LO STATO, LA SOCIETA’ CIVILE E L’ESERCITO IN ISRAELE

DAL CONFLITTO LIBANESE ALLA SECONDA SOLLEVAZIONE PALESTINESE

di Sergio Yahni*

(Traduzione di Titti Pierini)

Dalla creazione dello Stato di Israele, la definizione della sua popolazione ebrea si basa sul servizio militare. Il cittadino perfetto di Israele era quello che serviva lo Stato nelle guerre contro il mondo arabo. Questo tipo di definizione emarginava sia il cittadino arabo-palestinese sia quello ebreo ortodosso, dal momento che nessuno dei due serviva nell’esercito; inoltre, il cittadino arabo-palestinese veniva escluso dalla vita civile e dello Stato, in ragione della definizione etnica di quest’ultimo come Stato ebraico. In questo contesto, per un verso etnico per altro verso militarista, si è creata l’immagine di un cittadino che serve lo Stato senza discutere gli obiettivi nazionali e i cui diritti sono, d’altronde, definiti da tale servizio (vi rientrano i diritti all’istruzione, alla sanità e all’assistenza sociale). Per poter funzionare, tale sistema aveva bisogno di guerre con obiettivi chiari per l’opinione pubblica. La guerra del Libano ha interrotto questa convenzione tra lo Stato, la società civile e l’esercito, creando così una rottura sociale e politica nella società civile israeliana che persiste ancora oggi.

Una delle principali caratteristiche della guerra del Libano è stata che i suoi obiettivi non sono mai stati presentati chiaramente all’opinione pubblica e al governo di Israele da parte di chi li ha perseguiti: Ariel Sharon, Raphael Eytan e Menahem Begin. Creare una fascia di sicurezza di 40 km è stato, nel giugno del 1982, il motivo ufficiale avanzato dal governo israeliano per giustificare l’invasione. Ma questo era soltanto un pretesto: : anche i sottufficiali sapevano che l’invasione non si sarebbe arrestata di fronte a Beirut. Al termine della battaglia di Beirut, quando la direzione dell’OLP si è ritirata a Tunisi, cioè quando gli obiettivi della guerra erano ormai raggiunti, la sua ragion d’essere è cambiata. Una volta che Beirut era sotto controllo, si è tentato di imporre al Libano un governo filoisraeliano, quello delle falangi dirette da Béchir Gemayel. Questo governo ha firmato un accordo di pace con Israele: poi Gemayel è stato assassinato e questa strategia è stata annientata. In conseguenza dell’assassinio, le falangi hanno diretto il massacro nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, di cui le truppe israeliane avevano bloccato ingressi ed uscite, impedendo agli abitanti di fuggire.

Parallelamente ai cambiamenti sociali e ideologici che hanno accompagnato i mutamenti della politica internazionale, e lo sviluppo tecnologico degli anni Novanta, questa guerra è stata determinante per le trasformazioni sociali israeliane, ad esempio nei rapporti Stato/società civile/esercito e nel rapporto di quest’ultimo con i popoli arabi, in particolare con i palestinesi. in seguito alla guerra e alla reazione popolare che si è avuta in Israele, è risultato svalutato il ruolo dell’esercito e del servizio militare nella struttura sociale israeliana.

D’altro canto, l’Intifada palestinese (1987-1991) può essere indicata come una delle conseguenze di quella guerra. Fino al 1982, la presenza delle truppe d’occupazione israeliane in Cisgiordania e nella striscia di Gaza ostacolava lo sviluppo dell’opposizione politica all’occupazione israeliana. I dirigenti nazionali palestinesi con una presenza pubblica, anche quelli estranei alla lotta armata, erano stati arrestati e in gran parte esiliati all’estero. La repressione, il cui obiettivo, stando alle dichiarazioni ufficiali israeliane, rientrava nella "lotta contro il terrorismo", rendeva particolarmente vulnerabili le forze politiche inermi, creando in tal modo, paradossalmente, uno spazio in cui la lotta armata diventava l’unico sbocco possibile per il movimento nazionale palestinese. Finalmente, la lotta armata era diretta dall’OLP al di fuori della Palestina (talvolta tramite ordini impartiti alle organizzazioni dell’interno, talvolta dal Libano o dalla Giordania). La conseguenza della guerra del Libano è stata la riduzione degli effettivi militari israeliani in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, il che ha dato luogo allo sviluppo di una società civile palestinese che non riceveva direttive dall’OLP in esilio, dovendo risolvere problemi vitali e immediati. E’ stata questa società civile, fatta di organizzazioni popolari, di organizzazioni per i diritti umani, di sindacati, di organizzazioni studentesche, ecc., a scatenare cinque anni dopo l’Intifada.

Come si vedrà, possono intendersi come sviluppo di quella guerra sia la sollevazione palestinese che stiamo vivendo oggi, sia la risposta delle istituzioni politiche e militari dello Stato di Israele.

Il campo per la pace e l’esercito di Israele

Al di là dei numerosi gruppi radicali e marginali, il movimento per la pace e la contestazione della politica militare in Israele sono nati in seguito al trauma della guerra del 1973.

Fino a quella guerra, la popolazione israeliana nutriva la totale fiducia nel governo, nell’esercito e nella politica da essi condotta. In 25 anni, questa politica aveva portato a tre guerre (1948, 1956, 1967) che avevano finito non solo per affermare la superiorità militare di Israele sui suoi vicini, ma anche per accrescere anche i territori sottoposti al loro controllo. Così non è stato nel 1973, quando gli eserciti egiziano e siriano sorpresero l’esercito israeliano con un attacco congiunto grazie al quale vennero recuperati territori che erano stati occupati nel 1967 dall’esercito israeliano. Malgrado Israele riuscisse, durante il contrattacco, ad attraversare il Canale di Suez e ad occupare altri territori egiziani in Africa, non riusciva tuttavia a rioccupare completamente i territori ripresi da Egitto e Siria.

