il manifesto, 14 Gennaio 2001


  
    La sfida dell'Intifada

Perché i palestinesi dovrebbero accettare accordi "di principio" negli ultimi giorni della presidenza Clinton?


DOMINIQUE VIDAL *
 

 
 

 La suspense durerà fino all'ultimo. A pochi giorni dall'entrata in carica di George W. Bush e a poche settimane dall'elezione del primo ministro in Israele, nessuno sa se le ultime trattative israelo-palestinesi sfoceranno in una forma di intesa. Realista, il presidente americano uscente si accontenterebbe ormai di una "Dichiarazione di principi" che, sulla base delle sue proposte della fine di dicembre, fornirebbero un quadro di riferimento ai futuri negoziati. Ma si può ancora credere al miracolo? Viste le persistenti divergenze, come rispondere alla sfida di un'Intifada che, in tre mesi, ha sconvolto il paesaggio mediorientale? Con conseguenze che nessuno dei protagonisti della scena regionale potrebbe ignorare. Per questo è importante trarne delle lezioni.

A credere ai commentatori, questa sollevazione sarebbe una sorpresa. Nessuno, certo, poteva prevedere che Ariel Sharon si sarebbe recato sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, il 28 settembre del 2000, scortato da centinaia di soldati. Né che il giorno dopo sarebbe stato dato l'ordine di sparare - veri proiettili - sui manifestanti, facendo sette morti. Tuttavia, se questa scintilla ha dato fuoco alle polveri è perché una gran quantità di esplosivo si era accumulata, "risultato naturale di sette anni di menzogne e inganni", secondo l'espressione di Amira Hass. E' sempre la corrispondente di Haaretz in Palestina che riassume: sette anni dopo Oslo "Israele controlla il 61,2% della Cisgiordania, (il che) gli ha permesso in dieci anni di raddoppiare il numero dei coloni, allargare gli insediamenti, continuare la sua politica discriminatoria in materia di acqua (...) 200mila ebrei hanno libertà totale di movimento, mentre tre milioni di palestinesi sono richiusi nei loro bantustan" (Haaretz, 23 ottobre 2000).
Eppure anche Yossi Beilin, ministro della giustizia israeliano, si è detto sorpreso che l'Intifada sia "esplosa quando eravamo a un passo dall'accordo su tutti i punti" (Le Monde, 10 novembre 2000). Del resto, già dalla primavera le "colombe" comunicavano il loro entusiasmo a giornalisti che magnificavano le "aperture" israeliane, a cui i media opponevano l'"intransigenza palestinese" nel corso del vertice di Camp David (11-15 luglio 2000).
Da notare che le presunte concessioni di Israele non sono mai state messe per iscritto, non più dei compromessi abbozzati a Camp David. "Nessuno ha mai visto il documento che sintetizzava questi accordi, dal momento che un tale documento non esiste", assicura Akiva Eldar (Haaretz, 16 novembre 2000). Seconda osservazione: i compromessi israeliani erano sempre accompagnati dal rifiuto di ogni riferimento alle risoluzioni dell'Onu, che costituivano la base degli accordi di Oslo. Architetto di questi ultimi, Ron Pundak se ne rammarica: "La nostra strategia di negoziato era sbagliata. Avremmo dovuto accettare la risoluzione 242 e lavorare su questa base. I palestinesi ritenevano di essere scesi a un grande compromesso a Oslo, accettando il 22% della loro terra. (...) Gente come Peres e Ramon hanno dato al governo l'impressione che avrebbe potuto arrivare a una soluzione cedendo meno delle frontiere del 1967. Un simile accordo non esiste" (Jerusalem Report, 6 novembre 2000).
Tuttavia, non solo Israele non intendeva restituire il 90% della Cisgiordania, ma le annessioni che esigeva frammentano questo territorio in tre parti isolate, a loro volta frammentate da 2.400 chilometri di strade di aggiramento che collegano le colonie ebraiche sullo smantellamento delle quali il generale Barak, a Camp David, non aveva preso alcun impegno.
