Barak o Sharon

di Ennio Polito

Barak o Sharon: che differenza farà? Tra pochi giorni sarà più chiaro. Ma un confronto basato sulle più recenti prese di posizione dei due contendenti offre già una serie di indicazioni significative. La prima è che, allo stato delle cose, le affinità e le consonanze prevalgono sui dati conflittuali. La seconda è che i due contendenti stessi, mentre moltiplicano gli sforzi per invadere ciascuno lo spazio dell’altro accreditano questa percezione con linguaggi distensivi, che rendono plausibile la prospettiva di un governo di coalizione. Nell’uno e nell’altro campo, infine, si colgono un’inedita preoccupazione per il fallimento degli sforzi tesi a far accettare ai palestinesi accordi ineguali e per il fatto che – contrariamente a quanto ci si aspettava - il “nazionalismo” palestinese non è stato e non sarà facilmente piegato.In un lungo articolo di Ari Shavit, apparso su Haaretz sotto il titolo “Israele secondo Sharon” ma nel quale parla soprattutto Barak, si afferma che i due candidati “hanno molto in comune”: militari entrambi, entrati entrambi in politica nelle file laburiste e storicamente legati a specialisti della sicurezza, come Yigal Allon, il consigliere di numerosi primi ministri, alle cui escogitazioni si affidano anche le ultime proposte fatte alla parte palestinese; entrambi estranei alla trattativa segreta di Oslo, i due condividono anche la convinzione che nel prossimo futuro si delineeranno “minacce strategiche” e si potranno e dovranno definire con i palestinesi “intese che non faranno cessare il conflitto”.Ci sono, naturalmente, anche “differenze”, che consistono, secondo Barak, nel fatto che, diversamente da lui, Sharon appartiene alla generazione dei padri fondatori sionisti, che poco si curavano della legge e avevano invece assoluta fiducia nella possibilità di ampliare il territorio sotto il loro controllo sommando “’un dunam di terra qui e un dunam di terra lì”. Barak, invece, descrive se stesso come un “realista” che non mette in discussione la sostanza dell’operazione sionista, ma “non si fa illusioni circa la possibilità di portarla avanti ignorando l’impatto internazionale della nozione di legittimità”. Questo, egli pensa, non è più possibile. Anzi, ”si può udire il ticchettio di un ordigno a tempo”, che minaccia l’esistenza stessa di Israele. Qui, il discorso si fa oscuro e ambiguo, nel senso che potrebbe trattarsi di un ordigno vero e proprio, o di un’immagine, o di entrambe le cose. La stampa israeliana ha cura di spaventare periodicamente il suo pubblico con informazioni su minacce di guerra da parte di non meglio identificati paesi arabi, sul perfezionamento di ordigni nucleari individuali, che assicurerebbero a singoli terroristi, più o meno “fondamentalisti”, di questa o quella nazionalità o semplicemente palestinesi, la possibilità di prevalere in una guerra nucleare personalizzata. Una frase di Shavit (Barak “pensa demografico”, mentre Sharon “pensa geografico”) evoca una minaccia meno fantascientifica, che trova particolarmente sensibili i laburisti: quella del 2020, epoca nella quale si prevede, sulla base dei tassi reali di sviluppo demografico, che i palestinesi torneranno a essere maggioranza in Israele.Barak si sposta su un terreno più solido, quando afferma di aver appreso, come primo ministro, “un paio di cose”, una delle quali è che gli esperti israeliani in materia di palestinesi possono sbagliare, e hanno in realtà sbagliato nel predire che la delegazione palestinese a Camp David e negli incontri successivi si sarebbe mostrata arrendevole, in particolare sul problema dei profughi. “Avevano torto”, soggiunge, “perché i palestinesi hanno davvero atteggiamenti nazionali intransigenti. Lottano da mezzo secolo e sono pronti a continuare. Ho scoperto che l’altra parte ha un orgoglioso e rivendicativo nazionalismo, che non annulla e non annullerà mai le sue aspettative”. Un omaggio a mezza bocca a quei giovanissimi che i suoi tiratori scelti continuano ad abbattere per le vie di città e villaggi, o addirittura nelle case, in un maramaldesco sfogo d’odio o nel calcolo, alquanto cinico, di detrarre intanto quelle vite dai livelli demografici palestinesi del 2020.Il chilometrico monologo, come Ha’aretz lo definisce, del primo ministro uscente non sembra aver alterato il quadro, non certo incoraggiante, delle previsioni. Se Barak si proponeva di rendere l’opinione pubblica consapevole dell’urgenza di un cambiamento di sostanza nella politica israeliana, la linea dell’oscurità e dell’ambiguità, cui si è programmaticamente attenuto, non era certo la più adatta allo scopo. Non aveva molto senso presentarsi all’opinione pubblica in veste di statista illuminato e prodursi in frasi inconcludenti (“Vedo davvero un iceberg. Non è da ora che lo dico. Lo avevo già detto due anni e mezzo fa….Ero il capitano che vedeva un iceberg…La scritta era sul muro.. Andiamo al galoppo verso il disastro” o ”Se volete essere ciechi, è vostro diritto, ma io ci vedo bene”; o, ancora, “Ora, il paese sta prendendo a calci lo specchio che io gli tengo davanti…) lasciando nel vago l’oggetto della sollecitazione e della “finestra di opportunità” che urge aprire.Ma Barak ha fatto anche di più. Ha parlato del confronto con i palestinesi sulle questioni fondamentali della pace (quello stesso confronto sul quale, aveva appena ammesso, hanno pesato l’incapacità e gli atteggiamenti di sufficienza degli “esperti israeliani”) come di un episodio concluso e ha corretto in direzione dell’intransigenza, anziché dell’apertura, le sue posizioni.“II mio piano”, recita questa parte del monologo, “resta quello di due Stati per due popoli, nel quadro della separazione tra questi. Noi non torneremo ai confini del 1967 e i palestinesi non avranno diritto al ritorno in Israele. Niente ritorno in Israele, questa è una pietra angolare. Forse daremo loro qualche sobborgo di Gerusalemme, ma in cambio il mondo intero dovrà riconoscere i nostri dodici insediamenti attraverso la Linea verde, con i loro 150.000-180.000 residenti, e l’ottanta per cento dei coloni resteranno nei blocchi sotto la nostra sovranità. Il Giordano sarà il nostro vero confine di sicurezza. Separazione è la parola-chiave. Con o senza l’accordo. Senza accordo, se riapriranno le questioni risolte. Andremo alla separazione di nostra iniziativa. E allora dovranno darci frontiere e zone di sicurezza più estese”.

Torna all'indice di sezione

Torna all'indice generale