Il cosiddetto "trauma della guerra di Yom Kippur" deriva dall’effetto sorpresa dell’attacco e dall’ingente numero di morti e feriti nelle battaglie.

Alla fine delle battaglie del 1973, i soldati smobilitati sono andati a manifestare contro quella che venne definita "l’irresponsabile guerra del governo di Golda Meir". Questo movimento di contestazione non ha mai criticato il sistema militare israeliano ma la direzione politica dello Stato, che non era stata in grado di prevedere la guerra e di prepararsi ad essa. Ha ottenuto che il governo nominasse una commissione investigativa giudiziaria, che ha ritenuto la direzione militare colpevole dell’insuccesso della guerra ma ha assolto la direzione politica.

Una delle principali conseguenze politiche della guerra del 1973 è stata la perdita del governo per il Partito laburista che lo dirigeva dalla creazione dello Stato. La perdita del potere dipendeva da una rottura interna nelle file dei lavoratori, e il governo era passato al Likud. Si è trattato di un trauma profondo per il laburismo, che non solo costituiva la direzione politica dello Stato ma era lo Stato stesso: l’esercito, i servizi di sicurezza, i sindacati e le industrie organizzate nell’Histadrut nonché il mondo accademico erano retti dall’egemonia di questo partito. Per le classi dirigenti e soprattutto per la direzione burocratica la sconfitta elettorale era paragonabile alla perdita del paese.

Con la visita di Sadat a Gerusalemme, nel 1977, si è avviato il processo di pace israelo-egiziano. sotto gli auspici dell’allora Primo ministro Menahem Begin. Nel marzo 1978, dopo un frustrante incontro tra Begin e Sadat a Ismailia (Egitto), quando il processo di pace sembrava entrato ormai in una crisi insormontabile, un gruppo di ufficiali della riserva dichiarava in una lettera aperta al Primo ministro: "Un governo che scegliesse un Israele entro i confini del ‘Grande Israele’ a una coesistenza pacifica basata su buoni rapporti con i propri vicini susciterebbe in noi seria preoccupazione. Un governo che preferisse dar vita a colonie oltre la linea verde anziché porre fine allo storico conflitto e stabilire normali rapporti sarebbe destinato a suscitare dubbi sulla giustezza della nostra causa. La forza dell’esercito di Israele sta nell’identificazione dei propri soldati con il cammino fondamentale dello Stato di Isra". La lettera era sottoscritta inizialmente da 350 ufficiali di riserva. Alla fine di marzo, i redattori della lettera annunciavano di avere ottenuto altre 10.000 sottoscrizioni e convocavano una manifestazione per il 1º aprile, alla quale prendevano parte 40.000 persone. La campagna per procurare firme e organizzare la manifestazione è stata all’origine del movimento oggi noto come "Shalom achshav" ("Pace ora"), un movimento di contestazione che si è contraddistinto durante la guerra del Libano e durante l’Intifada come una forza di opposizione al governo, non parlamentare e che esprimeva in generale la linea politica maggioritaria del centro-sinistra sionista.

"La lettera degli ufficiali" è stata, nella storia di Israele, la prima espressione di un determinato nesso (alquanto implicito fra i militari sottoscrittori) tra la politica del governo e la motivazione degli ufficiali per compiere il proprio servizio militare. Ma "Shalom achshav" non è stata una semplice forza di opposizione ma anche l’espressione della sensazione di larga parte della cittadinanza israeliana di aver subito l’usurpazione dello Stato. Con tutto ciò, ha costituito una "opposizione responsabile", che è sempre rimasta fedele alle istituzioni militari dello Stato, che considerava come sue e di cui continuava a restare agli ordini.

Dopo il 1982, l’ideologia di questa "opposizione responsabile" combinava un’opposizione attiva al governo del Likud (che si è manifestata soprattutto con una massiccia partecipazione a manifestazioni e meetings contro la guerra) con la speranza che i suoi quadri continuassero ad essere alla guida dell’esercito. Con questa concezione, non arruolarsi era impensabile, come lo era anche l’idea di disobbedire agli ordini militari. Oggi la situazione è radicalmente diversa: non arruolarsi è ritenuta una scelta personale. Non vi sono dati precisi, ma vari media hanno annunciato che solo il 20% dei soldati di riserva svolgono il loro servizio annuale e che circa il 30% dei giovani arruolabili non fanno il servizio militare obbligatorio.

Tale cambiamento è dipeso sia dalla guerra del Libano sia dall’Intifada palestinese. La guerra del Libano accanto alla liberalizzazione dell’economia palestinese ha finito per infrangere l’identificazione tra Stato e società civile, creando per la prima volta fra la popolazione ebrea di Israele un individuo i cui interessi di cittadino possono differire da quelli dello Stato. L’esercito, che agli inizi della guerra del Libano era l’espressione completa della simbiosi tra Stato e cittadino cui andava tutto sacrificato, anche la stessa vita, è stata l’istituzione nel cui seno questa rottura è stata la più clamorosa. Il processo non è stato una reazione spontanea alla guerra ma è stato piuttosto determinato dall’emergere di contestatori che hanno sfidato apertamente la sistematica applicazione di ordini militari contrastanti con la coscienza individuale.

L’invasione del Libano

Le origini dell’invasione del Libano possono ricercarsi nella visita del segretario di Stato dell’amministrazione Reagan, Alexander Haig, in Medio Oriente, nell’aprile del 1981. In occasione di questa visita, il segretario di Stato ha introdotto l’idea di costruire un blocco antisovietico nella zona. Dal punto di vista dell’amministrazione nordamericana, la Siria era il principale alleato dell’URSS in Medio Oriente.

