Lelio Basso:

"una questione semplice"

di Vera Pegna

 

Poche, fra le questioni oggi aperte sul piano internazionale, sono così semplici dal punto di vista giuridico, storico, morale, come quella palestinese, e poche appaiono invece così difficili da risolvere sul piano pratico.

Dal primo punto di vista non mi pare seriamente contestabile il buon diritto dei palestinesi che rivendicano il principio di autodeterminazione né seriamente difendibile la posizione di Israele, giustamente condannata ormai da decine di risoluzioni dell’ONU e dell’UNESCO: eppure ancor oggi la maggioranza della pubblica opinione occidentale – sia pure una maggioranza che tende lentamente a diminuire – sembra convinta del buon diritto d’Israele e ne accetta acriticamente la politica di forza. Quali ne sono le ragioni?

In primo luogo l’affinità culturale. I primi ebrei immigrati in Palestina provenivano dall’Europa, cacciati dalle persecuzioni che vi subivano, ed europea è stata anche la prevalente colonizzazione successiva fino alla creazione dello stato di Israele. Europea comunque è la classe dirigente, proveniente in gran parte da territori dell’ex-impero zarista, ed europea la cultura, ciò che crea una profonda affinità di idee, di modo di pensare, di mentalità, di linguaggio. Viceversa gli arabi rimangono per molti europei, ammalati di eurocentrismo, un popolo inferiore, coloniale, di cui si dimentica volentieri il contributo straordinario fornito nel corso dei secoli al progresso soprattutto scientifico dell’umanità. Perciò nel subcosciente di milioni di occidentali Israele, testa di ponte europea nel mondo arabo, soddisfa il complesso di superiorità e le ambizioni egemoniche che una volta trovavano piena soddisfazione negli imperi coloniali.

A ciò si deve aggiungere la presenza di molti ebrei sparsi ovunque in Occidente – e spesso in posizioni di autorità e di prestigio – che, nella quasi totalità, sono dei sostenitori di Israele, sovente anche dei propagandisti, mentre non c’è nulla di simile da parte araba. In alcuni casi, come particolarmente negli Stati Uniti, la presenza ebraica è così massiccia e così potente da poter influire decisamente sulle scelte politiche e sugli indirizzi della stampa, orientando tutta l’opinione del paese. E d’altra parte poiché l’opinione pubblica americana è abituata a una politica internazionale basata sul diritto del più forte, non trova nulla di scandaloso nel fatto che lo stesso criterio guidi la politica israeliana. E questi orientamenti americani, data la posizione egemonica degli Usa nel mondo occidentale, sono poi facilmente ricevuti e accettati anche nell’opinione europea.

Non ultimo motivo, infine, di questa propensione pro-israeliana è il desiderio di liberarsi dei complessi di colpa per le persecuzioni di cui per secoli la minoranza ebraica è stata fatta oggetto in Europa, ad opera della Chiesa cattolica e di varie monarchie cristianissime, nonché ad opera dei governi zaristi e, da ultimo, dei nazisti che hanno fatto della popolazione ebraica d’Europa un popolo martire per eccellenza. Ma è un curioso modo di liberarsi dei rimorsi per i torti fatti a un popolo quello di sacrificarne un altro. È di questo curioso modo, e del suo fondamento, che vorrei discutere in termini obiettivi, convinto che la verità anche in questo caso serva la causa della pace e, quindi, la causa della stessa popolazione ebraica trapiantata in Palestina."

