IL SILENZIO DEL CAMPO DELLA PACE

di Michel Warschawski*

(Traduzione di Titti Pierini)

Il silenzio del campo israeliano della pace è stato ampiamente richiamato negli ultimi mesi sulla stampa internazionale, insieme al rientro di molti dei suoi principali esponenti al pantano da unità nazionale e al loro sostegno critico degli interventi criminali dell’esercito israeliano e del governo laburista (cfr. "Lettera aperta"). Anche i palestinesi hanno sottolineato questa tendenza e numerosi intellettuali e militanti politici hanno espresso la propria amarezza, se non l’indignazione. Gli amici di ieri sono diventati di nuovo nemici quando hanno prestato la loro reputazione per cercare di dare legittimità alla macchina propagandistica dei criminali di guerra.

I palestinesi hanno il diritto di indignarsi di fronte al comportamento di questi ipocriti e di denunciarne la mancanza totale di spina dorsale, dal punto di vista etico. Hanno anche il dovere di rivedere la loro collaborazione con il cosiddetto "campo israeliano della pace" e di porre nuove più drastiche condizioni per eventualmente rinnovarlo. Accanto alla collera manifestata dai palestinesi, è anche possibile cogliere un enorme disillusione, quasi un atteggiamento del genere da parte della stragrande maggioranza di questo campo non fosse prevedibile. Il disinganno è comunque il risultato dell’illusione di cui sono stati vittime molti palestinesi. Tale illusione è cominciata ad emergere fin dal 1982, quando parecchi palestinesi sono rimasti affascinati dalle centinaia di migliaia di israeliani che manifestavano contro i massacri a Sabra e Shatila. "In nessuna capitale araba si sono viste manifestazioni tanto grandi contro l’aggressione israeliana al Libano", erano soliti dire i militanti palestinesi, esprimendo così, a un tempo, la delusione per l’assenza di solidarietà nei paesi arabi e l’ammirazione stupita di fronte al nuovo delinearsi di un campo della pace in Israele. Senza dubbio tale fenomeno non poteva essere ignorato dal movimento radicale palestinese e andava inserito nella sua strategia politica. Ma senza illudersi né idealizzarlo.

E invece si è assistito al diffondersi sia dell’idealizzazione sia delle illusioni, specie agli inizi del processo di Oslo. Ogni israeliano che sostenesse il cosiddetto processo di pace era visto da molti palestinesi come un amico ed alleato. E più questi israeliani erano vicini al centro politicamente, più venivano considerati. Poca attenzione si dava alle motivazioni della maggioranza dei sostenitori israeliani del processo di pace, dei partner dei programmi "da un popolo all’altro", e non piuttosto al prezzo che erano (o non erano) disposti a pagare per la pace. C’era uno scarto clamoroso tra le rivendicazioni palestinesi di libertà ed autodecisione e i sogni israeliani di una vita separata. I palestinesi volevano diritti, mentre gli israeliani erano preoccupati per le percentuali di "terre cedute". I palestinesi aspiravano al rispetto e alla reciprocità, mentre gli israeliani riaffermavano il proprio atteggiamento paternalistico e di superiorità. Alcuni militanti e intellettuali palestinesi sono rimasti acciecati da questi nuovi "Amici dei Palestinesi", diventati per loro "il campo della pace israeliano" e loro alleati privilegiati. Ed ora si chiedono: "Dove sono le forze pacifiste israeliane? Dov’è la sinistra?".