Si trattava allora, per Israele, di dar vita a un blocco antisiriano, ed è così che il governo israeliano e il suo capo di Stato Maggiore, il generale Raphael Eytan, hanno interpretato questa politica. E si vide la visita di Haig come il "via libera" per aumentare la tensione militare, già esistente in Libano, con l’OLP e la Siria. Fu così fino al 1981, quando i tiri dell’artiglieria dell’OLP costrinsero Israele a firmare un accordo indiretto di cessate il fuoco con l’organizzazione palestinese, che è durato fino al 4 giugno del 1982.

Per il ministro della Difesa del secondo governo Begin eletto nel 1981, il generale Ariel Sharon, è stata l’occasione per condurre una guerra che andava di pari passo con un progetto megalomane di creazione di un nuovo ordine filoisraeliano in Medio Oriente. Due mesi dopo l’avvento al ministero di Sharon, lo Stato maggiore ricevette un’istruzione che riguardava la preparazione di un piano operativo dettagliato, con i seguenti obiettivi:

- allontanare i cannoni palestinesi fuori dalla portata dei territori ebraici nell’alta Galilea;

- distruggere politicamente e militarmente l’OLP a Beirut;

- imporre a Beirut un governo libanese che firmasse la pace con Israele;

- assicurare l’evacuazione delle forze siriane dal territorio libanese.

Questi piani erano pronti nel gennaio 1982. Secondo questi piani, la guerra si trasformava nello strumento per imporre la politica israeliana a un paese vicino e, per questo, suscitavano la rottura del consenso dell’opinione pubblica in Israele, basato sulla concezione delle guerre come difesa, e come ultima istanza. Per questo stesso motivo, i preparativi di guerra furono tenuti nascosti non solo alla stampa ma anche ai ministri e agli ufficiali di State Maggiore che non erano direttamente coinvolti. Ciò ha comportato una situazione in cui i soldati impegnati negli scontri si nutrivano di voci vaghe senza disporre di ordini che rivelassero i reali obiettivi della guerra. Inoltre, se il piano prevedeva che le truppe israeliane oltrepassassero eventualmente l’autostrada Beirut/Damasco, l’annuncio ufficiale del governo fu che l’obiettivo era soltanto quello di creare una striscia di 40 km in territorio libanese, a Nord della Galilea, per allontanare in tal modo l’artiglieria palestinese.

Le condizioni in cui è cominciata la guerra nel giugno 1982 - con un governo non completamente legittimo agli occhi di una parte rilevante della popolazione di Israele, con i piani megalomani del generale Sharon e in un clima di cospirazione - hanno costituito gli elementi di una massiccia reazione delle forze di opposizione. Fin dal 7 giugno gli studenti dell’Università ebraica di Gerusalemme hanno organizzato la prima manifestazione contro la guerra davanti alla residenza del Primo ministro. Il giorno dopo, il Fronte democratico per la pace e l’uguaglianza (diretto dal Partito comunista) fece votare al Parlamento una mozione di sfiducia contro il governo. Il 13 giugno, 20.000 persone manifestavano contro la guerra a Tel Aviv, e il 3 luglio 100.000 persone partecipavano a una manifestazione indetta da "Shalom achshav", sempre a Tel Aviv. Il giorno successivo 120 soldati della riserva reduci dal Libano manifestavano davanti alla residenza del Primo ministro, e il 7 luglio alcuni soldati della riserva dei "commandos dello Stato Maggiore" chiesero le dimissioni di Sharon in una lettera al Primo ministro.

Tutti questi erano fatti nuovi, in una società in cui la guerra coincideva con la culla della propria identità collettiva. In questa società, le critiche rivolte al governo si fermavano al momento di indossare l’uniforme, e il servizio militare era una dimostrazione di buona condotta e una condizione preliminare rispetto alla contestazione. La più radicale reazione di massa fu invece l’atteggiamento dei soldati obiettori che si organizzarono nel movimento "Yesh Gvul" ("C’è un limite"). Come per gli attivisti di "Shalom achshav", la maggior parte di quelli di "Yesh Gvul" avevano la sensazione di aver subito l’usurpazione dello Stato e che la guerra fosse illegittima, per i suoi obiettivi. Per questo decisero di non parteciparvi. Vi si può scorgere una forma di patriottismo che rifiuta l’impiego dell’esercito a fini politici non immediatamente riguardanti la difesa dello Stato.

Nel luglio 1982 c’era già un soldato della riserva in prigione per essersi rifiutato di andare in Libano e, fino alla ritirata da Beirut, vennero mandati in galera per lo stesso motivo altri 170-180 soldati.

Ciò che era cominciato come un atteggiamento patriottico superò i propri limiti perché, da un lato, il governo del Likud non era un fenomeno passeggero o accidentale, ma parte integrante della realtà sociale e politica di Israele, e perché, dall’altro lato, la guerra del Libano faceva ormai parte della realtà quotidi. L’atteggiamento di "Yesh Gvul" aveva aperto una breccia: il rifiuto del servizio militare era diventato un’alternativa legittima. Militanti del movimento hanno calcolato che per un soldato che finiva in prigione altri dieci erano riusciti a prestare servizio fuori dal Libano dopo averne fatto richiesta e cento altri soldati ancora avevano trovato metodi vari per non recarsi in Libano senza dover manifestare le proprie obiezioni (un fenomeno che ebbe il nome di "obiezione grigia"). La nuova realtà permise ai diversi gruppi, che in precedenza si collocavano al di fuori del campo del discorso politico ufficiale (ad esempio il movimento femminista, che ha svolto un ruolo essenziale durante l’Intifada), di potersi esprimere senza dovere assumere atteggiamenti militaristi.

