COSÌ SI SVILUPPA UN REGIME DI APARTHEID

 

di Azmi Bishara*

 (Traduzione di Titti Pierini)

Sembra che i recenti avvenimenti portino alla creazione di un sistema di apartheid sia all’interno dello Stato di Israele sia tra i suoi confini e i Territori occupati. Per quanto riguarda il trattamento applicato dalla forze i sicurezza, è già fatto! Le forze di polizia hanno reso istituzionali due metodi chiaramente diversi di repressione delle manifestazioni e due diverse forme di detenzione e di arresto: uno per gli ebrei e un altro per i palestinesi, siano essi cittadini israeliani o sudditi dei Territori occupati. E, questo, in accordo con quei media israeliani che sono stati mobilitati al servizio delle forze di sicurezza per incitare la comunità ebraica contro gli arabi, individuati come il nemico. Gli esponenti della sinistra sembra ne abbiano avallato il linguaggio. Quando la maggioranza della popolazione israeliana (a prestare fede ai sondaggi) dimostra un senso di comprensione verso questi attacchi contro gli arabi, ecco che si mettono insieme le condizioni per instaurare un regime di apartheid.

Così, le contraddizioni secondarie interne alla società israeliana e le sue divisioni di parte risultano incoerenti. Passano in secondo piano, di fronte a "un problema arabo". Quando lo Stato non è più quello di tutti i cittadini, quando la cittadinanza non è più il cuore dello Stato, l’uguaglianza diventa un’illusione, quando non una frode. Quando un poliziotto o una guardia di confine si trova di fronte un manifestante arabo, non ricorre contro di lui a "strumenti discriminatori", ma si comporta semplicemente come di fronte a un nemico.

La sinistra e la brutalità contro gli arabi in Israele

Il fatto è che ogni volta che venivano assassinati cittadini arabi in Israele, la sinistra (o quella che così viene chiamata) era al governo e la destra era all’opposizione: il massacro di Kufr Qassem (1956), la Giornata della Terra (1976), come gli avvenimenti attuali si sono tutti verificati sotto governi laburisti. Da anni i cittadini arabi si sono lamentati per il comportamento di Alic Ron, comandante della polizia nei distretti settentrionali, ma nessuno della sinistra ha dato loro ascolto. il professor Ben Ami, ministro della sicurezza interna, oggi gli dà una pacca sulla spalla e gli assicura il suo pieno appoggio...

Le recenti manifestazioni all’interno di Israele, durante le quali sono state uccise 14 persone e centinaia di giovani sono stati feriti, non rappresentavano il primo caso in cui si è aperto il fuoco negli ultimi anni. Prima ci sono state la manifestazioni di Al Ruha, UM-Al-Sahali ed altre. E benché non vi siano manifestazioni che non debbano affrontare il fuoco nel settore arabo, in Israele tutto resta tranquillo. I recenti avvenimenti non rappresentano quindi una svolta, ma solo un momento in cui la quantità si è trasformata in qualità. Durante tutti questi avvenimenti la sinistra israeliana ha brillato per la sua assenza. Il suo era un silenzio sepolcrale quando il fuoco è stato aperto a Lydd, dove sono stato ferito personalmente. Né si è sentita alcuna condanna quando Alic Ron è ricorso alla violenza per realizzare la sua politica di demolizione delle abitazioni.

E’ il paternalismo della sinistra israeliana ad indurla a ripetere incessantemente i propri comportamenti estremisti. Non solo assume posizioni scorrette, ma - ed è la differenza con la destra - spera che gli arabi le accettino. Per questo la sinistra è delusa e si scandalizza ed è il motivo per cui essa va in caccia di "agitatori" da poter rimproverare. Così, noi che siamo favorevoli all’uguaglianza dei cittadini e che abbiamo un atteggiamento liberale contrastante con la politica identitaria, che insomma ci battiamo per una società civile, democratica ed ugualitaria, siamo improvvisamente diventati agitatori estremisti agli occhi dello Stato di Israele.

