INTIFADA: IL RIFIUTO DI CAPITOLARE

di Majed Nassar e Nasser Ibrahim*

 (Traduzione di Titti Pierini)

L’attuale Intifada si basa su una serie di realtà politiche che costituiscono il quadro che consente di cogliere meglio gli avvenimenti delle ultime settimane nei Territori palestinesi occupati. Prima di analizzarle, tuttavia, dobbiamo sottolineare come l’unica responsabile dell’Intifada sia l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza. Questa occupazione vuol dire anni di una politica di terrore contro il popolo palestinese, arresti, assassini, saccheggio dell’economia nazionale, confisca delle terre e installazione di colonie di popolamento. Le forze d’occupazione si rifiutano regolarmente di riconoscere i legittimi diritti del popolo palestinese, in particolare quello all’autodecisione, quello di creare uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme e il diritto al ritorno dei profughi.

La scintilla che ha infiammato questa Intifada è stata la visita provocatorie di Ariel Sharon, insieme a centinaia di soldati israeliani, al santuario Al Haram A-Sharif. Qualsiasi tentativo di minimizzare questo fatto o di spiegare gli eventi in corso senza tenerne conto non può fare altro che fallire.

Pace o capitolazione senza condizioni

Si è assistito alla perdita di fiducia crescente nel processo di pace concepito secondo la visione americano-israeliana, che implica l’esclusiva realizzazione delle condizioni di Israele, che sono:

- la totale frammentazione dell’unità geografica e demografica del popolo palestinese, imponendo i cantoni A, B e C, separati da strade di contorno che assorbono migliaia di ettari di terre palestinesi;

- la costruzione e l’espansione di nuove colonie;

- l’assedio continuo delle città, dei villaggi e dei campi palestinesi;

- la politica di demolizione delle abitazioni;

- l’ignoranza dei diritti umani fondamentali dei palestinesi e dei loro diritti nazionali;

- l’uso dei prigionieri palestinesi come moneta di scambio per ottenere nuove concessioni.

Israele, inoltre, si è regolarmente rifiutata di rispettare le risoluzioni dell’ONU, sostituendole con proprie referenze, corroborate dalla politica del fatto compiuto. Israele, per fare ciò, dipende esclusivamente dall’appoggio americano, che ne copre le pratiche nei confronti del popolo palestinese. Gli Stati Uniti, per giunta, minacciano continuamente di ricorrere al loro potere di veto contro ogni tentativo di condanna dei crimini israeliani.

I recenti avvenimenti, esattamente come il fiasco dei sette anni di processo di Oslo con tutti gli "accordi" conclusi in questo quadro, discendono dalla stessa volontà di neutralizzare e negare i diritti del popolo palestinese. Non uno di quegli accordi costituiva un passo in direzione del raggiungimento di una pace giusta nella zona. L’estrema violenza impiegata da Israele contro la sollevazione palestinese altro non è se non un ulteriore tentativo di imporre con la forza una "pace" basata sulla capitolazione.

Intransigenza israeliana

Benché Israele si presenti come una delle parti disposta al compromesso, in realtà la politica del "fatto compiuto" ne dimostra chiaramente l’intransigenza. Barak si è recato a Camp David, che secondo lui doveva essere l’avvio di negoziati relativi allo statuto definitivo, portando le seguenti condizioni:

- niente ritiro entro le frontiere di prima del 6 giugno del 1967, in flagrante violazione delle risoluzioni nn. 242 e 338 dell’ONU;

- insistenza perché siano mantenute ed annesse ad Israele la stragrande maggioranza delle colonie, anche qui in contraddizione con le stesse risoluzioni dell’ONU e con le sue disposizioni che considerano illegali tutte le colonie in Cisgiordania e a Gaza;

- negazione di qualsiasi diritto dei palestinesi su Gerusalemme-Est, considerando Gerusalemme nel suo complesso come capitale eterna di Israele;

- rifiuto di concedere ai palestinesi il diritto di rientrare nelle case da cui sono stati espulsi nel 1948, anche qui in contrasto con la risoluzione dell’ONU n. 194;

- rifiuto di accettare che un qualsiasi esercito "straniero" possa prendere piede sulla riva Ovest del Giordano.