La guerra del Libano e la contestazione ad essa, e in seguito l’Intifada nonché altri sviluppi sociali, sono stati altrettanti fattori di cambiamento da una società monolitica verso una società eterogenea, in cui oggi è quasi impossibile ritrovare elementi identitari comuni a tutti. La breccia di legittimità aperta dagli attivisti di "Yesh Gvul" durante la guerra si è trasformata di fatto in diritto del cittadino di scegliere il proprio rapporto con lo Stato e l’esercito. La pressione popolare creata da tale legittimità ha indotto l’esercito ad accettare l’intervento dei genitori nelle condizioni del servizio militare dei figli, e questa invenzione si è trasformata nel 1997 in contestazione, con la comparsa del "movimento delle quattro madri", creato dopo un incidente aereo in cui hanno trovato la morte 73 soldati che si recavano in Libano. Quattro delle madri di questi soldati hanno allora protestato "come madri" contro un servizio militare pericoloso e senza alcuna logica apparente. Esse hanno ottenuto un sostegno popolare che ha indotto tutti i dirigenti politici a promettere un rapido ritiro dal Libano alla vigilia delle elezioni del 199.

La società palestinese nei Territori occupati

Non si può scindere la guerra del Libano dagli avvenimenti svoltisi prima e dopo nei Territori occupati. In certo senso, anche l’Intifada palestinese può essere vista come una delle conseguenze di quella guerra.

Dopo il 1967 Israele ha portato avanti una politica di integrazione economica dei Territori occupati. Essa avrebbe dovuto portare a un innalzamento del tenore di vita della popolazione palestinese, ridurne la resistenza all’occupazione e creare condizioni per una soluzione politica che aprisse la strada all’eventuale annessione di parte di tali territori e al negoziato di un accordo di pace con il Regno di Giordania per quanto riguarda l’altra parte. Essendo l’OLP l’ostacolo principale per imporre tale politica, i vari governi hanno cercato di distruggerla, o perlomeno di dividerla.

Il primo serio tentativo di dividere il movimento nazionale palestinese è stato portato avanti da Yitzhak Rabin nel 1976, quando organizzò elezioni comunali in Cisgiordania e nella striscia di Gaza cui non potevano partecipare l’OLP o sue frazioni. Il tentativo di Rabin puntava a fare emergere una direzione politica locale in alternativa all’OLP, legittimata da un processo elettorale e con la quale poter trattare una soluzione politica. Ma le cose non sono andate come previsto: i candidati eletti nel 1976 si erano sì presentati come indipendenti, ma erano legati all’OLP in esilio.

Per altro verso, la strategia delle varie frazioni del movimento nazionale palestinese era prevalentemente militare. In quest’ottica, il Sud del Libano svolgeva per la rivoluzione popolare palestinese il ruolo di un "Vietnam del Nord", da cui si pensava partissero gli attacchi contro Israele. Tale strategia riservava semplicemente un ruolo passivo alla popolazione palestinese dei Territori occupati: rimanere sulla propria terra, incrostarvisi e aspettare la liberazione. La guerra del Libano ha destabilizzato questa strategia e ha restituito un ruolo più importante ai palestinesi in Palestina, nonostante la direzione dell’OLP. Nella metà degli anni Ottanta, i dirigenti palestinesi dei Territori occupati cominciarono a organizzare la popolazione in vista di una sollevazione, mentre la direzione in esilio cercava di organizzarsi nelle zone non occupate da Israele in Libano, ricercando strumenti diplomatici per comunicare con Israele.

Nel quadro dell’applicazione degli accordi di Camp David tra Israele e l’Egitto relativi all’autonomia palestinese, il governo di Menahem Begin rese pubblico unilateralmente, nel 1980, l’ordine militare n. 947, che imponeva un’amministrazione civile nei Territori occupati che avrebbe assunto parte delle responsabilità del governo militare esistente dal 1967. L’OLP e la direzione nazionale locale organizzata in "Comitato di Direzione Nazionale" si opposero a tale misura, il che portò a una grande ondata di resistenza nel novembre del 1981. Il governo israeliano ne ritenne responsabile l’OLP in esilio e reagì destituendo nove sindaci eletti e scatenando un’intensa repressione contro la popolazione, alla quale presero parte coloni israeliani.

In questa situazione, la proposta di Alexander Haig di creare un blocco antisovietico in Medio Oriente apriva la possibilità per Israele non solo di farla finita con l’OLP sul piano politico e militare, ma anche di applicare i progetti israeliani nei Territori occupati. Poiché i dirigenti israeliani pensavano che i quadri locali dell’OLP si limitassero a ricevere ed eseguire gli ordini provenienti dall’estero, ritenevano che sarebbe stato sufficiente smantellare la direzione dell’OLP per disarmare i quadri locali e imporre così la propria politica.

L’analisi israeliana dei rapporti tra l’OLP in esilio e il movimento di resistenza nei Territori occupati degli inizi degli anni Ottanta non era errata, ma la speranza del governo Begin che sarebbe bastato farla finita con il primo per imporre la propria politica nei Territori occupati ne dimostrava la cecità. Come spiega uno dei dirigenti dei comitati d’urto (organizzazioni armate esistenti durante l’Intifada), agli inizi degli anni Ottanta i Territori occupati disponevano già di quadri politici in grado di assumersi responsabilità nella lotta e che le assunsero effettivamente: "La crisi dell’OLP dopo l’invasione israeliana [del Libano] ci ha lasciato orfani. Ma, poiché eravamo membri di partiti politici, abbiamo capito che dovevamo assumerci delle responsabilità senza aspettare che [la direzione all’estero] ci dicesse che cosa bisognava fare. Le organizzazioni popolare che si sono create a partire dagli anni Settanta hanno rappresentato il nostro campo d’azione principale e i partiti ci lasciavano agire come volevamo. Questo ci ha permesso i ascoltare il popolo e di coglierne la combattività".