Permettetemi di rispondere che la sinistra vera non ha aspettato un giorno per denunciare con forza i crimini dell’esercito israeliano, né per biasimare con chiarezza la completa responsabilità di Barak e del suo governo. In effetti, dopo la firma degli accordi di Oslo (se non da prima) questa parte del movimento pacifista non ha mai interrotto le sue iniziative contro il protrarsi dell’occupazione. Già nel settembre del 1993, "Gush Shalom" (il "Blocco della pace") aveva manifestato per l’immediato smantellamento delle colonie e per la liberazione di tutti i prigionieri. Negli ultimi sette anni, "Bat Shalom" e "Gush Shalom" hanno sistematicamente promosso campagne in favore della sovranità palestinese su Gerusalemme-Est. Da tre anni il Comitato israeliano contro la demolizione delle abitazioni, insieme a "Rabbi per i diritti umani" sono stati attivi contro la politica di pulizia etnica nella zona C. Quando "Peace Now" ("Pace ora") e il Meretz sostenevano la recinzione con l’argomento ingannevole "recinzione = separazione = pace", tutte le vere organizzazioni pacifiste hanno denunciato questo come flagrante violazione dei diritti umani e degli stessi accordi di Oslo. A queste iniziative per la pace si possono aggiungere le campagne sistematiche in difesa dei diritti individuali e collettivi dei palestinesi di "B’tselem" dei "Fisici per i diritti umani", del "Comitato pubblico contro la tortura" e di numerose altre organizzazioni israeliane dei diritti umani. Esse non hanno smesso la propria attività con la scusa che era in corso il processo di pace e, anche se molte di esse hanno investito le loro speranze nel processo di Oslo, perlomeno agli inizi, non hanno cessato di confrontarlo con la realtà, questa realtà di occupazione e di oppressione.

Per tute queste organizzazioni e per le migliaia di militanti intorno ad esse, la sollevazione palestinese non è stata una sorpresa e non era difficile sapere a chi attribuirne la responsabilità. Ed hanno reagito con la forza con cui potevano reagire: decine di manifestazioni, che raggruppavano a volte una dozzina, a volte qualche centinaio di partecipanti. Esse hanno fatto uscire articoli coraggiosi (di Tanya Reinhart, Huri Avneri, Haim Hanegbi, Yitshak Laor ed altri) sui giornali più importanti e hanno utilizzato Internet per inviare messaggi nel mondo. Hanno organizzato petizioni e visite alle famiglie delle vittime. Per più di un mese, si sono mobilitate giorno e notte per denunciare la violenza israeliana, per esprimere la propria solidarietà al popolo palestinese e difenderne i legittimi diritti.

La solidarietà e la difesa incondizionata del Diritto è ciò che ha motivato le vere forze di pace israeliane. Il rifiuto morale e politico di ogni forma di oppressione e di occupazione ha rappresentato la loro lotta da decenni. Per loro la pace vuol dire la fine completa dell’occupazione, e non feste di pace finanziate dall’USAID o dal ministero degli Esteri norvegese, mentre la recinzione smantella la società palestinese e i combattenti per la liberazione marciscono dietro le sbarre. Per questo erano in strada fin dal primo giorno dell’offensiva israeliana.

Tuttavia, mentre noi portavamo avanti la nostra lotta contro l’occupazione, il resto del campo israeliano della pace era occupato dalla normalizzazione. I prigionieri, le colonie, le demolizioni di case e la recinzione non lo riguardavano. La stragrande maggioranza dei sostenitori israeliani della pace non sono mai stati motivati dalla solidarietà con gli arabi, né da valori come il diritto dei popoli di resistere all’aggressione straniera: Sostenevano gli interessi di Israele, così come li capivano loro: non impegolarsi in guerre che non si possono vincere; proteggere l’immagine internazionale di Israele e i suoi rapporti con gli Stati Uniti; preservare il carattere ebraico e democratico dello Stato di Israele; e così via. Solo quando questi obiettivi sono in pericolo la tendenza principale del movimento israeliano della pace si mobilita di sua iniziativa. Altrimenti preferisce preservare il consenso nazionale e sostenere la politica del governo. Per questo agli inizi di una crisi non si vedrà mai la mobilitazione immediata di un grande movimento: non lo si è visto nel 1982, né nel 1987, né dopo il massacro di Haram el-Sharif nel 1990. Jamal Zahalka, il militante palestinese di Kafr Kar’a, una volta ha definito questo come "la sindrome del primo giorno": la prima reazione della tendenza principale del movimento della pace è quella di sostenere la politica ufficiale. Solo dopo, quando questa politica diventa sempre più intollerabile, cominciano il processo di dissociazione e la dissidenza. Nelle ultime settimane siamo stati testimoni del medesimo schema e possiamo prevedere che, se la crisi continua e si intensifica la pressione internazionale, aumenterà il numero delle vittime di parte israeliana, un numero crescente di Israeliani ritornerà a un atteggiamento più critico.

