Ariel Sharon

di Ennio Polito

Tra poche settimane, alla testa del governo israeliano si troverà con ogni probabilità un uomo la cui idea della pace si identifica con la totale liquidazione dei diritti dei palestinesi e della loro stessa presenza sul loro territorio nazionale, un uomo che vede nella guerra lo strumento naturale delle aspirazioni dello Stato ebraico e che nella condotta della guerra è privo di qualsiasi scrupolo; un uomo, infine, che non tiene in conto alcuno il parere degli altri dirigenti, compresi quelli al più alto livello. L'uomo, Ariel Sharon, ha già dimostrato ampiamente, con tutta la sua carriera, di essere portatore di questa miscela esplosiva, nonostante i fallimenti ai quali essa ha esposto lui stesso e il paese.

Questa verità, a tutti ben nota, ma che, a giudicare dai sondaggi, non sembra precludere all'ex-ministro della difesa la raccolta di consensi maggioritari, viene ribadita da Uriya Shavit sull'autorevole quotidiano Haharetz, un giornale che si è distinto per la sua capacità di ricavare sul terreno della riflessione autocritica la lezione dei fatti. Nei giorni scorsi, Haharetz aveva dato l'impressione di voler in qualche modo ripiegare da questa linea. Venerdì, è tornato però alla carica con un impietoso ritratto del "buon soldato Arik" : ben quattordici cartelle nella versione in lingua inglese, che fanno letteralmente a pezzi, insieme con la figura del candidato della destra, la versione ufficiale israeliana di molti fatti controversi.

Sharon è nato nel '28 a Kfar Malal, è entrato a diciassette anni nelle file della Haganah, nucleo centrale del futuro esercito israeliano, e vi ha fatto carriera: comandante di plotone nella brigata Alexandroni nel '48, della "unità 101", impiegata nelle "rappresaglie" contro gli Stati arabi per presunte violazioni dell'armistizio. Nell'ottobre del '53, scrive Shavit, la "unità 101" e una compagnia di paracadutisti compirono una spedizione punitiva contro il villaggio di Kibya, allora controllato dalla Giordania, oggi nei territori occupati. Le autorità giordane e i media europei più qualificati negarono allora ogni fondamento delle accuse di "terrorismo"; con ogni probabilità, i palestinesi penetrati nel territorio ora israeliano appartenevano alle centinaia di migliaia di espulsi dalle loro case che si infiltravano nottetempo per accertare quale sorte fosse toccata ai loro averi. I veri "terroristi", ammette ora implicitamente Shavit, erano gli uomini di Sharon, che "macchiarono l'immagine di Israele" facendo saltare 45 case del villaggio e massacrarono 69 innocenti civili, metà dei quali donne e bambini; nel gennaio del '54 l'ufficiale ripeté contro altri "bersagli" giordani, egiziani e siriani l'operazione, ora descritta come "preventiva" piuttosto che "punitiva"; nel febbraio del '55, trentotto soldati egiziani del presidio di Gaza furono massacrati e 44 feriti, ciò che portò il presidente egiziano, Nasser, a concludere che Israele non era interessato alla pace. E infatti, l'anno dopo, gli israeliani invadevano l'Egitto. In questa occasione, Sharon non esitò a trasgredire gli ordini portando i sui uomini al passo di Mitla, nel Sinai, dove rischiarono di essere annientati. Aveva sperato in un brillante successo, che gli consentisse di far carriera. Il suo biografo, Uzi Benziman, racconta invece che i superiori erano"furibondi".

Nella "guerra dei sei giorni" - giugno 1967, terzo e più grave episodio del confronto con gli Stati arabi - Sharon comandava una divisione corazzata. Israele attaccò per primo e ottenne una rapida e decisiva vittoria. Nella successiva fase di "guerra d'attrito", il generale non era più al fronte, bensì nella striscia di Gaza, passata in mani israeliane. Tuttavia visse anche quell'incarico come momento repressivo. Furono "migliaia", scrive Haharetz, le case di profughi demolite in omaggio al mito del "terrorismo", o con il pretesto di costruire una rete di strade d'accesso, centinaia i ragazzi detenuti o deportati; "circa seicento", secondo l'autore dell'articolo, i "sospetti terroristi, compresi donne e bambini"(sic) trasferiti in nuovi campi di concentramento nel deserto egiziano. Ma Sharon non era soddisfatto: aveva perduto l'occasione di diventare capo di stato maggiore e lasciò l'esercito per la politica , col progetto di unificare la destra sotto il suo comando. La "guerra del Kippur", nell'ottobre del '73, lo vide nuovamente al fronte, ma Shavit sembra mettere in dubbio il fondamento dell'episodio, molto raccontato, secondo il quale sarebbe stato uno stratagemma del generale a rovesciare a favore di Israele le sorti del confronto. Autentiche, invece, le indiscrezioni su critiche pretestuose e litigi tra Sharon e gli alti gradi dell'esercito.