Il significato di tutto questo è chiaro: se mai Israele accetterà la creazione di uno Stato palestinese questo accadrà solo se sarà un’entità dipendente, impraticabile e priva di qualsiasi autodifesa.

Bisogna capire che cosa significano queste condizioni per i palestinesi, soprattutto quelle relative ai principali "fatti compiuti": le colonie e le reti autostradali israeliane che continuano a crescere. Le colonie costituiscono un disegno politico israeliano che punta a negare le aspirazioni palestinesi alla libertà e all’indipendenza. Qualsiasi discorso realista sulla creazione di uno Stato palestinese che dovesse coesistere con le colonie e le strade di contorno implica uno Stato privo di sovranità: questa è sempre stata una delle principali cause di discordia e di scontro. La visione israeliana dell’annessione delle colonie esistenti implica l’annessione di un 15% in più delle terre palestinesi. Oggi vi sono circa 200.000 coloni che vivono in oltre 140 colonie in Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme. A Hebron la situazione è drammatica: 400 coloni ebrei vivono in mezzo a 200.000 palestinesi, ma controllano il 20% della città.

Quello dei profughi è un altro dei problemi di fondo, al centro del problema palestinese. I profughi sono il risultato diretto del disegno sionista in Palestina. Nel 1948 è stato occupato il 78% della superficie della Palestina e quindi quasi un milione di palestinesi sono diventati profughi. Durante la guerra dei Sei giorni, nel 1967, vi si è aggiunto un altro mezzo milioni di nuovi profughi. Oggi, circa quattro milioni di profughi palestinesi vivono in Libano, in Siria, in Giordania e altrove, compreso in Palestina.

Sono questi i fatti su cui si basa la nuova Intifada. La sola conclusione che possa ricavarsi da tutto ciò è che mentre Israele parla eloquentemente del proprio desiderio di pace, si comporta nei fatti come un occupante brutale che intende conservare in eterno il proprio controllo. Oslo ha soltanto consentito all’esercito israeliano di impossessarsi di ogni città e di ogni villaggio palestinese. I piani di ridispiegamento disposti ad Oslo hanno semplicemente migliorato la posizione strategica dell’esercito israeliano, senza minimamente avviarne la ritirata. Il recente vertice del 17 ottobre a Sharm a-Sheikh, con Clinton, Mubarak, Annan, Solana, Arafat e Barak è stato solo un altro dei tanti passi che hanno accresciuto la delusione che ha dominato ogni tentativo di risolvere razionalmente il conflitto. La resistenza palestinese è stata presentata durante il vertice come una sommossa e non come l’espressione profonda delle aspirazioni di un intero popolo alla libertà e all’indipendenza. Il vertice ed i suoi risultati hanno espresso il punto di vista americano della "pace" nella regione, una "pace" che schiaccerebbe l’Intifada palestinese, stroncherebbe il movimento nazionale arabo e bloccherebbe i movimenti di solidarietà in Europa e in altre parti del mondo. Una delle conseguenze più velenose di quel vertice è stato il tentativo di mettere sullo stesso piano vittime ed aggressori e di negare la dimensione politica del movimento di liberazione, che costituisce l’essenza della resistenza palestinese. In sintesi, Sharm a-Sheikh è stato il tentativo di trasformare il fatto compiuto con la forza bruta da parte di Israele in conquiste politiche che si sarebbero imposte come condizioni politiche israeliane in qualsiasi accordo futuro.

Unità palestinese senza precedenti

L’ntifada si distingue per l’unità di intenti e di motivazioni di tutti i settori della società palestinese, senza precedenti dopo il 1948. Nelle strade di Gaza, di Gerusalemme e della Cisgiordania le parole d’ordine esprimevano la disperazione e la perdita di fiducia nel processo di pace sono state identiche. Per la prima volta, inoltre, i palestinesi che vivono entro i confini israeliani (la "linea verde") e quelli dei campi profughi in Giordania, in Siria o in Libano sono uniti dalle medesime rivendicazioni.

