Il Manifesto, 2 gennaio 2001

In Palestina, per vedere con i nostri occhi

di SVEVA HAERTTER

 

Nel 1987 all'inizio dell'Intifada, Franco Lattes Fortini pubblicò su il manifesto una lettera aperta agli ebrei della diaspora esortandoli a schierarsi subito o a tacere per sempre. Ricordo di essermi offesa e arrabbiata. Ora credo di aver capito quello che Fortini voleva dire. Ho capito anche che oggi proprio io avevo una ragione in più per andare in Palestina a vedere con i miei occhi cosa sta succedendo. Una ragione molto semplice, quella di essere ebrea, di avere quindi il dovere morale di dire che non voglio che qualcuno possa dire e fare tutto questo in mio nome, che non voglio che vengano negati i diritti del popolo palestinese per garantire a me un "dirittdel ritorno" del quale non intendo usufruire, per garantire il quale questo stesso diritto viene negato ai profughi palestinesi, molti dei quali sono nati in quella terra, mentre le mie origini si perdono nei secoli se non nei millenni.

Sono stata lì una settimana aderendo all'appello "Io donna vado in Palestina" e sono atterrita. Situazioni come Hebron o Gaza non si possono immaginare, bisogna vederle per rendersi conto. C'è un'occupazione militare brutale, una sistematica e continua negazione dei diritti più elementari a partire da quello di avere cibo e acqua, di andare a scuola o al lavoro, in ospedale a farsi curare, a non morire di parto mentre si è intrappolati in una interminabile coda davanti ai check-point dei militari israeliani, di circolare per le strade della propria città, di farci giocare i propri bambini, di andare da un posto all'altro con la propria macchina, di dormire tranquillamente nella propria casa. Una violenza che si rivolge contro tutti e tutto, compresi gli alberi, i serbatoi d'acqua potabile, le case e le strade.

Ero già stata in Israele nel 1993. Non avevo visto niente di particolare, ma è bastata l'onnipresenza dei soldati e tutti quei mitra a farmi aprire gli occhi, vedere l'ingiustizia, la militarizzazione, la negazione dei diritti di un intero popolo per affermare quelli di uno stato che di fatto su tale negazione fondava la propria esistenza, il rapporto assurdo tra stato e religione, una trappola in cui io stessa ero in qualche modo caduta e dalla quale non è semplice liberarsi. Una trappola in cui certa sinistra europea, sempre più incline alle semplificazioni ed agli schematismi, spesso è la prima a cadere senza nemmeno rendersene conto e che provoca una duplice reazione: da un lato non si distingue più tra Israele e gli ebrei e facilmente si scivola nell'antisemitismo più rozzo ed ottuso, dall'altro per paura di accuse di antisemitismo si tende a non affrontare il problema come sarebbe necessario, ovvero facendo rispettare le risoluzioni internazionali e intervenendo con sanzioni, pressioni politiche ed economiche, interposizione di forze di pace internazionali in difesa del popolo palestinese.

Chiunque vada oggi in Palestina non può non vedere che il processo di pace avviato ad Oslo non ha più sbocchi ed è anzi in buona parte causa del fatto che si sia determinata questa situazione insostenibile, non può non capire che l'unico modo per dare una risposta alle legittime aspettative del popolo palestinese è il ritiro completo ed incondizionato dai territori occupati nel 1967 (compresa Gerusalemme est), il diritto al ritorno ed al risarcimento per i profughi, lo smantellamento degli insediamenti dei coloni, il riconoscimento dello stato palestinese. Aspettative che negli ultimi sette anni sono state deluse, frustrate e calpestate; la reazione era prevedibile quanto inevitabile. Altrettanto necessario è un impegno per la democratizzazione interna e per la conseguente riconquista di credibilità da parte dell'Anp, con una leadership più laica e secolare possibile.

Anche tra gli israeliani c'è chi interviene e sostiene fino in fondo la causa del popolo palestinese. Vengono arrestati se si rifiutano di fare il servizio militare, denunciati e interrogati dalla polizia per i loro slogan. Non hanno agibilità democratica, ma in un paese governato in larga misura da ex-generali e da religiosi, la democrazia fatica ad esistere, è quanto meno incompiuta o almeno sospesa. Le politiche messe in atto ricordano più il colonialismo becero di vecchio stampo che non una democrazia occidentale. Anche questo pesa sulla disparitˆ delle parti nelle trattative. C'è un meccanismo perverso in base al quale l'aggressore trova un rifugio sicuro nel ruolo di eterna vittima della storia anche quando non lo è affatto. Shoah (Olocausto) e Nakbah (Catastrofe) non sono la stessa cosa, non lo saranno mai. Chi lo dice commette un errore storico e da un punto di vista politico dice una bestialità. Ciò non toglie che se della prima gli ebrei in quanto tali sono stati la vittima per eccellenza, della seconda il sionismo ed i suoi seguaci sono i principali responsabili. Dopo la Shoah il mondo ha riconosciuto agli ebrei il diritto ad un loro stato ed ha favorito e sostenuto la nascita di Israele, la Nakbah a tutt'oggi non ha dato luogo a nulla di simile. Si è invece innescato un circolo vizioso in base al quale i palestinesi e più in generale gli arabi vengono da sempre identificati con quei nemici dai quali gli ebrei nel corso dei secoli sono fuggiti cercando rifugio in Palestina. Per uscirne bisogna partire dalla chiarezza e dall'affermazione della veritˆ storica. La conseguenza non può che essere l'assunzione di responsabilitˆ ed il riconoscimento del diritto del popolo palestinese ad un proprio stato. Se invece non sciogliamo questo nodo, volenti o nolenti, la responsabilitˆ di quanto è accaduto allora e di quanto accade oggi ricade comunque indistintamente su tutti noi. La comunitˆ ebraica tedesca ha annunciato che gli ebrei in Germania non si sentono al sicuro. Hanno ragione, dell'Austria nemmeno a parlarne e questo clima rischia di essere contagioso. Ma fuggire dall'oppressione e dalla discriminazione per andare ad opprimere e discriminare qualcun altro non può essere una soluzione.

Se, senza nulla togliere alla drammaticità della nostra storia, riuscissimo a ri-ragionarne gli sviluppi e gli esiti nel contesto della storia del popolo palestinese, potremmo uscire da questo vicolo cieco ed eliminare la prima e forse principale disparitˆ che pesa sul percorso verso una pace giusta. Diventerebbe chiaro anche perché le colone di Hebron, che mentre sfilavamo in corteo ci hanno insultato chiamandoci nazisti, offendono i morti della Shoah quanto chi nega che sia avvenuta o cerca di sminuirne la gravità.

Sarebbe importante riuscire a ragionare anche di questo tra noi e con tutti gli altri.