"E’ necessario affrontare le radici della crisi"

intervista a Elias Sanbar, l’Humanité dimanche, 7 gennaio 2001,

di Hassan Zerrouky

Elias Sanbar, storico palestinese, direttore della "Revue d’études palestiniennes", autore di numerose opere di cui l’ultima, pubblicata nell’ottobre 2000 per le edizioni Sindbad-Actes sud, dal titolo "Gerusalemme, il sacro e il politico", ha concesso un’intervista in cui offre una valutazione del piano Clinton.

D.: Yasser Arafat ha accettato con delle riserve le proposte americane per rilanciare il processo di pace. Cosa ne pensate?

R.: Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese ha fatto esattamente ciò che qualche giorno fa ha fatto Barak, cioè accettare di discutere e di dare un segnale. Nello stesso tempo ha posto delle riserve. Capite bene che quelle riserve rendono quasi impossibile il negoziato.

D.: Che significa?

R.: Ad esempioBarak, ha detto ‘sono moltoben disposto, accetto il Piano americano’, ma si è affrettato ad aggiungere che mai avrebbe ceduto sulla questione della sovranità di Gerusalemme e mai avrebbe ceduto sulla questione dei rifugiati palestinesi cacciati dalle loro terre. Quanto alle "riserve" di Arafat — che a mio avviso non sono delle "riserve" ma delle questioni di principio-, egli ha detto che accettava di discutere ben sapendo che egli avrebbe rivendicato la sovranità palestinese su Gerusalemme-est, che avrebbe chiesto che la questione delle "frontiere" del futuro Stato palestinese sia chiara, quindi non una chiusura nei territori, perché questo abbia continuità territoriale, e in terzo luogo non avrebbe ceduto sul diritto al ritorno dei profughi, ecc. Per cui siamo in una situazione in cui ci sono due partners, che per motivi diversi, non possono permettersi di dire no alle proposte americane, e che si sono tratti d’impaccio- questa è la mia interpretazione- svuotandole di ogni sostanza. Cioè, non si può immaginare un negoziato che con queste premesse possa giungere ad una soluzione conforme ai diritti fondamentali del popolo palestinese.

D.: In queste condizioni, le discussioni annunciate possono riprendere?

R.: Esse stanno per riavviarsi perché ci sono pressioni enormi da parte degli americani.

D.: Ma allora, di cosa e su cosa discuteranno palestinesi ed israeliani?

R.: A mio avviso discuteranno di tutto ciò su cui non sono d’accordo. E su ciò su cui probabilmente non si intenderanno.

D.: Cosa vi fa pensare che non s’intenderanno?

R.: Innanzitutto, Barak non può e non vuol cedere su Gerusalemme, e Arafat non potrebbe anche se volesse cedere sui diritti dei palestinesi su Gerusalemme-est, né sul diritto al ritorno dei profughi, (…).

D.: Ma precisamente sulla questione dei profughi, mi sembra, interpretando la riserva espressa dall’OLP, che i palestinesi sono pronti a dimostrare flessibilità in materia di diritto al ritorno…

R.: La posizione ufficiale dei palestinesi su questa questione è sempre stata costante, senza variazioni. Essa consiste nel ritenere il diritto al ritorno non negoziabile ma, ben inteso, lo sarà la sua applicazione. E’ quindi necessario preliminarmente il riconoscimento di questo diritto.

D.: Voi avete appena detto che le due parti andranno a discutere su cose su cui probabilmente non s’intenderanno. E’ possibile, tuttavia, immaginare che si arrivi a delle concessioni da una parte o dall’altra?

R.: Non posso rispondere al posto dei negoziatori. Non è il mio ruolo. Però, ciò detto, da parte palestinese le concessioni sono state già fatte accettando la divisione della Palestina.

D.: Quando Barak afferma: "rifiuto di firmare un accordo che accordi la sovranità palestinese sulla Spianata delle Moschee", significa che egli rifiuta ogni tipo di sovranità palestinese?

R.: No, Ehud Barak afferma più esattamente: "non concederò alcuna sovranità su Gerusalemme".

D.: Ma questa mattina, sulla stampa, Barak ha parlato della spianata, non di tutta Gerusalemme…

R.: E’ pura tattica. In effetti egli rispondeva agli americani. Ma questa risposta non è, a mio avviso, definita né molto chiara. D’altronde anche la proposta americana su questa questione non è molto più chiara. Gli americani parlano di una "sorta di sovranità" palestinese sui luoghi santi. Ma quando gli si è chiesto di precisare di che si tratta, non hanno dato alcuna precisazione. Non hanno risposto chiaramente, volontariamente.