Sharon finisce la guerra come consigliere speciale del primo ministro Rabin. Non ha ancora risolto il suo dilemma - glorie militari o politica degli insediamenti - ma, tutto sommato, una scelta non è obbligatoria. Una nuova spedizione, stavolta nel Libano, offre spazio a entrambe le aspirazioni. Ha trovato in Begin, uomo della destra, tornato al potere nel 1981 grazie anche al suo apporto di voti, l'uomo che lo farà entrare nel governo come ministro della difesa e in questa veste egli mette a punto con lo stato maggiore un piano sul quale non vi è motivo di ragguagliare pienamente il primo ministro. Il titolo del piano - "Pace in Galilea" - sottintende quattro obbiettivi: far fuori non solo le forze palestinesi nel sud del Libano, ma, politicamente e militarmente, l'Olp stessa, imporre Bascir Gemayel, capo delle milizie maronite e nemico giurato dei palestinesi, come capo di un governo libanese che si faccia interlocutore di Israele e allontanare i siriani.

C'è un imprevisto: nonostante tutto, il governo ha dubbi sul piano e non lo approva. Niente paura, Sharon conosce i suoi abbastanza per sapere quale tasto toccare. Il 3 giugno 1982, il "terrorismo", silente da mesi, mentre l'Olp dialoga con gli Stati uniti, si rifà vivo con un attentato all'ambasciatore israeliano. Immediatamente, Israele risponde bombardando l'Olp e l''Olp non può che replicare colpendo gli insediamenti di frontiera. Il 6 giugno, l'invasione del Libano ha inizio e, contrariamente a quanto Sharon aveva assicurato, non si ferma quaranta chilometri dopo il confine: si spinge fino a Beirut. Il quadro cambia. E' una guerra in piena regola, che turba tutti gli equilibri e che Israele non può vincere. Lo stesso Gemayel, alleato potenziale, non può adempiere al suo ruolo, perché è perito anche lui in un attentato. In settembre, un altro crimine orrendo "macchia l'immagine" di Israele: il massacro di Sabra e Shatila.

Non si sfugge, a questo punto, alla sensazione che l'intero articolo di Haharetz punti a una riflessione su questo precedente, che il solo nome di Sharon evoca e rende attuale. E la sensazione si fa stringente quando l'articolista mette su altre bocche, citando nomi, cognomi e aprendo e chiudendo virgolette, le sue stesse domande. Prima fra tutte: perché il paese ha creduto a Sharon?

"Nella riunione che precedette la guerra", dice Yitzhak Berman, ex-ministro di Begin e presidente della settima Knesset, "ho avuto l'impressione che non tutto il lavoro preparatorio fosse stato fatto. Era implicito, da parte di Sharon, naturalmente, che potevamo contare sull'appoggio dei cristiani libanesi. Ma il governo non aveva informazioni sufficienti sull'equilibrio delle forze nel Libano. Perché non abbiamo fatto domande a questo proposito? Perché eravamo impreparati. Tutta l'operazione era inattesa. Per quattro volte Sharon aveva detto che la misura dell'operazione era quaranta chilometri. Uscendo, pensavo che non sarebbe andato oltre. Simcha Ehrlich (vice-premier, liberale come Berman - ndr) mi disse: 'Ci porterà più lontano'. Ma io credetti a Sharon. Mi era simpatico"

"E poi c'è un'altra cosa che si deve sapere. Non ne ho parlato prima.L'impressione generale era che l'attentato di Londra venisse dall'Olp. Ma ci sono le prove che Sharon sapeva da prima che non era l'Olp, ma Abu Nidal.

L’articolo di Haharetz contiene più cose (e molte altre testimonianze, oltre quella di Berman, di quante se ne possano riferire). Una questione va tuttavia richiamata, perché è la più importante: il destino dei palestinesi. Il pensiero di Sharon si riassume nella frase “La Palestina è la Giordania”. Nelle parole del candidato a Oriana Fallaci, in un’intervista che il quotidiano riprende, “di uno Stato palestinese non c’è bisogno, perché ne esiste già uno ed è la Giordania. Non permetteremo mai uno Stato palestinese nei territori sotto il nostro controllo. Nessuno toccherà la Giudea e la Samaria e neppure Gaza. Questi territori appartengono a noi per sempre”. Il senso di queste parole è chiaro: con Sharon, tutto il problema della pace fa un pauroso salto indietro. Non si potrà dire, domani, che il candidato era stato ambiguo, che non si era capito, o che (questione di gusti) era simpatico. L’autore dell’articolo, almeno lui, su questo punto sembra concordare.

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