Così scriveva Lelio nel giugno del 1977. Tre mesi più tardi – mentre mi trovavo con lui a Damasco, ad una conferenza di parlamentari europei sulla Palestina – Arafat gli fece sapere che lo avrebbe ricevuto volentieri. Temendo di avere difficoltà a comunicare con il capo palestinese per mancanza di una lingua comune ed essendo io di professione interprete, Lelio mi chiese di accompagnarlo. Dopo una lunga attesa in albergo (per ragioni di sicurezza, l’ora e il luogo degli incontri con Arafat non venivano mai resi noti in anticipo), fummo prelevati da due giovani con una jeep. Al termine di un infinito giro per la città, giungemmo davanti ad una tenuta circondata da muri altissimi, oltre i quali si entrava in un patio fiorito, profumatissimo di rose e di menta. Arafat ci accolse a braccia aperte. Dalle due ore di conversazione, calorosa e vivace, emersero alcuni fondamentali punti di accordo: il diritto dei palestinesi a ritornare nelle loro case e degli ebrei a rimanere nei luoghi in cui erano ormai insediati e – come unica soluzione duratura, seppure non immediata – la costituzione di uno stato laico e democratico in cui le due comunità potessero vivere fianco a fianco. Quindi non più Israele come stato dalla popolazione e dalle frontiere in continua espansione, non più immigrazioni in massa di ebrei e non più interferenze delle grandi potenze, sotto forma di appoggi e privilegi per una sola delle parti. Prima di accomiatarsi, Lelio – riferendosi a me – disse ad Arafat: "Vera è un’amica ebrea, che sostiene la lotta del suo popolo". Il capo palestinese si commosse e mi regalò una collana di perline dai colori della bandiera palestinese, realizzata per lui da un combattente di Al Fatah, prigioniero degli israeliani.

L’idea di essere presentata come ebrea non mi piaceva perché ho sempre pensato che l’ebraismo fosse semplicemente una religione e perché mi sono sempre ritenuta atea, ma è vero che i miei antenati erano di origine sefardita, ossia spagnoli di religione ebraica. La mia famiglia fuggì dalla Spagna a causa dell’Inquisizione, e dopo essere rimasta per alcune generazioni a Livorno, si stabilì definitivamente ad Alessandria d’Egitto. I sefarditi che immigrarono nell’Africa del Nord e nel resto del Medio Oriente erano di solito colti e abbienti; furono ricevuti molto bene dai governanti arabi e meno bene dalle comunità ebraiche locali che temevano di essere spiazzate agli occhi dei potenti del luogo. Si trattava di grosse comunità – in particolare quelle di Alessandria e di Baghdad – perfettamente integrate con le popolazioni locali, con le quali condividevano la lingua, il cibo, la musica e perfino taluni riti religiosi, a cominciare dalla circoncisione. Anche se nel corso dei secoli la convivenza non fu sempre esemplare e non mancarono le discriminazioni da parte della religione dominante, gli arabi di religione ebraica non conobbero né ghetti, né pogrom, né persecuzioni. Il progetto sionista li lasciò del tutto indifferenti, sia perché stavano bene dove erano, sia perché non avevano il mito della "terra promessa", peraltro raggiungibile con poche ore di treno.

Il sionismo, nodo del conflitto.

Qualche mese dopo l’incontro con Arafat fui invitata da Al Fatah a visitare dei campi profughi in Giordania, "per dimostrare ai palestinesi che non tutti gli ebrei sono dalla parte di Israele". L’incontro con i palestinesi dei campi profughi mi colpì profondamente. Per tutti coloro che incontrai, senza eccezione alcuna, la differenza fra ebreo e sionista era chiara, molto più chiara che per la maggioranza degli europei. Condannavano sì il sionismo, che aveva portato alla imposizione dello stato d’Israele sulla terra di Palestina, ma mai gli ebrei. Anzi, i più anziani raccontavano come, prima dell’arrivo dei sionisti, le tre comunità religiose presenti sul territorio – musulmana, ebraica e cristiana – vivessero in pace tra loro e con le comunità minori: i melchiti, i copti, gli ortodossi, gli armeni. Mi tornò in mente mio nonno che da Alessandria d’Egitto andava spesso a Gerusalemme per affari. Prendeva il treno delle 9.45 e al ritorno ci portava le arance di Giaffa, l’olio d’oliva e il sapone di Nablus, e ci raccontava che si era sposata la figlia di quel tale, ebreo, e che alle nozze c’erano anche il prete cattolico e lo sheikh islamico che avevano benedetto gli sposi. Le testimonianze dei palestinesi combaciavano perfettamente con quanto mi aveva raccontato mio nonno trent’anni prima. Inoltre, mi aveva spiegato che Theodor Herzl – autore nel 1876 de "Lo stato ebraico" e fondatore del sionismo politico – era un miscredente come lui e che il popolo ebraico nel cui nome diceva di parlare era inesistente; si trattava di un sotterfugio inventato per potere accampare il diritto di creare uno stato. Le comunità ebraiche che vivevano sparse in molti paesi del mondo non formavano di certo un popolo – mi diceva – poiché non avevano nulla in comune al di fuori della religione. Dopo lunghe ricerche nelle biblioteche, era giunto trionfante alla conclusione che l’espressione "popolo ebraico" si trovava soltanto nell’Antico Testamento e che nessuno l’aveva mai usata, se non in senso biblico, fino alla nascita del sionismo politico. L’inganno di Herzl stava nell’ avere contrabbandato un mito biblico per una realtà. E commentava: questi poveri ashkenaziti, dopo tante sofferenze in Europa, non capiscono che se continuano a prendersi dei pezzi di Palestina con l’aiuto degli inglesi, facendo finta che i palestinesi non esistono, finiranno per creare in quella regione il più grande ghetto della storia.