Così, l’invasione del Libano, che peraltro riduceva gli effettivi militari incaricati del controllo della popolazione locale nei Territori occupati, ha offerto ai quadri politici in Palestina l’occasione di trasformare la popolazione da soggetto passivo in attesa della liberazione in agente attivo di questa. L’attività politica di questi quadri è cresciuta di pari passo con gli scontri con le autorità occupanti ed ha raggiunto il suo apogeo nel dicembre del 1987 in una sollevazione generale, oggi nota come Intifada e che ha colto di sorpresa sia le autorità israeliane sia l’OLP in esilio.

I servizi israeliani di sicurezza non sono mai riusciti a schiacciare l’Intifada, ma i mutamenti politici internazionali, soprattutto la scomparsa del blocco sovietico e la guerra del Golfo, hanno finito per provocare una crisi interna al movimento nazionale palestinese che lo ha indotto a negoziare con Israele sotto la tutela degli Stati Uniti. Da questo punto di vista, è dato scorgere negli accordi di Oslo un patto tra, da una parte, l’incapacità dello Stato di Israele di risolvere "il problema palestinese" con strumenti repressivi e, dall’altra parte, la volontà dell’OLP di sopravvivere politicamente ai cambiamenti sulla scena politica internazionale allineandosi con le esigenze imperialiste. Una delle conseguenze di quegli accordi è stata la creazione sotto controllo israeliano di un’entità palestinese autonoma (sul 18% dei territori occ( e di una zona di controllo misto (42% dei territori), in cui risiede circa l’80% dei palestinesi.

Per la sua natura geografica (l’entità palestinese è suddivisa in sei zone autonome discontinue, cui vanno aggiunte oltre cinquanta zone sotto controllo misto), economico-sociale (l’entità palestinese non dispone di mezzi che consentano di creare un’economia differenziata da quella israeliana) e politica (l’entità palestinese non può prendere decisioni politiche o giuridiche contrastanti con gli interessi israeliani) l’entità palestinese si è trasformata da veicolo che portava all’indipendenza nazionale in un organo di controllo israeliano sulla popolazione, diretto da un vertice burocratico che monopolizza sia la vita politica sia quella economica della popolazione palestinese. L’impossibilità di questo vertice di trasformarsi in un punto d’appoggio per la liberazione nazionale ha creato un clima di inquietudine sociale nei sette anni di applicazione degli accordi di Oslo.

Il ritiro dell’esercito dalla "striscia di sicurezza" ha rappresentato un mutamento di ordine quantitativo, ma anche un altro di ordine qualitativo. In primo luogo vi è stata una riduzione significativa del numero di soldati israeliani presenti in Libano dopo la costruzione di questa striscia. In secondo luogo, i soldati "riservisti" (che erano la punta dell’ondata di protesta) sono quasi scomparsi, avendo da quel momento in poi assunto gran parte dei loro compiti "l’esercito del Sud-Libano". Questo ha significato per l’esercito anche una diminuzione delle perdite. Inoltre, con l’Intifada in Palestina, la tematica libanese è stata relegata in secondo piano, essendosi l’opinione pubblica rivolta verso ciò che stava avvenendo nei Territori occupati.

In quegli anni, la presenza militare in Libano e il prezzo da pagare per questo sono indiscutibilmente diventati una routine. Nel quadro di questa si è prodotto un duplice mutamento - al tempo stesso un approfondimento e una deprivazione - nelle forme di risposta popolare, diverse da quelle del movimento di protesta dell’inizio della guerra. Il rifiuto di combattere in Libano ha cessato di basarsi su un obiettivo ideologico, per diventare obiettivo individuale. Poiché in Israele il solo modo per non assolvere il servizio militare, regolare o di riserva, è invocare motivi medici o psicologici, per sfuggirvi si sono diffusi largamente i motivi psicologici accampati. La stampa israeliana ha anche menzionato casi di soldati di leva che preferivano finire in galera (per ragioni disciplinari) anziché combattere in Libano.

Il fenomeno di demoralizzazione era diseguale, con picchi tra coloro che avevano in precedenza svolto il servizio militari come ufficiali o soldati scelti. Questo ha anche offerto qualche occasione di ascesa a una popolazione fino ad allora emarginata. Per cui il fenomeno ha anche portato al cambiamento della composizione sociale del corpo degli ufficiali. Fino agli anni Ottanta, gli ufficiali erano soprattutto legati al laburismo. Nelle unità scelte, la percentuale di coloro che provenivano da Kibbutz e Moshav era maggiore rispetto a quella che era nella popolazione israeliana. Dagli inizi degli anni Novanta la percentuale nei corpi degli ufficiali e le unità scelte era diminuita, mentre parallelamente cresceva quella dei coloni e delle persone legate ai partiti sionisti religiosi (di destra).

Sarà sotto il governo di Benyamin Netanyahu, diventato Primo ministro a metà del 1996, che in Israele comincia a porsi il problema della necessità di "un ritiro unilaterale dal Libano". Accanto ai vari movimenti di protesta, in particolare quello delle "quattro madri" (una reminiscenza delle "quattro matriarche" del giudaismo), emergono personaggi politici che parlano di interesse all’abbandono del Libano, con accordo o senza. Yosi Beilin, l’attuale ministro della Giustizia nonché uno degli artefici degli accordi con i palestinesi, è uno dei primi ad avere manifestato tale posizione. L’utilità della cosiddetta "striscia di sicurezza" è sparita - diceva - e Israele può difendersi efficacemente se non meglio a partire dai confini internazionalmente riconosciuti.

