Note sul brigantaggio

 

La stagione del brigantaggio meridionale e relativa repressione copre gli anni che vanno dal 1861 al 1865, con strascichi fino al 1870. La relazione Massari, prima relazione parlamentare sul fenomeno, definiva il brigantaggio protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche secolari ingiustizie; tra gli uomini della destra storica Ricasoli ammise il carattere di protesta sociale, rilevando tuttavia che non si trattava di un fenomeno nuovo e accusò apertamente i Borboni e il Papato di fomentare la rivolta.

Si ritrovano le varie componenti, protesta sociale, capi banda di professione e borbonici, nella composizione delle bande: contadini impoveriti, spesso refrattari alla leva; sottoufficiali borbonici non integrati nell’esercito italiano, a differenza degli ufficiali borbonici; personaggi tipici della piccola delinquenza. Bande comandate da ex guardaboschi fedeli ai Borbone come Luigi Aloni alias Chiavone, o da personaggi come Carmine Crocco Donatelli, ex bandito sotto i Borboni, garibaldino nella speranza di guadagnare l’amnistia, di nuovo bandito quando l’amnistia gli venne negata, i fratelli Cipriano e Giona La Gala, già noti alle galere borboniche per furti e violenze.

Non mancarono ex ufficiali borbonici come comandanti di unità miste, truppa borbonica dispersa e contadini, o impiegati come consiglieri militari: Theodor Friedrich Klitsche de La Grange, JosèBorges, don Rafael Tristany, ufficiali non italiani, ma aristocratici e, soprattutto, legittimisti. Vi furono anche contrasti tra aristocratici ufficiali, con una particolare concezione della guerra, e banditi “cafoni”, spesso meno raffinati ma più efficienti e anche spietati. Rozzi e feroci, ma non privi di intuito politico ed anche militare i capi della rivolta misero in seria difficoltà l’esercito e la nuova autorità italiana: l’occupazione di Sora da parte della banda di Chiavone avvenne già nel novembre 1860 e l’anno successivo non si contano più le incursioni nel beneventano, in Calabria, in Basilicata, nelle zone di confine con lo Stato della Chiesa (aspetto che diede ragione al Ricasoli) vere e proprie roccaforti della rivolta.

La risposta del nuovo Stato unitario italiano cominciò ad essere incisiva con il comando del generale Cialdini, al quale vennero affidati poteri civili e militari. La tattica militare fu relativamente semplice, ma, col tempo, efficace: presidio costante dei capoluoghi, della frontiera pontificia e delle comunicazioni tra Napoli e l’Adriatico, con l’esercito e con colonne mobili di un corpo di guardia nazionale composta da notabili liberali, ex garibaldini e anche ex mazziniani.In questo modo le bande non ebbero possibilità di occupare stabilmente territori e città, trasformandosi da guerriglia in esercito insurrezionale. Vi furono anche arresti di alti prelati e nobili filoborbonici; misure di dubbia legalità a volte, ma efficaci politicamente in quanto si diffondeva l’idea della irreversibilità dell’unità italiana. Non mancarono atti efferati, dall’una e dall’altra parte; le rappresaglie cruente contro la popolazione complice del brigantaggio furono l’aspetto più duro della repressione insieme alle legge Pica del 1863. Tale legge confermava i tribunali militari già operanti e consentiva a speciali giunte composte da prefetto, due magistrati e amministratori locali di inviare al domicilio coatto i sospettati di favoreggiamento. L’esercito ricorse anche a spie, informatori, …e ai primi pentiti; Giuseppe Caruso d’Atella, luogotenente di Crocco, dopo il suo arresto ottenne l’impunità in cambio di informazioni sull’attività e sui rifugi dei suoi ex compagni. Fiaccati dai bersaglieri e dai carabinieri, gradatamente senza più sostegno nelle campagne per effetto della legge Pica e della repressione, i briganti, e il loro seguito di efferatezze (morti e feriti non li causò solo la repressione) finirono per perdere la guerra contro il nuovo Stato italiano, e con essi furono sconfitti definitivamente i sogni di restaurazione legittimista dei Borboni che invano avevano sperato in un’insurrezione generale per dimostrare alle potenze europee che l’Italia non aveva futuro.

 

Sul tema del brigantaggio segnalo un equilibrato saggio di Salvatore Scarpino, Indietro Savoia (Milano, Leonardo, 1991); l’autore nella sua prefazione giustamente osserva:

 

Fu una sporca guerra e invano si cercherebbe in essa, da qualsiasi posizione geografica o politica, qualcosa di cui andare ragionevolmente fieri….Mi spiacerebbe se in questo particolare momento , mentre l’idea stessa dell’Italia è messa in discussione con l’illogicità rabbiosa degli egoismi e dei rancori contrapposti, questo testo rievocativo potesse anche minimamente servire ad alimentare visioni separatiste al Nord o al Sud. Basta, abbiamo già dato tutti, in sangue e sofferenze…..Bisogna ricordare non per rivivere il passato, ma per superarlo. Per fare in modo che bersaglieri e cafoni non vengano assassinati, ancora una volta.

 

 

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