IL "TANZIM" DI AL FATAH: LA RIVOLTA DELLA BASE

 

di Tufic Haddad*

 

Al calare del sole dello scorso 7 ottobre, nel sobborgo di Doha, a Sud di Bethlem, molte persone rendono omaggio alla famiglia di Mustafa Farajeh, un giovane di 22 anni ucciso due giorni prima dai proiettili dumdum dell’esercito israeliano. Salutano la famiglia circa 30.000 persone che avevano già preso parte ai funerali il giorno prima. Un gruppo di 25 persone dal volto coperto entrano nella tenda funebre. Alcune di loro sono in uniforme, altri anno abiti con insegne militari. La maggior parte ha fucili automatici M16, altri hanno armi più tradizionali. Tutti salutano i familiari: viene pronunciato un breve discorso per affermare che il sangue del giovane Mustafa non sarà stato versato invano e che la sua morte sarà vendicata.

Il gruppo in questione appartiene al Tanzim, una formazione paramilitare legata ad Al Fatah, il cui nome significa "organizzazione". Numerosi scontri che hanno avuto luogo nei Territori occupati vengono attribuiti a questa formazione. Da parte sua, il governo israeliano ha attaccato Tanzim come responsabile del "ciclo di violenze" e chiesto all’Autorità palestinese di disarmarla. Eppure, sa benissimo, come lo sa l’Autorità palestinese, che un progetto del genere è irrealizzabile per il semplice fatto che questi militanti rappresentano l’unico appoggio che Arafat abbia alla base. Del resto, si potrebbe sostenere che sia Israele responsabile della nascita di Tanzim, in quanto ha insistito sulla necessità di istituire una "solida forza poliziesca", secondo la formulazione degli accordi di Oslo.

 

Un’organizzazione di combattimento

 

La comparsa di Tanzim sulla scena palestinese è assolutamente recente: risale soltanto al 1995, al momento dell’arrivo dell’Autorità palestinese nei Territori occupati. Allora è stata messa in piedi l’Autorità palestinese, con la costruzione di una rete di sicurezza e di informazione bene organizzata: era la condizione preliminare richiesta da Israele ad Oslo. In un intervento del 30 agosto 1993 in parlamento, Yitzhak Rabin aveva preteso l’emergere "di una realtà in cui la sicurezza interna palestinese sia in mano a palestinesi [...] Saranno loro a governare con propri metodi, liberando, ed è quel che più conta, i soldati dell’esercito israeliano dal compito che essi devono assolvere da soli" (Haaretz e Yediot Aharonot, 7 settembre 1993). Se Rabin fosse vissuto più a lungo sarebbe stato felice di constatare che il suo auspicio si è perfettamente realizzato. L’Autorità palestinese è stata ben contenta di trasformare i contingenti di Al Fatah che avevano fatto l’esperienza dell’Intifada in una miriade di forze di sicurezza che rappresentano circa il 70% dell’occupazione nel pubblico impiego. Eppure, va da sé che, come ha spiegato il giornalista Graham Usher, "l’Autorità palestinese non ha bisogno di una forza di polizia di 30.000 uomini per stimolare l’attività creativa dei suoi 2,6 milioni di abitanti. Una forza di tale consistenza serve solo ad inquadrare il popolo in assenza di quell’attività" (Graham Usher, "The politic of Internal Security", in Journal of Palestine Studies, inverno 1996. Si stima che il complesso delle forze di sicurezza palestinesi ammonti attualmente a 45.000 uomini).

Queste forze di sicurezza erano dominate da uomini fedeli ad Arafat, fra cui alcuni responsabili della sicurezza, dei servizi segreti e dell’informazione militare a Gaza e in Cisgiordania, che peraltro erano costantemente impegnati in lotte di frazione per garantirsi influenza e potere, lotte che a volte sfociavano in scontri veri e propri.

Il principale compito delle forze di sicurezza era infatti quello di sconfiggere l’opposizione politica, in larga misura islamica. Ma esse si impegnavano anche in operazioni miranti a sorvegliare collaborazionisti con Israele, a controllare il mercato nero delle armi e a combattere attività criminali. I quadri di Al Fatah appena inseriti in queste forze erano i primi candidati ad assolvere tali incombenze, data la loro conoscenza degli ambienti locali. Segnaliamo inoltre l’inclinazione di Al Fatah a liquidare i collaborazionisti nel corso dell’Intifada e il fatto che la natura del loro lavoro portava alcuni di questi personaggi ad essere coinvolti in traffici di armi e di macchine rubate.