Può apparire strano che, anziché sollevare un’ondata di critiche indignate, la proposta abbia ricevuto, specie nell’ultimo anno del governo Netanyahu, l’adesione della maggioranza dei leader politici israeliani e degli ufficiali superiori dell’esercito. Chi ha espresso più calorosamente il proprio appoggio al ritiro è stato l’ex generale ed artefice della presenza israeliana in Libano, l’uomo di destra, Ariel Sharon.

Queste strane coincidenze meritano una spiegazione più articolata. Segnaliamo, tra gli altri, alcuni dei tratti specifici del movimento delle "madri" per il ritiro. Abbiamo detto della sua origine. Benché questo movimento non abbia mai gestito un’adesione dell’ampiezza di "Shalom achshav", ha tuttavia concentrato i fenomeni di esplosione del consenso di cui abbiamo parlato, segnando l’emergere di un nuovo tipo di società in Israele.

La prima caratteristica si colloca nel nome stesso dell’organizzazione: Madri. Essere madre di soldati conferisce una posizione e il diritto di mettere in discussione le decisioni dell’esercito e della classe dirigente. Forse in Europa questo sarebbe di per sé evidente, ma in Israele lo è solo da qualche anno. La seconda caratteristica, connessa alla prima, è che si tratta di un gruppo il cui nucleo è costituito da donne. Donne che pretendono che si prenda una decisione politica, che però è innanzitutto militare. Un altro salto sulla via della distruzione dei parametri tradizionali. La terza caratteristica riguarda le forme di iniziativa del movimento, che ha adottato peculiari metodi di protesta, come raduni nazionali in bicicletta, attraversando varie località del paese per diffondere le proprie parole d’ordine. La quarta caratteristica consiste nell’essenza stessa del messaggio: uscire immediatamente dal Libano, senza precisare che cosa debba succedere dopo, una posizione che dovrebbe condurre l’organizzazione a sciogliersi qualche giorno dopo il ritiro israeliano dal Libano.

Quest’unica parola d’ordine del movimento sintetizza il mutamento operatosi in seno alla società israeliana. Nel 1920 Yosef Trumpeldor, un combattente sionista, aveva detto poco prima di morire combattendo al confine settentrionale: "è bene morire per la nostra patria", una frase divenuta il simbolo e la bandiera di oltre mezzo secolo di vita in Israele. Le "quattro madri" esprimono il rovesciamento di questo atteggiamento di sacrificio individuale per la collettività nazionale e la sua sostituzione con il senso dell’esistenza della vita e della morte, sia personale sia sociale.

1998 e 1999 non sono stati anni di eccezionale attività in Libano. Le telecamere degli Hezbollah hanno ripreso le operazioni militari, ma questo non ha aumentato sensibilmente il numero delle vittime israeliane, rimasto a un livello analogo a quello del 1995 o 1996 (circa 25 soldati uccisi annualmente). Tuttavia, in connessione con le trasformazioni sociali e con i mutamenti della percezione popolare del ruolo dell’esercito, del sacrificio per obiettivi nazionali, ecc., l’esigenza di ritirarsi dal Libano è diventata una delle poste in gioco della politica israeliana. Con le dimissioni del governo del Likud nel 1999 e le nuove elezioni, si è assistito a un fatto senza precedenti nella politica israeliana. Un ex generale, comandante in capo delle forze armate fino a poco fa, si è presentato alle elezioni comprendendo fra le sue promesse elettorali "il ritiro dal Libano prima del luglio 2000, con o senza accordo di pace". Si tratta di Ehud Barak, l’ufficiale più decorato della storia militare israeliana, che prometteva il ritiro presentandolo come il modo migliore di porre fine a un conflitto armato di più di due decenni. Non vi è dubbio che la promessa di porre fine alla presenza militare in Libano abbia contribuito al suo trionfo elettorale nel maggio 1999.

La Conferenza di Camp David II e la sollevazione del 29 settembre

La politica libanese di Barak si basa sul fatto che la popolazione israeliana non è disposta a pagare il prezzo del sangue che Israele versava per la proppresenza in Libano. Il ritiro ne ha dunque reso popolare la politica. Oltre il 60% della popolazione israeliana accetta gli accordi di Oslo come l’unico modo per lo Stato di Israele di sbarazzarsi di 1 milioni di palestinesi. Ma, al tempo stesso, l’esistenza di 400.000 coloni in Cisgiordania e nella striscia di Gaza rende ipostile agli occhi dell’opinione pubblica israeliana un ritiro completo entro i confini del 4 giugno 1967.

La firma degli accordi di Oslo ha inaugurato una nuova epoca nei rapporti tra Israele e i palestinesi. Fino a quegli accordi i rapporti erano segnati dalla lotta tra l’occupazione israeliana e la resistenza palestinese. Dopo gli accordi essi si sono modificati in un processo di trattative tra il governo di Israele e l’Autorità nazionale palestinese. Si poteva presumere che, dato il carattere temporaneo degli accordi, si sarebbero congelate le azioni unilaterali nei territori contesi.