Quanto poi alla questione fondamentale dei rifugiati, Barak non accettava né la risoluzione 194 - che, adottata l'11 dicembre 1948 dall'Assemblea generale dell'Onu, sostiene il diritto al ritorno o il risarcimento - né la sua attuazione in Israele. Tutt'al più pensava di accogliere alcune migliaia di esiliati. Ignorava che il 12 maggio 1949, in piena conferenza di Losanna, Tel Aviv aveva firmato con i suoi vicini arabi un protocollo in cui riconosceva il piano di spartizione della Palestina e la detta risoluzione 194? Quello stesso giorno il giovane stato ebraico diventava membro delle Nazioni unite.
Mezzo secolo dopo, gli israeliani ritengono quasi all'unanimità, pacifisti in testa, che il diritto al ritorno minacci l'esistenza stessa del loro paese. "Nessuno cerca di modificare il carattere ebraico dello stato isareliano" risponde Leila Shahid, delegata generale della Palestina in Francia: "E' evidente che il diritto al ritorno non potrà essere applicato a tutti i rifugiati. Bisognerà dunque discuterne l'applicazione, ma è del tutto evidente che il principio deve essere riconosciuto" (Le Monde, 29 dicembre 2000). Elias Sanbar, ex capo della delegazione palestinese ai negoziati multilaterali sulla questione, è solito dire: "Il diritto non è negoziabile, la sua applicazione sì". In seno al gruppo di lavoro dedicato ai ricongiungimenti familiari, israeliani e palestinesi avevano del resto definito i criteri che consentivano a certi profughi di installarsi in Israele. "Israele deve riconoscere la sua responsabilità politica e morale, dopo di che la questione dei rifugiati sarà negoziata sulla base della risoluzionw 194" dirà Arafat a Clinton all'inizio del gennaio 2001: dopo tutto, alcuni storici israeliani non hanno appurato che una buona parte degli esiliati del 1948 sono stati semplicemente espulsi?
A Camp David invece per la prima volta il tabù di "Gerusalemme riunificata, capitale eterna dello stato di Israele" è infranto. Il generale Barak propone una certa autonomia per i quartieri arabi, rifiutando tuttavia che la città possa servire da capitale ai due stati - ma accetterà l'idea il 29 settembre, il giorno dopo la proovocazione di Sharon! Peggio ancora. Invocando la presenza dei resti del secondo tempio sulla spianata delle Moschee, ha rivendicato la sovranità israeliana su questo terzo luogo santo dell'islam.
Ecco le ragioni del fallimento del vertice. Invece di spiegare l'Intifada con la propensione dei palestinesi al "martirio", sarebbe meglio ricordare la terribile delusione così provocata e - senza sottovalutare la disperazione dei manifestanti né la retorica del jihad - analizzare la volontà, perfettamente razionale, di far saltare gli ultimi catenacci che impediscono la crezione di uno stato palestinese indipendente. Insieme a quello che finora è stato ottenuto.
Innanzi tutto per gli stessi palestinesi. Ridotti alla disoccupazione e alla miseria, alla rassegnazione e all'individualismo, senza dimenticare i traffici di ogni genere, "essi hanno perduto il senso del rispetto e della dignità" spiega Eyyad Serraj, direttore del Programma di salute mentale di Gaza. "Ormai la gente è di nuovo mobilitata intorno a un progetto nazionale. Sono uniti, pronti a morire per riconquistare la loro dignità" (Financial Times, 28 novembre 2000). Grazie a Fatah, che ha saputo rivitalizzare il movimento emarginando il movimento islamico Hamas. E a un Yasser Arafat che gestisce la crisi in simbiosi con il popolo - come a Beirut nel 1982...