Mi tornarono in mente anche altri episodi, alcuni dei quali vissuti direttamente, che in seguito trovai documentati in libri e in riviste, come l’"affare Lavon", dal nome del Ministro della Difesa e capo dei servizi di sicurezza di Israele nel 1954. Nel mese di luglio di quell’ anno, all’agente israeliano Philip Natanson scoppiò in mano una bomba mentre preparava un attentato in un cinema di Alessandria; egli stesso confessò di appartenere ai servizi segreti sionisti, che avevano ricevuto l’ordine di far emigrare in Israele, con le buone o con le cattive, le comunità ebraiche residenti nei paesi arabi. Che questa fosse la politica praticata dai dirigenti di Israele era cosa nota e considerata naturale, al punto che il quotidiano "Davar", voce autorevole del movimento sindacale israeliano, pubblicò il seguente editoriale:

"Non mi vergogno di ammettere che, se potessi fare quello che veramente voglio, sceglierei una ventina di giovani efficienti, intelligenti, puliti, dediti al nostro ideale, giovani che bruciano dal desiderio di aiutare a redimere degli ebrei e li manderei in quei paesi dove gli ebrei non pensano ad altro che alla loro peccaminosa autosoddisfazione. Questi giovani avrebbero il compito di mascherarsi da non ebrei e di assillare gli ebrei con slogan antisemitici come ‘sporco giudeo’ e ‘ebrei andatevene in Palestina’ e altre simili gentilezze. Posso garantire che il risultato, nel senso di una immigrazione notevole in Israele, sarebbe diecimila volte maggiore dei risultati fin qui ottenuti dagli emissari che per decenni hanno predicato ai sordi." (Alfred Lilienthal, The other Side of the Coin, Devib-Adair, New York, p. 184)

In Egitto, gli agenti sionisti facevano effettivamente di tutto per spingere gli ebrei ad andarsene. Nel 1956, quando Gamal Abdel Nasser nazionalizzò la Compagnia del Canale di Suez, la Gran Bretagna e la Francia risposero con le armi e Israele unì il suo esercito ai loro in quella che fu chiamata "la triplice vile aggressione". Gli ebrei egiziani erano sgomenti, non sapevano più per chi parteggiare, ma capirono che in Egitto non ci potevano più stare. Quelli di origine sefardita emigrarono in Europa. Avevano dei passaporti europei o perché, come noi, avevano trascorso qualche generazione in Italia o perché alcune ambasciate, in particolare quelle della Francia e della Gran Bretagna, desiderose di costituirsi delle lobby locali, avevano concesso la cittadinanza alle famiglie più ricche e più influenti. Invece alla grande maggioranza degli ebrei, che erano arabi a tutti gli effetti, rimase la scelta fra rimanere in Egitto ed essere sospettati di tradimento a favore del nemico o andarsene in Israele. I sionisti misero in giro la voce che le persecuzioni erano imminenti. Bisognava partire. Da un giorno all’altro fu stravolto un tessuto sociale secolare e gli ebrei egiziani, ma anche quelli yemeniti, marocchini e iracheni diventarono il proletariato che uno stato teocratico ed espansionista poteva sfruttare e mandare in guerra.