Ma la realtà è stata un’altra. Nei sette anni, il processo di colonizzazione dei Territori occupati è proseguito ed ora, nel 2000, la popolazione dei coloni israeliani è aumentata. Così, l’espansione demografica e geografica delle colonie israeliane ha modificato alla fine la natura dell’entità palestinese che deve vedere la luce al momento degli accordi definitivi. Congiuntamente all’espansione delle colonie israeliane è stata creata una rete stradale che serve solo ai coloni e che suddivide il resto del territorio palestinese. Si è anche assistito a un mutamento dell’opinione pubblica internazionale nei confronti della presenza israeliana nei Territori occupati. Se nel 1993 si parlava dell’occupazione israeliana, nel 2000 si parla di Territori contesi, se nel 1993 le colonie israeliane erano entità illegali, nel 2000 sono diventate oggetto di discussione. Così oggi, nel 2000, si può dire che Israele sia riuscita a creare una matrice di controllo che impedisce l’esistenza di uno Stato palestinese praticabile.

Durante la Conferenza di Camp David II, Ehud Barak, che aveva ormai perso la propria maggioranza parlamentare, ha cercato di sfruttare ogni possibile margine offerto dall’opinione pubblica, come è successo prima della sollevazione palestinese. Se tali margini consentivano di intravedere la creazione di uno Stato palestinese, tuttavia lo riducevano non prevedendo lo smantellamento della maggioranza delle colonie israeliane in Cisgiordania e a Gaza e consentendo di elargire solo minime concessioni per quanto riguarda la città di Gerusalemme. Tuttavia Barak ha scelto di dettare ad Arafat un accordo stile "prendere o lasciare" che portava alla creazione di uno Stato palestinese, la cui natura però e la cui forma erano inaccettabili per qualunque dirigente palestinese. Inoltre, l’opinione pubblica palestinese, incluse le file di Al Fatah, aveva ormai perso le illusioni sul processo di Oslo. Essendosi abbassato il suo tenore di vita, stava a guardare come una direzione corrotta negoziasse un accordo in cui lo Stato palestinese da creare somigliava più a un "bantustan" sudafricano che a un paese con propria sovranità. Del resto, aveva davanti l’esempio della lotta degli hezbollah come alternativa.

A Camp David II il Primo ministro israeliano ha proposto ad Arafat un accordo con il quale Israele conservava tre blocchi di colonie oltre alle colonie israeliane nel perimetro comunale di Gerusalemme e il controllo dei confini. I blocchi rappresentavano tra il 5% e il 10% della Cisgiordania ma, per la loro posizione geografica, la suddividevano in tre territori separati e pressoché senza possibilità di comunicazione tra loro. Dal punto di vista palestinese, significava abbandonare completamente la praticabilità della sovranità nazionale. Inoltre, appena si fosse cominciato ad applicare gli accordi di Oslo, soltanto una ristretta élite economica e burocratica avrebbe tratto vantaggio dalla divisione dei territori sottoposti all’amministrazione dell’Autorità nazionale palestinese, introducendovi monopoli politici ed economici.

In questo quadro, la sollevazione palestinese del 29 settembre ha significato la riappropriazione della propria lotta per l’indipendenza da parte del popolo palestinese. Era, a un tempo, la reazione alla politica di Barak che teneva conto delle debolezze della società civile israeliana e una lotta per la democrazia in seno alla società palestinese, in cui il popolo e le organizzazioni armate hanno preso il posto dei burocrati corrotti dell’amministrazione Arafat. Per parte sua, Arafat ha capito che il suo futuro gli imponeva di separarsi dalla politica dei suoi funzionari e di ergersi a leader della lotta popolare. Se non lo avesse fatto avrebbe perso il proprio posto in seno al movimento a vantaggio dei dirigenti popolari di Al Fatah, come Barghuti, ed è probabile che la direzione del movimento sarebbe passata nelle mani delle organizzazioni islamiche.

La reazione della società israeliana

Come si è detto, la politica del Primo ministro israeliano si spingeva ai limiti del consenso politico in Israele, partiti della sinistra sionista inclusi. Il rifiuto palestinese di accettare l’imposizione di questi limiti, che non soddisfano neanche le più piccole esigenze palestinesi, è stato interpretato in Israele come il ritiro della direzione palestinese dal processo di pace e l’apertura di un percorso che porta allo scontro armato al quale l’esercito israeliano si preparava dal settembre 1996 (dopo il conflitto del tunnel sotto il Monte del Tempio).

Lo scontro tra l’esercito israeliano e l’Autorità palestinese ha caratteristiche diverse dai precedenti scontri armati, compresa la guerra del Libano, e mette in luce le debolezze della società israeliana. Nel primo mese di scontri la lotta palestinese era innanzitutto una lotta di massa, in cui al massimo si poteva sentire sparare in aria. La risposta israeliana è stata micidiale - i soldati hanno sparato per uccidere (la maggior parte delle ferite in quella fase e anche dopo interessa la parte superiore del corpo delle vittime), mentre non vi è stato alcun tentativo di impiegare sistemi meno letali di repressione. Più che l’uso della forza e l’assenza di vittime israeliane, è stato l’indebolirsi del senso di sicurezza della popolazione ebrea che ha spinto ad intensificare l’uso della forza. L’escalation militare condotta da Israele in tutta questa fase ha portato a un’escalation corrispondente da parte palestinese. In risposta all’uso mortale delle armi da fuoco, anche i palestinesi hanno cominciato ad uccidere soldati e coloni israeliani. In risposta ai bombardamenti aerei delle località palestinesi è emerso l’uso di auto-bombe nelle città israeliane. Benché il rapporto proporzionale tra le vittime non sia cambiato, le azioni palestinesi hanno cominciato a provocare due o tre morti israeliani a settimana.