All'epoca, il mondo arabo aveva assistito in silenzio all'invasione israeliana. Stavolta lo spettacolo della repressione, ritrasmesso in continuazione dalla catena televisiva di informazione al Jazira, ha provocato manifestazioni massicce dal Maghreb al Machrek - persino in Kuweit dove, dalla guerra del Golfo, i palestinesi erano spesso avversati. E' la seconda conquista dell'Intifada. Da qui i vertici arabi del Cairo e quello islamico di Doha, le cui decisioni sono state, eccezionalemnte, seguite da effetti: preoccupati per la mobilitazione popolare, il Marocco, la Tunisia, l'Oman e lo stesso Qatar hanno rotto le relazioni semi-ufficiali annodate con Israele, mentre l'Egitto richiamava il suo ambasciatore e la Giordania rinunciava a inviare il suo. Per il geopolitologo Wahid Abdel Maguis, questo è "un messaggio per Israele: sta perdendo tutto quello che aveva guadagnato in vent'anni grazie alla pace" (International Herald Tribune, 22 novembre 2000).
Washington da parte sua teme la destabilizzazione di regimi essenziali alla sua egemonia regionale. Fallito il suo tentativo di "contenere" l'Iran e l'Iraq, l'amministrazione Clinton vede punita la sua pretesa di svolgere il ruolo di mediatore in un conflitto in cui sostiene di fatto una delle parti in causa. "Il ruolo degli Stati uniti in Medioriente andrà riesaminato e modificato per riflettere la realtà in mutazione della regione" conclude il commentatore Jim Hoagland (The Washington Post, 4 dicembre 2000), a mo' di consiglio a George W. Bush. Il quale potrebbe anche starlo a sentire, a giudicare dai ministri e consiglieri scelti per attuare la sua politica estera - molti assistevano George Bush padre quando imponeva il processo di pace a un Shamir più che riluttante...
Più contraddittori paiono gli effetti dell'Intifada sull'opinione pubblica israeliana. In un primo tempo, si è visto un riflesso quasi tribale caratteristico, da quelle parti, ai grandi choc. In profondità, tuttavia, continua la lenta maturazione in corso dalla guerra del Libano. "E' emerso un nuovo consenso: non c'è soluzione militare" affermava Dany Rabinowitz (Haaretz, novembre 2000), ricordando che "i regimi coloniali restano intatti finché gli 'autoctoni' accettano passivamente la loro situazione. Ma quando l'obbedienza silenziosa è sostituita dal desiderio di libertà e dalla volontà di combattere per quella, il potere dell'impero coloniale semplicemente si dilegua". Marwan Barghouti, uno dei principali capi di Fatah, non diceva nulla di diverso quando osservava che "gli israeliani hanno avuto più morti in due mesi in Palestina che in un anno in Libano"... (Newsweek, 11 dicembre 2000).
Un tempo paralizzato, il movimento pacifista è tornato all'offensiva per chiedere l'evacuazione immediata di 100mila coloni. All'inizio disorientate, le grandi voci di Israele - Amos Oz, David Grossman, A.B. Yehoshua - hanno fatto appello al loro paese perché negoziasse sulla base delle frontiere del 4 giugno 1967. "Israele deve rapidamente decidere in quale ambiente vuole vivere perché il modello attuale, nel quale si mescolano caratteristiche proprie dell'apartheid, non è compatibile con i principi ebrei" (Libération, 5 dicembre 2000), ha dichiarato persino l'ex capo dei servizi segreti, Ami Ayalon. L'editorialista Gideon Samet precisa: "I vecchi traumi e le paure ricorrenti fanno sì che gli israeliani abbiano difficoltà a scendere ai compromessi necessari per risolvere il conflitto. Tuttavia, il bisogno di normalità prevale. Recenti sondaggi hanno mostrato che circa il 60% degli israeliani continua ad appoggiare un accordo d'insieme coi palestinesi" (International Herald Tribune, 24 novembre 2000).