 

In Europa si è sempre parlato poco del ruolo che svolse il sionismo nell’occupazione della Palestina e nella cacciata dei palestinesi dalle loro terre, in particolare tra il mese di novembre 1947 quando l’ONU decise la spartizione della Palestina in due stati e il mese di maggio 1948 quando i sionisti proclamarono la nascita dello stato d’Israele. In quei sei mesi e in quelli successivi i sionisti partirono alla conquista del territorio assegnato ai palestinesi e, nonostante l’intervento debole e tardivo degli eserciti arabi, lo misero a ferro e a fuoco, distruggendo 385 villaggi e trasformando un popolo operoso e pacifico in una massa di profughi. I palestinesi chiamano questo periodo di terrore la "Nakba", il disastro, la catastrofe. I sionisti lo chiamano la loro guerra d’indipendenza. A tutt’oggi è lì che permane il nodo del conflitto. Nodo che non si scioglierà fintanto che lo stato d’Israele non cesserà di essere sionista.

Israele ha scelto di essere non lo stato degli abitanti che vi risiedono, bensì "lo stato degli ebrei del mondo intero" (ossia di altri 14-15 milioni di persone), come recita la Dichiarazione di Indipendenza; ne è prova la Legge del Ritorno e della Nazionalità, che stabilisce una discriminazione fondamentale tra ebrei e non ebrei. L’obiettivo era – come scrisse Herzl – la costituzione di "uno stato ebraico quanto la Gran Bretagna è britannica". Non si può comprendere l’ostinazione con cui per decenni i sionisti negarono l’esistenza stessa dei palestinesi e i governi israeliani rifiutarono di riconoscere l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, se si fa astrazione dal progetto politico che ha presieduto alla creazione dello stato ebraico e che continua a determinarne la politica, se è vero che nessuno dei suoi dei suoi leader – di destra o di sinistra – ha avvertito finora l’esigenza di criticarlo, o tanto meno di dissociarsi da esso. Se si prescinde da quel progetto, risulta impossibile anche spiegare il rifiuto di Israele di ritirarsi dai territori occupati nel 1967, la moltiplicazione degli insediamenti in quei territori, l’annessione di Gerusalemme e del Golan siriano, l’invasione del Libano del 1982 e l’eccidio di palestinesi a Sabra e Chatila, le discriminazioni persistenti in Israele contro i cittadini non ebrei, il fallimento dei numerosi negoziati (da Camp David a Oslo) condotti sotto l’egida degli Usa, i quali – con la finzione delle trattative che apparentemente mettono i due contendenti sullo stesso piano – continuano ad armare e finanziare massicciamente una sola delle parti.

 

La scena internazionale.

In sede ONU gli Stati Uniti hanno manifestato il proprio appoggio incondizionato a Israele, utilizzando il diritto di veto per bloccare numerose risoluzioni di condanna del Consiglio di Sicurezza, mentre l’Assemblea Generale – nell’ambito della quale tale diritto non è previsto – ha rinnovato ogni anno la condanna di Israele per l’occupazione, gli abusi commessi nei territori occupati, le violazioni dei diritti umani a danno dei palestinesi, ecc. Ci ricorda Lelio:

"Si obietta talvolta che le risoluzioni dell’Assemblea non hanno valore vincolante, ma si dimentica che questa regola non è applicabile a Israele, perché Israele – unico fra tutti gli Stati – è stato ammesso all’ONU con l’esplicita condizione, da esso accettata, di attenersi alle risoluzioni dell’ONU. Si è trattato di una procedura speciale, usata solo in questo caso, e cioè un’ammissione condizionale e dopo lungo interrogatorio nella Commissione ad hoc sull’atteggiamento di Israele di fronte alle decisioni dell’ONU. In quella sede, il rappresentante di Israele, Abba Eban, dichiarò che se Israele fosse stato ammesso all’ONU, esso avrebbe contribuito ad accrescere la forza morale vincolante delle sue risoluzioni; a differenza degli arabi, aggiunse, Israele ‘non accetta la teoria (…) che le risoluzioni dell’Assemblea siano opzionali e che si possa sbarazzarsene a volontà’. È opportuno richiamare questo impegno, la cui assunzione fu condizione di ammissione, proprio nel momento in cui Israele è lo stato che più di ogni altro ha sistematicamente disatteso le risoluzioni dell’ONU."