Lo scorso anno ho cercato di interessare tre quotidiani israeliani di primo piano al problema della crescente violenza poliziesca, ma nessuno si è dimostrato disponibile. I liberali israeliani sono colpiti solo quando è una folla di destra a mobilitarsi per uccidere gli arabi. Per questo la sinistra si è svegliata soltanto alla fine dei massacri di Nazareth (cominciati con una mobilitazione degli ebrei i Nazareth-Ilit); gli orrori l’hanno traumatizzata e poi, dopo che la polizia si è abbandonata a brutali violenze contro gli arabi, si è dimenticata della sua commozione. L’unica cosa che la sinistra sia stata capace di fare in quel caso è stato visitare le famiglie in lutto. Essa infatti si rifiuta di scegliere un campo contro l’altro e giudica addirittura inaccettabile una scelta del genere.

Il brutale comportamento nei confronti dei cittadini arabi è il riflesso dei valori che autorizzano una brutalità senza limiti nei Territori occupati. Sono questi stessi valori ad imporre un assoluto silenzio (quando non un esplicito sostegno) su tutte le misure prese dalla Forze di sicurezza , un silenzio che perdura mentre si stanno contando centinaia di uccisi e migliaia di feriti nelle recenti manifestazioni nei Territori occupati. Anche qui, gli avvenimenti hanno cominciato quando la polizia ha sparato senza alcun motivo su persone in preghiera nella moschea Al Aqsa.

L’appoggio della sinistra a Barak

Queste misure di una brutalità senza precedenti, cui in seguito si è aggiunto l’impiego di elicotteri da combattimento e di carri, sono state in genere accettate dall’opinione pubblica israeliana, che ha anche accettato la versione israeliana per quanto riguarda il processo di pace ("Non abbiamo partner per fare la pace") e il comportamento dell’esercito nei Territori occupati.

Sia dentro sia fuori la Knesset (il parlamento) avevamo sostenuto che il programma di Barak, portato alle stelle dopo la sua vittoria alle ultime elezioni, non poteva costituire una base per la pace. L’abbiamo ripetuto prima che Barak si recasse a Camp David e naturalmente dopo. Ma nessuno voleva ascoltare, perché tutti erano così felici che Natanyhau avesse perso le elezioni. Così la sinistra israeliana ha contribuito a rafforzare la lega antiaraba. Ha scommesso su una pace basata sui rapporti di forza esistenti e non sul principio di uguaglianza e di giustizia. Per questo essa non ha affrontato l’opinione pubblica israeliana esigendo una pace giusta e, anziché criticare le iniziative di Barak, ha sorretto le accuse contro i palestinesi che avevano il torto di respingere un accordo basato su uno Stato di apartheid suddiviso in cantoni. Sempre per questo la sinistra israeliana non solo si è limitata al programma di Barak, ma ha anche accettato il rinvio da lui imposto per vedere "se c’è o non c’è un partner per la pace". Con l’argomento della sicurezza inscritto nelle sue bandiere, la sinistra ha sospinto i militaristi al potere senza dedicare un solo pensiero al significato che assumevano le misure "politiche" decise durante gli ultimi mesi. Oggi possiamo verificare i risultati di questo atteggiamento. E tutto ciò dopo che nessuna voce si è levata contro la politica di massiccia colonizzazione, contro la demolizione delle case, contro la deportazione delle persone né contro le continue restrizioni dei loro spostamenti e del loro lavoro. Questi modi di procedere erano al di là degli interessi dei governi i Barak nel suo primo anno.

Questo vale anche per la questione siriana e libanese: era possibile lasciare la Siria e il Libano con un accordo di pace. Ma la sinistra israeliana ha celebrato il ritiro unilaterale anziché esercitare una pressione su Barak per imporgli la realizzazione di un accordo concepibile, ignorando costantemente ogni critica morale al suo programma.