Sei settimane più tardi, Ariel Sharon si ritrova in testa nei sondaggi! Gli israeliani sarebbero dunque dalla parte di un uomo "il cui posto sarebbe piuttosto davanti a un Tribunale penale internazionale"? (Francis Wurtz, Revue d'études palestiniennes, inverno 2001). O piuttosto intendono punire il fallimento senza precedenti di Barak? Eletto con un buon margine, nel maggio 1999, grazie alla doppia promessa di pace all'estero e all'interno, non ha mantenuto né l'una né l'altra, e si appresta a pagare un prezzo alto - mentre contribuisce ad accentuare lo smarrimento annunciando un giorno la pace e il giorno successivo la guerra. La repressione già forsennata ha offerto finora un triste spettacolo, dall'intervento massiccio dei blindati alla campagna di uccisioni dei quadri palestinesi (come ha riconosciuto il vice ministro della difesa Ephraim Sneh, Haaretz, 4 gennaio 2001).
Come credere che un accordo dell'ultima ora con Arafat basti a risparmiare a Barak un'umiliante sconfitta? L'ospite, ormai provvisorio, della Casa bianca attende tuttavia che il primo sacrifichi i suoi principi per lanciare al secondo un salvagente.
E' difficile credere che i palestinesi, scottati dall'esperienza di Oslo, accettino di nuovo di entrare, sulla base di una "Dichiarazione di principi" in una fase di transizione, col rischio di vedere gli israeliani sabotarne l'attuazione. Washington già accorda a Tel Aviv tre anni per rimpatriare i circa 40mila coloni degli insediamenti non annessi - eppure Israele è riuscito a integrare, in pochi anni, più di un milione di immigrati sovietici...
Clinton, è vero, promette ai palestinesi qualcosa di più rispetto a Camp David: la sovranità sui quartieri arabi di Gerusalemme e la spianata delle Moschee, 95% della Cisgiordania (senza contare la regione di Gerusalemme) contro il 90% più dall'1 al 3% delle terre scambiate e lo spiegamento progressivo di una forza internazionale.
Ma il documento americano, riassume il team di negoziatori palestinesi: "1) divide lo stato palestinese in tre cantoni separati, scollegati e divisi da strade riservate una parte agli ebrei e una parte agli arabi, mettendo così in pericolo la sua stessa capacità di sopravvivenza; 2) divide la Gerusalemme palestinese in un certo numero di isolotti scollegati e separati gli uni dagli altri come dal resto della Palestina; 3) costringe i palestinesi a rinunciare al diritto al ritorno dei loro profughi" (sito dell'Autorità palestinese: www.pna.org).
Come spesso in Medioriente tutto è possibile, ma il peggio è purtroppo più verosimile del meglio. Tuttavia, qualunque sia l'epilogo dei negoziati dell'ultima ora e il risultato delle elezioni in Israele, una certezza si staglia in questo paesaggio incerto. Nessun protagonista, regionale o internazionale, potrà ignorare l'Intifada di Al Aqsa e la sua principale lezione: a meno di prevedere uno scontro generalizzato, il vero interesse di Israele, come pure dei suoi vicini, è di completare al più presto la decolonizzazione e di permettere la costituzione al suo fianco di uno stato palestinese realmente sovrano - "uno stato senza colonie, né strade di aggiramento, né basi militari", per riprendere l'espressione di Alain Dieckhoff (Le Monde, 28 novembre 2000).
Per la prima volta da molto tempo, gli scontri hanno dato luogo ad atti di barbarie: dagli assassini di adolescenti ai pogroms anti arabi, dal linciaggio di soldati israeliani all'incendio di moschee alla distruzione della tomba di Giuseppe... "Si ha la sensazione", ha scritto lo storico Tom Segev, "di essere tornati al tempo del mandato britannico, che ha preceduto la creazione dello stato di Israele, quando le due comunità si affrontavano con le armi" (L'Humanité, 12 ottobre 2000). Che avverrà tra dieci anni, quando la "Grande Israele" avrà una maggioranza araba che si prevede schiacciante. Se ciascuno dei popoli non disporrà, allora, di un proprio stato, l'apartheid all'israeliana non potrà che sfociare in una spaventosa guerra civile etnico-religiosa...

* vicecaporedattore di Le Monde diplomatique. L'articolo uscirà su: Manière de voir, "L'Atlas 2001 des conflits", del 18 gennaio