La situazione prese a deteriorarsi via via che il processo di pace si andava esaurendo dopo l’avvento di Netanyahu: I quadri di Al Fatah faticavano sempre di più a difendersi dalle accuse popolari secondo cui l’Autorità dimostrava un atteggiamento di debolezza al tavolo dei negoziati e, al tempo stesso, commetteva abusi per le strade. Di più, la coscienza nazionale di numerosi quadri di Al Fatah era contrassegnata dalla sensazione che vi fosse qualcosa che non andava nella traiettoria politica dell’Autorità. Al momento di una crisi nel marzo del 1997, si tenne a Beit Sahur, vicino Bethlem, una seduta straordinaria del Comitato centrale di Al Fatah. Il Segretario generale di Al Fatah in Cisgiordania Marwan Al Barghuti dichiarò che "numerosi palestinesi, inclusi i militanti di Al Fatah, si chiedevano se era giusto fare la pace con Israele [...] Alla conferenza di Beit Sahur alcuni quadri si sono pronunciati per il ritorno alla lotta armata. Non si tratta della maggioranza, ma non possiamo ignorarne le opinioni" (Intervista di Marwan Al Barghuti, del marzo 1997, citata in: G. Usher, Dispatches from Palestine: The Rise and Fall of the Oslo Peace Process, Pluto Press 1999, p. 137). Lo stesso dirigente soggiungeva: "Chiediamo che l’OLP cessi ogni negoziato con Israele. Chiediamo anche che finisca ogni collaborazione tra l’Autorità palestinese e Israele in materia di sicurezza. Non possiamo né vogliamo garantire incondizionatamente la sicurezza di Israele".

In questo contesto è nata Tanzim. Tanzim è diventata il fronte della base di Al Fatah, includendo numerosi membri dei servizi di sicurezza dell’Autorità, ma anche molti di quelli che temevano che la strategia dell’Autorità diventasse un ostacolo per la difesa degli interessi nazionali palestinesi. Dandosi l’immagine del difensore dei diritti nazionali e disponendo di armi, legali come i Kalashnikov ma soprattutto illegali come gli M16, Tanzim metteva in discussione la sensazione largamente diffusa che Al Fatah fosse inseparabile dall’Autorità. In questo modo l’organizzazione riusciva in certa misura a guadagnarsi la fiducia popolare, presentandosi come una formazione in lotta contro la corruzione dell’Autorità. La sua partecipazione sia a manifestazioni non violente sia, più di recente, agli scontri armati le ha guadagnato il rispetto delle masse. In fondo alla coscienza popolare c’era la sensazione che Al Fatah fosse responsabile della tragedia di Oslo. In questo senso le manifestazioni esplose nei Territori occupati sono state per Al Fatah una prova di redenzione con il fuoco nel suo tentativo di ricollocarsi nel capo delle masse palestinesi. Su questo terreno l’Autorità palestinese non ha molto da dire o da fare, tranne mettersi al rimorchio di Tanzim e di chi si batte in strada, pur cercando di evitare di vedersi accusare dai governi statunitense e israeliano di essere responsabile dei "disordini".

 

Il ruolo di Barghuti

 

Tanzim è ufficialmente diretta da Marwan Al Barghuti, benché sia ben noto che la natura frazionista dei servizi di sicurezza si riflette nelle sue stesse file. Tutti i personaggi forti dell’Autorità hanno loro sostenitori in Tanzim, avendo anche loro interesse ad apparire populisti. Eppure, la schiacciante maggioranza dell’organizzazione si schiera o dietro lo stesso Barghuti o dietro eroi dell’Intifada delle zone in cui Al Fatah è stata forte storicamente: Ramallah (campo profughi di Ama’ri e Ramallah Vecchia), Nablus (Campo Balata e Città vecchia) e Gaza. Al riguardo si impone una precisazione: i militanti di base preferiscono legarsi a dirigenti locali ben noti, originari dei Territori occupati, anziché a coloro che sono entrati a far parte dell’Autorità provenendo da altri paesi (La maggior parte degli attuali dirigenti di Tanzim, tra cui Barghuti, erano dirigenti di Al Fatah che sono stati deportati dagli Israeliani. La tensione tra "interno" ed "esterno" riguarda dunque, di fatto, i membri della tradizionale diaspora rientrati dalla Tunisia con Arafat -che hanno perso la loro base di massa- e coloro che sono stati espulsi più tardi dai Territori occupati e che sono rimasti popolari). E’ anche importante sottolineare che a causa della sua struttura alquanto elastica, Tanzim non potrebbe essere facilmente manipolata, come suppongono gli israeliani quando esigono dall’Autorità di "fermare Tanzim". Un dirigente può lanciare un appello alla calma a Ramallah mentre un altro potrebbe fare appello a una escalation a Gaza.

L’esplosione di violenze nei Territori occupati ha spinto Tanzim a passare il Rubicone. Quando nel 1997 Barghuti diceva che non era la maggioranza di Al Fatah a fare appello alla lotta armata era un periodo in cui alcuni settori della popolazione palestinese cominciavano a rendersi conto che gli accordi di Oslo non avevano garantito la conquista dei loro legittimi diritti storici. Tre anni e mezzo dopo questa presa di coscienza popolare si era consolidata, spingendo a ricercare alternative. Tanzim è una di queste alternative ed è molto significativo che emerga da quel settore della società palestinese che sicuramente era l’ultimo a sostenere il processo di pace. L’oltraggio costituito dalla visita di Sharon ad Al Aqsa ha provocato la reazione di tutte le frazioni palestinesi. L’Autorità doveva scegliere: o soffocare le manifestazioni come chiedeva Israele (rinunciando così all’idea della collaborazione con Israele), o apparire, perlomeno, impegnata dalla parte delle masse. Tanzim, i cui membri erano spinti alla resistenza dall’umiliazione subita come ex difensori del "processo di pace" è risultata lo strumento indispensabile che traeva la propria legittimità dall’Autorità e la sospingeva in strada.