La marcia di Barak verso la guerra

La guerra dichiarata da Israele all’Autorità palestinese è la prosecuzione della stessa politica con mezzi diversi. Essa era tendenzialmente inscritta nella politica di Barak fin dall’inizio. Si inscriveva nell’ultimatum da lui presentato ai palestinesi: tutto o niente; o Arafat firma immediatamente le condizioni di Barak, oppure niente, e cioè la guerra. Le "moderate pressioni fisiche" (incluse le minacce alla vita di Arafat!) rappresentano il seguito delle prediplomatiche avviate immediatamente dopo il vertice di Camp David. Pochissimi si sono uniti a noi in quei mesi in cui cercavamo, insistentemente, di far capire che nessun palestinese avrebbe potuto accettare un ultimatum del genere, che si trattava di una politica pericolosa che avrebbe portato direttamente alla guerra.

Nel 1982, dopo la guerra al Libano, c’è stato un tentativo di isolare Arafat dall’OLP. Nel 1987 in risposta si è avuta l’Intifada. Dopo il vertice (l’ultimo) di Camp David si è assistito a un rinnovato tentativo di isolare l’OLP costringendolo così a firmare una pace ingiusta. Il risultato oggi è sotto gli occhi di tutti. Barak e i suoi fautori non si sono accorti del pericolo in arrivo e sono convinti che saranno capaci di imporre il loro accordo ai palestinesi. Barak era contento delle sue relazioni diplomatiche e del successo riportato facendo passare Arafat per un individuo recalcitrante che respinge le sue "generose" offerte. Ma la sua generosità è un inganno: Barak rimane ancorato al suo discorso preelettorale, ai "quattro no!": no alla sovranità palestinese su Gerusalemme-Est; no al ritiro sui confini di prima del 5 giugno 1967; no allo smantellamento delle colonie (con l’80% dei coloni sotto sovranità israeliana); e un no definitivo a qualsiasi discussione riguardante il diritto al ritorno o ad ogni soluzione giusta del problema dei profughi. Per questo era del tutto prevedibile la sollevazione popolare.

La visita di Sharon alla moschea Al Aqsa non è che un dettaglio in questi incidenti, una ben modesta parte di cambiamenti ben più ampi in corso in Israele. E’ addirittura difficile dire se la visita di Sharon sia stata la causa diretta della rivolta o se Barak avesse permesso questa visita. Addirittura è più plausibile che sia stata la massiccia presenza della polizia intorno alla moschea e il massacro della gente che pregava ad Al Aqsa il giorno dopo a mettere fuoco alle polveri. Va ricordato che Sharon non cercava di provocare i palestinesi, ma il suo scopo era solo quello di mettere alla prova Barak, di valutare se egli tenesse davvero alla sovranità israeliana su quell’area. Barak e Ben Ami hanno spedito migliaia di poliziotti per scortare Sharon e il giorno dopo hanno fatto circondare la moschea, preparando così la sparatoria che si sarebbe conclusa con la morte di sette uomini e con decine di feriti. In tal modo superavano la prova imposta da Sharon per un governo di unità nazionale, ma fallivano completamente di fronte alla prova della pace. L’unità realizzata tra la polizia di Ben Ami e Sharon per invadere Al Aqsa resta l’unica base per un simile governo. Non ve ne è altra.