Ma a chi richiama questo impegno, o le oltre trecento risoluzioni di condanna espresse dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, o le innumerevoli violazioni del diritto internazionale da parte dello stato d’ Israele, a chi denuncia la storia delittuosa del sionismo viene opposto l’argomento secondo cui Israele non deve essere giudicato per quello che fa, ma solo ed esclusivamente per quello che è: il rifugio degli ebrei, destinati a essere perseguitati sempre e ovunque perché diversi e quindi esposti all’antisemitismo il quale rialzerà sempre la testa. Quindi chi critica il sionismo è antisemita; ce lo ha ricordato Silvio Berlusconi pochi giorni fa, mentre gli israeliani ammazzavano duecento palestinesi nei territori di cui sono responsabili in quanto potenza occupante.

Quale futuro per la Palestina?

Mentre scrivo, novembre 2000, è in corso il sollevamento generale del popolo palestinese della Cisgiordania e di Gaza. Le condizioni di vita sotto l’occupazione sono intollerabili, la mancata proclamazione dello Stato Palestinese (l’Unione europea non si era impegnata a renderla possibile entro lo scorso settembre?) e la conseguente totale assenza di prospettive escludono ogni speranza per il prossimo futuro. La constatazione della inaffidabilità degli alleati, e quindi della propria solitudine, non lascia ai palestinesi altra scelta se non quella di continuare a combattere per la loro libertà. Tuttavia, considerando le origini e gli intrecci della situazione mediorientale, la loro battaglia e i loro morti hanno una valenza che supera i confini della Palestina e indicano a noi europei – che abbiamo lasciato perseguitare e massacrare i nostri ebrei – che è nostro dovere contribuire autonomamente alla ricerca di una soluzione al conflitto. Se siamo convinti come Lelio "che la verità anche in questo caso serva la causa della pace" la via da intraprendere è la denuncia dei postulati stessi del sionismo. Quindi dobbiamo chiedere a Israele che diventi uno stato come tutti gli altri, con una popolazione certa e delle frontiere definite, che ritiri il suo esercito e i suoi coloni dai territori conquistati nel 1967 e che si integri nella regione.

In Israele esistono delle forze di pace che si battono per la fine delle discriminazioni di cui sono oggetto i cittadini non-ebrei e per il ritiro dell’esercito dai territori occupati. Anche a queste persone coraggiose noi dobbiamo dare il nostro appoggio. La proclamazione dello stato di Palestina è un primo passo indispensabile per evitare che la pace si allontani ancora ma, per essere duraturo, il riassetto della regione deve prevedere per i palestinesi uno stato che possa essere economicamente e politicamente autonomo, senza insediamenti israeliani al suo interno. Quando Israele avrà capito che l’avvenire degli ebrei non consiste nell’essere radunati in un "grande ghetto", che la maggioranza dei suoi cittadini sono comunque degli arabi e che, come in Sud Africa, l’establishment di origine europea non potrà comandare per sempre, allora forse il dialogo si riaprirà e la costituzione di uno stato democratico e laico dove i palestinesi e gli israeliani potranno finalmente vivere in pace non sarà più un sogno irraggiungibile.

 

 

LA SEZIONE PALESTINA

Dopo i massacri di Sabra e Chatila del 1982 che suscitarono nei media italiani scandalo e indignazione ma nessuna ricerca delle cause né della logica che aveva presieduto a quell’ eccidio, la Fondazione Internazionale si prefissò l’obiettivo di dare voce ai palestinesi raccogliendo e diffondendo le loro analisi e i loro documenti, insieme a quelli di altre fonti non sioniste, quale la Lega israeliana dei diritti dell’uomo, allora diretta dal prof.Israel Shahak. Volevamo dimostrare che i palestinesi erano un popolo e che i cosiddetti terroristi erano dei combattenti per la libertà. Il primo documento prodotto dalla Sezione Palestina fu l’opuscolo "L’Italia, l’OLP e la pace", due saggi e una cronologia dal 1891al 1983. Ne furono stampate mille copie, poi altre tre mila; l’OLP ne ciclostilò e ne stampò alcune migliaia di copie e altrettanto fecero vari gruppi che sostenevano la lotta del popolo palestinese. Furono prodotti e pubblicati i titoli seguenti nella collana "dossier Palestina":

 

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