Per altro verso, mentre l’escalation ha ormai raggiunto il livello di una guerra di bassa intensità e nei Territori occupati gli effettivi israeliani hanno superato i 10.000 uomini, l’esercito non è mai ricorsa ai riservisti. Il motivo è semplice: a differenza di altre fasi, la popolazione non è disposta a pagare il prezzo necessario a proseguire l’occupazione e l’esercito ha paura che le perdite inferte a riservisti possano rapidamente portare a un ribaltamento dell’opinione pubblica in favore del ritiro totale dai territori occupati. Per la stessa ragione Israele fa di tutto perché gli scontri non provochino una guerra con il mondo arabo. In tal caso, occorrerebbe fare appello alla mobilitazione dei riservisti, senza la quale Israele non riuscirebbe a reggere in una guerra totale; l’esercito però non è sicuro che i riservisti risponderebbero all’appello.

Il prezzo pagato ora dalla popolazione ebrea di Israele è innanzitutto la sensazione crescente di insicurezza. Il 30 settembre la popolazione palestinese di Israele ha manifestato in solidarietà con i palestinesi dei Territori occupati, avanzando al tempo stesso anche le proprie rivendicazioni. La risposta di Israele è costata la vita a 13 palestinesi cittadini israeliani, centinaia dei quali sono stati feriti. Ma la popolazione ebrea ne ha ricavato soprattutto la sensazione di vivere in uno Stato assediato dagli Arabi e qha incoraggiato i media israeliani, che hanno presentato i cittadini palestinesi di Israele come i nemici dello Stato, che tentano di distruggere con le loro azioni.

L’impasse politica e sociale in Israele

Il governo Barak ha visto l’insicurezza della popolazione ebrea l’ultimo modo per assicurarsi la sopravvivenza politica. Come si è detto, Barak ha perso la maggioranza parlamentare alla vigilia della Conferenza di Camp David II e prevedeva di cadere su una mozione di sfiducia in Parlamento all’apertura della sessione invernale. Alla sua apertura, in ottobre, il Primo ministro ha fatto allora appello alla costituzione di un governo di emergenza nazionale, prendendo a pretesto lo stato di guerra nei Territori occupati. Barak ha subito manovrato tra il Likud di Ariel Sharon, che dispone di 19 seggi in Parlamento, e il partito sefardita ultraortodosso, Shas, che ne ha 17. Alla fine ha ottenuto un ombrello parlamentare dallo Shas per un periodo di trenta giorni. Per le sue contraddizioni interne il Likud non ha potuto entrare nella coalizione, tanto più che la direzione dello stesso Sharon è instabile, dovendo affrontare il ricatto dell’ex Primo ministro Netanyahu, il che lo ha portato ad imporre a Barak condizioni impossibili.

Benché il salvagente parlamentare dello Shas impedisca al governo di cadere, quest’ultimo non ha alcun modo di fare accettare i propri disegni di legge al parlamento, e neppure il bilancio per il 2001. D’altro canto, Barak , i laburisti e i loro alleati sanno che in caso di nuove elezioni, le perderebbero largamente. Perciò l’unico obiettivo di Barak è quello di sopravvivere, sperando che si delinei una costellazione parlamentare o extraparlamentare che gli consenta di riconquistare il potere. Ma Barak sopravviverà di fronte al parlamento solo finché lo Shas gli presterà il proprio salvagente, vale a dire finché continueranno gli scontri.

L’unica possibilità extraparlamentare che possa ipotizzare il governo Barak per sopravvivere sarebbe il successo militare riportato sui palestinesi, che costringerebbe Arafat o qualsiasi altro dirigente palestinese ad accettare un diktat, le cui condizioni sarebbero peggiori di quelle di Camp David II. Per ottenerlo, tuttavia, dovrebbe mobilitare le unità di riserva, che pagherebbero un prezzo tale che la situazione politica interna precipiterebbe nel caos.

Perciò il governo ha optato per una via intermedia. Continua a portare avanti una guerra di bassa intensità ricorrendo prevalentemente a mezzi di combattimento aerei, meno efficaci militarmente di quelli terrestri, ma che non rischiano di ribaltare la situazione interna. D’altro canto, prende precauzioni perché il numero delle vittime tra la popolazione israeliana non superi un determinato limite. Il che significa che è il vicolo cieco politico e sociale in cui si è cacciata Israele a causare le sofferenze crescenti del popolo palestinese e che finché Israele non ne sarà venuta fuori non potrà accettare una soluzione pacifica della crisi.

Quale che ne sarà lo sbocco, è legittimo ipotizzare che essa avrà una portata paragonabile a quella della guerra dell’ottobre 1973 e che stabilirà un tratto divisorio tra due diverse epoche della storia dello Stato di Israele. Si può essere quasi certi che la crisi attuale porterà i laburisti a una sconfitta storica, per rimettersi dalla quale avranno bisogno di parecchi anni, ammesso che riescano a ricomporsi politicamente. Non meno sicuro è che l’attuale crisi porta a una polarizzazione di fondo della società israeliana tra le forze che preferiscono una migliore integrazione regionale al mantenimento della caratterizzazione ebraica dello Stato di Israele e quelle che vorrebbero ulteriormente consolidare la propria identità ebraica esclusiva. Altrettanto vale per le forze favorevoli alla pace in Israele: nella loro pratica politica dovranno scegliere tra il sionismo e la lotta per la pace.

Fin da ora possiamo scorgere il delinearsi di embrionali differenziazioni politiche sia in seno alla società in genere sia in seno al campo pacifista israeliano. Mentre si levano voci contro le colonie ebraiche nei Territori occupati ed altre contro l’allineamento degli ebrei con le forze politiche arabe, lo stesso movimento "Shalom achshav" si divide secondo tale polarizzazione, mentre la destra nazionale scende in piazza per richiedere di versare ancora più sangue arabo.

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* Sergio Yahni collabora all’AIC. L’articolo è ripreso da un precedente lavoro scritto in collaborazione con Diego Crenzel e presentato nel giugno 2000 al seminario di Barcellona dell’UNED: "Vicino Oriente: Quale tipo di pace?".

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