Israele aveva sperato che la polizia palestinese sarebbe stata una specie di milizia ai suoi ordini, con il ruolo di mantenere l’ordine israeliano nei Territori occupati. Israele trattava con l’OLP, ma si aspettava il suo appoggio contro il popolo palestinese. Sperava anche che Arafat si sarebbe comportato come Anton Lahad (capo dell’esercito del Libano meridionale che aveva collaborato con l’occupazione israeliana) e che potesse essere strumentalizzato per salvaguardare gli interessi israeliani nei Territori occupati. Sembra che le autorità israeliane sperassero che i poliziotti palestinesi si sarebbero affiancati a quelli che sparavano sul loro popolo e che non reagissero se fossero caduti sotto il loro tiro manifestanti palestinesi. Quando è diventato chiaro che l’OLP si sarebbe unito al suo popolo nel momento della crisi, che le vittime di Israele non avrebbero mandato in prigione le vittime dell’occupazione, il sogno si è infranto e Israele ha impiegato la forza. Ma a differenza dalla prima Intifada, visto che la separazione geografica delle forze tra l’esercito israeliano e il popolo palestinese c’è già stata, l’esercito non cerca solo di spezzare le ossa ai suoi avversari, ma spara e bombarda come in una guerra del Golfo su scala ridotta. E mentre Israele finge sorpresa di fronte al fatto che la polizia palestinese non apre il fuoco sui suoi ma cercano di difendere i manifestanti aggrediti dall’esercito israeliano.

Oggi i solo punti di contatto diretto tra l’esercito e i manifestanti sono Gerusalemme e i posti di controllo. Dal momento che l’esercito non ha deciso di riconquistare città e villaggi, li bombarda, Quando, come ad Al Aqsa, si verifica lo scontro diretto, diventa chiaro che l’occupazione continua e che Israele rimane Israele. E poco importa che il ministro si chiami Ben Ami o Sharon. Lo scontro principale si è svolto ad Al Aqsa, subito dopo la visita di Sharon. La polizia israeliana si è comportata come ha sempre fatto dal 1967: ha sparato e ucciso. Non è cambiato niente.

Abbiamo sempre detto che ci sono solo tre possibilità di accordo:

- la prima è la costituzione di due Stati, cioè l’istituzione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967, comprendendovi Gerusalemme, con lo smantellamento delle colonie;

- la seconda sarebbe la costituzione di uno Stato democratico e laico, che consentisse ai due popoli di vivere insieme;

- la terza è una realtà di aprtheid.

Chiunque rifiuti le prime due soluzioni si orienta naturalmente verso la terza: l’apartheid. La sinistra israeliana non accettava il principio dei due Stati, ma sosteneva un accordo basato sulla divisione in due dei Territori occupati. Si scandalizza regolarmente alla sola idea di uno Stato democratico basato sull’uguaglianza dei cittadini e delle nazionalità. Così anch’essa porta all’apartheid, cioè sostiene la terza soluzione.

La conclusione evidente che la sinistra deve ricavare dai recenti avvenimenti è che invece di precipitare in un’ipocrita disperazione, bisogna avviare un esame di coscienza realmente autocritico. In questo contesto noi chiamiamo la sinistra israeliana a riprendersi e ad esprimere chiaramente le proprie obiezioni alla politica del governo, a battersi contro l’apartheid, contro l’oppressione sistematica della popolazione palestinese e contro il "piano di pace" di Barak. La politica di quest’ultimo non può infatti che invelenire la situazione e portare a un’escalation del conflitto. Non basta chiamare "le due parti a sedersi al tavolo dei negoziati". La sinistra deve dire chiaramente quali sono i valori e le norme morali senza il rispetto delle quali non potrà esservi pace.

Ma la sinistra israeliana non è l’unica su cui ricadano numerose responsabilità. Anche nel mondo arabo e nella società araba molti compiti ci attendono. La dichiarazione di guerra a un’intera nazione ha aperto le porte a ogni sorta di discorsi irrazionali, incluso quello di una guerra di religione. Questo discorso non ha ancora pervaso l’insurrezione nazionale, ma un pericolo del genere si profila nell’opinione pubblica e in certi media arabi. Le forze nazionali e democratiche della società araba non devono ignorare il fenomeno. Per difficile che possa essere, dobbiamo torcergli il collo nel corso stesso del doloroso processo di decolonizzazione.

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