La recente decisione del coordinamento delle ONG palestinesi di porre fine alle "feste della pace" con i partner israeliani e alle altre iniziative "da un popolo all’altro" riflette una nuova sensibilità nei confronti della realtà del campo israeliano della pace e dei suoi limiti. La decisione dimostra la volontà di distinguere tra le organizzazioni motivate soltanto dalla normalizzazione della situazione senza reale cambiamento del rapporto con il popolo palestinese e quelle motivate dai diritti dei palestinesi e dalla loro lotta per la giustizia.

La pace non è una festa, ma il risultato di una lunga e difficile lotta per la liberazione e la libertà. In questa lotta il popolo palestinese ha alleati in Israele, non molto numerosi, ma motivati dall’integrità morale e dall’aspirazione alla giustizia. Essi non ricercano ricompense e celebrazioni di pace e non chiedono niente in cambio per quello che fanno. Vogliono soltanto essere in grado di guardare dritto negli occhi i figli e i nipoti, senza doversi vergognare, e poter dire loro: in nostro nome si è commessa ingiustizia e noi abbiamo fatto del nostro meglio per fermarla.

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Scheda

Le condizioni di collaborazione con le organizzazioni israeliane

(Dichiarazione del PNGO -Assemblea generale delle ONG palestinesi- pubblicata da Al-Quds, del 24 ottobre 2000).

Nel momento in cui l’esercito israeliano prosegue i suoi attacchi al nostro popolo e in cui i massacri riflettono l’estremismo e il razzismo israeliani della peggiore specie, in cui una massiccia campagna dei media israeliani cerca di deformare i fatti, la realtà e di stigmatizzare il popolo palestinese, la rete delle ONG palestinesi ha convocato un’Assemblea generale straordinaria la domenica 22 ottobre, per esaminare la situazione politica attuale. La riunione ha adottato le seguenti decisioni.

1. Il PNGO chiama tutte le ONG palestinesi a bloccare tutti i programmi congiunti e tutte le attività comuni con le organizzazioni israeliane, in particolare i progetti portati avanti nel quadro del programma "da un popolo all’altro", dell’Istituto Peres per la pace e del "programma di progetti congiunti" fondato dall’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale (USAID), nonché tutti gli altri progetti tendenti alla normalizzazione con Israele.

2. Il PNGO chiama tutte le organizzazioni palestinesi, governative o meno, a bloccare immediatamente tutti i progetti regionali in cui ci sia Israele. Chiamiamo anche le istituzioni dell’Autorità palestinese a bloccare e boicottare tali progetti.

3. Il PNGO chiama le ONG palestinesi ed arabe a bloccare immediatamente tutti i progetti congiunti con le organizzazioni israeliane fino alla fine completa dell’occupazione dei territori palestinesi del 1967, inclusa Gerusalemme-Est.

4. Il PNGO chiama tutte le ONG palestinesi ad astenersi da qualsiasi rapporto e da qualsiasi lavoro con le ONG israeliana, finché queste non avranno pubblicamente annunciato il loro appoggio:

- al diritto del popolo palestinese di insediare il proprio Stato indipendente sulle sue terre occupate nel 1967 (Cisgiordania e Striscia di Gaza) con Gerusalemme come capitale:

- al diritto dei profughi palestinesi di rientrare nelle proprie case e di recuperare le proprie proprietà.

5. Il PNGO compilerà una lista delle organizzazioni palestinesi ed arabe che violano queste decisioni e la renderà pubblica regolarmente in tutte le comunità arabe e palestinesi.

6. Queste decisioni non si applicano alla cooperazione con i progetti di solidarietà promossi dalle organizzazioni israeliane per i diritti umani né alla cooperazione con le istituzioni israeliane che sostengono il diritto palestinese alla libertà, alla dignità e a una pace completa, giusta e stabile, che rispetti i diritti nazionali palestinesi.

Ramallah, Palestina, il 23 ottobre 2000

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* Michel Warshawski, giornalista israeliano, è collaboratore dell’AIC. In Inprecor n. 452 del novembre 2000 è state pubblicata la sua analisi sull’inizio della guera d’indipendenza palestinese.

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