Ecco ciò che spiega meglio di ogni altra cosa come mai le manifestazioni siano durate così a lungo. L’Autorità non ha il potere di porvi fine appunto perché la sua base, Al Fatah e Tanzim, glielo hanno tolto. Così nel momento in cui la delegazione palestinese si recava al vertice di Sharem al Sheikh per ricercare un accordo di cessate il fuoco, Al Fatah firmava insieme alle forze nazionali e islamiche un comunicato contrario alla partecipazione a quel vertice. Tra l’altro, dopo la conclusione del vertice, il Consiglio centrale rivoluzionario di Al Fatah si riuniva a Ramallah per contestare le conclusioni di Sharem. Stando alle informazioni, Barghuti avrebbe abbandonato l’incontro prima che terminasse in modo provocatorio, con grande delusione dei dirigenti dell’Autorità fedeli ad Al Fatah, dichiarando: "Fin dall’inizio il vertice avrebbe dovuto discutere non del solo ritiro dei blindati ma anche della ragione vera dell’Intifada e cioè l’occupazione israeliana".

Di fatto, egli ha voluto presentarsi in prima fila come portavoce dell’Intifada, pronunciandosi in favore di uno sciopero generale (in pratica di mezza giornata), del boicottaggio dei prodotti israeliani, della fine delle pattuglie miste israelo-palestinesi, della partecipazione popolare alle manifestazioni di solidarietà e del blocco delle strade usate dai coloni.

L’influenza crescente di Barghuti si spiega con la sua capacità di cogliere la situazione nuova che si è venuta a creare nei Territori occupati. Si spiega anche con il fatto che ormai si pone il problema della successione di Arafat, che ha ormai 72 anni. La famiglia di Barghuti (di varie migliaia di persone) proviene dai villaggi rurali intorno a Ramallah. Non appare come aristocratica ed ha radici profonde nella resistenza nazionale palestinese. L’origine familiare, nonché i discorsi virulenti durante gli ultimi avvenimenti, hanno fatto apparire Barghuti come un leader nazionale, in contrapposizione alla cricca di Arafat, disprezzata anche tra le file di Al Fatah (Ad esempio, Abu Ala’ e Abu Mazen appaiono come simboli del rifiuto di Oslo. Invece Jibril Rajub, capo della sicurezza preventiva in Cisgiordnia, e Mohammed Dahlan, della sicurezza preventiva di Gaza, vanno collocati in una categoria diversa: come vecchi simboli della resistenza all’occupazione israeliana in Cisgiordania e a Gaza prima della prima Intifada, continuano a godere del rispetto popolare, nonostante le accuse di corruzione e di legami con la CIA che gravano su di loro).

Il sorgere di Tanzim esprime dunque lotte e interessi divergenti in seno ad Al Fatah. I commentatori israeliani lo hanno capito bene e si domandano se si tratti di un piano più vasto di Arafat o se Arafat ormai non rappresenti un’opposizione impotente. Di fatto, qualsiasi tentativo da parte sua di opporsi alla radicalizzazione espressa da Tanzim sarebbe un suicidio politico.

Al momento dei bombardamenti israeliani di rappresaglia del 13 ottobre uno degli obiettivi era stata la sede di Tanzim di Beit Lahiya a Gaza. Il messaggio era che Israele era decisa a utilizzare qualsiasi mezzo pur di liquidare la resistenza armata, ma anche che Israele considerava una minaccia il fatto che Tanzim sfuggisse al controllo dell’Autorità. Da parte sua, il ministro della Sicurezza interna, Shlomo Ben Ami dichiarava: "Se egli [Barghuti] agisce autonomamente, abbiamo gli strumenti per contrastarlo".

In realtà, l’Autorità palestinese si trova di fronte a questo dilemma: o cambia radicalmente il proprio ordine del giorno nazionale, o è destinata a perdere qualsiasi legittimità. Nel secondo caso, sarebbe difficile per l’establishment israeliano trovare un altro interlocutore valido. Per questo c’è convergenza di interessi tra il governo israeliano e le élites dell’Autorità palestinese. Si sa del resto che durante l’ultima Intifada alcuni responsabili della sicurezza dell’Autorità, come Mohammed Dahlan si sono incontrati con i loro omologhi israeliani, come prova la dichiarazione di Sharem, alla presenza di esponenti della CIA che sono effettivamente andati in giro per le strade "come osservatori". Saremmo curiosi di sapere che cosa si sono detti...

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* Tufic Haddad, giornalista, pubblica con Tikva Honig-Parnass la rivista mensile israelo-palestinese Between the Lines (PO Box 681, Gerusalemme). Questo articolo è stato pubblicato nella sua rivista il 1º novembre 2000.

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