Dopo il 1948 Israele ha cercato di isolare i palestinesi che vivono dentro la "linea verde" dresto del popolo palestinese, trattandoli come "arabi di Israele". Malgrado ciò, i Palestinesi del 1948 si sono impegnati appieno in questa Intifada (e uno di loro, Mohammad Barakeh, affronta un processo per avere fatto appello a sostenere la sollevazione). La loro partecipazione all’Intifada è il riconoscimento della loro appartenenza al popolo palestinese. L’Intifada è anche il loro strumento di lotta per i propri diritti.

I palestinesi, in tutto il mondo, si sono impegnati a riaffermare i propri diritti nazionali inalienabili. L’intenzione di Sharon, con la benedizione del governo israeliano, era quella di creare un altro "fatto compiuto". Questo solo basta a spiegare la violenta reazione di Israele di fronte ai manifestanti palestinesi che protestavano contro la visita di Sharon. Il governo Barak ha inteso lanciare un messaggio chiaro al popolo palestinese: Israele è disposta a tutto pur di proteggere i propri interessi politici così come sono stati definiti da Barak a Camp David. I palestinesi devono mettersi in ginocchio in segno di sottomissione ed accettare le condizioni israeliane, oppure dovranno subire il terrore.

La tattica dell’esercito israeliano - uso concentrato della forza il più rapidamente possibile in modo di schiacciare qualsiasi resistenza - è andato vicino a risultare efficace (ma non completamente), coperto dalle considerazioni politiche e dai discorsi rassicuranti. Quattro elementi definiscono la strategia israeliana di fronte all’Intifada:

- conservare la superiorità israeliana mediante tattiche che impongano il massimo di perdite possibili ai palestinesi, salvaguardando l’esercito israeliano;

- assediare città e villaggi palestinesi limitando severamente la libertà di movimento grazie all’assoluto controllo delle strade da parte dell’esercito israeliano;

- incoraggiare i coloni di Cisgiordania e Gaza ad attaccare i villaggi palestinesi;

- presentare gli scontri come opposizione a una forza palestinese armatissima e pericolosa, benché Israele sappia perfettamente che la polizia palestinese ha solo poche, semplici armi; L’argomento serve a coprire e giustificare l’uso sproporzionato di elicotteri da combattimento, carri e missili.

Spalle al muro

Di fronte a una realtà del genere, Arafat si è visto davanti ancora una porta chiusa. Ogni tentativo di ricercare un compromesso a partire dalle condizioni israeliane sull’assetto definitivo avrebbe significato l’abbandono della lotta per il riconoscimento dei legittimi diritti del popolo palestinese. Nessun palestinese avrebbe potuto accettarlo. Le rivendicazioni palestinesi sono semplici e chiare: garanzia di libertà e indipendenza palestinese in uno Stato sovrano con capitale Gerusalemme; diritto al ritorno per i profughi.

Il popolo palestinese ricerca una soluzione politica giusta e non una nuova forma, più elaborata, di occupazione. Per questo motivo il conflitto continua e la resistenza si rafforza. Per questo l’occupazione israeliana con tutte le sue tattiche di terrore e di aggressione non riuscirà mai a schiacciare l’animo palestinese e il desiderio di giustizia. L’Intifada è una resistenza politica popolare, dotata di un programma e di obiettivi chiari. E continuerà finché non saranno realizzati.

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* Il dottor Majed Nassar, vicepresidente dell’UHWC, è membro del Consiglio di amministrazione dell’AIC, il Centro di informazione alternativa. Nasser Ibrahim, ex caporedattore di El Hadaf, il settimanale del FPLP, è membro del collettivo dell’AIC. L’articolo è ripreso da News from Within, n. 8, del novembre 2000 (il mensile dell’AIC - AIC/News from Within, PO Box 31417, Gerusalemme. Abbonamento annuo: 60 dollari o equivalente).

 

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