D.: Ma dopo tutto ciò voi potete immaginare che un contenzioso che dura da oltre un secolo possa essere regolato in dieci giorni prima che Clinton lasci la Casa Bianca? Secondo voi è impossibile, anche se si facessero sforzi enormi….

R.: La gente si entusiasma per poco. E’ sufficiente che qualcuno dichiari che palestinesi e israeliani sono a "un passo" da un accordo perché tutti, notoriamente la stampa in prima fila, se la bevano. Ora, sta per riaccadere (alla stampa e all’opinione pubblica) ciò che accadde a fine luglio a Camp David, quando il mondo intero credette che si fosse a "due millimetri" dall’accordo. Di colpo, quando furono rivelati i dettagli dei negoziati, ci si accorse che si era distanti chilometri dall’accordo. Come è possibile quindi, ancora una volta, immaginare che si possa regolare un così vecchio contenzioso in 10 giorni, sol perché un signore va in pensione fra 20 giorni? Come è possibile immaginare una cosa simile? E’ stato sufficiente che Clinton dicesse che lasciava il 20 gennaio perché tutto il mondo pensasse che il 20 fosse l’ultima data possibile.

D.: E’ un nuovo impasse?

R.: Noi siamo in impasse, e d’altronde da molto tempo. La crisi è aperta.

D.: Quale soluzione, allora?

R.: La fine dell’occupazione, l’applicazione delle risoluzioni dell’ONU, il riconoscimento dei diritti legittimi del popolo palestinese e il suo accesso all’indipendenza, tutte cose che Barak rifiuta…

D.: Non pensa che esiste un rischio di incendio se i negoziati falliscono di nuovo, visto inoltre un piano per la liquidazione dei responsabili palestinesi riconosciuto anche da un alto ufficiale israeliano?

R.: Il rischio esiste. Quanto al piano per la liquidazione dei responsabili palestinesi, non è una novità, esiste da molto tempo: otto responsabili palestinesi sono stati eliminati negli ultimi tempi. Gli israeliani non hanno fatto altro per mezzo secolo. Chi ha assassinato Abu Jihad a Tunisi? E’ stato Barak. Chi ha diretto il commando che ha assassinato responsabili palestinesi di rue Verdun, a Beirut nel 1973? E’ stato Barak. Penso che vogliano colpire molto in alto, all’interno dell’ entourage di Arafat stesso, sono incastrati. Ciò che è certo, è che questa situazione è molto grave.

D.: Vi aspettavate che un uomo come Barak che si è fatto eleggere per fare la pace sarebbe arrivato a fare il contrario di quanto aveva promesso?

R.: All’epoca non avevo riposto molta speranza ma pensavo che potesse differenziarsi dai predecessori. Ciò non è avvenuto. Il problema è che c’è una situazione coloniale e che non ci sono trentasei modi per risolverla. Ce n’è una sola: mettere fine all’occupazione, qiuello che è accade è che Barak, invece di mettere fine all’occupazione sta instaurando un sistema di apartheid, un sistema di bantustan. Questo non funzionerà, non farà che incendiare la regione. Finché ciò non sarà compreso c’è da scommettere che le cose non si calmeranno. Le cause della crisi non sono state mai affrontate.

D.: Da chi non sono state affrontate?

R.: Israeliani e americani soprattutto, non si sono mai impegnati ad affrontare le cose alla radice. Esiste un occupante e un occupato. Ora, ci si comporta verso i palestinesi come se essi fossero gli occupanti. Comunque!

D.: Barak rischia di essere sconfitto alle elezioni e qindi ci sarebbe l’arrivo al potere di Sharon. Pensa che la situazione possa peggiorare ancora?

R.: Sharon sarà se possibile anche più duro. Tutte le avventure saranno, allora, possibili. Però credo che la situazione a quel punto peggiorerà a livello regionale.

D.: E’ un rischio possibile. Mi sembrate molto pessimista…

R.: Credo ci sia seriamente di che preoccuparsi. Le possibilità di una pace duratura diminuiranno seriamente se, da parte israeliana e americana, non si affronteranno le radici di una crisi che dura da oltre mezzo secolo.

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