limba dei tempi
nostri vengono ampiamente “conditi” con termini mutuati in misura eccessiva
dall’italiano, come “improvvisamente”, “soprattutto”, “casualmente”, “specialmente”, “continuamente” eccetera. E sembra che ciò sia
inevitabile, vista la caratteristica dell’essenzialità che è tipica del
linguaggio sardo. In realtà non è così: se riflettiamo un po’ ci accorgiamo che
in sardo esisto termini o modi di dire che corrispondono a quasi tutti gli
avverbi della lingua italiana. Attenendoci a quelli sopra esposti:
“improvvisamente” in sardo è
“tott’in
d’unu”,
“soprattutto” è “massimu” o “massimamente”, “casualmente” pare da mie ricerche (anche se
nessun vocabolario lo conferma) che sia “acobore”, “specialmente” è “mascamente”, “continuamente” è “a
tott’ora” o “arreu”, e
andando
oltre si trovano termini sardi per “contemporaneamente” (“in su matessi
tempus”), “volutamente” (“kin
iscopu”), “inutilmente” (“debbadas”), “temporaneamente” (“pro como”),
così
all’infinito. Anche le esclamazioni seguono lo stesso trend: non si sente più
dire “mancabbai!” o “Deu lu
kelfad!” ma il più facile “magari!”, non più
“ted’essere!” ma il più immediato
“sarà!” , e certe frasi cominciano con “quindi” invece che con
“duncas”.
Questa non è una crociata contro
l’italiano, ma poichè sarà inevitabile fare riferimento a un gran numero di
vocaboli italiani (oltre che greci antichi, inglesi, e così via) per colmare le
lacune lessicali del sardo, bisogna fare in modo che ciò avvenga solo nei casi
in cui è davvero impossibile trovare un’espressione sarda esistente o derivata.
Se invece si farà uso massiccio di parole italiane, anche in sostituzione di
quelle sarde, la nostra lingua si trasformerà inevitabilmente in un dialetto
italiano.
Un ultimissimo aspetto che avvalora il mio pessimismo:
l’atteggiamento già collaudato da “DIVIDI ET IMPERA” di chi mette uno contro
l’altro i sardi che parlano le diverse varianti della nostra lingua. E’ un falso
problema, ma ha un ottima presa sul popolo, è sarà determinante in
negativo.Naturalmente, spero, per
l’ammirazione che ho per la mia lingua, che tutte gli aspetti sottolineati siano
in tempi brevi smentiti dai fatti, affinché il nostro idioma millenario continui
a essere ancora per lungo tempo la lingua madre dei
sardi.
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